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IL GIORNO DEL RICORDO
Ricordi monzesi
dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia
La riproposizione di un articolo dell'anno scorso con nuove testimonianze
Umberto De Pace


Restituire alla nostra città un pezzo della sua storia, attraverso la testimonianza diretta di alcuni suoi cittadini, penso sia il modo migliore per cogliere ciò che troppo spesso rimane celato dietro la retorica istituzionale e commemorativa o che difficilmente si intuisce per mezzo dell'accademica ricostruzione storica, sia pur doverosa e necessaria.
Questo vale tanto più per il “Giorno del ricordo”; una celebrazione forse ancora troppo giovane per affrancarsi dalle dispute ideologiche e politiche, che ogni anno si ripetono puntuali al suo giungere.
Non voglio qui discutere su il “Giorno del ricordo”, sulle sue strumentalizzazioni, sulla sua opportunità o meno – su cui ho già avuto modo di esprimere il mio parere gli anni scorsi – quanto invitarvi alla lettura di alcuni ricordi che ci vengono proposti da chi si trovò coinvolto in quella storia – la tragedia delle foibe e l'esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Avvenimenti che ci riguardano un po' più di altri, visto che Monza è stata uno dei luoghi in cui, negli anni '50, furono ospitati o comunque in cui giunsero, alcune delle famiglie che abbandonarono quelle terre di confine. Per qualche anno in una parte della Villa Reale, fu organizzato un campo profughi, che accolse temporaneamente qualche decina di famiglie, per lo più Istriane. Ma non solo.
Successivamente – negli anni '60 – nel quartiere Cederna, alcune delle nuove palazzine costruite nell'ambito dei programmi di edilizia popolare, gestiti dall'ALER, furono destinate ai profughi provenienti da quelle terre e, in parte, a quelli provenienti dalla Libia.
Purtroppo dalla testimonianza scritta, non traspaiono parti importanti del messaggio umano, che solo attraverso il contatto diretto, possono essere trasmesse: i sorrisi, le lacrime, il tono della voce, le pause, gli ammiccamenti, i sospiri. Insomma, tutto ciò da cui traspare il sentimento che pervade la persona che racconta, quella determinata cosa, in quel preciso momento. Penso però che possa aiutare ad avvicinarsi a tale percezione, leggere la testimonianza, così come raccolta, nella sua forma parlata, senza filtri formali o grammaticali, con pochissime intromissioni, giusto i casi in cui necessitava ai fini della comprensione.
Vanno lette, queste testimonianze, come si legge un racconto; non sono “articoli” di giornale, non nascondono verità, non svelano l'ignoto, non supportano tesi o rivendicano ragioni, non lanciano accuse o assoluzioni; sono racconti di vita, di uomini e donne, che ci portano a rivivere per un attimo attraverso i loro ricordi, attraverso le loro storie personali, un pezzo di storia del nostro paese e della nostra città.
Raccontare della propria vita, è come aprire la porta di casa, facendo entrare degli sconosciuti fra le pareti domestiche; è un segno di fiducia verso il mondo, una disponibilità al confronto, una speranza nel futuro. Questo almeno è quello che io ho percepito nell'incontro con questi nostri concittadini, che ringrazio per la disponibilità concessa e il tempo che mi hanno dedicato.
La versione on-line, che vi proponiamo oggi, riporta solo dei brevi stralci di quelle che, in realtà, sono delle testimonianze ben più lunghe, che spero un giorno possano vedere la luce nella loro interezza, in una pubblicazione a loro dedicata.
Quattro sono le testimonianze raccolte, un'ulteriore persona che avevo contattato, purtroppo, non si è dichiarata disponibile, rifiutando gentilmente, in dialetto istriano, la proposta, e facendomi capire la disillusione che nutriva verso lo Stato Italiano che dopo tutti questi anni, solo di recente, aveva versato un'elemosina per l'indennizzo delle perdite subite allora.
Le persone da me incontrate, non si conoscono fra di loro, ciò denota come non esista e non sia mai esistita una comunità di profughi, nella nostra città. Alcuni dei profughi giunti negli anni '50 dopo essere passati per Monza, sono andati ad abitare a Milano, per lo più nella zona di San Siro. Altri sono morti e comunque i loro figli sono monzesi e basta, come risulta dalle testimonianze raccolte. Forse anche questo aiuta a spiegare come mai siano così pochi i monzesi, pur anziani, che ricordano qualcosa in merito.

Non aggiungo altro, e vi lascio ai ricordi di: Paolo Sandrini, che lasciò nell'ottobre del 1945, a soli nove anni, la città di Fiume, insieme alla sua famiglia; di Teresa Bonazza, che lasciò il suo paese Parenzo, in Istria, nel 1957, a ventiquattro anni, per raggiungere il marito che insieme ai suoi genitori, aveva già optato per l'Italia; di Bruna Crisanaz, che lasciò Fasana, sempre in Istria, all'età di nove anni, per giungere, con la sua famiglia, al campo profughi della Villa Reale nel settembre 1956; di Leonardo Caruz, che lasciò Zara, in Dalmazia, nel '56 all'età di otto anni, insieme a suo fratello maggiore e ai suoi genitori. La prima testimonianza segue la presente introduzione, mentre le successive saranno pubblicate settimanalmente.
Questo è il nostro contributo alla “Giornata del ricordo” 2009.
Buona lettura.

Umberto De Pace

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  10 febbraio 2009