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IL GIORNO DEL RICORDO
La “Gabbia Reale”
Ricordi monzesi dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia
5. Attilio e Adriano Paulovich - giugno 2009
a cura di Umberto De Pace


Attilio. Sia io che mio fratello siamo nati a Fiume da seconde nozze di nostro padre. Quando i nostri genitori si sono conosciuti alla fine della guerra, erano entrambi ancora cittadini italiani sebbene nostra madre fosse di nazionalità slovena, poi sono stati obbligati alla cittadinanza jugoslava. Io sono nato nel 1955, mio fratello nel 1948 e quindi ho pochissimi ricordi di Fiume, perché siamo venuti via nel '57 o '58.

Adriano. Nel '58, il 14 settembre 1958. Da Fiume siamo andati a Udine, dove siamo stati tre mesi in una caserma, in una stanza con dei letti a castello. La nostra stanza era divisa da un muro che non arrivava però al soffitto, da sopra le brande potevi vedere dall'altra parte. Per mangiare c'era una specie di self service. Di quei tempi, quello che sentivo dire da mio padre era che lì c'è stato un periodo in cui si optava o per la Jugoslavia o per l'Italia. Loro hanno optato per l'Italia e a quel punto mio padre ha perso subito il lavoro. Il papà aveva regalato tutto prima di partire, perché diceva che in Italia avremmo trovato tutto ciò di cui avremmo avuto bisogno.

At. Sì, comunque la nostra partenza non ha fatto parte del grande esodo, che è avvenuto diversi anni prima. Da documenti rinvenuti di recente pare che il ritardo fosse dovuto al rifiuto delle autorità jugoslave di riconoscere a nostra madre, in quanto slovena di nazionalità, il passaggio di cittadinanza da jugoslava a italiana.

Ad. Dopo i tre mesi di Udine siamo andati a Marina di Carrara, dove il campo profughi era stato allestito in un'altra caserma, e lì siamo rimasti un anno. Avevamo una nostra stanza dove potevamo anche cucinare e dei letti a castello. Nostro padre aveva trovato lì un posto come bagnino. In realtà noi volevamo venire a Monza perché la mamma lavorava a Milano, alla manifattura tabacchi, in quanto aveva precedentemente lavorato presso la manifattura tabacchi di Fiume. Nostro padre invece a Fiume lavorava al silurificio. Alla fine abbiamo fatto domanda per venire al campo profughi presso la Villa Reale di Monza, dove siamo arrivati nel gennaio 1960. Qui siamo rimasti fino a settembre del 1967, quando ci hanno assegnato la casa in via Luca della Robbia.

Marina di Carrara - 1959
Foto di gruppo al campo profughi di Marina di Carrara - 1959

At. Monza mi piaceva molto, c'erano i giardini della Villa Reale che sentivo come un mio regno personale. Durante il periodo di chiusura invernale infatti vi accedevo scavalcando le cancellate ed ero l'unico essere umano a circolare per i giardini, mi sentivo il padrone assoluto lì dentro. Quando in primavera i giardini venivano riaperti al pubblico provavo quasi fastidio nel vedere la gente invadere quello che sentivo come il mio territorio. Costruivamo spade, archi e frecce, andavamo a catturare le rane nel ruscello che dal laghetto dei giardini corre giù fino al Lambro. Mi divertivo molto.

Marina di Carrara - 1959
L'Eco di Monza

Ad. C'è stato un giornale dell'epoca, l'Eco di Monza, che intitolò un articolo sul campo profughi: “Una Gabbia Reale”.

At. Sì, hanno fatto un articolo con la foto di noi bambini nella stanza da letto, l'articolo però parlava delle famiglie di meridionali che vivevano nell'altra ala della Villa…

Ad. …. sfrattati…

At. … che vivevano lì separati da noi. Tra noi ragazzini si erano formate due bande, anche se non ci si poteva né frequentare né affrontare perché eravamo divisi da una cancellata invalicabile. Un'ala era per loro e un'ala era per noi, il corpo centrale della villa non era abitato da nessuno, noi eravamo nell'ala dove ora c'è l'Istituto d'Arte.

Ad. La casa era più grande di quelle avute negli altri campi profughi. Dapprima avevamo due stanze, una faceva da cucina e l'altra da camera da letto, poi quando andò via una famiglia di fronte a noi, io e mio fratello siamo passati nella loro stanza.

At. Noi eravamo fortunati perché eravamo alloggiati al di là di un androne, in un grande corridoio cieco, dove erano stati ricavati quattro locali abbastanza ben isolati. L'androne invece era enorme e aveva soffitti altissimi, e le stanze per le altre famiglie, ricavate suddividendo lo spazio con fogli di compensato, erano a cielo aperto. Ricordo benissimo che si sentiva tutto, non si poteva nemmeno bisbigliare, privacy zero.

Ad. Anche i nostri due locali erano divisi da un compensato, però eravamo isolati da tutti gli altri.

At. Per cui il nostro alloggio era più intimo, i bagni erano naturalmente comuni per tutti quanti. A me però piaceva ugualmente. Come scuola elementare a Monza ho fatto solo la prima, alla cascina San Fedele dentro il parco, era stupenda. Io andavo lì a scuola e c'erano le mucche che pascolavano tutto intorno. C'era il gelso e ci facevano allevare i bachi da seta. C'era anche un boschetto dove andavamo a giocare, era bellissimo. In un simile contesto io non ce l'avevo nemmeno lontanamente la sensazione di quali potessero essere i problemi in famiglia, mio padre faceva lavoretti, mia madre lavorava alla manifattura tabacchi e io passavo i pomeriggi da solo o con gli amici, perché mio fratello all'epoca era già stato mandato in collegio a Pesaro.

Ad. Sì dai 12 ai 18 anni andai in collegio…

At. … dove l'anno dopo andai anch'io, lì feci il resto delle elementari dalla 2° alla 5°. Stavamo lì tutto l'anno scolastico. Questi sono i miei ricordi della nostra permanenza al campo profughi di Monza, ricordi di un bambino, che ovviamente non poteva avere la percezione di un adulto, per me la vita era normale così. Lasciare la casa di Fiume non ha significato molto per me. Alle elementari in collegio a Pesaro la percezione di essere profughi non c'era perché eravamo tutti di noi. Le medie invece le ho fatte in Villa Reale, alla scuola Teresa Confalonieri. Ecco, ripensandoci bene adesso, mi vergognavo un po' di casa mia, perché mi capitava spesso di andare a casa dei miei compagni e… insomma… erano tutte case di famiglie benestanti. Ero sempre invitato a casa degli altri e mai viceversa, perché c'era poco da invitare, non è che fosse il massimo casa nostra, aveva più del tugurio che della casa. Non avevamo arredamenti nuovi, però avevamo ricevuto i mobili spediti da Fiume. Ricordo anche un evento particolare; la madre di un mio compagno di classe, da cui andavo spesso a studiare, sotto Natale mi si avvicinò e mi cinse il collo con un metro da sarto … io lì per lì non capii perché l'avesse fatto, poi a Natale mi fece una sorpresa regalandomi una camicia della mia misura. Altre volte ricevevo regali di utilità, che erano fatti per venirci incontro e dare una mano. Ecco, io questi regali all'epoca non li percepivo come aiuti. Ho realizzato come stavano veramente le cose solo col trascorrere degli anni. Otto anni fa sono andato a trovare un mio ex compagno di classe – erano 34 anni che non ci vedevamo – lui stesso mi ha confessato che a quei tempi gli era stato detto dai genitori di trattarmi con un certo riguardo, perché noi eravamo profughi. Sono sempre stato oggetto di gesti di attenzione da parte dei miei compagni e dei loro genitori e mai di discriminazione. Successivamente però, quando ho realizzato di essere un indigente tra benestanti mi sono sentito io stesso diverso dagli altri. Un reale elemento di discriminazione invece è sempre stato per me il cognome che porto. Io sono italiano come tutti gli altri ma il mio cognome palesemente non lo è. Questo non ha fatto che crearmi problemi fin da ragazzino. In tutte le occasioni in cui ho dovuto declinare le mie generalità, ogni volta il mio interlocutore non capiva e reagiva sempre in modo da richiamare l'attenzione dei presenti, e a me non piaceva affatto sentirmi al centro dell'attenzione, lo trovavo irritante oltre che imbarazzante. Speravo di non dover mai pronunciare il mio cognome in pubblico.

Ad. Sul nostro cognome, io sono andato a scavare indietro e ho scoperto che i miei bisnonni e trisnonni erano dell'isola di Cherso. Ho scoperto inoltre che a una sorella di mio bisnonno sotto il fascismo gli era stato cambiato il cognome da Paulovich in Paolini. In famiglia però non abbiamo mai sentito raccontare di imposizioni sulla italianizzazione del cognome, tant'è che mio padre e la sua famiglia han mantenuto inalterato il proprio durante tutto il ventennio fascista.

At. Noi abbiamo avuto molte difficoltà a risalire alle nostre origini, sebbene abbiamo scavato nel passato solo in minima parte. Nostro padre ha voluto dare un taglio netto con tutto ciò che riguardava la Jugoslavia, soprattutto per quanto riguardava nostra madre. Ad esempio io sono stato convinto fino a non molti anni fa che mia madre fosse di nazionalità italiana e che in famiglia parlasse italiano. Invece non era vero, mia madre in famiglia parlava sloveno, che poi parlasse l'italiano alla perfezione era semplicemente perché, sotto l'occupazione fascista, a scuola era obbligatorio imparare l'italiano. Nostro padre diceva: “Noi siamo italiani al 100%!” e questo era un dogma su cui non c'era da discutere e non doveva richiedere approfondimenti.

Ad. Guai se sentendo il cognome qualcuno gli diceva che non era italiano ...

At. … era pronto a fare a cazzotti con chi gli chiedeva se era slavo. Magari qualcuno in buona fede, sentendo il cognome, poteva anche supporre, ma … niente da fare lui perdeva il lume della ragione. Detestava i comunisti e la Jugoslavia comunista perché l'avevano costretto ad abbandonare la sua terra, i suoi beni e i suoi affetti, quindi non tollerava di essere assimilato in alcun modo a quel popolo. Lo si sarebbe potuto definire un italiano nazionalista ed estremista.

Ad. Della guerra sappiamo che nostro padre è stato prigioniero in Germania ...

At. … prigioniero civile però, lui non ha fatto il servizio militare, credo perché fosse più utile al silurificio presso cui lavorava, è stato preso durante una retata dai tedeschi senza neanche sapere il perché. Nato nel 1911, sotto il fascismo ha vissuto tutta la sua giovinezza, che nel suo caso è coinciso con il periodo più bello della sua vita. Ha vissuto dall'infanzia fino all'età adulta le passioni e i sentimenti più forti e ha sempre fatto ciò che più gli piaceva. Con i fasci giovanili di combattimento ha praticato con grande successo e soddisfazione ogni sorta di sport, dal pugilato allo sci di fondo, dal podismo al ciclismo, e molto altro ancora. Con la caduta del fascismo e la fine della guerra la sua vita è cambiata in modo drammatico. Si può quindi ben immaginare cosa potesse scatenarsi nell'animo di nostro padre quando gli si chiedeva se fosse slavo. Di quanto successo in quegli anni però sappiamo solo quello che ci ha raccontato nostro padre, che era interessato esclusivamente a manifestare il suo odio verso i comunisti e il comunismo, questo era il suo obbiettivo principale, che nel caso specifico poteva anche essere comprensibile, visto che noi abbiamo avuto solo di che perderci. Comunque sia, dopo il campo profughi della Villa Reale, andammo ad abitare nelle case popolari di via Luca della Robbia, sempre a Monza.

Ad. Erano cinque palazzine destinate ai profughi, costruite per noi, più c'erano alcuni profughi provenienti dalla Libia …

At. … c'era anche alcuni italiani che venivano dal Marocco, non so per quale motivo …

Ad. … ma in teoria, queste case dovrebbero essere ancora ad uso esclusivo dei profughi. In una finanziaria del governo Prodi, queste case furono passate ai Comuni, i quali ne diventarono proprietari, però il comune di Monza non l'ha fatto e quindi in teoria dovrebbero essere ancora ad uso esclusivo dei profughi. Il Comune ha invece iniziato a mettere dentro persone che non sono profughi, questo già nel 1997. In quell'occasione noi avemmo diversi problemi da parte di alcuni dei nuovi arrivati, con insulti tipo: “Slavi di merda, avete finito di comandare”. Nessuno di noi gli aveva fatto niente, appena arrivati così si presentarono. A nostro padre dicevano che non aveva diritto di stare in quelle case.

At. L'hanno addirittura picchiato.

Ad. Sono dei delinquenti, non pagano l'affitto, non pagano niente. Purtroppo i nostri genitori erano soli, non fecero mai parte, né frequentarono mai associazioni di profughi. Io invece faccio capo all'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, visto che il Comune mi aveva dato anche lo sfratto, mentre faceva entrare nelle case chi non aveva diritto e così mi sono iscritto all'associazione di profughi, che ha anche un avvocato per difendere i nostri diritti.



At. Credo che la giornata del ricordo abbia un senso non solo per chi è stato protagonista di quegli eventi, ma soprattutto per coloro che ne hanno da sempre ignorato l'esistenza, e mi riferisco alla quasi totalità della popolazione italiana. Io stesso, avendo vissuto i fatti da molto piccolo, non ne ho mai saputo un gran ché. Sono eventi dei quali ho sempre avuto le idee piuttosto confuse. Ad esempio non conoscevo la storia di Fiume. Non sapevo che Fiume, prima del ventennio fascista, fosse una città con uno statuto speciale, una città libera e multietnica. Ero convinto che fosse appartenuta allo stato italiano da quando esiste l'unità d'Italia e che fosse popolata da soli italiani. Solo da grande ho scoperto che lì c'erano anche altre etnie con cui si dice ci fosse una convivenza pacifica. Non è che gli italiani durante il fascismo si fossero comportati proprio benissimo con loro, ma certo gli slavi ce ne hanno fatte di tutti i colori dopo la fine della guerra e con gli interessi.

Ad. Anch'io devo dire che non ho mai approfondito più di tanto la questione. Avevo letto il libro di Arrigo Petacco sugli italiani in Istria, non ho nemmeno mai partecipato alla celebrazione della giornata del ricordo.

At. Nemmeno io, perché pur avendola vissuta è come se quella vicenda non mi appartenesse veramente, sono cresciuto in Brianza e mi sento praticamente brianzolo. In fondo queste associazioni di profughi sono composte da persone a me estranee con le quali non posso avere ricordi da condividere se non ciò che mi è stato raccontato dai nostri genitori.

Ad. … forse se si andasse qualche volta alle loro iniziative ….

At. … che poi queste associazioni, come si sente dire, siano un po' strumentalizzate dalla destra è quasi naturale, la destra ha sempre cavalcato il sentimento popolare su questo tema. Al contrario, per la sinistra questa è stata una pagina vergognosa della sua storia. Subito dopo la guerra il Partito Comunista Italiano ha fatto di tutto per mettere a tacere certe verità scomode, affinché non si sapesse niente, perché del “paradiso comunista di Tito” non si doveva parlar male. Penso che gli anni peggiori per i profughi siano stati quelli dell'immediato dopoguerra, quando arrivati in Italia furono accolti in modo terribile e vergognoso, perché avevano osato fuggire da quel “paradiso”, di conseguenza non potevano che essere tutti fascisti, e sappiamo bene quale fosse il clima politico in quel periodo.

Ad. Tornando con i ricordi al campo profughi di Monza mi è venuto in mente il direttore Marroni, perché andavo in giro con suo figlio.

At. Io invece mi ricordo di Don Cairo che ci portava le cassette con la roba da mangiare. Mi ricordo anche di quando, terminato il mio soggiorno in collegio, andai per la prima volta alla messa tenuta da Don Cairo nella cappella della Villa Reale. Era il momento della comunione ma io uscii leggermente in ritardo dal banco e mi immisi nel corridoio centrale, Don Cairo non mi vide e voltandomi le spalle tornò all'altare. Rimasi lì come un salame con tutti che mi guardavano. Mamma mia, allora ero timidissimo e in quel momento avrei voluto sprofondare. Per quanto riguarda invece i ricordi dei giardini reali, una volta nel laghetto c'erano anche le barche a noleggio e mi piaceva stare a guardare mentre scivolavano sull'acqua. Inoltre dove adesso c'è il parcheggio più grande presso l'entrata di Monza del parco, un tempo c'era il tiro al piccione e, passando lì vicino, si sentivano i pallini di piombo che venivano giù tra il fogliame. Per me comunque quelli furono anni spensierati, si giocava nel parco e ci si arrampicava sugli alberi, per noi ragazzini era come vivere in un paradiso. I miei amici erano anche loro profughi, bambini estranei al campo ho iniziato a frequentarli principalmente alle medie. Qualcuno l'ho conosciuto anche prima poiché mio padre, fra i tanti lavori, ha fatto anche il cameriere all'hockey club che si trovava lungo il perimetro dei giardini, per cui andando spesso da lui ho potuto fare qualche altra conoscenza. Poi, pian piano, il campo si svuotò, e noi fummo gli ultimi ad andarcene.

Attilio e Adriano Paulovich


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  4 febbraio 2010