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L'urbanistica dalla rigidità alla contrattazione
di Michele Casiraghi


Direi che le vicende dell'urbanistica monzese, del cui esito non c'è ancora certezza, dimostrano come - nei decenni - ci sia stata una progressiva resa anche della disciplina  urbanistica, oltre che della politica, al cosiddetto mercato, con conseguenze non marginali.
Non so come finirà, indubbiamente ci si è trovati alle prese con un problema di dimensioni ampie (la massiccia deindustrializzazione, la terziarizzazione, la commercializzazione ecc.) però se una cosa si può rilevare è l'asimmetria dei poteri attualmente in campo.

Un'amministrazione pubblica, infatti, può chiamare altri a concorrere al progetto, ma non essendo comunque  dotata di risorse sufficienti a realizzarlo anche da sola (qualora fosse il caso) gode di una libertà progettuale condizionata. In una ipotesi limite, in assenza del concorso del privato o quando le divergenze pubblico-privato siano non contrattabili, tutto quel che può fare è spesso lasciare le situazioni come stanno e non procedere secondo le proprie idee, perché le risorse mancano. E non basta il ricorso a terminologie fascinose o criptiche  (PII, businness plan ecc.) o concorsi più o meno illustri: perché, alla fine, contano i soldi, chi ce li ha e chi li mette.
In altri casi, il Comune può contrattare, ma lo fa a partire da condizioni di maggior debolezza di altri soggetti, proprio in quanto non ha risorse se non prevalentemente di tipo "negativo-ostativo-orientativo" (quelle, oltretutto limitate, che gli offrono i regolamenti  e gli strumenti urbanistici vigenti).

Dall'altro lato, invece, il mercato ha i quattrini e tende, com'è ovvio, a massimizzare i profitti.
Se vuole uffici, chiede uffici; se vuole abitazioni, chiede abitazioni e, inoltre, è in grado di determinare massicciamente anche la tipologia di queste.
Inoltre, in queste situazioni,  le grandi immobiliari si possano permettere anche la pazienza e i tempi che un Comune, generalmente, non può permettersi, sia perché deve risolvere il più presto possibile i problemi della collettività che per la volatilità che è un po' propria delle giunte e delle relative politiche.

Sia chiaro: non ci vedo nulla di male a "contrattare" con i privati le destinazioni d'uso delle aree urbane, specialmente quando - dati i bilanci comunali - diventa l'unica strada concretamente percorribile.
Critico il fatto che questa politica del territorio si travesta a volte di modernità, quasi che l'urbanistica abbia "liberamente" e per via di riflessioni disciplinari autonome scelto questo approdo. Io resto invece convinto che l'abbandono - cosa che in altri paesi europei non è
avvenuto - del tentativo di disegnare complessivamente le città attraverso una molteplicità di strumenti a diversa flessibilità, sia soprattutto l'esito di una sconfitta nella gestione politica e
disciplinare (urbanistica) del territorio in Italia.

Per dirla in termini concreti: se si cercava, giustamente perché la cosa ha una incidenza positiva sulla qualità stessa delle progettualità urbana, una via di mezzo tra il concetto di pianificazione globale nato negli anni '20 e molto dirigistico e qualcosa di più articolato, la mediazione tra poteri che si è attuata ha sguarnito un po' troppo quelli pubblici.
Il risultato, in quasi tutte le città italiane di una certa dimensione, è una progettazione particellare che produce magari qualche intervento "spettacolare" ma disintegra e segmenta  il tessuto urbano
sottomettendosi  alle logiche di mercato.
E' un po' il dramma di questo paese non aver trovato in generale una misura tra l'esigenza di liberalizzare i mercati per rompere le rigidità eccessive e quella di tutelare comunque la qualità dell'habitat comune sotto tutti i punti di vista (il lavoro, la scuola, il tempo libero).

Non ne faccio certo una colpa ai sindaci o agli architetti che, spesso, si trovano ad affrontare problemi che vanno oltre la dimensione da loro gestibile e cercano di cavarsela come possono.
Se non firmano le convenzioni - pressoché unico elemento contrattuale di cui dispongono - privano la città di possibilità che magari sono comunque necessarie. Mentre, se non firmano le immobiliari, possono aspettare una giunta più morbida oppure la stessa qualche tempo dopo, resa un po' più malleabile dal timore di non riuscire a realizzare i propri impegni elettorali.

E' un problema che ci si trova dinanzi anche aldilà dei temi urbanistici: la flessibilità e le privatizzazioni, parole tanto usate, si sono spesso tradotte più che in un nuovo bilanciamento dei poteri in campo in uno scompenso continuamente da rabberciare lungo percorsi alquanto perigliosi. Auguri e buona fortuna a chi si impegna localmente per farlo, ma forse sarebbe  ora che la politica, anche a livello nazionale, si desse una mossa.
Il federalismo senza lire che ci ritroviamo e che sta scatenando attualmente convulsioni parlamentari, immaginato da destra o da sinistra conta poco, per ora decentra soltanto gli squilibri  e li accentua rendendo realisticamente impossibile persino porsi domande come: la
nostra città ha ancora bisogno di ulteriori insediamenti abitativi? O necessita solo di riqualificazione urbana? E, in assenza di contrattazione col privato, ha le risorse per rispondere liberamente e
concretamente a questa domanda?
Non credo. Dal che si deduce che ogni risposta - che si voglia o meno - è condizionata in partenza.

Michele Casiraghi


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 15 settembre 2004