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sulla stampa
a cura di G.C. - 24 maggio 2008


Quella luna troppo di miele
Pierluigi Battista sul
Corriere della Sera

La fine del bipolarismo primitivo è una grande conquista politica. E non saremo mai abbastanza grati a Walter Veltroni e a Silvio Berlusconi, ma anche a Gianfranco Fini e Franco Marini, per aver contribuito energicamente in pochi mesi a costruire una cornice politico-istituzionale in cui la libera contesa tra parti contrapposte e non mescolabili in indigeribili inciuci si affranca finalmente dal morbo della guerra civile, dal fantasma del nemico da battere ed annientare, dalla forsennatezza muscolare che ha avvelenato l'Italia da quindici anni. Ma cosa accade quando l'auspicabile fair-play politico viene interpretato come un coro da intonare con un sovrappiù di zelo encomiastico verso il Nemico di ieri, come un omaggio obbligatorio nei confronti del nuovo vincitore?
Non sfugge ad esempio l'atmosfera di calorosa sintonia con il governo racchiusa nelle espressioni di Antonio Bassolino che in un'intervista al nostro giornale mostra di apprezzare vigorosamente "il senso dello Stato e la sobrietà" di Berlusconi. Miriam Mafai, giornalista e scrittrice di sinistra meritatamente ammirata per la sua spiccata eterodossia, promuove senza equivoci i primi passi del centrodestra: "non posso del tutto dire che mi piace Berlusconi, ma posso però dire che molte delle cose che sta facendo le voleva fare anche la sinistra ma non c'è riuscita". Carlo Aymonino, architetto ed esponente di lungo corso della cultura progressista, sottoscrive con entusiasmo le parole del neosindaco di Roma Gianni Alemanno sulla necessità di smantellare "la bruttissima teca" dell'Ara Pacis voluta dalle giunte di sinistra del Campidoglio, e addirittura aggiunge: "Mi piacerebbe poter lavorare con lui a una soluzione alternativa ". L'industriale Carlo De Benedetti, in una dichiarazione resa all'uscita dell'assemblea di Confindustria, commenta con estremo (e inaspettato) favore i primi atti del nuovo governo, artefice di "misure in linea con i desideri e le richieste del Paese". Per la regista Liliana Cavani "il Cavaliere va sostenuto" per il bene del Paese e senza sottilizzare troppo sul passato.

Effetti di un pregevole scongelamento psicologico e culturale nella politica italiana impensabile fino a poco tempo fa, certamente. Ma soprattutto segnali che rovesciano con folgorante subitaneità un codice, un sistema di argomenti, una retorica di forte impronta antiberlusconiana egemoni per un quindicennio e ora polverizzati in una manciata di giorni. Se la politica entra nella dimensione di un bipolarismo maturo in cui il rispetto reciproco non esclude la possibilità di uno scontro anche duro, e la volontà di trovare comuni ma circoscritti terreni di intesa non contempla la cancellazione di un aperto conflitto tra schieramenti contrapposti, nella sfera delle opinioni e della cultura questo delicato equilibrio finisce per saltare. O per degenerare nell'appiattimento e in una resa troppo improvvisa per non assomigliare a un tonfo, allo sfaldamento di ogni identità critica. Con la luna di miele che stavolta rischia di diventare davvero un po' troppo melensa.


Il Cavaliere dimostri che è cambiato
Mattia Feltri su
La Stampa

In questa affollata luna di miele, più che altro un congresso carnale della politica, Silvio Berlusconi è l'amante e l'amato di tutti. Lo venerano gli imprenditori. Gli si genuflettono i banchieri. Si rimettono a lui i sindaci di centrosinistra all'indomani della scoperta che fra razzismo ed esasperazione corre una differenza. Tendono la mano i sindacati e indicano la via: "Ha imboccato quella giusta"; e il sacrilegio lo lasciano alla Cgil di Guglielmo Epifani, che si guadagna i titoli dei giornali per un modico "sì, però...". L'opposizione dialoga. I cantautori scambiano effusioni per iscritto con Sandro Bondi. I registi e gli attori si consegnano al pettoruto Luca Barbareschi, al quale perdonano furie tardo-egemoniche: "Dobbiamo occupare tutto".

I sintomi sono quelli della sindrome di Stoccolma. Il presidente del Consiglio ha con sé i voti, la maggioranza schiacciante e soprattutto la prospettiva di dominare cinque anni: troppi perché i dissenzienti rimangano a guardare o di nuovo si rinchiudano nel fortino dei senza se e senza ma, del resistere resistere resistere. Ha ragione Emma Marcegaglia, ci sono "condizioni irripetibili" per aggiustare il Paese. Berlusconi lo sa e non ammazza gli uomini morti, alla Maramaldo.

Concede status volatili ma scenografici al governo ombra del Partito democratico e - lui che in campagna elettorale si vantava che non uno nel centrosinistra gli desse del tu - appena incrocia un avversario si precipita a stringergli la mano e a rivolgergli sentiti auguri. L'uomo è cambiato o perlomeno questa è l'immagine (quirinalizia) che vuole dare di sé. Ha appreso l'arte cinica ma non cruenta della pax romana e abbandonato quella previtiana del ferro e del fuoco.

Il premier che si affacciava alla politica nel 1994, allegramente dilettante, e quello che se ne impadroniva nel 2001, non senza qualche accenno di boria, pare scomparso dentro una maturità ecumenica e concreta, con toni di realismo calibrato perché non sfoci nel pessimismo. Tutto lo agevola. I contenziosi con la magistratura sono al tramonto e non hanno mai fatto presa sugli elettori. Si poteva giurare che la stagione delle leggi ad personam fosse conclusa anche davanti all'arrendevolezza del centrosinistra in tema di conflitto d'interessi. Ma al primo momento buono le truppe di Silvio hanno sfoderato gli spadoni, proprio come sette anni fa.

Anche i più bendisposti, allora, si resero conto e segnalarono che sull'utilità delle norme domestiche di Forza Italia (la depenalizzazione del falso in bilancio, l'annullamento delle rogatorie internazionali con vizio di forma, il provvedimento sul legittimo sospetto, e persino sul lodo Schifani, poi bocciato dalla Corte Costituzionale, che sottraeva al controllo delle procure le prime cinque cariche dello Stato) si poteva pure discutere; ma erano i modi bruschi e i tempi rapidi, per una coalizione non proprio granitica, a togliere dubbi sui tornaconti privati in atto pubblico del capo del governo.

In questi giorni sta succedendo qualcosa di simile. La maggioranza ha studiato e proposto un emendamento che congela fino al 2012 l'applicazione delle norme comunitarie secondo le quali Rete4 dovrebbe restituire le frequenze a Europa7 e trasferirsi sul satellite. Il Popolo della libertà sostiene che è l'unico modo per evitare un deferimento alla Corte di giustizia dell'Ue. Walter Veltroni contesta il merito e il metodo, e i suoi parlano di sgangherato tentativo di aggirare in stile fulmineo le giuste pretese di Bruxelles. La tesi dei secondi è più convincente, mentre si osserva il body jumping di Emilio Fede, che da lustri fa su e giù dal satellite come appeso a un elastico, ma alla fine tocca sempre terra. E dunque adesso tocca a Berlusconi spiegare come stanno le cose, chiarirle, togliere i sospetti e dimostrare che la roba l'ha sistemata a suo tempo, e ora si sta dedicando soltanto al matrimonio anziché al patrimonio.


I furbetti e il governatore
Alberto Statera su
la Repubblica

L´onta che per la prima volta ha imbrattato i corridoi di palazzo Koch, descritti affettuosamente da Luigi Einaudi e da Donato Menichella ordinati e lindi come una chiesa laica, non guasterà sabato prossimo le "Considerazioni finali" del nono governatore della Banca d´Italia Mario Draghi.
Il rinvio a giudizio per gravi reati di diciassette persone, tra le quali Antonio Fazio, il predecessore cultore di San Tommaso, fedele partecipante alle messe riparatorie dell´onta laica di Porta Pia e intonante "Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat", non avrà eco esplicita nel dire istituzionale dell´erede laico del banchiere centrale cattolico che doveva traghettare l´Italia di Tangentopoli verso i lidi dell´etica che fu propria di Stringher, Azzolini, Einaudi, Menichella, Carli, Baffi e Ciampi. E che invece, forse plagiato da affaristi ribaldi e truffaldini, condusse alla "Banda d´Italia". La consorteria che progettava di assaltare il cielo alla conquista del debole capitalismo italiano, senza capitali e senza etica, in una miscela tutta italiana di affari di Stato e affari di famiglia, di politica e religione, di velleitarismo e di scadente provincialismo.
Emilio Gnutti, Gianpiero Fiorani, Giovanni Consorte, Luigi Grillo, Luigi Zunino e via così: scorri i nomi dei rinviati a giudizio insieme all´ex governatore della Banca d´Italia Antonio Fazio - ex democristiani, ex comunisti, funzionari di partito, affaristi rampanti - e ti chiedi come soltanto tre anni fa, un secolo dopo Tangentopoli, i destini di questa nazione potessero ancora essere quasi nelle mani di un improbabile manipolo, poi denominato dei "furbetti del quartierino", ad opera del lessicalmente immaginifico Stefano Ricucci, che era sul punto di impossessarsi surrettiziamente di due grandi banche, l´Antonveneta e la Bnl, e del "Corriere della Sera". Con appoggi politici se non delinquenziali almeno superficiali.
Sabato Mario Draghi volerà alto, pur sapendo meglio di chiunque altro che l´operazione di pulizia fatta in casa, blindando l´ingresso di Palazzo Koch di via dei Serpenti - nomen omen - da cui transitavano gli incontri inconfessabili del suo predecessore, non è bastato a ricondurre il paese al rigore einaudiano. La storia del suo predecessore, il democristiano senza qualità nominato alla Banca d´Italia mentre la Dc moriva travolta da Tangentopoli, è la prova di come in questo paese tutto si perpetui sempre sotto diverse forme. Al governatore "straordinario", nel senso che non era stimato dalla borghesia etica ed elitaria ruotante intorno a Palazzo Koch, si opposero Carlo Azeglio Ciampi e tutto il cotè degli economisti di prima fila.
Ma, con il viatico del cardinale Camillo Ruini, dell´Opus Dei e delle massime gerarchie ecclesiastiche, alle candidature di Mario Monti e di Tommaso Padoa Schioppa, fu preferita quella di Fazio, l´adepto dei Legionari di Cristo, allievo di Modigliani, autore sì del modello econometrico della Banca d´Italia, come gli riconobbe Guido Carli, ma digiuno dei grandi principi, se non quelli della parrocchietta del suo paese nel Frusinate. Ma nessuno si scandalizzò quando nel 1993, in piena Tangentopoli, Fazio pronunciò queste testuali parole: "La rimozione delle pratiche consociative può avere un immediato effetto di freno sull´attività economica". Come dire che le tangenti facevano comunque girare l´economia nazionale. Einaudi si rivoltò porobabilmente nella tomba, di fronte a una dichiarazione che si potrebbe definire di "keynesismo delinquenziale".
Un vecchio democristiano e neoberlusconiano come Luigi Grillo, che pare - con alcuni altri - prendesse soldi per fare lobbying a favore dell´uomo più potente d´Italia, l´unico che ricopriva allora una carica "a vita", un vecchio comunista come Giovanni Consorte, che nutriva l´insano progetto di collocarsi al centro del capitalismo nazionale: sono questi che oggi finiscono a giudizio con Fazio, mentre il governatore del tentativo di restaurazione etica si appresta al suo appuntamento annuale.
Ma la scia è lunga, parte da lontano, almeno da quel giorno del giugno 2000 in cui le spoglie mortali di Enrico Cuccia furono seppellite sulle sponde del lago Maggiore. Seguivano compunti il feretro Antonio Fazio e Cesare Geronzi, che allora facevano ancora ticket, come si dice. Ma chi fra i due avrebbe riscosso l´eredità di regolatore del capitalismo nazionale fatto di capitalisti poveri e assai poco coraggiosi? Poi venne l´Antonveneta, la lotta per l´italianità della banca contesa dai calvinisti olandesi, di cui entrambi volevano la titolarità per farne in qualche modo lo snodo del capitalismo italiano, l´uno con il bellimbusto Gianpiero Fiorani, l´ex giornalista di provincia, il Fanfulla da Lodi che alla signora del governatore di Alvito protendeva omaggi costosi ed affettuosità, come se Tonino Fazio, l´uomo più potente d´Italia, fosse un vecchio zio un po´ grullo; l´altro con la sua creatura Capitalia, faticosamente creata sui resti del Banco di Roma e del Banco di Santo Spirito. Lo scontro divenne severo, a dispetto dello snodo delle tradizionali ideologie laico-borghesi e cattolico-solidaristiche. Fazio, dopo i bacetti telefonici di Fiorani, comincia a perdere tutto, insieme al bellimbusto di Lodi, a Ricucci, alla pletora di incredibili furbetti, ma non all´immarcescibile e costoso onorevole Grillo, che è stato appena eletto presidente di un´importante commissione parlamentare, in una eterna deriva andreottiana. Andreotti? E´ l´uomo di cui Fazio, poco più che infante, andava rapito a seguire da Alvito i comizi giovanili "nella vicina Sora".
Il cultore di San Tommaso e della adorazione perpetua nella chiesetta romana al Circo Massimo è ormai andato in pensione inseguito dai tribunali. Ma Cesare Geronzi vive e lotta insieme a noi. Dal suo ufficio di Roma, al Corso, si è trasferito armi e bagagli a Milano nel cuore del capitalismo a farne il grande regolatore, l´erede di Cuccia. Traccia gli scenari, decide se Berlusconi può definitivamente entrare con i suoi uomini nei veri salotti buoni, nonostante le poltrone Frau su cui siede nella pubblicità televisiva un po´ cheap l´uomo di Mediolanum, dà le direttive ai giovani Balbinot e Perissinotto laggiù a Trieste, tramite gli amici francesi.



Marcegaglia, ma la svolta dov'è?
Alfredo Recanatesi su
l'Unità

Avevamo sperato che l'alternanza alla presidenza della Confindustria segnasse una svolta nell'atteggiamento col quale il sistema produttivo si pone di fronte ai grandi e sempre più gravi problemi del Paese. Avevamo sperato che chi istituzionalmente rappresenta il sistema delle imprese acquisisse la consapevolezza che in un Paese in evidente declino anche il futuro delle imprese stesse non può certo essere radioso. E avevamo sperato, di conseguenza, che quella organizzazione rivolgesse lo sguardo anche all'interno del sistema che rappresenta.
Con l'obiettivo, era la nostra speranza, di evincerne i punti di carenza o di debolezza sia per individuare la strada da percorrere per un suo rafforzamento, sia per accrescere il concorso che reca alla tenuta ed al progresso del Paese, sia infine per acquisire un credito di oggettività per le analisi che offre per la conoscenza dei problemi e per la loro soluzione. Non ci aspettavamo molto, data la continuità della presidenza appena nata con quella appena scaduta, ma ritenevamo doveroso mettere in conto almeno una possibilità che un passo avanti in questo senso venisse compiuto.
Va invece rilevato come la relazione tenuta ieri dalla Marcegaglia sia stata deludente quante altre mai, impostata com'è stata tutta sulla concezione manichea di un mondo delle imprese, fatto esclusivamente di valori positivi, contrapposto agli altri mondi, tutti segnati dall'inettitudine, dall'inefficienza e da quant'altro di negativo e riprovevole si possa immaginare. È possibile tradurre in numeri questa asserzione: le prescrizione sui compiti degli altri - e ci limitiamo solo alle frasi più facilmente individuabili in quanto avviate da “deve”, “devono”, “va” o “vanno” - sono oltre cinquanta, e nessuna ovviamente è indirizzata alle imprese. A nome di queste, vengono solo assunti quattro impegni per “fare ancora di più” a beneficio del Paese, ma sono tanto genericamente formulati da non richiedere più di dodici righe in una relazione che ne conta complessivamente quasi 800.
In una esposizione tanto marcata dalla impronta corporativa sarebbe deludente la ricerca di un contributo di analisi economica o, ancor più, di qualche considerazione sulla stagnazione ultradecennale della remunerazione del lavoro a fronte della lievitazione dei profitti, o sulla regressione della produttività del lavoro, o sulla esiguità dell'impegno delle imprese nella ricerca, o ancora sulla utilizzazione conseguentemente esigua di lavoro altamente specializzato. Non un accenno, insomma, al fatto che dipende dalle imprese, e solo dalle imprese, se tanta parte del sistema produttivo si ritrova ancora in competizione con i Paesi a basso costo e, dunque, in una situazione sostenibile solo alla condizione che anche i lavoratori - e non soltanto loro - si adeguino agli standard di vita di quei Paesi. Non un accenno alla carenza di investimenti che ha connotato la nostra industria anche quando, ben prima delle recenti turbolenze finanziarie che hanno scosso il mondo intero, si è presentata l'occasione di un costo del capitale, sia di rischio che a debito, su minimi storici. Non un accenno al fatto che Pil, produzione, stipendi e salari, domanda interna, ordinativi ristagnano perché l'esempio - questo si meritorio - di una parte evidentemente ridotta di imprese che hanno investito per poter affrontare con successo il mondo che viviamo non è stato seguito dalla parte più consistente di esse.
Una ottica così partigiana offusca non solo il senso delle critiche e delle richieste (molte condivisibili se non addirittura tautologiche) che con tanto puntiglio la Marcegaglia ha elencato, ma anche il senso della disponibilità al dialogo ed alla collaborazione dichiarata verso le forze politiche e le organizzazioni sindacali. Con le forze politiche davvero è difficile che la Confindustria possa avere problemi dopo che tra i primi atti del governo c'è stata la detassazione del lavoro straordinario e dopo che il Presidente del Consiglio, riesumando un concetto enunciato anni fa a Santa Margherita davanti alla assemblea dei giovani industriali, ha dichiarato equivalenti le richieste della Confindustria con il programma del governo. Con i sindacati dialogo e collaborazione sono certamente necessari non solo per le parti direttamente in causa, ma per il futuro di tutto il Paese. Ma è davvero difficile attribuire un senso poco più che rituale alla disponibilità di chi, all'evenienza, si accosta ad un tavolo con il pregiudizio che tutto il bene e tutta la ragione stiano dalla propria parte, e dall'altro lato non vi siano che ottusità e pregiudizi ideologici; e dopo aver invocato riforme profonde e cambiamenti radicali, ma dando per scontato che dalla propria parte non ci sia alcunché da riformare e da cambiare.

Eppure l'antifona piace: come abbiamo appreso da radio e telegiornali ed oggi leggeremo sulla carta stampata, tutti gli astanti - non solo imprenditori, ma politici della maggioranza e dell'opposizione, economisti del giro, esponenti delle istituzioni - hanno apprezzato e condiviso. Viene a mente il priore de "Il nome della rosa" quando sollecitava i suoi monaci a non considerare lo studio come un impegno per far avanzare la frontiera della conoscenza, ma solo come una accurata, continua, diligente “ricapitolazione” del sapere già acquisito. Quella mentalità, al tempo diffusa nei pochi ambienti colti, fu l'inizio di quelli che oggi chiamiamo “i secoli bui”.


Il miraggio dell'atomo
Maurizio Ricci su
la Repubblica

L´esempio che amano fare gli addetti del settore è calabrese. L´autorizzazione per la costruzione di una normale centrale elettrica a gas, a Presenzano è del 2004. Grazie alla legge "sblocca centrali", varata dal 2002 dall´allora governo di centrodestra, sarebbe dovuta partire in un batter d´occhio.
Quattro anni dopo, è ancora ferma in attesa della Via, la Valutazione di Impatto Ambientale. Non è un fatto solo calabrese e non è un´anomalia. Ci sono voluti dieci anni per costruire un banale rigassificatore (in sostanza, un cubo di metallo dove si scongela il metano) a 17 chilometri dalla costa, in Emilia. Vent´anni non sono stati, ad ora, sufficienti a trovare una sistemazione alle scorie radioattive delle piccole centrali nucleari italiane, smantellate dopo il referendum del 1987. Infine, in Campania dovrà intervenire, a quanto pare, l´esercito per tutelare le discariche, non di scorie radioattive, ma dell´immondizia di casa. L´Italia non sembra, insomma, il paese più adatto per testare un´agenda di reintroduzione del nucleare, come quella indicata dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, più ambiziosa anche di quelle con cui si cimentano paesi che, il nucleare, ce l´hanno già in casa. Gli stessi industriali italiani sono più cauti: mentre Scajola parla di posare la prima pietra di un gruppo di centrali nucleari entro i cinque anni dell´attuale legislatura, i tecnici della Edison (meno attenti ai ritmi elettorali) tratteggiavano, un paio di mesi fa, una possibile tabella di marcia di sei anni, con inizio della costruzione nel 2014, anziché il 2013.
Anche la tabella della Edison, peraltro, è soprattutto un esercizio di studio. I passaggi sono, però, gli stessi a cui deve pensare Scajola. Vediamoli. Il primo è la possibilità di svuotare il referendum del 1987 e riaprire, senza un altro referendum, che comporterebbe la perdita di un paio d´anni, l´opzione nucleare. Fatto questo, lo studio della Edison prevede un 2008 di dibattito sulla politica energetica (in sostanza, "nucleare sì, nucleare no"), mentre verrebbero definiti enti e competenze per regolamentare la nuova industria nucleare. Nel 2009, si dovrebbero scegliere i siti in cui localizzare le nuove centrali. Poi due anni per le autorizzazioni ai progetti. Dal 2012 inizierebbero i lavori di sterro. Prima pietra nel 2014. E´ una tabella realistica? Sulla base di quanto avviene negli unici due paesi europei che, dopo Cernobyl, stanno costruendo nuove centrali, parrebbe di no. In Finlandia, dove il consenso al nucleare è maggioranza ed esistono già cinque centrali, fra l´avvio del dibattito su un nuovo reattore e la posa della prima pietra sono passati non cinque o sei, ma otto anni. In Francia, dove il nucleare garantisce già l´80 per cento dell´energia, l´Edf, il monopolio elettrico nazionale, si è presa 15 mesi solo per una discussione pubblica e popolare sulla costruzione del primo nuovo reattore dopo vent´anni. Anche i due anni per l´autorizzazione, dopo la scelta della localizzazione, sembrano assai magri, a guardare a quanto avviene in America, dove pure l´energia nucleare è diffusa. La Nuclear Regulatory Commission ha recentemente limato i tempi di approvazione, ma si prende comunque quasi quattro anni per valutare nel dettaglio localizzazione e progetto. Se si tiene conto di queste esperienze, la scadenza della prima pietra si allontana intorno a otto anni, a ridosso della fine della prossima legislatura, piuttosto che di questa.
Il punto è cruciale. Ci vogliono poi, almeno, cinque anni prima che il reattore cominci, concretamente, a funzionare. I nuovi reattori italiani (di terza generazione, quella oggi disponibile) entrerebbero in funzione dopo il 2020. Nel 2030, secondo le previsioni, dovrebbero arrivare i reattori di quarta generazione, più sicuri e con meno scorie. Poiché la vita media di un impianto nucleare è di 60 anni, l´Italia rischierebbe di trovarsi, per 50 anni, con impianti meno sicuri e obsoleti. Tanto più che i cinque anni per la costruzione sono un tempo minimo. In Finlandia hanno già sforato di due anni, con il risultato che il nuovo reattore, invece di 3 miliardi di euro, ne costerà 4,5 miliardi, perché i tempi, nel nucleare, determinano i costi.
Quanto costerebbe, dunque, un piano nucleare italiano? Ammesso di rispettare la tabella di marcia, la Edison calcola un costo di 20-40 miliardi di euro, per costruire 10-20 centrali, sufficienti a soddisfare il 25 per cento del fabbisogno nazionale di elettricità.

Sono numeri decisivi, perché il costo dell´energia atomica è quasi tutto dato dal costo di costruzione dell´impianto. E da questo dipenderanno le future bollette della luce. Anche a dimenticare la possibilità di incidenti e l´irrisolto problema di dove mettere decine di migliaia di metri cubi di scorie radioattive, l´energia nucleare sembra assicurare, a differenza di gas e petrolio, sicurezza di approvvigionamenti. Ma la bolletta sarà cara.


Scontro sul caso Retequattro
Paola Di Caro sul
Corriere della Sera

ROMA — Va in crisi al primo vero voto il clima di cortesia e di dialogo bipartisan tra maggioranza e opposizione. E va in crisi per la scelta del governo — contestatissima da Pd, Idv ma anche dall'Udc — di inserire in un decreto in scadenza sugli obblighi comunitari un emendamento in materia di frequenze radiotelevisive già ribattezzato "salva-Retequattro ". L'opposizione accusa: si vuole impedire che si applichi la sentenza della Corte di giustizia europea che chiede di restituire le frequenze a Europa 7 (a discapito di Retequattro, che dovrà emigrare sul satellite). E per protesta, sceglie la strada dell'ostruzionismo: 79 iscritti a parlare, slittamento del decreto a martedì e possibile voto finale tra mercoledì sera e giovedì. "E' una cosa sbagliata nel merito e nel metodo, e avranno l'opposizione che si meritano ", annuncia a muso duro Walter Veltroni, al quale fa eco l'ex ministro Paolo Gentiloni: "Quell'emendamento è un'inaccettabile sanatoria di una situazione che l'Europa ha definito illegittima", così si dimostra che il dialogo vale fino al "limite invalicabile della "proprietà privata"". Ancora più duro Antonio Di Pietro: "Questa è una proposta criminogena per salvare Retequattro ". Ma anche l'udc Rocco Buttiglione chiede che il governo "ritiri l'emendamento e non dia l'impressione di voler prevaricare ". A tante proteste — dalle quali deve difendersi anche il presidente della Camera Fini spiegando che l'emendamento è stato accolto perché la materia era compatibile con il decreto — replica netto il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani: "Non c'è nessuna sanatoria, dobbiamo invece rispondere ai rilievi mossi dalla commissione europea per evitare un deferimento che l'immobilismo del precedente governo ha reso purtroppo assai probabile". Insomma, "tanto allarme per nulla è fuorviante: l'emendamento contiene un colpo di acceleratore sul passaggio al digitale", giura il portavoce del governo Paolo Bonaiuti, mentre il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, parla di modifica "sacrosanta".
Per il momento, non si vedono margini di intesa, e si conferma che il terreno radiotelevisivo, con la questione del rinnovo del Cda Rai e delle conseguenti nomine in azienda, sarà un banco di prova cruciale per i rapporti tra maggioranza e opposizione.
Intanto, in una Rai agitata per gli annunci sui cambi dei palinsesti, ieri si sono incontrati il direttore generale Cappon, l'Usigrai e i comitati di redazione di Raiuno e Raitre: nessun passo indietro dell'azienda, che conferma di voler procedere a un rinnovo dei programmi (tra i quali la tanto contestata sostituzione in seconda serata di "Primo Piano" del Tg3 con una striscia della Dandini), ma ogni passo verrà discusso perché "non c'è alcuna intenzione di ridimensionare gli spazi informativi di Tg1 e Tg3".


Rifiuti, tensione e scontri a Chiaiano
Eduardo Di Blasi su
l'Unità

"Non abbiamo mai fatto una scelta senza parlare prima con la gente", aveva detto ieri mattina il sottosegretario Guido Bertolaso, chiamato da Silvio Berlusconi a "risolvere" il problema dei rifiuti campani. Su Largo Rosa dei Venti, la rotonda che da Marano porta verso le cave di Chiaiano, detta anche "Titanic" per via di un orrendo arredo urbano, queste parole, ieri sera, non hanno avuto seguito. Perché, di norma, se si vuol parlare con la gente, non si arriva armati, con gli agenti in assetto antisommossa e il genio militare alle spalle pronto a "riprendersi" il territorio.
Riassumiamo: i Comitati dei cittadini contrari alla discarica, che al Titanic tengono un presidio permanente, avevano appena concluso la riunione serale con la decisione di convocare un corteo per l'indomani con il nuovo slogan: "Difendiamo la salute e l'ambiente: ora colpiteci tutti". E' stato l'avviso di un motorino arrivato da Napoli a mettere i partecipanti sull'avviso: "Sta' arrivando l'esercito!".
Poco dopo ecco materializzarsi davanti a queste persone una colonna di poliziotti, carabinieri e guardia di finanza, seguita dai mezzi del genio militare. Muovono in direzione di quella che, nelle intenzioni, sarà probabilmente la nuova discarica di Napoli, una cava usata come poligono di tiro, che, in teoria, potrebbe contenere 700mila tonnellate di rifiuti. Al presidio ci sono tra gli altri il sindaco di Marano, il presidente della Commissione Ambiente del Comune di Napoli, il presidente dell'Ente parco (perché la discarica andrebbe fatta in un parco regionale, dove fino a ieri non si poteva alzare neanche un muro di mattoni), alcuni consiglieri comunali di Marano. Tutti provano a fare blocco, con le braccia alzate, seduti per terra. Nella cintura più esterna ci sono diverse donne, tra cui Teresa, che prende una manganellata in testa appena parte la prima carica da parte della polizia. C'è un pulmann dell'Anm messo di traverso, che poi prenderà fuoco, forse a causa di un lacrimogeno sparato per disperdere i manifestanti (forse per altra causa da verificare poiché la Polizia sostiene di non aver sparato lacrimogeni). Anche il giornalista del Tg3 Romolo Sticchi ha preso una manganellata. Afferma: "Un agente mi ha prima bastonato e poi ha prelevato la mia telecamera". La Polizia smentisce anche questo episodio, e prova a spiegare: ha perso la telecamera durante la fase di spintonamento nel momento del contatto tra agenti e manifestanti. Assostampa e Ordine dei giornalisti campani chiedono di fare chiarezza sull'episodio.

Il sottosegretario Bertolaso, giunto a Napoli in mattinata, non aveva indicato apertamente Chiaiano tra i siti che avrebbero dovuto svolgere funzione di discarica. Anche se aveva chiarito: "Nell'ordinanza del 30 aprile scorso Chiaiano era già presente. E' stato chiesto all'Arpac di fare la caratterizzazione del sito e questo al momento è lo stato dell'arte". Una mezza ammissione, confermata alle sette di sera di ieri dall'arrivo delle forze dell'ordine.
Alle 21,30 le forze di polizia hanno sgomberato l'area e si sono messe di presidio al Titanic. Una conquista strategicamente effimera, giacchè adesso si trovano davanti a due blocchi di manifestanti. Uno in direzione della cava, e l'altro formato da coloro che sono arrivati da Napoli con la metropolitana per manifestare e sono stati bloccati dalle forze dell'ordine poco più in là. Si sono poi riversati in strada i cittadini di Marano, Chiaiano e Mugnano. La notte si annuncia lunga.
Alle dieci di sera il bollettino di guerra parla di 10 contusi e 5 fermati.

Il nuovo ministro degli Interni Roberto Maroni, ospite a Matrix, non si è scomposto. E sull'accaduto ha dichiarato: "Era prevedibile una reazione di questo tipo, la capisco, ma faccio appello a tutti i cittadini perchè è interesse di tutti porre fine a questa vera e propria tragedia nazionale". Il sindaco di Marano, Raffaele Perrotta, ha fatto appello al Papa e a Napolitano (che giusto ieri ha firmato il decreto che dà il via libera alla localizzazione delle discariche e dei nuovi impianti). La notte nera di Chiaiano la spiega così: "Da una parte la forza della ragione, dall'altra la forza dei muscoli. Stiamo assistendo ad un qualcosa di assurdo, surreale. Abbiamo sempre manifestato pacificamente, ma l'azione repressiva messa in atto questa sera appare abnorme, immotivata e con una condotta che rappresenta la fine della rappresentanza istituzionale e che mette a rischio i cardini della democrazia".


Un passo inevitabile
Umberto Veronesi su
la Repubblica

AFFERMO da anni, da quando persino la parola era tabù perché evocava le bombe e la fine dell´umanità, che il nucleare appare come la fonte di energia che ha le maggiori potenzialità per affrancarci dalla schiavitù del petrolio e rispondere al crescente fabbisogno mondiale di energia, che aumenterà di oltre il 50% entro il 2030, in base alle stime attuali delle maggiori agenzie internazionali.
Oggi sono ancora più convinto che la questione non è scegliere o non scegliere l´energia nucleare, ma prendere atto della sua inevitabilità. Per almeno tre motivi. Primo, le fonti di energia che oggi utilizziamo sono esauribili: i combustibili fossili, petrolio in primis, e il carbone, finiranno fra qualche centinaio di anni, e non c´è spazio né di discussione, né di intervento su questa scadenza. Secondo, al momento non abbiamo fonti alternative altrettanto valide dal punto di vista della quantità e della qualità. L´energia idroelettrica è sfruttata al massimo del suo potenziale, o quasi; l´energia eolica, è una prospettiva affascinante, ma può essere sfruttata solo nei Paesi esposti ai venti, come in Nord Europa, e scarsamente in Italia; l´energia geotermica, che è una fonte inesauribile, ha processi di estrazione troppo complessi e costosi; le biomasse sono promettenti, ma da utilizzare con raziocinio per non capovolgere l´equilibrio dell´utilizzo dei terreni per le coltivazioni; l´energia solare sicuramente va sfruttata in modo più deciso in Italia perché è pulita, inesauribile e abbondante nel nostro Paese, ma ancora c´è molto da investire sulle tecnologie per il suo pieno utilizzo. Certo anche i nuovi impianti nucleari richiedono tempi di realizzazione non brevi, ma le tecnologie di sfruttamento sono note e condivise a livello mondiale. Terzo, il nucleare è una fonte non inquinate e sicura dal punto di vista degli effetti sulla salute. Basta pensare che per il fatto stesso di stare sulla Terra ognuno di noi assorbe radiazioni ionizzanti (cancerogene) in quantità non indifferenti: in 70 anni di vita assorbiamo circa 70 msv, una dose 140 volte più alta di quella ricevuta dall´incidente di Chernobyl (pari a 0.5 msv). La minaccia per la salute dell´uomo e dell´ambiente legata all´energia nucleare di per sé è dunque pressoché nulla. Il rischio è piuttosto collegato agli incidenti e infatti il grande movimento antinucleare è nato essenzialmente sulla scorta della paura dei disastri delle centrali nucleari. Va ricordato che in Italia il referendum in cui il Paese ha detto no al nucleare avvenne nel 1987, vale a dire un anno dopo il disastro di Chernobyl, quando l´opinione pubblica era – più che comprensibilmente – in preda al panico. A vent´anni di distanza è ora di riaprire il dibattito su basi nuove, prendendo atto (anche in questo caso) che il rischio di incidente per le nuove centrali si è molto ridotto, grazie alla ricerca e al progresso tecnologico. La centrale di Chernobyl fu progettata per scopi militari, era un impianto obsoleto e carente di sistemi di sicurezza e oltretutto l´incidente fu causato da un tragico e incredibile errore umano. Oggi nel mondo esistono 450 centrali nucleari in 33 Paesi. Negli Stati Uniti ci sono 103 reattori nucleari, e in Europa, l´Italia è l´unico Paese avanzato a non averne nessuno. Possiamo davvero pensare che tutti gli altri Governi mettano severamente a rischio i loro cittadini? Guardiamo vicino a noi: nella piccola Svizzera, icona della sicurezza e della qualità della vita, a due passi dal confine italiano, ci sono 5 reattori nucleari, in Spagna 9, in Germania 17, in Francia 58! E se anche guardiamo più lontano, verso i nuovi Paesi emergenti scopriamo che anche l´India recentemente si è orientata al nucleare. Se dunque questa fonte di energia è una necessità per il futuro del resto del mondo, non c´è alcuna ragione perché per noi, e solo per noi, lo scenario dovrebbe essere diverso.


  24 maggio 2008