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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 25 marzo 2008


La Pasqua politica
Furio Colombo su
l'Unità

Il giorno di Pasqua del 2008 resterà memorabile per una svolta della Chiesa cattolica sotto la guida di Papa Ratzinger. Una terminologia politica sarebbe forse più adatta di quella religiosa per definire la svolta di cui stiamo parlando. Accostare fatti diversi avvenuti nello stesso giorno, e tutti legati al capo della Chiesa di Roma, servirà a far capire di che cosa stiamo parlando. Prima, ma solo il giorno prima di Pasqua, viene il discorso d´addio di Mon. Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, dunque inviato e rappresentante del Papa, in Medio Oriente, già militante di Al Fatah e amico personale di Arafat, da sempre nemico di Israele.

Vescovo o non vescovo, è naturale che Sabbah sia legato prima di tutto alla sua parte. Ma nell´occasione esclusivamente religiosa del suo addio al patriarcato, ha avuto questo da dire ai suoi fedeli palestinesi, divisi nella violenza, nella repressione e nel sangue fra la fazione Hamas di Gaza e ciò che resta di Al Fatah intorno ad Abu Mazen in Ramallah. Ha detto: «Il Medio Oriente ha bisogno di uomini di pace. Israele non ne ha. Da Israele non può venire la pace».

Sarebbe facile interpretare queste parole incaute e potenzialmente dannose (un implicito invito a continuare il conflitto) se l´evento restasse chiuso nella cornice stretta della esasperazione di un palestinese. Ma Mons. Sabbah rappresenta tutta la Chiesa, e non c´è stato alcun cenno di correzione. Al contrario. Il giorno dopo gli fa eco il capo della Chiesa cattolica. Nella benedizione pasquale invoca (nell´ordine) Iraq, Darfur, Libano, Medio Oriente, Terra Santa.

Come nelle carte geografiche arabe, il nome di Israele non compare, caduto nella fenditura fra Medio Oriente (che definisce l´intera area del conflitto) e Terra Santa, che è il nome della presenza cristiana in alcuni luoghi e territori del Medio Oriente, molti dentro i confini dello stato di Israele, proclamato dalle Nazioni Unite nel 1948.

Si sa che Joseph Ratzinger è uomo attento ai dettagli e - da buon docente di teologia - meticoloso nelle definizioni. Se Israele non viene nominato vuol dire che non esiste, secondo le regole vigorose di una tradizione di insegnamento che - ormai lo abbiamo imparato - calcola e soppesa ogni frammento di evento e di parola.

Ma le decisioni politiche espresse in modo chiaro, addirittura drammatico, nel giorno della Pasqua cristiana non si fermano qui. Accade che un notissimo giornalista e scrittore di origine egiziana e di religione islamica, Magdi Allam, abbia deciso di convertirsi, di diventare cattolico.

A tanti secoli di distanza dai tempi in cui la conversione di un imperatore doveva essere solenne e pubblica perché significava la conversione di un intero popolo, chiunque avrebbe pensato che la luce della fede secondo il Vangelo avrebbe raggiunto uno scrittore-giornalista nell´intimo della sua vita privata. Invece è accaduto qualcosa di sorprendente e di stravagante: Magdi Allam si è convertito in mondovisione. Il suo battesimo è stato somministrato personalmente dal Papa.

la clamorosa pubblicità del gesto diffuso in mondovisione è diventato il messaggio: Allam è salvo perché non è più islamico. E´ finalmente ospite della grande religione che è il cuore della civiltà occidentale.

Da parte sua Magdi Allam ha voluto offrire un commento chiarificatore. Ha spiegato che l´islamismo - moderato o estremista che sia - ha al suo centro il nodo oscuro della violenza. Ha sanzionato l´idea di una religione inferiore e di una superiore.

Un giornalista, già noto, battezzato personalmente dal Papa in mondovisione lascia certo una traccia. Ma provate ad accostare il gesto di governo religioso di Papa Ratzinger, che accoglie personalmente un personaggio in fuga dall´inferno islamico e lo congiunge al rifiuto di nominare, nel corso di un altro evento altamente simbolico (la benedizione Urbi et Orbi), il nome di Israele, un Paese la cui sopravvivenza è in pericolo.

Senza dubbio si tratta di due eventi diversi, opposti e straordinari. Ma i due gesti si equivalgono, quasi si rispecchiano per un tratto in comune. Una delle tre grandi religioni monoteiste sceglie, al livello della sua massima rappresentanza, di essere conflittuale verso le altre. Alla patria degli ebrei e alla sensibilità religiosa degli islamici non viene dedicata alcuna attenzione. Non è strano?

Forse no, visto alcuni precedenti di papa Ratzinger. Uno è il discorso di Bratislava, che ha creato, come si ricorderà, una lunga situazione di imbarazzo. Un altro è l´esitazione e il ritardo, e di nuovo l´esitazione, nel porre il Tibet e la sua libertà, prima di tutto religiosa, al centro dell´attenzione.

Dunque è inevitabile la domanda. Mentre tace su Israele e battezza con la massima risonanza mondiale qualcuno che ha abiurato l´islamismo, mentre, intanto si tiene prudentemente alla larga dal Tibet, dove sta andando il Papa, dove sta portando la Chiesa di cui è governante e docente?


Conversioni
Jena su
La Stampa

Si discute molto animatamente della conversione cattolica di Magdi Allam, ma nessuno che dica l'unica cosa sensata: e chissenefrega.


Veltroni, il Cavaliere e la democrazia della tv
Curzio Maltese su
la Repubblica

Non esiste un´altra democrazia dove il ruolo della televisione è tanto decisivo quanto in Italia. Il leader che domina la scena da quindici anni deve al mezzo televisivo tutto il suo successo politico. Senza le sue reti, sarebbe uno dei tanti miliardari poco amati dall´opinione pubblica. Eppure nell´orgia del potere televisivo, è negato agli italiani l´unico angolo di autentica democrazia mediatica, il faccia a faccia fra i candidati premier.
Il confronto fra Berlusconi e Veltroni probabilmente non si farà perché Berlusconi, il politico più televisivo del mondo, non lo vuole.
Non è la prima volta. Berlusconi rifiutò nel 2001 di sfidare Francesco Rutelli. La furberia, come spesso capita da noi, fu premiata. Il centrodestra sosteneva di avere dieci punti di vantaggio alla Camera, ma vinse soltanto con il 2,4 sul centrosinistra: meno di quanto avrebbe potuto spostare un confronto diretto in tv. La storia si ripete oggi, con Berlusconi che sbandiera un vantaggio di 8-10 punti e intanto ha paura di giocarsi il 2-3 per cento in un faccia a faccia con l´avversario.

Berlusconi fugge il faccia a faccia con l´avversario per un calcolo egoistico motivato. Il suo punto debole è l´essere vecchio. Un candidato di oltre settant´anni, venti più dell´avversario, che si candida per la quinta volta. L´esperienza dei duelli televisivi americani dice che vince sempre il candidato più giovane, democratico o repubblicano. Dal primo ormai leggendario, protagonisti John Kennedy e Richard Nixon, fino agli ultimi, protagonisti Bill Clinton e Bush senior. Questo però riguarda l´interesse di un candidato. Altro è l´interesse degli elettori.
Il grande sociologo francese Pierre Bourdieu portava come prova di crisi democratica il fatto che le elezioni fossero decise alla fine da una maggioranza di non informati. «Quelli che hanno come unico bagaglio politico l´informazione televisiva, cioè quasi nulla». Nel quasi nulla il «quasi» è però rappresentato dal faccia a faccia. È l´unica forma di informazione politica televisiva con scarsi margini di manipolazione. Proprio per la sua forma rituale, canonizzata dall´esempio americano. I due contendenti, due giornalisti di testate indipendenti che fanno le domande, un conduttore arbitro dei tempi. È rituale anche la stretta di mano finale fra gli avversari. Un bel rito, importante in una democrazia.
Il confronto diretto, personale, diventa ancora più cruciale quando i programmi si assomigliano, come succede nelle moderne democrazie. Perché l´elettore non giudica se votare il «che cosa» ma il «come», non il programma ma la credibilità del leader. L´acceso confronto fra Barack Obama e Hillary Clinton nelle primarie democratiche è quasi esclusivamente fondato sul linguaggio: i programmi sono pressoché identici.
Ora, in Italia siamo sottoposti per 365 giorni l´anno a un´informazione politica manipolata e orientata da pseudo giornalisti che debbono la carriera e la possibilità stessa di lavorare al partito di riferimento o al partito e al padrone, come nel caso dei dipendenti o lottizzati da Berlusconi.

Nell´unica occasione in cui la televisione potrebbe funzionare da strumento di conoscenza, appunto il faccia a faccia, lo schermo si oscura. Perché il padrone delle televisioni ha deciso di oscurarlo. Come si comporterebbero i giornalisti delle reti private americane se uno dei due contendenti alla presidenza degli Stati Uniti decidesse di disertare il confronto? Probabilmente inviterebbe l´altro da solo, con una sedia vuota per avversario. Come si comporteranno i giornalisti del servizio pubblico italiano? Lo sappiamo per certo. Faranno trovare al padrone la scrivania commissionata, tirata a lucido coi gomiti.


L'America che conta
apertura de
il Manifesto

I morti americani in Iraq sono arrivati a quota 4.000 e il presidente Bush «prova tristezza». Ma, dice, bisogna vincere: «Il loro sacrificio ha gettato le basi per la pace futura». E dopo cinque anni la guerra continua a uccidere nel silenzio dei media. Le vittime irachene sono più di 700.000. Ieri un nuovo appello di al-Zawahiri ai musulmani: «Colpite Israele e gli Usa». Obama vuole mettere fine a una guerra «che non doveva mai iniziare». Clinton promette di ritirare le truppe


Quei 4000 morti americani
Vittorio Zucconi
su
la Repubblica

Avvolto nel sudario della indifferenza nazionale, un soldato ancora senza nome in attesa che i parenti siano informati, ha raggiunto ieri i 3.999 commilitoni già sepolti nei cinque anni di guerra e di occupazione dell´Iraq.
Quattromila soldati uccisi in cinque anni, ma certamente assai di più, perché il Pentagono non calcola coloro che muoiano successivamente per le ferite, non sono altro che una facile, e comoda pietra miliare per segnare questo calvario senza fine. In sé, quattromila non sono "meglio" di quattromila e uno, né molto "peggio" di 3.999, tranne che per quel milite ignoto che si sarebbe fermato volentieri a 3.999, ma servono almeno a increspare, per un giorno, la plumbea apatia di un´America che ha rimosso l´Iraq dalla propria attenzione collettiva, come il malato grave che rifiuta di guardare in faccia una diagnosi perché troppo amara.
È una sorta di rassegnazione frustrata, di distacco dalla realtà, che i sondaggi elettorali confermano, relegando ormai l´Iraq in posizione subordinata alle ansie del momento e che i media rafforzano, avendo ridotto i notiziari dal fronte a meno del 10 per cento dei servizi e cronache. Editori e direttori spiegano che il costo economico e il rischio fisico della "copertura" del fronte orientale non sono più giustificati dall´interesse, una formula facilmente rovesciabile: l´interesse cala, perché giornali, network e blog non se ne occupano più. In questo solito, insolubile dilemma dell´uovo o della gallina, la sola certezza è che niente di sostanziale è cambiato in Iraq in cinque anni, che nessuna soluzione chiara e definitiva è in vista e gli annunci di miglioramenti ottenuti a colpi di soldi distribuiti generosamente a bande rivali, tribù, pezzi da novanta locali, che anche il bravo generale Petraeus è costretto a confermare per convinzione e per dovere di stellette, si riassumono nella malinconica intuizione del vignettista che sul New York Times di domenica disegnava un soldato americano sprofondato nelle sabbie mobili fino alla cintola: «Io continuo ad affondare, ma più lentamente di prima». Forse era quel milite ucciso proprio in quelle ore.
La grande maggioranza dell´opinione pubblica, ormai stabilizzata da mesi oltre il 60 per cento, ha raggiunto la convinzione che in Iraq i propri figli non sarebbero mai dovuti andare e che questo salasso quotidiano di vite americane, di vite irachene, di tesoro pubblico, di credibilità e di prestigio nazionali, sia destinato a continuare almeno fino al prossimo anno, quando un nuovo Presidente, chiunque lui o lei sia, dovrà mettere una benda sulla ferita, aperta da George W. Bush. Se la media di vittime americane e irachene dovesse continuare al ritmo attuale, che è quello del cosiddetto "progresso", cioè consumare due soldati ogni giorno, dieci feriti gravi salvati soltanto dalla straordinaria abilità dei chirurghi e dozzine di iracheni (il conto delle vittime locali non viene addirittura più tenuto dal cosiddetto governo di Bagdad), questo altro anno, significherà almeno altri 400 caduti in uniforme e decine di migliaia di morti iracheni.

Un´America priva di guida politica, disgustata da un Presidente respinto dal 70 per cento dei cittadini nei sondaggi, che sa soltanto rimasticare autisticamente lo stesso discorso che ascoltiamo dal giorno della "missione compiuta" è tradita anche da candidati d´opposizione che si beccano fra di loro come galli e galline e si è dovuta rassegnare.
Preferisce non guardare e non vedere. Nessuno, certamente non i folli che hanno scavato la fossa ai quattromila, e non Barack o Hillary che in pubblico vaneggiano di ritiri «entro 60 giorni» (ma in privato sanno che districare 160 mila soldati da un fronte è materialmente impossibile) ha soluzioni che non siano slogan di comodo o fanfaronate come quelle del reduce di professione, John McCain. Che è sbarcato a Bagdad in giubbotto di kevlar per testimoniare «il grande progresso», salutato subito da 8 soldati caduti e una bomba in un mercato, con 60 morti.

Lo shock dell´11 settembre è lontano, rimosso, e la mancanza di nuovi attentati, che sembra un successo, è paradossalmente nuociuta alla truculenta bellicosità del mondo neocon. L´assenza della leva generale lascia tranquilli i giovani, sicuri di non dover ricevere la spaventosa cartolina precetto. I predicatori della "guerra preventiva" che non hanno prevenuto quattromila morti ormai predicano fra di loro, quando non si attaccano reciprocamente in memorie autodifensive e rancorose. L´Iraq è una guerra combattuta da altri contro altri, in un luogo immateriale per tutti, meno per coloro che ci rimangono.
Accende nei soldati una paura ancora più fiaccante del timore della morte accettata: «La paura – ha detto un capitano appena congedato e quindi libero di parlare – che noi combattiamo per una nazione alla quale di noi non importa più niente. Preferiremmo cortei pacifisti come per il Vietnam, piuttosto che questo silenzio».


Iraq: il mosaico dei morti Usa
su
la Repubblica

Le foto dei 4000 soldati uccisi in cinque anni di guerra compongono come tessere di un puzzle i volti di Bush e Mc Cain. E' la provocazione dell'Huffington Post (credit Nico Pitney – Huffington Post)


L'Alitalia secondo Staino
su
l'Unità

Staino sull'Unità


  25 marzo 2008