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a cura di Fr.I. - 21-22 marzo 2008


il Manifesto
apertura de
il Manifesto

«Ghe pensi mì». Silvio Berlusconi insiste: pronta una misteriosa «cordata italiana per l'acquisto di Alitalia», e chiede al governo un «prestito ponte» per superare l'ultimatum di Air France. Banca Intesa nega un suo coinvolgimento nell'ipotetica impresa berlusconiana. Padoa Schioppa chiede di fare presto, i sindacati di rinviare tutto al dopo-13 aprile. Mentre i bilanci vanno a picco, la sorte dell'ex compagnia di bandiera diventa materia elettorale


Proposte vere, non bluff
su
Il Sole 24 Ore

È scaduto il tempo per Alitalia.
Andare oltre il 31 marzo rifiutando l'unica offerta per l'agonizzante compagnia pubblica senza avere un'altra (e migliore) garanzia di acquisto sarebbe come saltare dall'orlo del precipizio. L'offerta Air France è per certi aspetti criticabile e contiene alcune clausole umilianti. Ma mescolare la politica al mercato per confezionare un'alternativa è una miscela pericolosissima. È positivo se ci sono imprenditori con un progetto migliore, purché il disegno non nasca per pressioni politiche.
Ci si potrebbe però chiedere come mai i nuovi pretendenti non si siano mossi prima. Solo un nuovo proprietario, diverso dallo Stato, potrebbe iniettare soldi nell'Alitalia. La Ue può autorizzare un prestito ponte garantito dal Tesoro solo con la certezza della privatizzazione. Non basta una generica promessa di future cordate. Ci vuole un'offerta vera. Se prima dell'Ops di Air France arriverà una proposta migliorativa, il Governo sarà libero dagli impegni con i francesi. Intanto, astenersi perditempo.


A bassa quota
Valentino Parlato
su
il Manifesto

Con questa storia dell'Alitalia mi tornano alla mente i vecchi romanzi d'appendice. La povera e infelice vergine sta per cadere in mano dei turchi e scende in campo il Cavalier Silvio che la salverà. Sui giornali di ieri questa era la scena. Solo che il Cavalier Silvio, e non solo lui, è stato testimone e complice della irreparabile caduta della vergine Alitalia.
In Italia, una volta c'era l'economia mista: parte privata con la Fiat, la Montecatini e la Edison e parte pubblica con l'Iri e l'Eni. Neppure allora c'era chiarezza, tuttavia andava un po' meglio di come non sia oggi, con la linea delle privatizzazioni che (per l'Alitalia ad esempio) non si realizzano e così è nato il mostro Alitalia per il 49,9 per cento pubblica e per il 50,1 per cento di un po' di privati e presunti tali: ci sono molti dirigenti Alitalia e pubblici che sono diventati amministratori delegati di settori Alitalia prima esternalizzati e poi privatizzati.
Così oggi l'Alitalia è un mostro sciupadenaro, in cui si sommano (e anche moltiplicano) i vizi del privato e quelli del pubblico. C'è la moltiplicazione degli aeroporti per soddisfare le esigenze locali di politici e privati. C'è conseguentemente la moltiplicazione dei low cost che sono costi altissimi, cioè perdite per l'Alitalia e soprattutto per la sua parte pubblica. A parte la Germania, che aveva il problema politico di Berlino, siamo il solo paese che abbia due hub (cioè due aeroporti centrali): Malpensa era un prezzo (assai alto, cioè due terzi del deficit Alitalia) che si doveva pagare alla Lega.
Ma a questo punto che fare? Che vuole fare il governo di centrosinistra ancora in carica e responsabile? Vuole che Berlusconi, in questa campagna elettorale, agiti, a gratis, la patriottica bandiera dell'italianità della compagnia e conquisti un altro po' di voti? La risposta di Prodi - «Berlusconi faccia una proposta» - è assolutamente debole. Nel corso della campagna elettorale Berlusconi (ha già messo in campo anche i figli) potrà giocare fino all'ultimo giorno la parte del salvatore della Patria e questo sarebbe un po' suicida da parte del Pd. Questa dell'Alitalia è una carta forte nella partita elettorale. Il Pd, ma anche la Sinistra arcobaleno, non possono restare a mezz'aria tra il privato e il pubblico. Sarebbe bene che Prodi, e anche Veltroni, scegliessero la via dell'impresa pubblica, dando soldi alla compagnia anche se le autorità europee protesteranno; e che smontasse tutta la baracca dei privatissimi low cost, introducendo quelle regole minime che vigono in tutti gli altri paesi europei. Altrimenti non resta che vendere all'Air France.
Essendo un tenace e forse nostalgico sostenitore della prima stagione dell'Iri, troverei economica e patriottica una seria assunzione di responsabilità dello stato. Nella sua prima stagione l'Iri suscitava l'invidia delle elites economiche d'Europa. Altrimenti, ripeto, una rapida e completa privatizzazione, ma non lasciare a Berlusconi la parte del generoso difensore degli interessi dell'Italia e dell'Alitalia.


Il conflitto del Cavaliere
Lucia Annunziata su
La Stampa

Silvio Berlusconi sostiene che dell'Alitalia si occuperà lui, che metterà in piedi una cordata in cui se è necessario potrebbero persino entrare i figli, e che farà un'offerta molto più accettabile di quella di Air France. Il mondo politico ed economico si domanda se questa cordata sia realistica o no. Realistica o irregolare? bisognerebbe piuttosto chiedersi. E' possibile che la disperazione del sistema italiano di fronte alla sua paralisi sia arrivata a un punto tale da far considerare le regole solo una variante della soluzione di un problema; ma da un punto di vista di correttezza istituzionale il farsi avanti del leader della Cdl solleva molte domande. Intanto, in che veste parla Berlusconi? C'è una forte differenza fra il proporre una soluzione, e «adoperarsi» per una soluzione. Un candidato premier può e deve esprimere una propria opinione su un problema grave come quello dell'Alitalia. Ma può personalmente scendere in campo, per formare, lui, strumenti operativi sul mercato, quali una cordata? E, di più, può invitare in questa cordata i suoi figli, cioè la sua stessa famiglia? Curiosamente questa distinzione fra proporre e adoperarsi non è stata nemmeno sollevata. Eppure, non si può dire che nel corso di questi ultimi anni il nostro sistema non abbia dovuto subire vari scossoni dal rapporto fra politica e affari: gli intrecci che Berlusconi ha portato al governo hanno lacerato il Paese. E nessuno è stato tenero nemmeno con il Centro sinistra, sul quale ancora aleggia il fantasma dei «capitani coraggiosi» e Telecom, o di Unipol. Che un uomo politico non possa intervenire operativamente nel mercato, e nemmeno favorire suoi interessi indirettamente sembrava fosse insomma una verità assodata. Ma il Paese non sembra invece ricordare. Il Cavaliere per primo sembra aver dimenticato tutte queste tensioni. Anzi, fa le sue proposte per l'Alitalia con il piglio del salvatore della patria, del capo azienda orgoglioso della propria iniziativa, di quella dei suoi figli e di altri uomini d'affari a lui vicini. La salvezza dell'Alitalia, insomma, come un atto di leadership e generosità verso la nazione. Il risultato di tutto questo è tuttavia, più prosaicamente, il seguente: un aspirante premier forma una cordata, in cui ci sono la sua famiglia e suoi imprenditori di riferimento, per comprare la società di bandiera della nazione di cui sarà il premier; il rischio dell'operazione potrebbe per altro essere coperto da un prestito ponte di cui si farebbe garante il governo, cioè lui stesso. Di che si tratta, se non di un ennesimo riproporsi del conflitto di interessi?

Speriamo solo che sia almeno disposto a prendersene le responsabilità: nel caso le sue dichiarazioni facciano ritirare oggi Air France, e nessuna cordata alternativa venga alla fine messa da lui in piedi, sa il Cavaliere che qualcuno dirà che ha sabotato gli interessi nazionali? Magari a favore dei suoi?


Piersilvio Airways
Marco Travaglio su
l'Unità

Quand'erano un filo più giovani, i due figli di primo letto Marina e Piersilvio servivano al Caimano per giurare il falso sulle loro povere teste. Ora che son cresciuti, vengono adibiti agli usi più disparati. C'è da sistemare una precaria? Che problema c'è, se la sposa Piersilvio (il poveretto non viene nemmeno consultato sui suoi gusti sessuali). C'è da salvare l'Alitalia? Ghe pensi mi, «ci sono i miei figli pronti a rilevarla, insieme a Toto e Banca Intesa». Purtroppo Toto ha già perso la sua chance.

Mentre Banca Intesa, non avendo legami di parentela con la famiglia Berlusconi (ma solo cospicui crediti con Forza Italia e con Toto), ha subito smentito. I due incolpevoli pargoli, invece, non osano nemmeno fiatare.

Del resto papà lo conoscono bene: lui le spara così, a raffica, come gli vengono. Infatti, col venir meno della banca, nonno Silvio fa presente che «la cordata è sempre pronta», ma c'è una piccola postilla: bisogna trovare qualcuno che metta i soldi, che sarà mai. Di qui l'idea geniale: il governo Prodi potrebbe lanciare un «prestito ponte», prelevandolo dalle tasche dei contribuenti, per finanziare l'operazione. In Europa si ride di gusto, visto che le regole comunitarie vietano gli aiuti di Stato. Ancora qualche ora e il Caimano dirà di essere stato frainteso dai soliti comunisti.

Peccato, però, che sia finita così. Intanto perché una compagnia aerea denominata «Piersilvio Airways» («Air Marina» avrebbe ingenerato equivoci col trasporto nautico) non avrebbe guastato affatto, in alta quota. Poi perché il conflitto d'interessi berlusconiano languiva da qualche anno sulle solite cosucce tipo tv, giornali, radio, portali internet, banche, assicurazioni, calcio, cinema, processi penali, insomma poca roba. Inglobare anche una compagnia di bandiera nel gruppo del futuro premier avrebbe conferito al conflitto d'interessi un frizzante tocco di novità, al punto che persino Uòlter, forse, avrebbe dovuto occuparsene. Ma l'operazione Piersilvio Airwaiys avrebbe giovato soprattutto per un terzo motivo: avrebbe inaugurato una nuova via tutto italiana al «fare impresa». Un tizio, uno a caso, mettiamo Berlusconi, diventa presidente del Consiglio nel 2001 e si incarica di mandare definitivamente a picco un'azienda pubblica già cagionevole di salute. Per essere sicuro che non ne resterà più traccia, la affida nelle mani sicure della Lega e di An, che ci giochicchiano per l'intera legislatura con i loro leggendari supermanager. Si comincia con l'ex deputato leghista Giuseppe Bonomi, promosso presidente di Alitalia e rimasto celebre per aver sponsorizzato i mondiali di equitazione indoor salto a ostacoli, ad Assago (Milano), dove lui stesso si esibì in sella al suo cavallo baio. Poi Bonomi viene spedito alla Sea (Linate e Malpensa) e ad Alitalia arriva un fedelissimo di Fini: Marco Zanichelli. Ma subito Tremonti litiga con Fini: «Giù le mani da Alitalia, non c'è più una lira». Zanichelli, preso fra le risse di potere del Cdl, se ne va dopo appena 70 giorni, rimpiazzato dall'ottimo Giancarlo Cimoli, che aveva già fatto così bene alle Ferrovie. Il tempo di scortare la compagnia verso il burrone, poi anche lui leva il disturbo, con una modica liquidazione di 5 milioni di euro.

A quel punto, affondata la flotta, il Caimano se ne va in ferie per un paio d'anni. E al suo posto arriva gente seria, come Prodi e Padoa Schioppa che tentarono di riparare ai guasti suoi. Quando ce la stanno per fare, trovando Airfrance interessata a rilevare un bidone che brucia 1 milione e ha perso 15 miliardi in 15 anni, riecco l'Attila di Arcore che, travestito da Buon Samaritano, tenta di sabotare la trattativa con l'aiuto consapevole di Bobo Formigoni, Bobo Maroni e Morticia Moratti e l'aiuto inconsapevole dei soliti sindacati miopi. Dice che compra tutto lui, anzi «i miei figli», più il celebre Toto, naturalmente coi soldi degli altri: o delle banche, o dello Stato. Perché lui, com'è noto, è un imprenditore che si è fatto da sé, e anche un vero liberale.

Una compagnia della buona morte talmente inguardabile che perfino Bonomi, da Malpensa, prende le distanze e, sotto sotto, si tocca. Basti pensare che come rivelava ieri sulla Stampa Minzolini sul caso Alitalia il consigliere più ascoltato di Berlusconi è il deputato forzista Giampiero Cantoni, già presidente craxiano della Bnl, più volte inquisito e arrestato, dunque titolare delle giuste credenziali per occuparsi della faccenda: per esempio, un patteggiamento di 11 mesi di reclusione per corruzione (con risarcimento di 800 milioni di lire) e un altro di 13 mesi per concorso in bancarotta fraudolenta del gruppo Mandelli. Un esperto. È la via berlusconiana al risanamento. Chi si chiama al capezzale di un'azienda dalla bancarotta? Un bancarottiere. Per dargli un'altra chance.


Par condicio, il richiamo del Garante
"Servono telegiornali più equilibrati"
Le percentuali dal 10 al 17 marzo: sui tg della Rai al Pdl il 37,24% contro il 29,75% del Pd
Sulle reti Mediaset il Pdl registra il 45,99% contro il 23,80% del Pd
su
la Repubblica

ROMA - Più par condicio. Più equilibrio in tv tra le forze politiche. E' questo il senso dell'atto di richiamo rivolto dall'Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni sia alla Rai sia alle tv private. Richiamo che chiede "l'immediato riequilibrio dell'informazione politica tra tutte le liste partecipanti alla campagna elettorale''.

''Dal monitoraggio della prima settimana dell'ultima fase della campagna elettorale - spiega l'agenzia - dopo la presentazione delle liste, particolarmente per quanto riguarda la presenza nei notiziari delle forze politiche, emergono dati di forte squilibrio sia tra le due forze politiche maggiori e il complesso delle altre sia nel rapporto tra queste ultime sia, anche, in una certa misura, tra il Pdl e il Pd a favore del primo''.

I dati
. La settimana "esaminata" dall'Agenzia garante per le comunicazioni è quella che va dal 10 al 17 marzo. L'unità di misura è "il tempo di parola", cioè gli interventi parlati di ogni rappresentante politico. Il risultato è che il Pdl ha avuto due ore e mezza di servizi in più rispetto al Pd nei telegiornali della Rai, di Mediaset, su La7 e Mtv. Sui tg della Rai, il Popolo delle Libertà ha avuto il 37,24% (per un totale di 2 ore e 53 minuti), contro il 29,75 (2 ore e 18 minuti) del Partito Democratico. Stessa tendenza sulle reti Mediaset, dove il Pdl ha fatto registrare il 45,99% (2 ore e 42 minuti di spazio) sui tg, contro il 23,80% (1 ora e 24) per il Pd. Su La7 e Mtv (Gruppo Telecom Italia Media), la tendenza non cambia: al Pdl il 48,23% (1 ora e 34 minuti), mentre al Pd il 28,48% (poco meno di 56 minuti).

Il "vantaggio" del Pdl si conferma anche per quello che riguarda speciali e approfondimenti: il 22,99% sulla Rai per un totale di 2 ore e 40 minuti, contro il 18,84% (2 ore e 11 minuti) per il Pd; su La7 il 39,08 (pari a 2 ore e 24 minuti) per il Pdl e 21,88% (pari a 1 ora e 21 minuti) per il Pd.

Tg per Tg. Il più "scorretto", per Agcom, è il Tg4 di Emilio Fede. L'autorità garante ha misurato che il Tg4 ha dedicato il 53,65% degli interventi in voce al pdl, il 15,66% al Pd, il 7,93% alla Sinistra-Arcobaleno e il 6.86% all'Udc. Il Tg5 ha dedicato il 34,86% delle dichiarazioni in video al Pdl, il 23,59% al Pd, il 17,30% alla Sinistra e il 6,46 all'Udc. Il Tg1 non si comporta meglio con le forze minori: alla Sinistra ha dedicato solo 9,35% del tempo di parola e il 9,24% all'Udc. Al Tg2 le percentuali calano ancora: 6.88% alla Sinistra; 6,61% all'Udc.
...


Il finanziamento dei nanetti
Giovanni Sartori sul
Corriere della Sera

Sono in molti a non capire come mai anche i più nani dei nostri partitini si presentino ancora alle elezioni (per il Campidoglio, a Roma, i simboli sono 31!). Non si diceva che il coraggioso «andare da solo» di Veltroni, in parte imitato da Berlusconi, li avrebbe falciati? Già, si diceva. Se Prodi avesse, o avesse mai avuto, il fiuto politico di Berlusconi, l'ultimo atto del suo governo poteva essere di cancellare con decreto legge la orrenda normativa sul finanziamento dei partiti che ha alimentato la proliferazione di nanetti e addirittura micro-nanetti visibili solo con una lente di ingrandimento. Dopo tanti provvedimenti impopolari, sarebbe uscito di scena in bellezza con un atto altamente popolare. Invece Prodi si è dichiarato difensore dei partitini fino all'ultimo minuto, fino a quando il nanetto Mastella lo ha fatto cadere. E sì che Mastella lo preavvisava da mesi.
Così anche questa partita è caduta su Veltroni, che chiaramente si trova ingorgato da troppi problemi. Che saranno aggravati, temo, dal suo reclutamento. Entro in parlamento, ha dichiarato la giovanissima e leggiadra Marianna Madia, capolista Pd nel Lazio, «forte della mia straordinaria. inesperienza politica». Se fosse una battuta, è difficile essere più spiritosi di così. Ma Marianna dice sul serio. Farà carriera. Come Robespierre, crede in tutto quello che dice.

Veniamo al finanziamento pubblico. Dopo il referendum del 1993 che lo aboliva i partiti hanno rimediato con il rimborso per ogni voto conseguito. Il principio è sensato. Ma siccome siamo in Italia è rapidamente degenerato in una pappatoria generalizzata. Oggi il rimborso va a tutti i nanetti che arrivano all'1 per cento del voto; e dunque a gruppi politici che per gli studiosi nemmeno si qualificano come partiti (visto che non riescono ad eleggere nessuno). E' questa pioggia benefica di soldi sprecati che foraggia la frammentazione e che la sostiene anche in questa elezione. Questa pappatoria, non è, beninteso, il solo scandalo che ci affligge sul finanziamento pubblico, ma è il primo da decapitare.


La crisi epocale del liberismo e Mr. Keynes
Alfonso Gianni su
Liberazione

"Verrà un altro 1929?" così, a partire da quell'anno fatidico, si interrogavano gli americani ad ogni scricchiolio di Borsa. Ce lo raccontava John Kenneth Galbraith nelle prime righe del suo fortunatissimo libro "Il Grande Crollo". Correva l'anno 1954, ma è lecito credere che gli americani si siano posti lo stesso quesito più volte in questo mezzo secolo. Ed ancor di più se lo pongono ora che la crisi è tornata a mordere con inusitata durezza.
Secondo Alan Greenspan, uno che se ne intende, visto che ha guidato la Federal Reserve americana per vent'anni, si tratta della più grande crisi del dopoguerra. E' forse prematuro dire se ha proprio ragione o no. Probabilmente bisognerà aspettare l'anno prossimo per avere un censimento completo dei potenziali insolventi. Intanto è sicuramente vero che la crisi si sta acuendo ed allargando di giorno in giorno (come del resto aveva previsto con grande lucidità Nouriel Roubini, titolare di un'importante cattedra di economia a New York). Siamo infatti già giunti alla fase di una crisi generalizzata di liquidità, malgrado i soccorsi prontamente forniti dalle banche centrali, e al fallimento di importanti banche d'affari, come la Bear Stearns. Né si può dimenticare che questa ultima crisi conferma una micidiale cadenza decennale nelle ricorrenti crisi finanziarie di grande rilevanza: 1987, 1997 e ora 2007 (è nell'agosto dell'anno scorso che è infatti scoppiata la vicenda dell'insolvenza dei percettori di mutui subprime ).
Tuttavia ciò che è più importante approfondire non è tanto il carattere dimensionale di questa crisi quanto le cause che l'hanno provocata e quindi le sue caratteristiche specifiche.
Se si parte dalle caratteristiche specifiche della crisi, si può probabilmente giungere alla conclusione che siamo di fronte a una crisi finanziaria di tipo epocale, nel senso che ora vengono al pettine tutti i nodi attorno ai quali si è aggrovigliata la crescita dell'attuale globalizzazione capitalista. Questa crisi mette impietosamente in discussione il processo di finanziarizzazione mondiale del capitale dal punto di vista economico e le teorie neoliberiste e monetariste che l'hanno accompagnato sul terreno politico.
C'è chi, come Christian Marazzi, l'ha chiamata "la rivoluzione derivata". Si trattava dell'introduzione nel mercato finanziario, a partire dal 1979, di una nuova tipologia di prodotti finanziari, i "derivati", appunto. Si tratta di prodotti che si acquistano e si vendono come qualsiasi altra merce, che non hanno un valore in sé, ma lo derivano da qualunque altro bene ad essi sotteso, che sia di natura squisitamente finanziaria o del tutto concreta, come le stesse materie prime.
La loro funzione è quella di proteggere dalla incertezza derivante dalle oscillazioni dei prezzi di qualunque bene, ma il loro scambio non fa altro che fare di quella stessa incertezza una fonte di guadagno. Ne deriva una costruzione rischiosa e estremamente pericolante, esposta a molteplici rischi, che le istituzioni finanziarie centrali non sempre riescono a rintuzzare con tempestività e successo. In questo percorso il bene che soggiace perde via via sempre più di presenza e materialità, al punto che risulta difficile ricostruire l'origine dei derivati. In sostanza essi esprimono il più alto livello di astrazione dal valore d'uso, ben maggiore di quello rappresentato dal denaro stesso.
Nulla meglio dei derivati perciò può rappresentare la cifra dell'attuale finanza mondiale. E quando il processo di astrazione giunge al suo limite estremo, per cui quei titoli diventano vuoti di ogni valore, il castello crolla. E' questo lo spettacolo cui stiamo assistendo da agosto ai giorni nostri.
C'è chi, come Riccardo Bellofiore, ha definito l'attuale capitalismo come il capitalismo dei fondi pensione. In effetti questi ultimi, insieme ai Fondi comuni di investimento, nelle loro diverse varianti, sono i protagonisti delle più frequenti e spericolate scorribande sui mercati mondiali e della finanziarizzazione della proprietà industriale. Essi hanno la funzione, altamente "politica", di garantire una sorta di consenso sociale di massa, anche se non del tutto consapevole, all'attuale sistema, tramite il rastrellamento del risparmio, obbligato dallo smantellamento della struttura pubblica di assistenza e previdenza sociali.
Ma la privatizzazione della difesa dal rischio e della conseguente copertura assicurativa, può giocare dei brutti scherzi. I fondi in questione sono spinti, dall'ansia di garantire le rendite che promettono, ad operare investimenti sempre più rischiosi alla ricerca dei rendimenti più elevati, il che li espone a frequenti fallimenti. E' quanto è accaduto in questi mesi e probabilmente la situazione è destinata ancora a peggiorare.
Queste considerazioni non esauriscono però l'individuazione delle caratteristiche di questa crisi. Bisogna infatti analizzare ciò che sta sotto il fenomeno finanziario e monetario, anche se quest'ultimo a sua volta influisce sul sottostante. Come diceva il grande storico dell'economia Marc Bloch, il fenomeno monetario assomiglia a un sismografo che, non contento di segnalare i terremoti, qualche volta persino li provoca.
Sotto al disastro dei subprime , se guardiamo in primo luogo all'economia americana, sta una recessione vera, malgrado i tentativi patetici di negarla da parte dell'amministrazione Bush. Tutte le crisi capitalistiche sono crisi di sovrapproduzione, si usava dire una volta. E' vero anche in questo caso. Solo che è più grave che nel passato.
In effetti la diffusione dei mutui, dei pagamenti rateali, insomma dell'indebitamento del cittadino americano (e il fenomeno si sta diffondendo anche da noi) corrispondevano esattamente alla necessità di diluire la vendita del prodotto attraverso il tempo, agendo in anticipo sulla effettiva capacità di spesa dei singoli.
Ma quel sistema di ammortizzatori finanziari non poteva andare avanti all'infinito. Essendo troppo fragile e complesso doveva prima poi incepparsi. Ed è quanto è successo e sta succedendo.
L'intoppo nel sistema dei mutui subprime consiste nel fatto che cittadini a reddito basso e soprattutto discontinuo non sono stati in grado di fare fronte ai debiti contratti. In sostanza la flessibilità e la precarietà su cui il sistema postfordista si è eretto, si rivoltano contro il castello finanziario che è stato fin qui costruito.
La mancanza di stabilità del posto di lavoro, portata a esempio della modernizzazione nei rapporti sociali e negli stili di vita dagli apologeti della globalizzazione e del neoliberismo, ha scavato il sistema fin dalle sue fondamenta determinandone le rovinose frane che sono sotto i nostri occhi.

Queste ultime disvelano e trascinano con sé la vuota retorica neoliberista. Per la prima volta in modo evidente e generalizzato si scopre o si riconosce che il sistema, senza un intervento statale, non funziona.
Giulio Tremonti propone una soluzione reazionaria, avanza una critica da destra alla globalizzazione, ma esprime anch'egli questa diffusa consapevolezza. Le banche centrali corrono in aiuto al sistema bancario privato in difficoltà.
La Fed decide in queste ore la più grande riduzione del costo del denaro da un quarto di secolo a questa parte. Solo Paul Volcker nel 1984 fece di più. Ben Bernanke, attuale capo della Fed, non si vergogna affatto di teorizzare il ruolo della banca centrale come «prestatore in ultima istanza» (si noti l'analogia con l'espressione usata da Federico Caffè di stato occupatore in ultima istanza di forza-lavoro, così aborrita dai neoliberisti).
Il keynesismo più elementare sembra tornare di moda, visto che tra qualche settimana i cittadini americani riceveranno dal governo, per decisione bipartisan, un assegno tra 600 e 1200 dollari, per soccorrere il loro potere d'acquisto.
Solo in Europa la banca centrale rimane ferma e con essa il costo del denaro. Immutabili i risibili vincoli di bilancio di Maastricht, che suggeriscono al nostro Padoa Schioppa, di negare, anche in extremis, la ridistribuzione e persino l'esistenza del tesoretto, certificato dai conti dell'Istat.
Mai come in questo momento, proprio mentre si parla di ratificare definitivamente il trattato di Lisbona, è più evidente la necessità di ridiscutere le basi monetariste su cui si fonda l'Europa. Ora è più chiaro di prima, per le ottime ragioni ricordate da Paolo Leon su questo giornale, che è necessario contrastare il disordine monetario internazionale, riproponendo un sistema di accordi che si ponga al livello di quello che fu Bretton Woods per il mondo che usciva dalla guerra.
E sconsiglierei davvero di attendere un nuovo conflitto di proporzioni mondiali per mettervi mano.
Stiamo assistendo ad una sorta di rovesciamento del caso europeo che Jeremy Rifkin chiamò "sogno". L'attuale crisi può risultare addirittura devastante per tutti o può essere occasione per un cambio radicale di politiche. Dipende anche da noi.
Ciò che non si è potuto fare dal governo, per precise responsabilità, può essere perseguito come programma di opposizione. Il superamento del capitalismo non giunge in dono dalle sue crisi, ma dipende dalla soggettività alternativa che si crea.


I diritti e la barbarie
Stefano Rodotà su
la Repubblica

Sacrificate ovunque in nome della sicurezza, le libertà civili hanno ricevuto un inatteso aiuto pochi giorni fa dalla Corte costituzionale tedesca, che ha ritenuto illegittima una norma antiterrorismo fortemente restrittiva dei diritti. Questa decisione è importante per due motivi. Perché offre indicazioni nuove e significative per cogliere in concreto il modo in cui si stanno modificando i rapporti tra i cittadini e lo Stato, per individuare i rischi ai quali è esposta la stessa democrazia e, soprattutto, per mettere a fuoco le trasformazioni che sta conoscendo la nostra personalità. E perché consente di misurare l´adeguatezza dei programmi elettorali in circolazione rispetto alle complesse questioni ogni giorno proposte dall´innovazione scientifica e tecnologica.
E al di là di questo, perché ci impone riflessioni su come la dignità delle persone sia oggi considerata nel nostro paese.
I giudici costituzionali tedeschi si sono trovati di fronte a questo problema: fino a che punto si può frugare nei personal computer delle persone, a loro insaputa, indagando su ogni loro attività e comunicazione, magari predisponendo i computer proprio per renderne possibile il controllo in qualsiasi momento? Una questione, come ben si vede, che riguarda tutti e che rivela prospettive inquietanti. Tecnologie della libertà – che ci hanno appunto liberato dai vincoli del tempo e dello spazio, che hanno avviato un nuovo modo di costruire le relazioni, personali, sociali, politiche – possono essere integralmente rovesciate in tecnologie del controllo.
Consapevole di tutto questo la Corte non si è limitata ad affermare l´illegittimità di quella norma, contenuta in una legge del land Nord Reno-Westfalia, imponendo restrizioni rigorosissime a questa nuova forma di perquisizione. Ha creato un nuovo diritto della persona: "il diritto fondamentale alla garanzia della confidenzialità e dell´integrità del proprio sistema tecnico-informativo", come espressione del diritto della personalità. La novità è grande. Il corpo di ciascuno di noi si allarga fino a comprendere gli strumenti tecnologici di cui ci serviamo nella vita quotidiana. La Corte costituzionale tedesca non rafforza solo la garanzia giuridica. Crea una nuova antropologia. Su questo nuovo corpo, insieme fisico e tecnologico, "non si possono mettere le mani". Viene così rinnovata l´antica promessa della Magna Charta e nasce un nuovo habeas corpus.
Questa decisione non arriva a caso. Alle sue spalle vi è una lunga riflessione, cominciata nel 1983 con una sentenza sempre della Corte costituzionale tedesca che, riconoscendo il diritto all´autodeterminazione informativa, ha notevolmente influenzato l´intera riflessione su privacy e libertà. E´, dunque, il risultato di una cultura sedimentata che, proprio per questo, fornisce anticorpi adeguati, che consentono di affrontare i problemi senza abbandonarsi alle derive tecnologiche, senza diventare ostaggi della regressione civile che fa diventare la sicurezza un imperativo totalizzante, in nome del quale diritti e libertà possono essere tranquillamente accantonati.
Se proviamo a cercare tracce di una simile cultura nei nostri programmi elettorali, si è a dir poco delusi. Con tanto parlare di modernità e di futuro, è sostanzialmente scomparsa proprio l´intera questione del significato e degli effetti delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, dunque il tema capitale del nostro tempo. I problemi legati alla biologia ed alla genetica, quelli cosiddetti "eticamente sensibili", non devono entrare nella campagna elettorale perché "divisivi", perché possono turbare qualche finto idillio tra schieramenti e dividere i partiti al loro interno. Ai problemi tecnologici si dedica qualche scappellata, simile all´indimenticata promessa di "un computer per ogni studente". Oggi, ad esempio, si promette "banda larga per tutti". Ma, se pure questo programma venisse realizzato e così reso più agevole e generalizzato l´accesso al sistema della comunicazione elettronica, quali sarebbero i suoi effetti? Senza affrontare la questione delle garanzie dei diritti si creerebbe una situazione nella quale i cittadini vedrebbero sì allargata la possibilità del loro agire tecnologico, ma al tempo stesso si trasformerebbero in ostaggi di una tecnologia che permette di scrutare nel profondo la loro vita. Per salvarsi, dovrebbero rinunciare proprio ad utilizzare la tecnologia loro elargita. La contraddizione è evidente, ma è facilmente spiegabile tenendo presente l´enfasi ossessiva sulla sicurezza, la palese rinuncia a subordinare le logiche di polizia al rispetto dei vecchi e nuovi diritti fondamentali delle persone.
La salvezza arriverà da lontano, dalla lungimiranza di giudici come quelli tedeschi? "Dalla barbarie ci salverà l´Europa", era il titolo di un bell´articolo di Antonio Cassese che richiamava l´attenzione su due sentenze della Corte europea dei diritti dell´uomo che ribadivano con forza come le esigenze della lotta al terrorismo "non possono assolutamente portare ad una compressione dei nostri diritti umani, né di quelli dei presunti terroristi". La sentenza della Corte costituzionale tedesca è una sfida ad un´altra Europa, quella dei ministri degli Interni e di quei commissari europei che vogliono realizzare proprio le forme di controllo capillare ritenute incompatibili con la libertà della persona. E rende così manifesto il conflitto tra una politica sempre meno attenta ai diritti e una giustizia, costituzionale ma non solo, che incarna in modo sempre più netto il soggetto istituzionale al quale è affidato il compito di garantire, insieme ai diritti, gli equilibri democratici. Basta ricordare, ad esempio, l´intervento della Corte Suprema degli Stati Uniti sulla vicenda di Guantanamo o le sentenze della Corte costituzionale italiana su alcune delle cosiddette "leggi vergogna" del quinquennio berlusconiano.
Grande è la responsabilità dei giudici costituzionali e della cultura giuridico-politica nel garantire il pieno rispetto e lo sviluppo delle libertà e dei diritti fondamentali. Né occhi chiusi, né sguardo rivolto all´indietro. Bisogna reinterpretare le norme costituzionali esistenti, non solo creare diritti nuovi. Ad esempio: che cosa diventa la libertà di circolazione in città sempre più videosorvegliate? Si può continuare a parlare di libertà e sicurezza delle comunicazioni quando i dati riguardanti il traffico telefonico sono conservati per otto anni? Se non si risponde in modo adeguato a queste domande, si rischia di lasciare senza garanzie costituzionali proprio le situazioni più fortemente modificate dalle tecnologie.
Bisogna opporsi ad ogni forma di "degradazione dell´individuo", dando la più ampia portata a questa efficace espressione dei nostri giudici costituzionali. Di nuovo i giudici. Ad essi, e solo ad essi, si deve l´agghiacciante catalogo delle violenze nella caserma di Bolzaneto a Genova. Una sequenza di orrori che, senza esagerazioni, richiama quelli della prigione irachena di Abu Ghraib, di fronte ai quali le altre istituzioni erano rimaste sostanzialmente silenziose e ai quali una parte consistente del mondo politico aveva offerto una vergognosa copertura (sarebbe il caso di ripubblicare, senza commenti, molte dichiarazioni di questi anni). La dignità umana, cardine della nostra Costituzione e proclamata "inviolabile" in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, non aveva mai conosciuto in Italia una così profonda mortificazione.
"Pietà l´è morta"? Vien proprio voglia di rispondere di sì quando, ad esempio, si torna con la memoria alla violenza esercitata su una donna che, a Napoli, aveva legittimamente interrotto la sua gravidanza. Violenza che non è tanto quella dell´interrogatorio poliziesco, ma di chi ha ripetutamente e pubblicamente accusato quella donna di "aver ucciso un bambino malato". La cultura del rispetto è scomparsa da tempo dal nostro dibattito politico, ma non era mai accaduto che la violazione della dignità costituisse il segno d´una posizione politica ufficiale.


  22 marzo 2008