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a cura di Fr.I. - 19-20 marzo 2008


La guerra dei cinque anni
0ra gli americani rimuovono l'Iraq.
Si parla assai poco dei morti Usa, ancor meno di quelli iracheni. Si ignora la strage di generali. Silenzio totale sulle conseguenze che un lustro di sangue ha prodotto.
Marco d'Eramo su
il Manifesto

Washington - Cinque anni di guerra sono tanti per gli Stati Uniti: più della guerra civile (quattro anni), più della prima guerra mondiale (due anni); più della seconda guerra mondiale (quattro anni scarsi); più della guerra di Corea (tre anni). Solo la guerra in Vietnam è durata di più: almeno undici anni. Eppure quest'anniversario iracheno è ricordato in sordina, con disagio, lo stesso con cui vengono compianti i soldati morti: ormai 3.990, ottocento all'anno. È incredibile: questo paese che si gonfia di patriottismo ad ogni piè sospinto e si ammanta della bandiera a stelle e strisce in ogni occasione, evita invece a ogni costo di celebrare l'eroismo dei propri caduti, anzi li nasconde alla vista come fanno i camerieri pigri che scopando nascondono sotto il tappeto la sporcizia raccolta. È un paese che si era stranito perché qualcuno aveva osato filmare il rientro delle bare dei caduti, con un'indignazione superiore a quella dispiegata per le foto delle torture e umiliazioni di Abu Ghraib. Se non fosse tragica, sarebbe quasi comica la petulanza con cui viene evocato il costo della guerra.

Il Wall Street Journal si lamenta invece dei soldi spesi male, dei miliardi di dollari buttati dalla finestra, a forza di grafici che mostrano come in Iraq indicatori base quali la produzione di petrolio e l'erogazione di corrente elettrica non siano affatto migliorati dal 2004 a oggi. A dimostrazione che - eccettuata una pur nutrita minoranza di pacifisti convinti che discutono le ragioni stesse della guerra - la gran maggioranza degli statunitensi è invece contraria all'Iraq soprattutto perché considera che sia una guerra persa, o che - perlomeno - non si capisce in che cosa consista vincerla. Da qui l'insistenza con cui quasi tutti i mass media in questo quinto anniversario si concentrano sul « Surge », cioè sull'afflusso di rinforzi decretato dal presidente George Bush subito dopo la sconfitta elettorale del 2006, e sulla strategia adottata dal nuovo comandante sul campo, David Petraeus. Perché il Surge offre almeno una parvenza di vittoria: mentre dal dicembre 2006 all'agosto 2007 il numero di soldati americani uccisi ogni mese non era mai sceso sotto gli 85, con punte di 117, 131 e 108 in aprile, maggio e giugno, da agosto invece il declino è stato impressionante: 69 caduti a settembre, 40 a ottobre, 24 a dicembre, 30 a febbraio. Si è passati da una media di 3 morti al giorno a un morto al giorno. Ma questo calo è dovuto non tanto ai rinforzi militari quanto all'idea di Petraeus di comprare i capoclan sunniti: certo, qui si usano termini meno crudi per descrivere la strategia di Petraeus, ma la sostanza è quella: bustarelle, mazzette in tutte le varie forme, dal contante ai beni materiali, alle infrastrutture costruite dai soldati.

In questo anniversario sono due però i temi di cui risalta l'assenza. In primo luogo un bilancio diplomatico e geopolitico della guerra: l'isolamento internazionale, la solitudine militare, l'allontanamento di alleati storici come la Turchia. Ma soprattutto, quel che colpisce è il fragoroso silenzio sulle centinaia di migliaia di civili iracheni morti. Senza che nessuno si chieda il perché di questo massacro. Per quale causa, a quale scopo. Magari se lo chiederanno tra cinque anni, quando sarà celebrato il decimo anniversario della guerra irachena, visto che se alla presidenza andrà John McCain, la forza d'occupazione Usa sarà ulteriormente rinforzata, mentre - se vincono o Hillary Clinton o Barack Obama - il promesso ritiro delle truppe lascerà comunque un contingente sul posto: tutti escludono un ritiro totale.


Come punire quelle torture
Antonio Cassese su
la Repubblica

Quel che è avvenuto a Bolzaneto nel 2001 è la violazione simultanea e flagrante di tre importanti trattati internazionali che l´Italia aveva contribuito ad elaborare e si era solennemente impegnata a rispettare: la Convenzione europea dei diritti dell´uomo del 1950, il Patto dell´Onu sui diritti civili e politici del 1966, e la Convenzione dell´Onu contro la tortura del 1984. A Bolzaneto sono stati inflitti trattamenti disumani e degradanti ma, in più casi, anche vere e proprie torture.
I trattamenti disumani e degradanti, vietati dalla Convenzione europea, sono quelli che causano sofferenze fisiche o mentali ingiustificate e umiliano e abbrutiscono una persona. Ad esempio, la Corte europea vietò all´Inghilterra di infliggere come pena la fustigazione di minorenni condannati; condannò la Turchia perché due ufficiali avevano commesso atti di violenza carnale nella zona nord di Cipro senza essere puniti; censurò la Lettonia per aver detenuto in un carcere carente di strutture adeguate un condannato paraplegico e non autosufficiente, causandogli 'sentimenti costanti di angoscia, inferiorità ed umiliazione´.

Quando si ha invece tortura? Quando i maltrattamenti o le umiliazioni causano gravi sofferenze fisiche o mentali, ed inoltre la violenza è intenzionale: si compiono volontariamente contro una persona atti diretti non solo a ferirla nel corpo o nell´anima, ma anche ad offenderne gravemente la dignità umana; e ciò allo scopo di estorcere informazioni o confessioni, o anche di intimidire, discriminare o umiliare. "Datemi un pezzettino di pelle e ci ficcherò dentro l´inferno", è quel che un grande scrittore americano fa dire ad un aguzzino. La tortura è proprio ciò: l´inferno nel corpo o nell´anima. È tortura l´uso di elettrodi su parti delicate del corpo, il fatto di provocare un quasi-soffocamento (infilando un sacchetto di plastica sul capo), o quasi-annegamento (si tiene una persona a testa in giù, inondandole di acqua la bocca e il naso, così da darle la sensazione di annegamento),

A Bolzaneto quasi tutti i 200 e passa arrestati vennero sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, come risulta dagli atti dei pubblici ministeri, riassunti nell´incisivo reportage di D´Avanzo pubblicato su questo giornale. Ma in più di un caso si andò oltre e si trattò di vera e propria tortura. Ad esempio, nel caso di A.D. che – cito D´Avanzo – «arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella 'posizione della ballerina´ [in punta di piedi]. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole, lo minacciano di 'rompergli anche l´altro piede´. Poi gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano 'Comunista di merda´». Penso anche al caso di G.A., arrivato ferito a Bolzaneto: «Un poliziotto gli prende la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due 'fino all´osso´. G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G.A. ha molto dolore. Chiede 'qualcosa´ Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare». Questi fatti, se confermati dai giudici, costituiscono tortura. Così come si arriva alla soglia della tortura in altri casi apparentemente meno gravi, ma in cui l´effetto cumulativo di più comportamenti (insulti, pestaggi ripetuti, umiliazioni soprattutto nei confronti delle donne, spesso lasciate nude agli sghignazzamenti e agli scherni dei poliziotti), è tale da causare gravi sofferenze mentali (spesso anche fisiche).
Orbene, di fronte a questi fatti cosa si può fare in Italia? Visto che siamo legati da importanti trattati internazionali, se i giudici non infliggeranno adeguate punizioni e significativi risarcimenti, si potrà fare ricorso alla Corte Europea. Ma non basta. La Corte di Strasburgo potrà tutt´al più accertare la violazione della Convenzione europea da parte dell´Italia e condannare il nostro Governo a risarcire i danni materiali e materiali. Più significativo sarebbe che i nostri giudici potessero condannare per tortura coloro che fossero ritenuti colpevoli di tali atti. Ma è impossibile: come è noto, anche se la Convenzione dell´Onu del 1984 ne impone l´emanazione, una legge che vieti specificamente la tortura manca ancora in Italia – benché ben 20 progetti di legge siano stati presentati in Parlamento dal 1996.
Come mai? In genere in Italia tardiamo ad attuare trattati internazionali, per insipienza, lentezze burocratiche, ottuse resistenze della pubblica amministrazione. Nel caso della tortura è lecito però sospettare che la mancanza di una legge sia dovuta anche ad una precisa volontà politica di certi partiti: la volontà di non consentire che i colpevoli dei fatti di Bolzaneto venissero puniti adeguatamente. È significativo che nella penultima legislatura (2001-2006), quando sembrava di essere in dirittura di arrivo, all´improvviso la Camera approvò a maggioranza, in plenaria, un emendamento della Lega che richiedeva per la tortura la sussistenza di "reiterate violenze o reiterate minacce" (non basterebbe torturare solo una volta, bisognerebbe torturare la stessa persona ieri, oggi e domani, per essere puniti!). Anche se successivamente si tornò al testo originario, la legislatura si chiuse senza alcuna legge, così come è avvenuto nel 2006-2008.
Se i giudici confermeranno la ricostruzione dei fatti e le tesi dei pubblici ministeri, si avranno due conseguenze, già sottolineate da altri: taluni fatti non verranno chiamati per nome e cognome (tortura), ma con termini generici, inadatti a rifletterne la gravità, come «abuso di ufficio» e «violenza privata»; e i reati cadranno presto in prescrizione.

E non si tema di continuare a protestare: il giorno in cui smettiamo di indignarci per fatti come quelli di Bolzaneto, la democrazia è morta in Italia.


L´età, il tallone del Cavaliere
Curzio Maltese su
la Repubblica

La speranza di assistere per una volta nella vita a una campagna elettorale civile, già ridotta in partenza dal pessimismo della ragione, sta franando giorno dopo giorno. L´ultima trovata del centrodestra è di mettere sotto accusa il candidato Walter Veltroni per la pensione che percepisce in qualità di ex membro del parlamento europeo.
Gianfranco Fini, che se ne intende, è andato in tv a dire che il capo del Pd ha «una bella faccia tosta a parlare di ridurre i costi della politica, quando a 52 anni percepisce cinque mila euro di pensione da parlamentare europeo». Il leader di An ha sorvolato, come capita, sulla trave nel proprio occhio, visto che per anni ha ricevuto il doppio. La segreteria del Pd ha risposto che Veltroni ha deciso da tempo di destinare la somma per opere benefiche e ha chiesto a Fini se per caso facesse altrettanto. La mancata risposta di Fini avrebbe chiuso la questione, forse non prioritaria fra le emergenze nazionali. Ma Berlusconi, in crisi di astinenza da risse, è saltato sulla polemica, lanciando la parola d´ordine del «Veltroni pensionato».
Ci vorrebbe molto spazio, tempo e voglia, per elencare qui l´incredibile numero di privilegi economici conquistati dalla casta politica durante gli ultimi cinque anni del governo Berlusconi. Per brevità e stanchezza, si può rimandare il lettore alle note inchieste di Stella-Rizzo («La casta») e Salvi-Villone («Il costo della democrazia») . E magari i moralisti del centrodestra si fossero limitati allora a moltiplicare prebende, consulenti, portaborse e auto blu. Il guaio è che, dovendo risolvere molti problemi con la giustizia, si sono adoperati anche a sfasciare la macchina dei processi. Ma il punto, ormai, è un altro.
Berlusconi dà del «pensionato» all´avversario di vent´anni più giovane perché si sente vecchio. Non vi sarebbe nulla di male: è vecchio. Non tanto come uomo, quanto da politico. Quando Berlusconi è andato per la prima volta a Palazzo Chigi la scena politica europea era dominata da personaggi come Helmut Kohl, Francois Mitterrand o Felipe Gonzales che i ventenni di oggi distinguono a malapena da Adenauer o De Gasperi. A settantadue anni invece il nostro rincorre per la quinta elezione la poltrona di premier. E´ un record forse mondiale, ma non del genere più invidiabile. A quella età e con quella anzianità politica, i coetanei di Berlusconi si sono già da anni ritirati in un ruolo di padri della patria. Aspirano insomma alla storia e non alla battaglia quotidiana. Oppure hanno cambiato mestiere o si sono messi sul serio a fare i nonni. Il suo rivale di sempre, Romano Prodi, pure di due anni più giovane, l´ha appena annunciato. In ogni caso, l´ultima ipotesi che verrebbe in mente a loro è di rimettersi il sorriso a trentadue denti, dipingersi di cerone e ricominciare a battere i salotti televisivi alla caccia dell´ultimo voto, ricorrendo a qualsiasi stratagemma, pettegolezzo, colpo basso. Perché c´è un tempo per tutto, come dice la Bibbia. E il tempo del berlusconismo che ha segnato la seconda repubblica è finito.



Se il Cavaliere si arricchisce
Roberto Cotroneo su
l'Unità

E poi dicono che siamo un paese normale. Un paese dove la politica è vicina al cittadino. Dove le possibilità di partenza sono uguali per tutti, un paese uguale a tutti gli altri del mondo occidentale. Ieri le agenzie hanno diffuso i dati dei redditi dei politici italiani del 2006. E naturalmente il più ricco di tutti è Silvio Berlusconi. Fin qui la notizia non c'è, e nessuno si sogna di mettere in discussione le capacità manageriali e i redditi del leader dell'opposizione.

Quello che però appare abnorme è un'altra cosa. Ovvero il livello di disparità che c'è tra Berlusconi e tutti gli altri.

Ora, dai dati diffusi, Berlusconi ha dichiarato nel 2006: 139.245.570 euro. Ovvero qualcosa come 280 miliardi delle vecchie lire. Il secondo più ricco, dietro di lui, è Daniela Santanché che ha dichiarato 237.665 mila euro. Poi seguono tutti gli altri. Romano Prodi ad esempio è solo a 217.221. Fini a 147.814. Se sommiamo i redditi di tutti i leader di partito, arriviamo a due milioni 670 mila euro. Romano Prodi per dichiarare un reddito come quello di Berlusconi dovrebbe moltiplicare per 640 il suo reddito attuale. Se volesse farlo Piero Fassino, il coefficiente di moltiplicazione sarebbe 1120. Credo che tutti i redditi dei deputati e senatori più i redditi dei membri del governo non superino il reddito singolo di Silvio Berlusconi.

Ora, questa cifra dimostra che Berlusconi è un imprenditore che sa fare i suoi affari, ma dimostra anche un'anomalia politica grave. E seria. C'è troppo sbilanciamento, troppa ricchezza, troppa disparità. Sono cose che quando accadono spiegano molto bene perché Berlusconi sia anche politicamente un uomo così potente. Perché la politica in questo modo diventa soprattutto denaro e potere del denaro; perché Berlusconi, con questa posizione economica siderale rispetto agli altri può permettersi quasi tutto. Nessuno dice che un uomo molto ricco non può scendere in politica o non può candidarsi alla guida di un paese, ma c'è da chiedersi però una cosa, forse la più interessante di tutti. Il reddito di Berlusconi del 2006 è di 140 milioni di euro. Nel 2005, ovvero soltanto un anno fa, aveva dichiarato "solo" 28.033.122 di euro. In un anno soltanto Silvio Berlusconi ha quintuplicato i suoi redditi. Cosa è successo? Non c'era una crisi del paese terribile? Prodi non ci aveva messo in ginocchio? Non è lo slogan del centro destra che dice: "la sinistra ha messo il paese in ginocchio. Rialzati?". Certo che lo è. E allora la domanda è davvero seria: come ha fatto Berlusconi a moltiplicare per cinque un reddito che era già di 60 miliardi delle vecchie lire l'anno? Il potere forse negli affari aiuta, e il forse è solo ironico. Il paese starà come dice Berlusconi, in ginocchio, ma a giudicare dai suoi redditi non è del tutto vero.



Occupazione: +1% nel 2007.
Il Tasso disoccupazione al 6,1%, ai minimi dal 1993
su
Il Sole 24 Ore

L'occupazione è cresciuta dell'1% medio nel 2007 contro l'1,9% del 2006, 234 mila unità in più, la crescita dell'occupazione straniera è stata di 154 mila unità. Il tasso di disoccupazione è sceso al 6,1%, il minimo dall'inizio della serie storica nel 1993. Anche il tasso di occupazione è salito a livelli record, toccando il 58,7%, il più alto dal 1993. Lo comunica Istat. L'offerta di lavoro, nel 2007, è aumentata dello 0,3%, 66 mila unità in più rispetto al 2006. L'incremento ha riguardato sia maschi (+0,3%, 39 mila unità) sia femmine (+0,3%, 27 mila unità). Il tasso di attività 15-64 anni è risultato pari al 62,5%, due decimi di punto in meno rispetto al 2006, con una lieve crescita al Nord (+0,2%) e un calo al Centro e soprattutto nel Mezzogiorno (rispettivamente -0,2 e -0,8%). Tra gli stranieri l'aumento è stato di 87 mila uomini e 67 mila donne. L'occupazione totale è cresciuta dell'1% nel Nord (+118 mila unità, di cui 82 mila stranieri) e del 2,5% nel Centro (+116 mila unità, di cui 54 mila stranieri); nel Mezzogiorno è rimasta stabile, nonostante il moderato incremento degli stranieri (17 mila unità); sempre al Sud, la componente femminile ha registrato un lieve aumento (+0,1%, duemila unità), quella maschile è diminuita (-0,1%, -tremila unità). Il tasso di occupazione è salito leggermente al Nord e al Centro, è calato nel Mezzogiorno; per gli stranieri è al 67,1% (-0,2 punti percentuali).



Nel buio di Bagdad cinque anni dopo
Francesca Caferri ("embedded" con la terza divisione di fanteria dell´esercito statunitense)
su
la Repubblica

BAGDAD Neanche di notte Bagdad sembra una città normale. Spente le insegne, svuotate le strade, pochi soldati rimasti a pattugliare i check point, sono le luci a raccontare la storia della capitale irachena. In molte zone quasi non si vedono: la notte è buia come quelle africane. In altre il rumore delle migliaia di generatori è un sottofondo costante, piccolo scotto da pagare, per chi se lo può permettere, per avere radio e televisione accesa. La luce, quella per tutti, a Bagdad manca dal 20 marzo del 2003, quando i primi missili americani cominciarono a colpire la città, segnando l´inizio della guerra. Oggi l´unico punto dove l´elettricità non manca mai è la Zona Verde, che con le ambasciate, la sede del governo e il parlamento illuminati a giorno 24 ore su 24, ricorda a tutti dove sta il potere in Iraq. Sono passati cinque anni esatti dalla notte in cui quel primo missile colpì Bagdad e l´incubo, per l´Iraq, è tutt´altro che finito. A capirlo ci vuole poco. Nelle vie della capitale, come nel resto del paese, i soldati americani si spostano armati fino ai denti anche per tragitti minimi. I convogli delle compagnie private di sicurezza percorrono le strade a tutta velocità, spesso con le armi che vengono fuori dai finestrini: la gente appena li vede arrivare accosta per non essere travolta.
Ovunque si sentono lamentele per la mancanza di personale specializzato in scuole e ospedali: chi ha potuto è fuggito all´estero. «È andata così, questa è la nostra storia. Non ci piace, ma ci è toccata in sorte e non possiamo cambiarla», dice lo sceicco Naana Abaad Karqaz quando gli si chiede cosa pensi della ricorrenza di oggi: 38 anni, statura imponente, occhi chiari, quest´uomo non fa nulla per nascondere la perplessità nei confronti dell´intervento di cinque anni fa. Eppure sono persone come lui a rendere l´anniversario meno amaro per le migliaia - più di 160mila - di soldati americani ancora in Iraq.
Karqaz è il capo del villaggio di Manari, nella provincia di Arab Jabour, una sessantina di chilometri a sud di Bagdad. Per lui oggi è una giornata speciale: dopo settimane di incontri, richieste, promesse e giuramenti è arrivato il momento di ufficializzare la collaborazione del suo villaggio con gli americani. Karqaz ha accompagnato di fronte ai soldati gli uomini della sua zona in cerca di lavoro, garantendo per loro: fra di essi verranno selezionati coloro che entreranno a far parte dei gruppi della Sahwa, il Risveglio, le milizie sunnite finanziate dagli americani e dal governo iracheno per combattere coloro che, a colpi di bombe, continuano a insanguinare l´Iraq. E su gruppi come questi che si è basata la strategia di David Petraeus, comandante americano nel paese, per vincere una guerra durata troppo a lungo: spezzare l´alleanza fra i sunniti ed Al Qaeda, portare i primi dalla parte degli Usa a colpi di dollari è stata - insieme alla decisione di Bush di aumentare i soldati in Iraq e alla tregua dichiarata dagli sciiti di Moqtada al Sadr - l´intuizione che ha consentito a Petraeus di far diminuire la violenza in Iraq e di guadagnarsi la fama di uomo della svolta.
Una fama, dicono molti, che presto potrebbe portarlo a Washington. Per aderire al progetto della Sahwa a Manari sono arrivati in 300, dai 15 ai 45 anni: per ore se sono rimasti seduti nel cortile di una casa in attesa di essere intervistati e di vedersi registrare le impronte delle mani e della retina. «Vogliamo collaborare con gli americani per portare sicurezza nella nostra zona - dice Karqaz - solo così poi riapriranno le scuole, ci sarà lavoro e riusciremo a ripartire». Sulla violenza che per anni ha insanguinato la sua zona e sulla possibilità che fra gli uomini seduti fuori ci siano i responsabili di attacchi contro americani e stranieri, lo sceicco glissa: «Non siamo stati noi. Erano stranieri. Non potevamo fermarli perché ci avrebbero ucciso», dice. Ma probabilmente sa di mentire: a fine giornata due degli uomini del cortile verranno portati via in manette, perché ricercati per un attentato che ha ucciso militari iracheni.
«Sappiamo bene che stiamo collaborando con persone che fino a qualche mese fa ci combattevano - spiega il colonnello Lillibridge, comandante terzo battaglione della 101sima divisione, stanziato nella zona di Manari - ma oggi non abbiamo scelta, né noi né loro».
A giudicare dalla zona intorno a Manari, nonostante i tanti problemi ancora presenti, la scommessa sta funzionando: i check point degli uomini della Sahwa hanno fatto diminuire le esplosioni di mine artigianali, a lungo l´arma più mortale della rivolta contro gli americani, da pochi giorni una cisterna ha sostituito il canale come fonte principale di acqua potabile per la gente del villaggio e sono arrivati i finanziamenti per rimettere su la scuola del villaggio, chiusa da anni. La stessa cosa, lentamente, sta accadendo in molte zone del paese: nella provincia di Anbar, una volta una delle zone più sanguinose dell´Iraq, nel nord, e a Bagdad, dove gli investimenti americani, in termini di soldi e di uomini, sono stati maggiori. «È un processo lento, ma sta funzionando», sostiene il colonello Lillibridge.

Tutti qui sanno che se le violenze sono diminuite è anche perché il paese è ormai rigidamente diviso in zone sciite, sunnite e curde: le occasioni di incontro, e di scontro, fra i gruppi diversi sono calate in modo drastico per effetto della pulizia etnica degli ultimi anni che ha spinto le famiglie a rifugiarsi vicino a quelle della stessa religione o etnia. Questo è evidente soprattutto a Bagdad, dove la gente parla con nostalgia della vecchia città aperta e cosmopolita uccisa da Saddam prima e dalla guerra poi. Oggi, fra i giovani soprattutto, non resta che diffidenza e voglia di fuga.



Cofferati elogia Marco Biagi: modernizzatore
sommari del
Corriere della Sera

BOLOGNA — «Colpendo Biagi, si è cercato di interrompere quel processo di modernizzazione e di valorizzazione dei rapporti sui quali lui aveva impegnato gran parte della sua attività». Sergio Cofferati, sindaco di Bologna, sottolinea la parola «modernizzazione» ricordando il giuslavorista nel sesto anniversario dell'assassinio. Pesano le polemiche dell'allora segretario Cgil con le proposte del «libro bianco» di Biagi. Cofferati sminuisce, ma gli amici di Biagi pensano che sia un passo importante.


La Fed e la crisi, il capitalismo responsabile
Francesco Giavazzi sul
Corriere della Sera

Per quindici anni, dal 1992 al 2006, l'economia del mondo è cresciuta soprattutto grazie alla domanda che proveniva dagli Stati Uniti. I 18 milioni di nuovi posti di lavoro che l'Europa ha creato fra la metà degli anni Novanta e oggi sarebbero stati molti meno se gli Usa non fossero cresciuti a un ritmo tanto veloce. In questi anni gli Stati Uniti hanno importato di tutto, non solo beni e servizi ma anche persone: sedici milioni di nuovi immigrati ufficiali e nessuno sa quanti clandestini.

Quando ci lamentiamo per gli effetti che la crisi americana ha sulla nostra crescita e sui nostri risparmi non dovremmo scordare i benefici di cui abbiamo goduto. E tuttavia, per crescere tanto più rapidamente del resto del mondo, gli Stati Uniti hanno accumulato ampi squilibri: la crisi di questi mesi è il modo violento in cui essi oggi stanno rientrando.
Il primo è l'enorme differenza fra il volume di importazioni e di esportazioni, che ha fatto crescere rapidamente il debito estero americano. Oggi questo squilibrio si sta riassorbendo grazie alla caduta del dollaro. La debolezza della moneta americana non è l'effetto delle turbolenze finanziarie di questi mesi: per riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti Usa il dollaro dovrà rimanere debole a lungo (fortunatamente le nostre imprese più accorte lo hanno capito da tempo e si sono attrezzate, spostando gli acquisti verso l'area del dollaro e le vendite verso Europa, Cina, India e Brasile). L'unica cosa che l'Europa può fare è rimuovere gli ostacoli alla crescita che limitano consumi e investimenti: più crescita in Europa accelera la correzione del deficit americano e significa meno anni di dollaro debole.
Il secondo squilibrio è il prezzo delle case che dal 2001 a oggi, negli Stati Uniti, come in Gran Bretagna, Spagna e Irlanda, è stato trainato da una vera e propria bolla speculativa. Sull'onda dell'aumento del valore della loro casa molte famiglie americane si sono indebitate e hanno aumentato i consumi.

Oggi la discesa del prezzo delle case mette in difficoltà quelle famiglie e chi ha prestato loro denaro. Il problema è serio, ma limitato. Nel bilancio di Bear Stearns c'erano 33 miliardi di mutui, ma solo 2 miliardi di mutui subprime . Un'ulteriore caduta del 20% del prezzo delle case (finora i prezzi sono scesi del 10% circa) metterebbe a rischio altri 10 miliardi di quei mutui: cifre sempre limitate considerando la dimensione del bilancio di Bear Stearns. E allora perché domenica la banca è arrivata sull'orlo del fallimento? Non perché fosse insolvente, ma perché era diventata illiquida.
Aveva urgentemente bisogno di liquidità ma nessuno era disposto ad acquistare i suoi mutui, neppure quelli a basso rischio, neppure a prezzi di svendita.

Se la Fed ha compiuto un errore è aver atteso troppo a lungo, in questo ripetendo l'errore compiuto in settembre dalla Banca d'Inghilterra. Ma la cautela della Fed ha una spiegazione istituzionale. Negli Stati Uniti vige dal 1934 una separazione netta tra banche commerciali e banche di investimento. La Fed può prestare denaro alle banche commerciali, non alle banche di investimento: in cambio esse non sono sottoposte alla sua vigilanza. E' anche per questo motivo che la Fed è intervenuta attraverso una banca commerciale, Jp Morgan. Da domenica quella separazione è di fatto sparita e le nuove regole pubblicate dalla Federal Reserve di New York (pur lasciando ancora ampie zone di incertezza che dovranno essere chiarite) aprono la strada al superamento della crisi.
Il modello europeo della banca «universale» non distingue fra banche commerciali e di investimento e quindi è più pronto a garantire liquidità: questo forse spiega perché nell'area dell'euro non vi siano stati finora casi altrettanto critici.
Salvando Bear Stearns attraverso Jp Morgan (e azzerando la ricchezza degli azionisti della banca, a cominciare dai dipendenti e dai manager, il che dimostra che i loro tanto criticati compensi non sono sempre al sicuro) la Fed ha fatto un grande regalo agli azionisti di Jp Morgan, il cui prezzo in Borsa è salito in due giorni del 20%. A Londra in settembre, Gordon Brown, di fronte a una scelta analoga, decise di nazionalizzare Northern Rock: «Se lo Stato si assume un rischio deve anche godere dei potenziali vantaggi». La nazionalizzazione di Bear Stearns era una delle opzioni sul tavolo domenica sera a Washington, ma l'amministrazione Bush l'ha subito bocciata. E' interessante chiedersi se un presidente democratico avrebbe deciso diversamente.



  20 marzo 2008