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a cura di Fr.I. - 18 marzo 2008


il Manifesto
apertura de
il Manifesto

Più di 300 miliardi di euro bruciati in una giornata. È il lunedì nero delle borse europee, su cui si abbatte la crisi americana. Che la Fed cerca di arginare tagliando i tassi. Inutilmente. Wall Street cede. In picchiata anche Alitalia: crolla il titolo, i sindacati protestano per i tagli, la Ue intima «niente aiuti di stato»


Il vecchio manuale dei banchieri centrali
Mario Deaglio su
La Stampa


La Bear Stearns non era solo una grande banca, con ottant'anni di attività. Era un «salotto buono» che faceva da intermediario ai grandi affari, un attento amministratore di grandi e medi patrimoni, uno dei «motori» che con discrezione aveva assistito la grande espansione del capitalismo americano negli anni Novanta. Gestiva fondi per 385 miliardi, più di un quarto del pil italiano; un anno fa, il suo titolo valeva circa 150 dollari, e la sua capitalizzazione di Borsa era valutata a 17 miliardi di dollari, quanto una media manovra finanziaria italiana; nella notte di lunedì è stata venduta in fretta e furia al prezzo di due dollari per azione, ossia per un valore totale di meno di 300 milioni di dollari e anche a questo prezzo, quasi ingiurioso oltre che stracciato, ha trovato un compratore solo con l'aiuto finanziario della banca centrale americana, la mitica Fed.

Grande fautrice del vangelo del mercato, la Fed ha dovuto gettare alle ortiche la sua fede ed è intervenuta pesantemente e goffamente. Oltre a «salvare» la Bear Stearns, ha ancora una volta abbassato il costo del denaro, il che, come le volte precedenti, non è servito a ridare fiducia ma anzi ha aumentato l'ansia e la preoccupazione dei mercati di tutto il mondo sulla tenuta dell'economia americana.

Un disastro, insomma, dal quale occorre trarre molti insegnamenti. Il primo è che gli Stati Uniti sembrano vivere in una sorta di second life, un mondo di fantasia: si credono ancora finanziariamente molto forti e sembra che non si accorgano che la loro moneta, pur essendo ancora la più importante del pianeta, si sta riducendo a rottame. Si considerano amministratori dell'ordine monetario internazionale per conto dell'intera economia mondiale e pensano di poter decidere in assoluta solitudine, senza rendere contro a nessuno; e il mattino dopo si vedono costretti a render conto al mercato che ritenevano essere il loro migliore alleato. Questo stato di cose deve finire: le grandi decisioni di governo della liquidità mondiale non possono, in questo frangente, essere prese da un paese solo all'insaputa o quasi degli altri. Andrebbero concertate, magari con la creazione di un apposito organo.

Il secondo insegnamento è che il sistema americano dei controlli sul mercato finanziario è del tutto inadeguato. Se una grande banca si dissolve in una notte è legittimo, anche da parte dei non americani, domandarsi dove mai erano i controllori e perché non hanno registrato ben prima i segnali di sofferenza e non sono intervenuti prima che la sofferenza arrivasse a livelli insostenibili. Il resto del mondo ha un buon diritto a chiedere agli Stati Uniti maggiore severità e maggiore competenza in questo genere di controlli.

Terzo insegnamento: c'è qualcosa di profondamente sbagliato nel funzionamento del mercato finanziario mondiale. Bear Stearns non sembra aver compiuto clamorose violazioni o falsificazioni; come nel caso di un altro pericoloso fallimento, quello dell'inglese Northern Rock, la banca ha semplicemente finanziato con denaro a breve scadenza degli investimenti a lunga scadenza, nella convinzione che il denaro a breve scadenza avrebbe sempre continuato ad arrivare. La mancanza di fiducia delle banche tra loro le ha, per così dire, tagliato l'ossigeno; ma quante potenziali Bear Stearns ci sono oggi nel mondo? Il mercato si è posto questa domanda e non fa meraviglia che ieri abbia venduto a piene mani i titoli bancari.

Gli operatori italiani dovrebbero essere confortati dalla severità dei controlli della Banca d'Italia e, alla recente riunione dei ministri finanziari del G-7, Italia, Spagna e Giappone sono stati indicati come i paesi le cui istituzioni finanziarie risultano meglio protette dalla prospettiva di crisi. Il che non ha impedito una reazione istintiva alla vendita; ma è probabile e auspicabile che, nel breve periodo, l'istinto ceda alla ragione.



Le violenze impunite del lager Bolzaneto  
Genova: senza il reato di tortura, pene lievi e prescritte per gli imputati
Giuseppe D´Avanzo su
la Repubblica

C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell´amministrazione penitenziaria.

Due anni di processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.
Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

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Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»

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Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto…». A un´altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

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È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa». La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.
Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.
A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria».

* * *

Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?


Lo stato colpevole
Valerio Onida su
la Repubblica

La vicenda del processo penale a carico di agenti delle forze dell´ordine per i maltrattamenti e le vessazioni inflitte, in occasione del G8 di Genova del 2001, ai manifestanti arrestati e portati nella caserma di Bolzaneto merita un rilievo certo maggiore di quello spesso dedicato dai mezzi di comunicazione ai delitti che "appassionano" il pubblico. L´ampia inchiesta di Giuseppe D´Avanzo pubblicata ieri da questo giornale ha il merito di avere richiamato l´attenzione sui fatti. Sono state contestate – non da qualche gruppo no global, ma dai pubblici ministeri del processo – accuse relative ad atti di violenza fisica e morale (fra l´altro, tecniche di interrogatorio che la Corte europea dei diritti dell´uomo giudica "trattamenti inumani") e condotte dirette a umiliare le persone fermate. Si è notato anche che, non essendo ancora stata varata una legge specifica contro la tortura, le ipotesi di reato a carico degli imputati sono "minori" e quindi vi è l´alta probabilità, se non la certezza, che fra un anno scatti la prescrizione, che impedirebbe alle eventuali condanne di diventare definitive.
Il processo non è finito. Devono ancora parlare le difese (ma si è letto che esse non avrebbero messo in dubbio l´attendibilità dei numerosi testimoni; un difensore avrebbe lamentato che "sono state negate le attenuanti", e se si parla di attenuanti vuol dire che i reati sono stati commessi). La verità processuale non si è ancora definitivamente formata. Ma ce n´è abbastanza per fare alcune considerazioni.
Primo. I fatti denunciati, se sono veri, sono di una gravità inaudita per modalità ed estensione. Non si è trattato di singoli episodi isolati, ma di atti (riferiti in modo circostanziato) reiterati, compiuti da parte di molti agenti (44 imputati) e a danno di molte persone, tanto da far dire ai pubblici ministeri che in quella caserma di Bolzaneto per tre giorni "sono stati sospesi i diritti umani". Se non sono gruppi di fuorilegge, ma gli stessi "tutori della legge", ad abbandonarsi a simili comportamenti, ne viene ferita, e gravemente, la credibilità delle istituzioni, dello Stato. Non c´è attenuante di "provocazione", o scusa derivante dalla tensione o dalla fatica di quei giorni, che tenga. Far violenza gratuita su persone inermi e arrestate, insultarle, umiliarle – anche se fossero state a loro volta colpevoli di reati – è qualcosa che non può mai essere ammesso né accettato. Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici nel perseguire gli interessi generali. La gravità di essi non deriva tanto dalle oggettive sofferenze inflitte, quanto dal fatto che ad agire così erano rappresentanti dello Stato.
Non ci sarà ancora la legge che punisce espressamente la tortura, ma nel nostro ordinamento, vivaddio, i comportamenti contestati agli agenti sono illeciti e punibili, eccome. L´articolo 13 della Costituzione afferma che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Non "può essere", ma "è" punita: tanto che i giuristi ritengono che questa sia forse l´unica norma della Costituzione dalla quale si ricava un vero e proprio obbligo di irrogare sanzioni penali, che di solito discendono solo da una discrezionale valutazione del legislatore, e costituiscono una extrema ratio per la difesa delle persone e della società.
Secondo. Se la prescrizione impedirà alle eventuali condanne di diventare definitive, sarà ancora una volta scandalosamente evidente l´inadeguatezza del nostro sistema normativo e soprattutto processuale e giudiziario (si ricordi che alla fine della scorsa legislatura la improvvida legge detta "ex Cirielli" ha sancito una abbreviazione dei tempi di prescrizione per molti reati). Allo scandalo di uno Stato violento si aggiungerebbe quello di uno Stato incapace di sanzionare comportamenti di questa gravità tenuti da coloro che operano in nome dello Stato stesso. Del tema dovrebbero occuparsi, e presto, i nostri esponenti politici che in questi giorni chiedono il consenso degli elettori.
Terzo. Anche se dovesse scattare la tagliola della prescrizione per i reati, non sarebbe però finito tutto lì. Anzitutto è verosimile e auspicabile che azioni civili di danno vengano intentate o proseguite dalle vittime non tanto verso i singoli agenti, ma verso lo Stato: e in quella sede, una volta accertati i fatti, dovrebbero essere riconosciuti risarcimenti significativi ed esemplari, a ristoro non tanto dei danni materiali, ma soprattutto di quelli morali provocati dalle condotte illecite (anche se danneggiato "morale", paradossalmente, è pure lo Stato stesso). Inoltre si dovrebbero intraprendere azioni davanti alla Corte europea dei diritti dell´uomo, la quale, se i fatti saranno accertati, non potrà non condannare l´Italia per violazione del divieto di "trattamenti inumani o degradanti" sancito dall´articolo 3 della convenzione.

Infine, un Governo degno di questo nome non potrebbe mantenere tranquillamente nei ranghi delle forze dell´ordine coloro che risulteranno aver commesso questi fatti, senza perdere ancora una volta di credibilità. Non basta una ventata di indignazione passeggera: occorre coerenza di comportamenti per il futuro. Allo Stato retto dalla Costituzione non si può non chiedere – anzi, si dovrebbe esigere più che chiedere – che esso tenga fede al primo e fondamentale obbligo morale e giuridico, il rispetto della persona, di ogni persona, titolare dei diritti inviolabili che la Repubblica "riconosce e garantisce".


Gravina: la procura non può ammettere che il padre sia innocente
Staino su
l'Unità
Staino sull'Unità


«Pizzo non ti Pago»: Palermo si ribella
sommari de
l'Unità

«È un segnale incoraggiante» spiega il questore di Palermo Giuseppe Caruso. Il segnale sta nel rifiuto sempre più ampio di commercianti e imprenditori palermitani a pagare il pizzo. I no detti ai boss mafiosi aumentano e aiutano le forze di polizia a prendere gli estorsori. Come è successo ieri a nel capoluogo siciliano dove la Questura su indicazione della Procura ha smantellato l'ufficio “riscossioni” del boss Lo Piccolo che nel suo libro paga contava più di 200 imprese taglieggiate. Venti le persone arrestate o raggiunte da notifica in carcere. Un estorsore è riuscito a fuggire.


Risparmio energetico:
l'Italia che innova da Nord a Sud con le luci a Led
A Scandiano è stato attivato un impianto di illuminazione ad alta potenza in grado di assicurare una drastica riduzione dei consumi
su
Il Sole 24 Ore

Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, e Torracca, nel salernitano: sono due piccoli centri abitati saliti alla ribalta nella puntata di "Report" andata in onda ieri sera su RaiTre. Il perché di questa vetrina mediatica è tutto in due parole: risparmio energetico. Anche in Italia (ed è bello rimarcare anche al Sud) vi sono esempi di lungimiranza e spirito di iniziativa verso una tematica al centro del dibattito globale e sono esempi di progetti che andando al di là delle solite "trappole" burocratiche tipiche dell'amministrazione made in Italy hanno già prodotto dei, sensibili, risultati.
A legare idealmente i due comuni è la tecnologia a led, la cui adozione, lo dice il dipartimento dell'energia degli Stati Uniti, porterebbe gli Usa a risparmiare 115 miliardi di dollari in 15 anni. Tecnologia utilizzata massicciamente a Tianjin, in Cina, dove sono stati installati 1500 lampioni a led, e che a Torracca ha trovato prima spazio su dieci lampade di una piazzetta e poi successivamente sull'intero impianto di pubblica illuminazione del paese, il primo al mondo a dotarsi quindi di questa fonte di energia alternativa. I numeri delle bollette, come ben evidenziato dalla nota trasmissione televisiva, testimoniano in modo esplicito l'efficacia del provvedimento: dagli 11.148 kilowatt (kilowattora NDR) consumati del novembre 2006 si è passati ai 5753 kilowatt (kilowattora NDR) dello scorso novembre. Il che significa un risparmio di circa il 60%. Un bel passo in avanti, corredato dal fatto che l'energia necessaria per illuminare il paese viene prodotta da tre impianti fotovoltaici che generano per le casse comunali un utile di circa 45-50.000 euro anno, premiato anche da Legambiente, che ha sottolineato l'importanza di un progetto in grado di generare energia elettrica da fonti rinnovabili e utilizzarla per un sistema di illuminazione (quello a lampade a led) assai più efficiente dei tradizionali lampioni al neon. Un progetto innovativo, questo un altro messaggio lanciato da "Report", resosi possibile grazie all'intraprendenza di una piccola azienda Srl locale (Elettronica Gelbison, che ha ben usato i fondi stanziati per il Meridione da Sviluppo Italia) e non certo per l'intervento diretto di chissà quale colosso internazionale o della Pa centrale. Così Torracca è finita con merito anche sulle colonne dell'Economist.
A Scandiano, invece, tutto nasce dall'opportunità di rivedere l'illuminazione dei lampioni posti sull'incrocio più trafficato del paese e la "rivoluzione" rivendicata dal comune emiliano è quella di aver fatto ricorso per primi in Europa a un impianto a tecnologia a Led ad alta potenza, utilizzando lampade da 180 Watt al posto di quelle ai vapori di sodio da 250 Watt. Il progetto di illuminazione eco-compatibile che promette una drastica riduzione dei consumi e dell'inquinamento luminoso è stato prima promosso e quindi portato fisicamente a termine da Careca Italia (in collaborazione con la taiwanese Fiti, Foxsemicon Integrated Technology,colosso mondiale nell'ambito dei semiconduttori), società che ha sede proprio a Scandiamo e opera in veste di distributore di prodotti tecnologici di vario genere e che in tema di "green" ha deciso di creare una divisione ad hoc, EcoNature, per dare ulteriore impulso alle attività di ricerca e distribuzione di prodotti ecosostenibili. L'utilizzo di lampade Led non è una primizia in Italia, vi sono infatti zone pubbliche (parchi, aree di sosta e centri di piccoli comuni ) illuminati con questi sistemi ma quella del comune Reggiano è un'anteprima assoluta per quanto riguarda l'impiego di soluzioni ad alta potenza per l'illuminazione stradale.
I vantaggi legati all'adozione del Led, nel caso di Scandiano, sono presto detti: otto lampade tradizionali sono state sostituite con sei impianti a Led e a parità di illuminazione prodotta il risparmio energetico è di circa il 50%. Rispetto ai comuni lampioni, inoltre, le lampade Led promettono - secondo i tecnici di Careca - una durata di gran lunga maggiore (superiore alle 50.000 ore, quindi, almeno 12 anni di utilizzo) sebbene la superficie illuminata sia maggiore e richiedono ridotti costi di manutenzione rispetto agli impianti tradizionali. Altri vantaggi evidenti agli occhi di tutti della tecnologia a Led riguardano quindi i tempi d'accensione, di fatto istantanea, e la totale assenza di sfarfallii del fascio luminoso, che spesso caratterizzano i tradizionali impianti d'illuminazione stradale.



Gb. E' allarme per il sesso online
Il 30% dei maschi si dichiara «sex-addict».
Sondaggio del «Sun»: un inglese su tre ha iniziato una relazione via web. E Second-life «rovina» le famiglie
Simona Marchetti sul
Corriere della Sera

LONDRA - Il sesso? Meglio online. Questo il risultato-choc di un sondaggio a cui hanno preso parte 4mila lettori del tabloid «Sun», chiamati a rispondere sugli usi e costumi della loro vita sessuale in questi tempi di Internet e affini. E proprio la rete è galeotta per un inglese su tre, che ha confessato di aver iniziato una relazione a sfondo sessuale grazie al web, mentre il 10% ha ammesso di essere andato a letto con almeno 11 partner incontrati online. Non solo. Un quarto degli intervistati ha pure confidato di usare internet alle spalle dei rispettivi compagni e addirittura l'80% non si è fatto problemi nel raccontare di visitare regolarmente siti pornografici, con le donne in leggera maggioranza per quanto riguarda il porno soft, mentre se parliamo di hardcore, qui i maschietti sono in netto vantaggio, con tre su quattro assolutamente «dipendenti» da questo tipo di visioni a luci rosse. Ovviamente, senza che in casa nessuno sospetti nulla, anche se un uomo su tre ammette di essere un «sex addict» (sesso-dipendente NDR) della rete, mentre se parliamo di under-19, il dato supera addirittura il 50%, con conseguente distruzione della vita sociale ed affettiva.
QUADRO ALLARMANTE - Insomma, per stessa ammissione del giornale londinese, il quadro che se ne ricava è decisamente allarmante, sebbene figlio dei tempi, visto che negli ultimi anni si è assistito ad un cambiamento radicale nel modo di condurre le relazioni, con i cellulari (leggi sms ed mms) e la rete che hanno sostituito le precedenti forme di comunicazione e permesso una maggiore spregiudicatezza, avallata anche dall'anonimato (almeno nel caso del web). «Si è trattato di un cambiamento sociale mai visto prima – si legge sul tabloid – per questo l'educazione sessuale dei giorni nostri deve includere necessariamente anche le regole per il sesso sicuro su internet e i consigli per aiutare quanti sono affetti da tale dipendenza a stare lontani dalle emozioni facili del web, per concentrarsi sulla vita reale, spostando l'attenzione sulle loro relazioni sentimentali»..
ACCUSE A SECOND-LIFE - A dimostrazione di quanto pericolosa possa essere la rete per la vita sessuale, il giornale pubblica la testimonianza di Catherine Shilton, una quarantasettenne di Wellingborough la cui vita familiare è stata completamente distrutta dalla scoperta che il compagno aveva una doppia vita su «Second Life». «Era ossessionato da una donna americana incontrata nel mondo virtuale e stava inchiodato al computer per ore. Hanno iniziato a fare “cyber-sex” e lui si vantava con lei di quanto bravo fosse a letto. Quattro mesi più tardi, ha prenotato un aereo per andarla a trovare. A quel punto, gli ho detto che era tutto finito.



  18 marzo 2008