prima pagina pagina precedente



sulla stampa
a cura di G.C. - 11 marzo 2008


La Spagna si fida, vince ancora Zapatero
Toni Fontana su
l'Unità

Ha vinto Zapatero, ha vinto la Spagna delle riforme e del cambiamento. Ha vinto la Spagna che non si piega al ricatto del terrore dell'Eta. La destra arroccata e aggressiva perde, ma non viene umiliata; la carriera di Mariano Rajoy, modesto e incolore successore di Aznar appare tuttavia giunta al termine e già, nel Pp, è iniziata la resa dei conti. Zapatero, secondo i dati diffusi ieri sera dalla vicepresidente del governo Maria Teresa Fernandez de la Vega e dal ministro dell'Interno Rubalcaba aumenta considerevolmente la rappresentanza parlamentare conquistando il 43,7% dei voti, ossia 169 seggi, 5 in più rispetto ai 164 della passata legislatura. I popolari vengono sonoramente sconfitti, ma con il 40,1%, aumentano a loro volta il numero dei deputati (da 148 a 153, 5 in più). Dal voto escono a pezzi alcuni tra i piccoli partiti ed in particolare la sinistra radicale (da 5 a 2 deputati) di Gaspar Llmazares che è apparso nella sala stampa di Izquieda Unita ammettendo "il cattivo risultato del quale - ha detto - mi assumo tutta la responsabilità". Llamazares ha puntato il dito contro il "bipartitismo".
Festa grande, lacrime e bandiere al vento invece in calle Ferraz. Davanti alla sede del Psoe si sono riuniti migliaia di militanti festanti che, fino a tarda notte, hanno cantato e chiamato Zapatero alla finestra. Il leader, sorridente, è apparso poco prima delle 23: "Isaias dovrebbe essere qui" ha detto leggendo i nomi delle vittime dell'Eta degli ultimi quattro anni. "Grazie - ha poi aggiunto - ai cittadini che hanno dato una vittoria chiara al partito socialista. La Spagna ha deciso di aprire una nuova tappa che non sarà fondata sulla contrapposizione, in quanto noi correggeremo gli errori e governeremo con il consenso sociale e la collaborazione. Governeremo per tutti, pensando prima principalmente a coloro che hanno di meno, governeremo pensando ai diritti delle donne, interpretando le speranze dei giovani, governeremo per mantenere gli impegni con l'Europa e con la pace, difenderemo la convivenza, la tolleranza, cammineremo verso il futuro tutti assieme".
La vittoria è apparsa chiara fin dai primi minuti dopo la chiusura del seggi, tutti gli exit poll hanno anticipato la vittoria del partito di Zapatero con un ampio margine e, nella prima fase, ipotizzando la maggioranza assoluta.

Il Psoe si attesta sul 43,7% dei voti, rafforza la sua maggioranza e, come ha ricordato Blanco "è ora nelle migliori condizioni per governare", anche se non dispone della maggioranza assoluta e dovrà negoziare con gli altri gruppi. Una novità è invece rappresentata dal movimento "per il progresso e la democrazia" fondato dal filosofo-scrittore Fernando Savater che, con pochi mezzi e sostegni, ottiene un rappresentante in Parlamento. L'altro grande sconfitto delle elezioni è il radicalismo indipendentista catalano rappresentato da Esquerra repubblicana de Catalana, che aveva 8 seggi nel precedente Parlamento e ne otterrà invece 3. I moderati catalani confermano i 10 seggi ottenuti 4 anni fa.
I primi dati sulla partecipazione erano stati diffusi poco dopo le 14 di ieri e hanno inizialmente suscitato qualche preoccupazione nello stato maggiore del Psoe. In serata però si è appreso che il numero dei votanti del 2008 (affluenza definitiva: 75,3%) ha superato quello del 2004. Più marcata rispetto al resto del Paese, la diminuzione di elettori nei Paesi Baschi dove il calo degli elettori è stato del 8%. Alle 19 poco più della metà degli avanti diritto (54%) si era recato alle urne. In questo caso hanno pesato non poco i ricatti dei terroristi. L'Eta ed il suo braccio politico fuorilegge, Batasuna, hanno più volte lanciato oscuri messaggi nel corso del periodo elettorale con l'obiettivo di aumentare gli astenuti. Non ha ceduto ai ricatti della violenza, la famiglia di Isaias Carrasco, militante socialista e sindacale, assassinato venerdì a Mondragon. La figlia dell'ucciso, Sandra e la moglie, Mari Angeles Romero Ortiz, hanno votato tra i primi in un seggio poco distante da dove è stato ucciso Isaias. Le due donne hanno invitato gli elettori a non cedere ai ricatti dell'Eta e ad andare a votare.



L'eredità di Romano
Edmondo Berselli su
la Repubblica

Si avverte un che di crepuscolare nell´addio di Romano Prodi: "Io ho chiuso con la politica italiana e forse con la politica in generale".
Sono passati a malapena due anni da quando Prodi conduceva l´ultima campagna contro Silvio Berlusconi, e tutto sembrava garantire a lui e all´Unione un successo pieno e la possibilità di un lungo governo. Non è andata così, il successo è stato zoppo, l´esperienza di governo è finita male e in poche settimane Prodi è stato oscurato. La sua linea politica è stata rovesciata dal leader del Partito democratico, Walter Veltroni, e ieri l´annuncio di "Romano" ha avuto il gusto malinconico di una fine di stagione.
Una stagione prolungata, per la verità, che si presta fin d´ora a qualche bilancio. Tredici anni abbondanti di impegno esclusivo, dopo essere uscito, il 2 febbraio 1995, dalle sale del suo centro studi, e avere sussurrato ai giornalisti raccolti nell´atrio di Nomisma un suo triplice motto di rassicurazione, nell´Italia già divisa fra il tifo e l´avversione per Silvio Berlusconi: "Serenità, serenità, serenità".
Tredici anni sono un´epoca, ai ritmi sincopati di oggi; ma soprattutto hanno dato luogo a un´esperienza politica che non va ricondotta soltanto alla gestione del potere o alla scelta del perimetro delle alleanze. Il "prodismo" è esistito effettivamente.
Non era un´ideologia minore: assomigliava piuttosto a una concezione realistica e prudente, ma non pessimistica, della nostra società. Alle elezioni del ´96 Prodi ha trasmesso ai cittadini un´idea politica riconoscibile, la sua alternativa alle sbrigative ricette berlusconiane: una via di modernizzazione temperata dal buon senso, con un occhio al mercato e l´altro alla dottrina sociale della chiesa, e alla "economia sociale di mercato" di Konrad Adenauer e Ludwig Erhard.
Lo strumento per questo progetto informale era l´Ulivo, inventato dal suo consigliere Arturo Parisi. "Un imbroglio prodiano", secondo i suoi critici più aspri, come Francesco Cossiga. Una mascherata, nel giudizio di Berlusconi, per camuffare le fattezze del potere vero, quello dei "comunisti". Tuttavia, alla resa dei conti il giudizio più plausibile è che la concezione prodiana ("la mia visione dei fatti", come recita il titolo del suo ultimo libro, appena pubblicato) abbia costituito in realtà il tentativo estremo di dare una chance alla sinistra. Meglio, alle sinistre. E a tutti coloro che non volevano conformarsi all´ideologia berlusconiana.
Era una ciambella di salvataggio, davanti al successo della destra. Uscita con scissioni e perdite di identità dall´Ottantanove, distrutta politicamente nel 1994, ai tempi della "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto, incapace per condizionamento storico e ideologico di aderire a una variante socialdemocratica, una sinistra molteplice ha pensato di trovare nel progetto abbozzato da Prodi una ragionevole via d´uscita. Ha trovato sulla sua strada segmenti della sinistra Dc e del cattolicesimo sociale. L´ex democristiano (d´area) "Romano", il centrista per eccellenza, il tecnocrate dell´Iri, l´economista capace di rivolgersi a operai e borghesia illuminata, offriva risorse pratiche e ideali capaci di unire laici e cattolici, ex comunisti ed ex democristiani, borghesia illuminata e lavoro dipendente.
È vero che il prodismo era un congegno a bassa intensità ideologica. Ma si proponeva come un´alternativa secca a Berlusconi. Di fronte all´edonismo televisivo e comportamentale del centrodestra proponeva ragioni etiche, contro "quelli che parcheggiano in doppia fila" propugnava civismo, rispetto al consumo vistoso evocava addirittura concetti inattuali come la sobrietà.
In termini di realismo, e cinismo, politico, il prodismo sarebbe poco più che una sensibilità generica, sostenuta da una consumatissima vocazione a gestire pezzi di establishment. Si tratta di un giudizio che contiene una parte di verità: due mandati al vertice dell´Iri fanno curriculum e addestrano al potere. Tuttavia, mentre il pianeta di Prodi declina all´orizzonte, non convince affatto evocare una "rimozione", come ha fatto Ernesto Galli della Loggia, come se fosse un riflesso pavloviano della mentalità di sinistra o perfino dell´antropologia comunista. E non aggiunge chiarimenti accennare al cattocomunismo e al dossettismo, vizi ideologici di cui Prodi è stato spesso accusato da destra, ma che non appartengono alla sua cultura.
Se è vero che nell´uscita di scena di Prodi c´è un elemento psicologicamente rilevante, che colpisce anche sul piano umano, non ci si può nascondere comunque che Prodi scompare di vista perché è stato decostruito lo schema politico di cui si era fatto leader e interprete. Il prodismo si esaurisce infatti quando Veltroni mette il Pd in corsa solitaria. Finisce lì non soltanto l´idea prodiana dell´alleanza larga, dal centro a Rifondazione comunista, ma anche la nozione dell´alternativa al berlusconismo sostenuta dalle idee di "Romano": il risanamento finanziario perseguito prima con Ciampi e poi con Padoa-Schioppa, l´affidabilità internazionale del governo, il consenso a Maastricht e all´Unione europea, con iniezioni di solidarietà sociale e di sapienza mediatoria, e l´annuncio di sacrifici oggi per consentire la redistribuzione domani.
Solo che questa prospettiva si è arenata subito, alla prima legge finanziaria dopo la vittoria dimezzata del 2006, quando i sondaggi sono crollati e il governo Prodi è diventato per molti il governo "delle tasse". Avrebbe avuto bisogno di tempo, e forse anche di una lunga congiuntura economica favorevole. E poiché il tempo è mancato, è stato necessario decostruire il paradigma, procedere a una strategia radicalmente nuova, "correre da soli".



Ricatti e veleni al mercato dei candidati
Federico Geremicca su
La Stampa

ROMA. L'Eurostar 9373 delle ore 9,46 fila silenzioso, lasciandosi alle spalle la stazione di Roma. Sono da poco passate le dieci del mattino e il signore scamiciato seduto nella poltrona 25 della carrozza 1 pare davvero molto agitato. Si divide tra due telefonini, parla a voce alta e apre uno spaccato grottesco – involontariamente, s'intende – su uno degli aspetti più mortificanti della campagna elettorale in corso: il mercato delle candidature al tempo della Terza Repubblica. Sta dicendo il signore: "Io a Dell'Utri stanotte gli ho mandato un messaggio chiaro: se quello, Nino Foti, è davvero candidato numero 13 nelle nostre liste in Calabria, io domani mattina mi candido con l'Udc, numero 2 al Senato e 3 alla Camera".

Il signore si chiama Gesuele Vilasi, è consigliere regionale in Calabria per Forza Italia, non è affatto un politico peggiore di altri e naturalmente resta da stabilire se sia più scortese origliare oppure strillare in treno al punto che, per chi è seduto di fronte, diventi impossibile non ascoltare. "Mi passa l'onorevole Bondi, per favore?... Ah, è in riunione... Era per le liste". Fa un altro numero. "Pronto, sono l'onorevole Vilasi, cercavo il dottor Letta. E' in riunione? Dica che ho chiamato, grazie". Poi è uno dei suoi telefonini a squillare: "Ciao Giancarlo. Ma io lo so, figurati se non lo so che vogliono scaricare tutto sul coordinatore regionale del partito. Ma quest'operazione l'ha fatta Verdelli e allora i voti a Foti glieli viene a trovare lui perché li ho avvisati: se lo candidano, io domattina sono in lista con l'Udc alla Camera e al Senato".

Comprensibilmente, l'onorevole Vilasi – come già detto nient'affatto peggiore di altri – pretende che a buttar fuori dalle liste (e, presumibilmente, dal Parlamento) il candidato Nino Foti, sia Marcello Dell'Utri, visto che infatti il popolo non può. Voti la lista e ti tocca eleggere anche chi non vuoi, se si trova "in buona posizione": una specie di o mangi la ministra o salti dalla finestra... Potere assoluto in mano ormai nemmeno più alle segreterie dei partiti, ma ai soli leader: alla cui saggezza è affidata la composizione non soltanto delle loro liste, ma del nostro Parlamento. Se ci si riflette, a parte il resto, è anche questo – l'impossibilità per l'elettore di esprimere un giudizio su chi è presente in lista – che può permettere le candidature (l'elezione) contemporanee di Matteo Colaninno e della segretaria del ministro Fioroni, della figlia di Totò Cardinale e dell'addetta stampa di Prodi. E produrre l'arrivo in Parlamento di un'altra "letteronza" o di una star tv. Infatti, non c'è verso: se vuoi votare questo o quel partito ti tocca eleggere per forza una o uno così. Insomma, scelto da altri.

Gesuele Vilasi lo sa, e si regola di conseguenza. Altra telefonata: "Trecento fax, glieli ho fatti mandare stanotte perché sono rimasti chiusi in due o tre a fare le liste fino alle quattro del mattino. Loro lo candidano e noi ce ne andiamo. E per quanto mi riguarda, Senato e Camera con l'Udc". Che magari è perfino l'aspetto di questa storia che infastidirebbe di più il Cavaliere: proprio con l'Udc di Casini! E forse perfino eletto: perché tanto anche chi aveva deciso di votare per Casini prima dell'ipotetico arrivo di Vilasi – e volesse continuare a farlo, naturalmente – non potrà che votare pure per l'ex "nemico" di Forza Italia.

Questa storia, in tutta evidenza, una morale non ce l'ha. Il cosiddetto voto di preferenza fu un fattore decisivo in quel dilagare di corruzione e degenerazione che portò al crollo della Prima Repubblica: fiumi di danaro in manifestini e faccioni, corti di clientes, spese folli da far rientrare con tangenti e finanziamenti illeciti. Mente chi finge di non ricordare. Ma anche così, è evidente, non può più andare. E quel che sorprende, è l'assenza di consapevolezza di quanto la perdurante imposizione non più di semplici candidati ma di eletti, gonfi le vele dell'antipolitica.



Elezioni, la Cei: no a chi è contro la famiglia
Roberto Monteforte su
l'Unità

La difesa della famiglia tradizionale e della vita dal concepimento alla morte naturale, limiti alla ricerca bioetica, coerenza tra i programmi sociali indicati dai diversi schieramenti e la loro concreta applicazione. È questa l'agenda della Chiesa per l'Italia chiamata al voto. La indica il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione con la quale ieri pomeriggio ha aperto i lavori del Consiglio permanente dei vescovi italiani. "Non è questo un campo di pertinenza della Chiesa come tale" premette il cardinale a proposito delle prossime elezioni. Quello che è pertinenza dei vescovi, chiarisce "è dire una parola sull'atteggiamento interiore con cui il Paese si accinge ad affrontare questo appuntamento". Quello che una Chiesa affatto indifferente agli esiti della consultazione elettorale, domanda alla politica e agli elettori, in particolare ai "credenti", è la difesa dei valori etici e decisione nel fronteggiare l'emergenza sociale. Nelle parole di Bagnasco è forte il richiamo allo "slancio partecipativo alla cosa pubblica". Assicura che non vi sarà coinvolgimento diretto della Chiesa nella battaglia politica, né alcuna scelta di schieramento. Ma questo - mette in chiaro Bagnasco - non vuole dire indifferenza o disimpegno. Bensì "un contributo concreto alla serenità del clima, al discernimento meno distratto". Lo fa richiamando il laicato cattolico spalmatosi nei diversi schieramenti politici al rispetto di quanto affermato da Benedetto XVI al convegno ecclesiale di Verona. "L'irrilevanza della fede non può essere un obiettivo dei credenti, ai quali come cittadini, sotto la propria responsabilità, spetta un compito della più grande importanza" affermava il Papa che invitava a fronteggiare sfide come "le guerre e il terrorismo, la fame e la sete, alcune epidemie terribili". Ma anche e "con pari determinazione e chiarezza di intenti il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano", come "la tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell'ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla" oscurandone il ruolo sociale. È la griglia valoriale attraverso la quale valutare i programmi dei diversi schieramenti che Bagnasco ribadisce con la stessa durezza di Ratzinger. A difesa di questi valori chiede "una testimonianza aperta". "Non deve destare meraviglia o scandalo se la Chiesa ribadisce questi valori" afferma il porporato. È su questi valori che "si è costruito l'identità e il senso di appartenenza sociale". Se si dissolvessero ne discenderebbe una cultura individualistica che colpirebbe i soggetti più deboli, gli anziani, i malati inguaribili. "La Chiesa - aggiunge - ha fiducia nella scienza, ma nei laboratori della vita è stata da tempo infranta la barriera posta a tutela della vita umana". Questo accade quando "esseri nello stato più debole sono selezionati, abbandonati, uccisi o utilizzati come puro 'materiale biologico'". Sono parole del Papa che Bagnasco ripropone. "Denunciare questo - afferma polemico - non è ostilità verso la scienza". Termini perentori.



I quattrini e il cuore nero
Filippo Ceccarelli su
la Repubblica

A proposito di volti nuovi e limpidi ideali, per il Popolo della libertà, quota Berlusconi, sarà nominato senatore anche Giuseppe Ciarrapico: e ci si sente tutti più giovani e sgomenti, come se il volo magico della campagna elettorale riappiccicasse la vita pubblica non tanto al fascismo, ma al dissennato e pittoresco caos politico affaristico degli anni ottanta.
E´ allora che comparve sulla ribalta il Ciarra, con il suo ostentatissimo mussolinismo, i saluti romani, l´editoria nostalgica, l´immenso sottocollo e l´accento romanesco alla Aldo Fabrizi. Il cuore nero, "storicamente" nero puntualizzava lui per limitare il danno, e il portafogli bianco. O meglio grigio, nel senso che il personaggio temerariamente giostrava le sue faccende, i tempestosi negozi, i fuggevolissimi quattrini, all´ombra del potere e sottopotere andreottiano, con puntate nel milieu di Craxi, a un certo punto voleva pure comprare l´Avanti!, intanto vendeva la carta all´Unità, di norma sponsorizzava qualsiasi intruglio partitico e transpartitico e nella stagione di Tangentopoli finì in galera - evento in verità assai preannunciato e smentito con poetiche dichiarazioni: "Sono libero come una rondine!" declamava al telefono - per certi finanziamenti, pensa tu, al Psdi.
Ogni tanto il personaggio sparisce, evapora, s´inabissa. La penultima volta, sul finire del secolo scorso, sembrava fosse stato travolto da una specie di crisi mistica con esiti incerti fra un anticipo di temperie teo-con e l´ingresso nel cenobio. Da fascistone a fratacchione, cioè, con un passaggio da terremotato della Prima Repubblica. Ogni eventualità infatti è possibile con il Ciarra. Ma anche per questo forse, quando regolarmente ritorna sul proscenio, e in genere lo fa come oggi straparlando, così viene di salutarlo: "Chi nun more se rivede", come si dice a Roma per esprimere, talvolta perfino con un certo intimo garbo, una meraviglia che sfuma verso l´incredulità. Senatore Ciarrapico: e si sarà visto tutto.
Cliniche ancora fiorenti e squadre di calcio lasciate sull´orlo del baratro. Acque minerali, stazioni termali, premi letterari, caffè storici, giochi di borsa, cartiere, giornali, aero-taxi e ditte di catering, altrimenti ribattezzato "er cateringhe". Tutto comunque sul filo del rasoio. Insieme a Cardin provò anche con i cinesi a lanciarsi nel mondo delle bibite, pensò a un succo di frutta che si poteva chiamare "Gnao-gnao", che in cinese, spiegò con candore, vuol dire "buongiorno".
Pistola nel cassetto. Lingua imprudente per calcolo e per vanità. Collezionista di soldatini secondo una linea antropologica che da Evangelisti a Previti e poi da Cossiga, padre e figlio, arriva forse al cardinal Ruini così delineando un´area di confine fra la destra un certo mondo cattolico. Più di un problema il Ciarra ha avuto con le banche, e ancora di più queste ultime ne hanno avuto con lui; una sentenza passata in giudicato per il crack Ambrosiano. Ruspante acrobata delle mediazioni di potere, per conto di Andreotti, che chiamava "il Principale", sviluppò nell´era del Caf il lodo Mondadori fra Berlusconi e De Benedetti. Ma soprattutto: specialista, in affari, della pratica che prevede di fare il classico passo più lungo della gamba e quindi, come tale, indimenticato prezzemolo nei più controversi e devastanti accadimenti finanziari dell´ultimo ventennio almeno, dal crack dell´Ambrosiano alla rovina della Parmalat.
Poi sì, certo, anche il fascismo. Però Ciarrapico non l´ha poi vissuto così intensamente, il 25 luglio del 1943 avendo appena nove anni. Non solo, ma la sua fede è sempre suonata un po´ troppo perentoria e rimbombante per essere intesa in modo oggettivo. Esaminato con distacco e freddezza il fascismo dell´ex "re delle bollicine" - l´"acquaiolo" lo sprezzava l´altro fascio-andreottiano Sbardella, acerrimo rivale per pregresse beghe missine - sembra piuttosto una compiaciuta romanticheria provocatoria e al tempo stesso un consapevole marchio d´eccentricità personale e magari pure auto-caricaturale.

Più che intorno al Duce, tra potere e affari vibra l´archetipo di Peppino Ciarrapico, futuro senatore del berlusconismo di qualità aggiornata, e felice spudoratezza.


Arcobaleno sotto choc per il risultato spagnolo
Paolo Passarini su
La Stampa

ROMA. A Walter Veltroni, che, giubilando per le vittorie socialiste in Spagna e Francia, ha attribuito con una punta di sadismo il "peggioramento" delle sinistre radicali in Europa al loro ruolo di "testimonianza" piuttosto che di "innovazione", Fausto Bertinotti ha ribattuto ieri con comprensibile stizza che "in Spagna c'è Zapatero, mentre in Italia formazioni socialiste non ce ne sono". Ma poi anche il candidato leader dell'Arcobaleno non ha avuto esitazioni ad ammettere che il voto ispano-francese ha fatto risuonare alto "un allarme" per la sinistra radicale italiana.

Del resto, come non potrebbe, visto l'ormai completo annientamento dell'Izquierda Unida in Spagna e la sopravvivenza residuale e minacciata in Francia di sigle un tempo temibili? E, quando dice, riferendosi con acidità alla non appartenenza del Pd all'Internazionale socialista, che "in Italia non ci sono formazioni socialiste", Bertinotti ammette che neppure l'Arcobaleno è Zapatero, cioè il vincitore. Dunque, non gli resta che consolarsi con la Germania, "dove la sinistra si costituisce su nuove basi, su basi unite". Ma non si può negare che, in Germania, come fa notare Antonio Polito, tornato alla direzione del "Riformista", "il compito della sinistra radicale è agevolato dalla presenza di un governo di Grosse Koalition".

Poi c'è un altro grave problema: il preoccupante affiorare in Europa di una tendenza alla bipolarizzazione, al concentrarsi, cioè, dei voti, attorno a due forze principali, quello che Marco Rizzo, dei Comunisti italiani, chiama "il processo di americanizzazione della politica", "cioè una falsa competizione tra due frazioni della borghesia". Dunque, quanto è forte l'allarme?

Sì, l'allarme "c'è senz'altro" per Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rifondazione al Senato, ed "è sacrosanto" per Piero Sansonetti, direttore dei "Liberazione". Che significa, in concreto? I sondaggi continuano ad attribuire all'Arcobaleno un 7% circa, che non è considerato una vittoria dagli interessati, ma non è certo la scomparsa. Potrebbe però essere quel "tetto" di cui parla Polito, dal quale "le sinistre radicali nel mondo occidentale sembrano destinate a scendere velocemente". Dunque, il rischio, non sarebbe la scomparsa immediata, ma la marginalità e poi la progressiva irrilevanza.


Ma l'Arcobaleno cos'è? "E' un primo tentativo di risposta, ma adesso deve diventare una soggettività plurale", secondo Russo Spena. Esiste, cioè, quello che Sansonetti chiama "il problema di una sua forma politica, anche se non di un partito". Insomma, per dirla con Valentino Parlato, fondatore del "Manifesto", la sinistra radicale "dovrebbe cogliere l'occasione per sviluppare una riflessione e capire che deve diventare una cosa". Infatti, come si fa a manifestare "una progettualità più forte" (Russo Spena), dare corpo a un profondo "bisogno di riforma" (Sansonetti), dimostrare di essere "radicalmente alternativi" (Rizzo) senza essere neppure capaci di dare vita a un soggetto politico unitario? E, mentre critica le confuse identità di altri, l'Arcobaleno non può definirsi né verde né socialista e neppure comunista. Dunque, come dice Sansonetti, "l'Arcobaleno corre rischi enormi".



Se il Primo Ministro governa
Sergio Romano sul
Corriere della Sera

Il primo segnale che giunge da Madrid, al di là della vittoria socialista, è la grande somiglianza delle elezioni europee. I protagonisti e i temi principali sono quasi ovunque gli stessi. Esistono due grandi partiti a "vocazione maggioritaria" che aspirano alla guida del Paese e, in molti casi, piccoli partiti che finiscono troppo spesso per avere un'importanza superiore alle loro dimensioni. Il confronto avviene sulle questioni che agitano tutte le società nazionali del continente: crescita dell'economia, riduzione delle imposte, infrastrutture, potere delle regioni, sicurezza, criminalità, immigrazione, la famiglia moderna e i nuovi diritti umani che ne stanno modificando i caratteri, la credibilità della classe politica e la sua capacità di affrontare problemi che dipendono in buona misura da fattori esterni, europei o mondiali.
Ma le differenze, soprattutto per un osservatore italiano, non sono meno importanti delle somiglianze. L'economia spagnola rallenta, come in Italia, e dipende troppo da un fattore, l'edilizia, che non gode generalmente di buona salute. Ma la crescita, alla fine dell'anno, sarà pur sempre pari al 2 per cento del prodotto interno lordo contro lo 0,5 per cento in Italia. La Spagna ha bisogno di grandi infrastrutture, ma l'aeroporto madrileno di Barajas, la Tav che attraversa l'intero Paese da Siviglia a Barcellona e il colossale progetto per l'utilizzazione del "potere solare concentrato" sono dimostrazioni di coraggio e dinamismo: due virtù assenti nel panorama politico italiano. L'integrazione delle comunità immigrate suscita preoccupazioni ed è stata materia di scontri elettorali, ma gli stranieri in Spagna sono ormai il 10 per cento (più del doppio della percentuale italiana) e le difficoltà sono in buona parte compensate dal contributo che i nuovi arrivati hanno dato allo sviluppo dell'economia nazionale. Le leggi sulla famiglia e sull'educazione religiosa hanno provocato forti tensioni nella società spagnola e dure reazioni dell'episcopato, ma hanno dimostrato che il rapporto fra lo Stato e la Chiesa, nella cattolicissima Spagna, è più dignitosamente paritario di quanto non sia in Italia.
I socialisti hanno vinto e il prossimo governo potrebbe forse evitare l'alleanza con scomodi partiti regionali. Zapatero è stato afflitto, alla fine del suo mandato, da alcuni dati negativi (disoccupazione, inflazione, debito delle partite correnti) e da alcune imprudenze.
Queste imprudenze sono l'accordo abortito con l'Eta, il nuovo statuto catalano (troppo generoso per il cuore castigliano del Paese, insufficiente per gli autonomisti più radicali e contestabile per i costituzionalisti), le inutili leggi sul passato franchista, lo stile frettoloso e spavaldo con cui ha affrontato il problema dell'immigrazione e dei nuovi diritti di libertà. Ma la vittoria dimostra che il risultato complessivo è parso alla maggioranza degli spagnoli non inferiore a quello realizzato dai governi di Felipe Gonzales e José Maria Aznár. Accanto alle molte differenze vi è fra i tre leader un aspetto comune: hanno lavorato alla modernizzazione della Spagna e sono riusciti a farla salire di parecchi scalini nella graduatoria delle nazioni.

Ma il fattore che ha maggiormente contribuito al dinamismo spagnolo è una costituzione moderna, un buon sistema politico, un premier che viene eletto per governare, non per negoziare con amici-nemici da cui è continuamente ricattato. Non sono certo che la Spagna abbia superato l'Italia sul piano economico. Ma sul piano civile l'ha brillantemente scavalcata.


Meno tasse per tutti. Ma solo in Sicilia
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

La legge è uguale per tutti, tranne i siciliani? La domanda, stucchevole e annosa, torna oggi davanti alla Corte Costituzionale. Che deve dire se la Regione fino a ieri governata da Totò Cuffaro abbia o no diritto ad abolire per i propri cittadini (meglio: i propri elettori) questa o quella tassa. In ballo, stavolta, sono gli sconti concessi in tutta Italia ai piccoli contadini sulla vendita di terreni agricoli. Estesi nell'isola a tutti. Miliardari compresi.
La legge in questione fu varata in favore dei contadini nel 1954, quando era ancora vivo il mitico Matisse e Ardito Desio conquistava il K2, e stabilisce che per favorire i piccoli agricoltori che tentino di allargare il loro podere, la compravendita dei campi viene tassata solo per un decimo dell'imposta di registro fissata al 15%. Vale a dire che, se sono piccoli e se fanno sul serio i contadini, pagano allo Stato l'uno e mezzo per cento del valore. Tutti gli altri, avvocati e giornalisti, commercianti e idraulici, se comprano un terreno agricolo, devono pagare il 15%. Chiaro? Non in Sicilia. Dove l'Ars vara nel 2002 una leggina che "al fine di favorire la ricomposizione fondiaria, aumentare le economie di scala e ottimizzare il ritorno degli investimenti nel settore agricolo" (sic) dice che "chiunque" compri dei campi di frumento o un pascolo ha diritto al maxi-sconto sull'imposta di registro e in più gli atti sono "esenti dalle imposte di bollo e catastale".
Rileggiamo la parola chiave: "chiunque ". Non solo i contadini: tutti. L'anno dopo, una nuova leggina precisa che alle agevolazioni concesse l'anno prima va riconosciuta "la natura di misura fiscale di carattere generale rivolta a chiunque ponga in essere, a partire dal 1° gennaio 2002 e fino alla data del 31 dicembre 2006, gli atti indicati nello stesso articolo ". "E no!", salta su l'Agenzia delle Entrate. E contesta il regalo ai siciliani ricordando che per dare lo sconto è indispensabile che l'acquirente sia un contadino e il terreno trasferito abbia una effettiva destinazione agricola. Sennò ci sarebbe un'ingiustificabile differenza di trattamento fiscale tra siciliani e italiani su una cosa che non c'entra un fico secco con l'autonomia. "Come vi permettete?", si ribellano i siciliani. E in nome dei Vespri e di Federico II fanno ricorso alla Corte Costituzionale sostenendo che l'interpretazione dell'Agenzia delle Entrate è "lesiva della potestà legislativa regionale".
E nel 2005 varano una nuova legge confermando punto per punto che le agevolazioni "si applicano per tutti gli atti traslativi da chiunque posti in essere" ("chiunque") "alla sola condizione che abbiano ad oggetto terreni agricoli". E lo Stato stia alla larga dalle sue interferenze: "La presente disposizione costituisce interpretazione autentica dell'articolo 60 della legge regionale 26 marzo 2002". Nel resto d'Italia si paga? In Sicilia no. Neanche se un miliardario aeronautico compra un podere agricolo da un miliardario dell'acciaio. Non bastasse, il regalone viene esteso a tutti i contratti di compravendita fino alla fine del 2011. Cosa dirà la Corte Costituzionale? La decisione sarà presa oggi. I giudici della Consulta, in verità, hanno già ribadito spesso un punto.
E cioè che la Regione "è tenuta a osservare i limiti dei principi e degli interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato" e ciò "comporta che la legge regionale debba adeguarsi alla tipologia adottata, per ogni singolo tributo, dalla legge statale ". Nel palermitano Palazzo dei Normanni, però, non vogliono sentire ragioni. E in questi ultimi anni hanno vissuto come un'offesa all'onore stesso del Parlamento e del Governo isolani tutte le decisioni del Commissario dello Stato di bloccare questo o quel decreto, questa o quella norma. Il che è successo un'infinità di volte. Come nel caso delle undici leggine clientelari varate nel 1996 esattamente durante l'ultima notte della legislatura per assumere centinaia di elettori che al voto sarebbero stati riconoscenti. O della scelta dell'ottobre 2002 di estendere le pensioni-baby dei "regionali" (i quali sette anni dopo la riforma Dini potevano ancora andare a riposo con 25 anni di servizio) a tutti i dipendenti dei 97 enti vigilati dalla Regione. Un braccio di ferro continuo. Di qua quelli che varavano 300 assunzioni nei beni culturali più una raffica di promozioni d'ufficio più la stabilizzazione di precari nelle aziende sanitarie, di là il Commissario che metteva il veto. Di qua la decisione di autorizzare nuovi alberghi alle Eolie e l'edificabilità di ville sul verde agricolo e il mantenimento delle licenze anche agli imprenditori che non pagavano le tasse di concessione, di là il veto. Ha stoppato di tutto, in questi anni, il rappresentante dello Stato.
La creazione dell'Albo degli Amministratori di condominio e dell'Albo dei tecnici della riabilitazione equestre. La stabilizzazione di tutti gli addetti stampa e tutti i musicisti dell'Orchestra sinfonica siciliana. L'assunzione di "600 medici della medicina dei servizi" a fronte di "circa 100 posti vacanti nelle piante organiche ". La sanatoria degli immobili costruiti sul demanio. L'istituzione del "deputato supplente" da inserire e stipendiare provvisoriamente al posto di chi faceva l'assessore. L'estensione dei privilegi pensionistici dei "regionali" ai 70 mila dipendenti della Asl, delle province e dei comuni perché, come spiegava il relatore della legge Armando Aulicino, "era giusto non creare disparità". No, no, no, diceva il Commissario.

Il giorno che se ne andò Gianfranco Romagnoli spiegò che dopo otto anni passati a fare il Commissario e a vagliare le leggi dell'Ars gli era "venuta voglia di buttare via i libri di diritto ". E quando Emanuele Lauria gli chiese quale fosse il principale difetto del legislatore siciliano rispose: "Una certa tendenza a concedere benefici con i portafogli degli altri".


  11 marzo 2008