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sulla stampa
a cura di G.C. - 6 marzo 2008


Il Cavaliere statalista
Gad Lerner su
la Repubblica

Chi può averlo detto? "Un paese deve saper sopportare le perdite di certe aziende". Sarà stato Fausto Bertinotti, per difendere l´occupazione in uno stabilimento industriale obsoleto? O magari qualche boiardo nostalgico delle Partecipazioni Statali, specialista nell´addossare all´ignaro contribuente le perdite di bilancio delle sue imprese? Macché. Chi ci chiede di farci ancora carico di Alitalia – perché "un paese deve saper sopportare le perdite di certe aziende" – è il più ricco e navigato dei nostri imprenditori privati, candidato premier di un centrodestra che da tempo non finge più di essere liberista.
Ma Berlusconi non era l´uomo del "meno tasse per tutti"? Davvero è pensabile di ridurre il carico fiscale e contemporaneamente "sopportare" (cioè, in italiano, ripianare con soldi pubblici) ancora un deficit Alitalia che costa agli italiani più di un milione ogni giorno? La contraddizione deve essere affiorata pure nella mente di Berlusconi quando ieri, dopo molte sagge resistenze, ha infine ceduto alle pressioni dei leghisti e di Formigoni, nordisti scatenati nella richiesta di aiuti a Roma ladrona. Per trarsi d´impaccio, il nostro teorico del "meno Stato" ha falsificato le cifre di fronte alla telecamera di Sky: non è vero purtroppo che Alitalia perde "solo" 2-300 milioni di euro, come ha minimizzato il leader del Popolo delle libertà. Essendo stato a capo del governo nei cinque anni in cui s´è spalancata la voragine delle perdite, e avendo già in quell´occasione ripianato i debiti con soldi pubblici (senza peraltro alcuna opposizione dal centrosinistra), Berlusconi sa benissimo che il deficit Alitalia ammonta oggi a più di un miliardo e 200 milioni. Circa il sestuplo di quanto da lui dichiarato per chiederci di farcene carico, sempre con la promessa che dopo lui ci ridurrà le tasse e che si formerà una cordata di imprenditori del Nord disposta a investire – non si sa bene – su Alitalia, su Malpensa, o su una nuova fantomatica compagnia aerea padana promossa da Carlo Toto e Corrado Passera. Come ben ricorderà l´allora ministro Maroni: l´ultima volta che (nel 2004) fu varata una compagnia padana, la Volare, nel suo varesotto, la faccenda finì col solito salvataggio pubblico e con l´arresto degli amministratori. Gli imprenditori dell´Assolombarda e la Confcommercio di Sangalli sono stati finora prodighi di disponibilità a fiutare business trainati dall´aiuto pubblico, ma restii a compiere investimenti significativi. E così il "consorzio" auspicato da Berlusconi sa molto di Gosplan, più che di libero mercato.
Del resto il Cavaliere non rinuncerà di certo alla comodità dell´aeroporto di Linate, così come i bergamaschi continueranno a preferire Orio al Serio, e i bresciani Villafranca, anche se votano centrodestra.
La verità è che Prodi e Padoa-Schioppa, dopo avere cercato invano un compratore cinese o del Golfo per la nostra compagnia di bandiera, hanno lasciato che il vertice Alitalia trattasse con l´unica compagnia solida da cui proveniva un´offerta piena di spine, ma seria: l´Air France. L´alternativa all´acquisto da parte dei francesi (che prudentemente attendono il parere del futuro governo prima della firma definitiva) non sarebbe certo la fantasiosa Air Padania, bensì il fallimento di Alitalia. Un fallimento che la politica ha ritardato colpevolmente, impedendo con ciò alla stessa Malpensa di trovare alternative redditizie in un settore – il trasporto aereo – in forte e costante espansione.
Che l´Italia non sia un paese per liberisti, lo sapevamo da un pezzo.

Ma il paradosso di Berlusconi, e con lui degli assistenzialisti padani speranzosi di mungere ancora il contribuente, è un altro: il traffico aereo è in crescita dappertutto nel Nord Italia, una delle regioni dal reddito pro-capite più alto del continente. Solo Malpensa, imprigionata dal suo mal congegnato rapporto con Alitalia, finora ha faticato. Intorno ci sono un tessuto industriale e una rete dinamica zeppa di talenti: possibile che gli aeroporti milanesi non producano reddito come i loro omologhi nel resto del mondo? Possibile che il leader politico di un simile territorio ci chieda di "sopportare le perdite di certe aziende"? Forse si era scordato che l´Alitalia è quotata in Borsa, e parole come le sue potevano avere l´unico effetto di scaraventarla in basso, al suo minimo storico.


I tormenti del centrodestra su Calearo
Alessandro Trocino sul
Corriere della Sera

MILANO — "Il suo percorso è lineare. Parte dall'appoggio a Montezemolo contro Nicola Tognana, passa per la contestazione fallita a Vicenza contro Berlusconi. E approda alla candidatura nel Pd". Maurizio Sacconi, senatore di Forza Italia, non è per nulla sorpreso dalla discesa in campo di Massimo Calearo, ex presidente di Federmeccanica. Ma non tutto il centrodestra locale è soddisfatto dell'esito finale. Stefano Stefani, invero uno dei leghisti veneti più berlusconiani, giura che la Lega non gli ha mai offerto una candidatura a sindaco di Vicenza. Ma è pur vero che risultano un deciso appoggio allo sciopero fiscale ("A mali estremi estremi rimedi") e alla rivolta dei sindaci anti-immigrati, Bitonci in testa. Ed è anche noto che una parte della Lega, quella legata a Manuela Dal Lago, gli è sempre stata vicina. La conferma di un interesse per Calearo arriva anche dall'Udc: "È vero — conferma il responsabile della comunicazione e propaganda Antonio De Poli —. A Calearo offrimmo una candidatura. Del resto è una persona valida ed è sicuramente più omogenea a noi che al centrosinistra".
A chi sia più omogeneo Calearo, è un dilemma non facile da sciogliere. Prendiamo Federmeccanica. Da sinistra arrivano bordate pesantissime: è "un padrone", "un falco", "un nemico dei metalmeccanici e dei lavoratori". Sacconi sostiene il contrario: "Da tempo aveva un rapporto privilegiato con la Fiom. Non a caso ha aperto le trattative, dopo due contratti siglati senza il sindacato della Cgil, spiegando che avrebbe firmato solo se ci fosse stata l'intesa anche con la Fiom". Sono in molti a collegare la discesa in campo di Calearo allo scontro con il governatore Giancarlo Galan. Il portavoce Franco Miracco non fa mistero della gioia del presidente forzista: "È davvero molto allegro. Perché Veltroni era partito benissimo e ora invece candida gente come Calearo: che non è Roosevelt, né Obama, ma neanche Olivetti. Insomma, non è proprio informato di spirito democratico. E la sinistra gliela farà pagare questa candidatura ".
Eppure i dati raccolti dalla Coesis Research di Alessandro Amadori autorizzano il Pd a sperare: Calearo porterebbe 200-250 mila voti, in arrivo dal popolo del centrodestra e delle partite Iva. Niccolò Ghedini, coordinatore di Forza Italia in Veneto, non ci crede: "Veltroni è un sessantottino radical-chic, per questo l'ha scelto. Ma Calearo non è di centrodestra: è un alleato della Confindustria statalista, assistenzialista e amica dei poteri forti".

L'effettivo posizionamento di Calearo resta un mistero anche per Pino Bisazza, che lo precedette alla guida degli industriali vicentini: "L'uomo non segue una linea retta. Cambia idea con molta frequenza e con una buona dose di opportunismo ". Luigi Rossi Luciani, ex presidente degli industriali veneti, concorda: "Cambia spesso idea e faccia. Per carità, è una persona amabile: ma non sempre dice quello che pensa".
L'opposizione di Calearo a Berlusconi è piuttosto nota: "Ricordo il suo pallore — racconta Sacconi — quando a Vicenza Berlusconi si rivolse direttamente alla platea, ottenendo l'applauso degli industriali". Eppure certe sue uscite non sembravano avvicinarlo al centrosinistra. Da bravo imprenditore, per di più veneto, non aveva solo appoggiato lo sciopero leghista, ma si era anche scagliato contro il fisco italiano, "da Stato di polizia". E se a Miracco le posizioni del Giornale di Vicenza sul raddoppio della base americana sembravano quasi "da Lotta continua", in molti ricordano di quando allo Sheraton di Padova, Calearo prese le difese della base militare di Vicenza, ottenendo una standing ovation dei presenti. Insomma un Calearo trasversale, capace di muoversi a destra, ma anche a sinistra. "La sua candidatura — spiega Enrico Cisnetto — è la definitiva conferma che il Pd è la nuova Democrazia cristiana. Calearo è un dc nel senso più puro della parola, non nella militanza ma nel Dna". Cisnetto ha trovato "conseguente " la sua candidatura nel Pd: "La Dc era la grande mamma. E il "ma anche" veltroniano è la versione moderna dell'interclassismo democristiano. Nella Dc c'era anche un certo grado di populismo, altra caratteristica di Calearo: diciamo che se fosse giornalista, farebbe bene il titolista".



Nostalgia per Casini e timori sul Senato
Francesco Verderami sul
Corriere della Sera

ROMA — La nostalgia per l'alleanza con l'Udc è un sentimento che alberga nel cuore di molti dirigenti forzisti. Custodito con grande riservatezza, in queste ore viene alimentato dai calcoli che gli esperti del Pdl ripetono in modo maniacale. E che però danno lo stesso risultato: a Palazzo Madama, malgrado il netto vantaggio nei sondaggi, il margine non è quello di "30 senatori" annunciato in tv da Berlusconi. I numeri riservati dicono sette seggi. Il motivo? In alcune regioni importanti, dove il centrodestra è dato per vincente, il Pd paradossalmente ci guadagna in virtù dell'attuale sistema di voto.
Il caso più eclatante è la Lombardia, dov'è scontato il successo del Cavaliere, ma dove Veltroni potrebbe accaparrarsi tutti i seggi di "minoranza", dato che né l'Udc né la Sinistra arcobaleno dovrebbero raggiungere la soglia dell' 8%. Viceversa nelle regioni rosse, dove il rassemblement di Bertinotti è forte, il Pdl sarebbe costretto a dividere con lui i posti assegnati ai "perdenti". Insomma, nel gioco del "dare e avere" Berlusconi ci rimetterebbe.
Quello del Senato è un pasticciaccio brutto, ecco perché tra i forzisti si avverte il rammarico dello strappo con Casini. Se l'Udc fosse oggi alleato del Pdl la sfida con Veltroni sarebbe già chiusa. A suo tempo furono in tanti a cercare di evitare la rottura, da Gianni Letta a Bonaiuti, da Pisanu a Formigoni. E in questi giorni i discorsi di allora tornano sotto forma di sussurri. Dunque il divorzio è stato un errore? "Più che un errore è stata una scelta", commenta Gargani: "Sbagliare in politica — chiosa sibillino — è un'altra cosa, è sottovalutare gli effetti di una mossa".
Ieri Berlusconi non ha lasciato trapelare queste ansie, spiegando che lo strappo fu "deciso da Casini" e che senza di lui "al governo realizzeremo per intero il nostro programma". Ma il Cavaliere sa che al Senato rischia una maggioranza risicata, perciò vuole "gente affidabile" e "culi di pietra", perciò prepara una strategia mediatica d'attacco nelle quattro aree chiave del duello: Abruzzo, Calabria, Liguria e soprattutto Lazio, dove il vantaggio su Veltroni alla Camera è di 6 punti, mentre al Senato è solo dello 0,6%, per effetto del voto disgiunto che porterebbe gli elettori di sinistra a dare il voto utile al Pd. In queste regioni Berlusconi e Fini concentreranno la loro attenzione con iniziative comuni. In Campania invece non ci sarebbe storia: il leader democratico ieri ha ricevuto un sondaggio disastroso che dà il suo partito al 26,4%.
Epperò vincere potrebbe non bastare al Pdl per avere certezze al Senato. Certezze che nemmeno gli analisti possono dare, alle prese come sono con una variabile al momento indecifrabile: il "partito del non voto", accreditato del 26%. Per ora ci si limita ai flussi, che indicano un travaso di consensi dai democratici all'Udc, salita al 6% nei sondaggi. "Ma nel Pd l'emorragia sul territorio è molto più forte", secondo il leader del Pri Nucara: "Specie al Sud sono in libera uscita anche quadri dirigenti locali. È lì che il Pdl deve agire capillarmente per intercettare i consensi moderati. Veltroni ha fatto un gran casino con le liste".
Berlusconi nei colloqui riservati ha parlato anche del modo "cinico" in cui l'avversario ha "decimato " gli uscenti. Prova ne era ieri la delusione che si leggeva sul volto del deputato ulivista Khaled Fouad Allam. Scaricato senza convenevoli, l'intellettuale dice che tornerà a scrivere: "Mi hanno proposto di fare l'editorialista dell'Osservatore Romano". La mattanza sta per consumarsi anche nel Pdl. E se le liste verranno chiuse all'ultimo momento, sarà proprio per evitare che gli esclusi — soprattutto di An — tentino di accasarsi con la Destra di Storace.



Se Zapatero se Veltroni
Gianfranco Pasquino su
l'Unità

In un mondo globalizzato, nel quale le informazioni circolano ampiamente e liberamente e rimbalzano su una pluralità di strumenti: televisioni, radio, internet, telefonini e, non necessariamente ultimi, i quotidiani e i settimanali, è possibile che quanto succede nei diversi sistemi politici, in particolare, in quelli più importanti, influenzi un po' dovunque gli avvenimenti e le opinioni dei cittadini più attenti.
Questa impennata di informazioni e di attenzioni è, poi, naturalmente, più probabile in occasioni elettorali quando la posta in gioco è piuttosto consistente. Nel fine settimana che sta arrivando, gli elettori spagnoli dovranno scegliere, in una competizione chiaramente bipolare (pur tenendo conto che, poi, anche i voti della sinistra e di alcuni partiti regionalisti potranno avere un certo, al momento indefinibile, peso nella Camera dei deputati), fra il Partito socialista del Presidente del governo José Luis Zapatero e il Partito Popolare di Mariano Rajoy, attualmente all'opposizione. Nei duelli televisivi, Zapatero ha avuto, seppur di poco, la meglio, ma, come dovremmo avere già imparato, le elezioni si vincono e si perdono anche "semplicemente" portando alle urne tutti i propri elettori. Nel frattempo, negli Stati Uniti d'America si stanno dipanando appassionanti elezioni veramente primarie per la scelta della candidatura democratica (quella repubblicana sembra già essere appannaggio del settantunenne eroe di guerra John McCain) alla Presidenza della Repubblica. È innegabile che quella parte di elettorato italiano che vota a sinistra senta affinità per il Psoe e per i Democratici Usa e abbia molta simpatia per i loro candidati. Non è una manifestazione di provincialismo quanto, semmai, di opportuno consapevole cosmopolitismo: quanto succede altrove interessa anche l'Italia e può influenzarne la politica e l'economia. Non è questione di ideologia, ma di convinzioni simili, di collocazione, di politiche che, certamente con qualche diversità, dai socialisti spagnoli ai democratici americani, sono, nei limiti del possibile, non troppo diverse, ma piuttosto lontane da quelle dei Popolari spagnoli e dei Repubblicani americani. E' anche fuori di dubbio che gli elettori potenziali del Partito Democratico italiano preferiscano, non soltanto, "ma anche", per il nome del partito, i candidati democratici USA e, almeno per le posizioni politiche e nel confronto con i Popolari, abbiano una chiara propensione a sperare nella riconferma di Zapatero al governo della Spagna.
Ma, quanto quegli avvenimenti possono incidere sulla campagna elettorale italiana e sul suo esito il 13 e 14 aprile? Non c'è nessun dubbio che le vittorie dei Democratici Usa hanno abitualmente esercitato un effetto positivo sulle fortune dei partiti riformisti delle democrazie occidentali. Per utilizzare un termine oggi molto diffuso, quelle vittorie aprivano la strada alla speranza di cambiamenti praticabili, una strada sulla quale diventava più facile per i riformisti incamminarsi e che veniva percorsa anche con la benevola attenzione dei democratici USA.

Un democratico alla Casa Bianca, soprattutto quel democratico che, come ha scritto Empedocle Maffia nell'introduzione ai discorsi del Senatore dell'Illinois, rappresenta "l'ultima declinazione del sogno americano", darebbe un segnale politico di grande importanza a favore del cambiamento. Tuttavia, per le elezioni italiane arriverebbe troppo tardi. Invece quello che succederà in Spagna domenica 9 marzo può influenzarci più direttamente e più immediatamente. A confronto con un possente Partito Popolare, sostenuto con vigore e furore dalla Chiesa cattolica, Zapatero non ha manifestato nessun cedimento in materia di laicità. Ha anche attuato politiche economiche di sviluppo tanto che la Spagna si sta avvicinando all'Italia a grandi falcate. Ha persino mirato al contenimento e alla riduzione delle disuguaglianze, in parte inevitabili ogniqualvolta si vivano situazioni di notevole accelerato sviluppo. Una vittoria della destra, che agita la sua campagna negativa basata sulla paura, ringalluzzirebbe il Popolo berlusconiano delle Libertà e i sedicenti atei più o meno devoti. Al contrario, la seconda vittoria di Zapatero e del Partito Socialista Operaio Spagnolo, sarebbe di conforto in Italia a quanti, e sono molti, credono che un partito riformista sia in grado di attuare politiche innovative e con quelle politiche, che sono buone perché non scontentano affatto tutti, sia possibile vincere e rivincere le elezioni.
Se si può fare in Spagna, perché non anche in Italia?


Silvio l'Inseguitore
Vincenzo Cerami su
l'Unità

Ecco una lista della spesa in 5 punti sulla storia politica italiana di questi ultimi mesi.
1) Si uniscono due grandi partiti, nasce il Pd. In seguito Veltroni pronuncia la decisione storica: il Pd andrà da solo.
Berlusconi corre ai ripari: annuncia, subito dopo, l'accordo con Gianfranco Fini per dar vita a una lista unica, federata con la Lega, che avrà il simbolo del Popolo della libertà: "Un movimento grande e importante che unisse tutti i cittadini italiani, liberali e moderati, che non si riconoscono nella sinistra".
2) Il Pd organizza le primarie per scegliere il candidato premier.
Berlusconi organizza i gazebo per scegliere il nome della nuova formazione: Partito della libertà o Popolo della libertà? L'ex premier ci tiene a sottolineare che non si tratta di una risposta alla corsa solitaria di Veltroni.
3) Il 25 febbraio Veltroni presenta il programma del Pd in 12 punti.
Il giorno dopo, 26 febbraio, Berlusconi dichiara che il Pdl presenterà un programma in 10 punti. Un testo che sara' siglato probabilmente il 29 ad Arcore da tutti i leader della coalizione.
L'1 marzo Berlusconi non bada a spese, accelera il passo: programma in 7 punti, detto "Le Sette missioni per salvare il paese"
4) Veltroni decide di non accogliere nelle liste elettorali tutti coloro che hanno procedimenti penali in corso o che sono condannati in via definitiva. Alla domanda: come pensa di ridurre la spesa pubblica, il Segretario del Pd risponde: abolendo le province e accorpando alcuni comuni.
Berlusconi poi, a Matrix, fa l'indiano, dice di voler tagliare le province e, seguendo a ruota Veltroni, dichiara che anche nel Pdl non verranno candidati personaggi con la fedina penale sporca o con processi in corso. Ovviamente bisognerà fare qualche eccezione per i reati "di chiara origine politica".
5) Un passo indietro: cade il governo Prodi, Veltroni propone un'intesa con l'opposizione per le riforme: ""Facciamo le riforme, poi andiamo al voto con la nuova legge elettorale".
"No e poi no" urla Berlusconi. "Elezioni subito!"
"È un rischio", insiste Veltroni, "al Senato con questa legge potrebbe succedere quel che è successo a Prodi. Sarebbe un problema per chiunque governi. Facciamo un'intesa: prima le riforme, poi le elezioni".
"Ho detto no! Nessuna intesa, elezioni subito, al Senato da soli con ampia maggioranza!"
Dissolvenza… 5 marzo.
Visti gli ultimi sondaggi, Berlusconi dice: "Se la maggioranza al Senato non sarà ampia, io non farò come Prodi". E ancora: "Senza una affermazione netta, non sarò io a formare il governo…Senza una coalizione forte, in Italia non si può fare niente. Contro la sinistra, contro i sindacati, non si riesce a fare niente".


Il petrolio non si ferma più sfondata quota 104 dollari
V. Puledda e A. Greco su
la Repubblica

MILANO - Giornata di forti rialzi per i mercati: ieri è salito tutto, dall´oro all´euro, dal petrolio alle Borse; unico sconfitto, il dollaro, che ha toccato il minimo storico a quota 1,5302 punti per un euro, anche se poi la chiusura, in Europa, è avvenuta appena sotto, a 1,5282 dollari (alla vigilia della riunione Bce, che non dovrebbe toccare i tassi).
E record, ancora più netto, è stato per il petrolio: l´oro nero ha guadagnato costantemente nel corso delle contrattazioni, fino a toccare il record assoluto di quota 104,64 per barile (il precedente massimo, di qualche giorno fa, era stato a 103,75 dollari). Tra i fattori che hanno fatto da propellente per questa nuova, folle corsa del greggio, il principale è venuto sicuramente dalla conferma - nel corso della lunga riunione del cartello dei paesi produttori - degli attuali tetti di estrazione quotidiana: nonostante le richieste delle nazioni consumatrici, in prima fila gli States, l´Opec ha difeso i livelli attuali, rifiutandosi di agevolare la discesa dei prezzi con maggiori estrazioni. Una scelta apertamente criticata dal presidente degli Usa: George Bush ha fatto sapere di essere "deluso" dalle decisioni dell´Opec e di non ritenere "una buona idea" il mantenimento delle quote attuali, in un momento in cui l´economia Usa rallenta, anche a causa del caro-petrolio. Come se non bastasse, ieri sono state rese note le scorte di greggio negli Usa, scese in modo sensibile, mentre sono in ascesa le tensioni politiche, tra Venezuela e Colombia, e tra gli Usa e Iran: tutti motivi che hanno dato fuoco alle polveri delle quotazioni (record, tra l´altro, anche per l´oro, con un nuovo massimo a 995,20 dollari l´oncia).
Giornata molto positiva per le Borse europee, che dopo sei cali consecutivi ieri hanno tentato il rimbalzo: meglio di tutte ha fatto Milano, più 2,31%, seguita da Francoforte, più 2,12, Parigi, più 1,72 e Londra, più 1,49%. Più sofferta la seduta di Wall Street, … Poi il Dow Jones ha chiuso il lieve rialzo.
La perdurante irritabilità dei mercati per l´onda lunga della crisi del credito negli States, ha indotto il ministro dell´Economia Tommaso Padoa-Schioppa a riconvocare il Cicr, comitato interministeriale per il credito e il risparmio. L´appuntamento è per domani, con il governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, il presidente della Consob Lamberto Cardia, quello dell´Isvap Giancarlo Giannini più gli altri ministri "economici" dell´esecutivo uscente. L´obiettivo è aumentare il coordinamento tra le autorità vigilanti sui temi finanziari (quindi Bankitalia, Consob e Isvap) così come Padoa-Schioppa aveva già auspicato - trovando consensi - in sede comunitaria. L´occasione varrà anche per monitorare e aggiornare i dati economici più recenti (l´ultimo Cicr s´era riunito il 13 settembre scorso). In ogni caso, il comitato di domani non sembra una mossa studiata per tappare qualche falla nel sistema, anche perché nessuna banca o assicurazione italiana risulta particolarmente sofferente per svalutazioni o perdite su crediti, mutui e bond.



Hillary risorge battendo Obama
Maurizio Molinari su
La Stampa

John McCain ottiene la nomination e Hillary Clinton risorge. I risultati della lunga notte del Super Martedì di marzo portano chiarezza nella corsa alla Casa Bianca ed aprono una fase nuova della sfida elettorale che terminerà in novembre.

In casa repubblicana il senatore dell'Arizona eroe di guerra John McCain vince in Texas, Ohio, Rhode Island e Vermont, supera agilmente il quorum di 1191 delegati che comporta la conquista della nomination presidenziale, ottiene la resa dell'ex governatore dell'Arkansas Mike Huckabee - ultimo sfidante rimasto in pista - e parla a Dallas, in Texas, chiedendo all'America di alzarsi ed affrontare le sfide del XXI secolo. Su di lui e su un parterre di sostenitori in festa piovono centinaia di palloncini con i colori nazionali.

Nel discorso di McCain c'è già un accenno di quello che si profila come il programma elettorale: difende la scelta di deporre Saddam Hussein, promette di porre fine alla guerra in Iraq "il più velocemente possibile ma senza creare instabilità e fare favori ai nostri nemici", preannuncia che chiederà agli alleati di impegnarsi di più contro i taleban in Afghanistan, si impegna a ridurre le tasse ed rendere meno invadente il governo nella vita dei cittadini. Soprattutto si mostra sicuro di poter battere qualsiasi democratico ed ai rivali manda a dire: "Non bisogna fuggire dalla storia ma farla".

Fra i democratici la sorpresa ha il volto di Hillary Clinton. L'ex Fist Lady smentisce chi la dava per finita vincendo in Ohio con il 55 per cento dei voti, in Rhode Island con il 58 per cento ed anche il Texas, dove dopo uno spoglio-batticuore si e' imposta con un margine di appena 50 mila voti su oltre 2 milioni di preferenze scrutinate. Il senatore afroamericano Barack Obama che sognava di mettere a segno il colpo del ko contro la rivale deve accontentarsi di un'unica vittoria nel piccolo Vermont ma e' sicuro di ridurre le dimensioni della sconfitta grazie alla conta finale dei delegati, assegnati con il criterio proporzionale. Tanto Hillary che Obama comunque restano lontani dalla nomination.

Parlando a risultati acquisiti di fronte ai fan riuniti a Columbus, Ohio, Hillary ha promesso la riforma della sanità pubblica, il rilancio dell'economia, la fine della guerra in Iraq e "la vittoria nel conflitto in Afghanistan". Vestita di rosso e con un sorriso smagliante è salita sul palco assieme alla figlia Chelsea. Assente invece il marito Bill. La vittoria che allontana gli incubi serve anche a lanciare il nuovo slogan della campagna: "Yes, We Will", sì lo faremo, in contrapposizione al "Yes, We Can" di Obama.



“Pagheremo l'Iraq con tutti gli interessi”
Nathan Gardels intervista l'economista Stiglitz su
La Stampa

L'economia americana, sull'orlo di una recessione o di qualcosa di ancora peggio, ha di nuovo scelto la guerra in Iraq come argomento chiave della campagna elettorale. Qual è il legame tra i guai economici e quella guerra?
"La guerra ha portato dritto filato al rallentamento economico americano. Innanzitutto, prima che gli Usa andassero in guerra in Iraq, il prezzo di un barile di petrolio era 25 dollari. Ora è cento. Certamente ci sono altri fattori implicati nell'aumento di prezzo, ma quella guerra è chiaramente il primo. Anche mettendo in conto la crescente domanda di energia dell'India e della Cina, gli analisti finanziari avevano previsto, prima della guerra, che il prezzo del barile sarebbe rimasto intorno ai 23 dollari per almeno dieci anni. Sono la guerra e l'instabilità che essa ha causato, insieme alla caduta del dollaro per i bassi tassi di interesse e l'alto deficit della bilancia commerciale, i responsabili di questa enorme differenza. Quel prezzo ben più alto significa che i miliardi che sarebbero potuti finire nelle tasche degli americani perché li spendessero a casa loro, sono finiti invece all'Arabia saudita e ad altri Paesi esportatori di petrolio.

In secondo luogo, il denaro speso in Iraq non stimola l'economia interna americana. Se assoldi un contractor filippino perché lavori in Iraq, non avrai l'effetto moltiplicatore di qualcuno che costruisce una strada o un ponte nel Missouri. In terzo luogo, questa guerra, a differenza di tutte le altre guerre della storia americana, è stata interamente finanziata con l'indebitamento pubblico. I deficit sono un guaio perché bloccano gli investimenti e accumulano un debito che in futuro dev'essere pagato. Questo danneggia la produttività perché resta poi poco sia per gli investimenti pubblici nella ricerca, nell'istruzione e nelle infrastrutture, sia per gli investimenti privati in macchinari e fabbriche.

Fino a pochissimo tempo fa, non abbiamo sentito l'effetto deprimente sull'economia di questi tre fattori, perché la Federal Reserve rispondeva con l'atteggiamento di chi deve tenere un'economia forte indipendentemente da quanto il presidente Bush spende nella guerra in Iraq. Vedendo un'economia debole, la Banca centrale americana ha tenuto bassi i tassi d'interesse, ha stampato moneta sommergendo l'economia di liquidità e girato la faccia dall'altra parte quando cattive procedure di prestiti per la casa gettavano il denaro dalla finestra. I controlli erano fiacchi, il rubinetto delle erogazioni di mutui ben aperto. Solo negli ultimi cinque anni il debito garantito da immobili è salito a più di millecinquecento miliardi di dollari. E' una somma enorme!

Contemporaneamente il risparmio americano è crollato a zero. Così tutto ciò che si spendeva, dalla ricostruzione in Iraq alla tinteggiatura nella propria casa, veniva finanziato con denaro preso a prestito. Tutti i problemi venivano nascosti con il credito. La bolla è scoppiata quando il rapporto tra prezzi degli immobili e salari non è più stato sostenibile. Ora che possiamo vedere dietro la bolla, si individua perfettamente la debolezza economica causata dalla guerra in Iraq. Pagheremo tutto, e con gli interessi.

Una delle bizzarrie della globalizzazione è che i cinesi, che all'Onu si sono opposti alla guerra in Iraq, hanno finito per essere tra i suoi maggiori finanziatori, fornendo bond al tesoro americano attingendo alle enormi riserve in dollari che hanno guadagnato con il surplus della bilancia commerciale con gli Usa. Così, una democrazia di consumatori priva di risparmi prende denaro a prestito da uno Stato leninista orientato al mercato per combattere il terrorismo, e tiene libere elezioni in uno Stato arabo dalle quali, per la prima volta in 800 anni, esce un governo sciita! Come possiamo districarci in tutto ciò?
"... e gli americani non hanno indicazioni su ciò che stanno appoggiando, il che indebolisce anche la democrazia interna. Ma l'ironia della storia non finisce qua. Questa è la prima guerra americana dai tempi della Rivoluzione che viene finanziata dall'esterno. All'inizio di tutte le altre guerre c'è sempre stato un vero dibattito pubblico sui costi da accollare alle generazioni future e su quelli da sostenere subito con le tasse. Questa è la prima guerra in cui c'è stata una riduzione delle tasse quando è cominciata.

La guerra in Iraq non solo è stata finanziata da stranieri, ma è anche la guerra più privatizzata di tutta la storia americana. E i risultati sono singolari. Per esempio, un contractor impiegato nella sicurezza - sto parlando di una body guard, non di un ingegnere altamente specializzato - guadagna più di mille dollari al giorno, spesso più di 400 mila all'anno. Un soldato dell'esercito americano viene pagato infinitamente meno - circa 40 mila dollari all'anno - per gli stessi compiti. Ora tutti sanno che un posto di lavoro dove una persona guadagna dieci volte più di un'altra per fare le stesse cose è un focolaio di malcontento. Così, per attrarre soldati, l'esercito americano ha dovuto offrire dei bonus a chi si arruola. Siamo diventati concorrenti di noi stessi! Questo ovviamente aumenta i costi. Ma le assurdità non finiscono qua. La più grande è che i contribuenti americani pagano l'assicurazione per l'invalidità o la morte dei contractor, ma poi la politica delle assicurazioni è quella di non pagare il premio in caso di “ostilità”. Per che paghiamo allora? In buona sostanza, il contribuente paga le compagnie in cambio di niente. Bell'affare!

Quali sono le stime economiche americane per la guerra in Iraq?
"Secondo le stime più tradizionali, questa guerra finora è costata almeno l'incredibile cifra di tremila miliardi di dollari. Una stima più realistica arriva a cinquemila miliardi di dollari, includendo tutti i costi fuori bilancio per i benefit e le cure a lungo termine dei veterani, il ripristino dell'esercito nella sua forza prebellica e il costosissimo ritiro dall'Iraq, con il riposizionamento delle forze altrove nella regione. Poi ci sono le microspese che non sono state incluse tra i costi della guerra. Per esempio, se un soldato viene ucciso in battaglia, la sua famiglia riceve un indennizzo di 500 mila dollari. Questi costi, che non sono stati inclusi nel bilancio di previsione, sono però reali. Non si può continuare a nasconderli sotto il tappeto. Come con la carta di credito, i costi aumentano quanto più li ignori.


Secondo lei, questo caos economico è il risultato della fantasia neo-con o di un occultamento consapevole dei costi?
"Entrambe le cose. Una fantasia neocon che abbiamo accolto con mazzi di fiori, convinti che avremmo dovuto solo spazzare via i petali delle rose e il petrolio iracheno avrebbe pagato tutto il resto. E un tentativo voluto di nascondere i costi al popolo americano. Come si potrebbe giustificare altrimenti il fatto di non dare alle truppe americane l'equipaggiamento di cui avrebbero avuto bisogno? Come giustificare il fatto di non concedere i fondi per le invalidità dei nostri eroici soldati menomati fisicamente e psicologicamente? Lo si può solo interpretare come un deliberato tentativo di nascondere i costi reali della guerra. L'Amministrazione Bush ha anteposto vantaggi politici immediati alla sicurezza del Paese".

I costi economici sono ora venuti a galla minando tutti gli sforzi di sicurezza del dopo 11 settembre. Quando John McCain dice di non essere interessato all'aspetto economico delle cose e comunque di non capirlo, perché lui sa solo come mantenere sicura l'America, questo atteggiamento che cosa dice delle sue capacità di leader?
"Se non capisce l'economia, non capisce la sicurezza. Se avessimo risorse infinite, forse saremmo capaci di avere una sicurezza perfetta. Ma l'America, come tutti gli altri Paesi, ha risorse limitate. Questo significa che devi essere abile - cioè economico - con il denaro che spendi. Se indebolisci l'economia americana, non troverai le risorse che servono per la sicurezza. I due aspetti non possono essere tenuti separati".


  6 marzo 2008