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sulla stampa
a cura di G.C. - 4 marzo 2008


E Silvio archiviò i miracoli
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

E la chioma? Deciderà anche di mostrarsi pelato e senza quei capelli arancioni tanto sagomati da sembrare un parrucchino? L'interrogativo non è così eccentrico dopo che ieri Silvio Berlusconi, rompendo un tabù, si è girato verso un collaboratore che gli parlava all'orecchio sbuffando divertito: "È inutile che suggerisci. Sarò vecchio ma non sono ancora rincoglionito". Stupore tra gli astanti: vecchio? Lui? La battuta in realtà, giura chi lo conosce, è tutta nel solco di una nuova strategia del Cavaliere. Lo spiegò benissimo, anni fa, don Gianni Baget Bozzo, che in questi anni è stato il cappellano militare di Forza Italia: "Le gaffes di Berlusconi non sono gaffes. Lui fa finta ma è tutto già pensato, già voluto. Sperimenta, cerca, manda messaggi, anticipa. Sono uno strumento di comunicazione e di direzione politica". Vale per le gaffes, vale per il resto. Anche se un giorno gigioneggiò sul suo essere "come Biancaneve in un mondo che non è una fiaba " e ancora insiste talora nel definirsi un imprenditore "costretto dalla storia ad assumersi questo ruolo", il leader azzurro ha imparato da un pezzo a "far politica". Anzi, non lascia niente al caso. Straordinario "annusatore" del mercato, ama dire che sa farsi "concavo e convesso". Un prodotto non va più? Lo cambia. Con una rapidità di decisione che gli altri politici italiani se la sognano. Ed è lì la chiave per capire le ultime svolte. Tre su tutte. La prima: abolizione dei sogni. Ci aveva giocato per anni, sul tema. Non solo nel messaggio con cui segnò il suo ingresso in politica. Si vantava di avere voluto lui preziose riedizioni de "L'Elogio della follia" di Erasmo da Rotterdam e de "L'Utopia " di Tommaso Moro. Scriveva libri dal titolo "La forza di un sogno". Definiva Forza Italia "una nave di sognatori ". Assicurava che il suo governo "stava realizzando il sogno di cambiare l'Italia". E ancora due anni fa teorizzava: "Ai cittadini bisogna presentare un sogno, un progetto ambizioso per il futuro, e noi stiamo pensando a quello". Per non dire dei miracoli. Promessi e rivendicati: "Vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano".

"Abbiamo fatto semplicemente i miracoli. Nessuno ha fatto mai di più della coppia Berlusconi-Letta...". Bene: tutto cambiato. Al punto di lanciare questo messaggio: "La situazione è molto, molto difficile e gli italiani devono essere consapevoli di questo. Nel programma c'è una frase precisa, ossia: non promettiamo e non facciamo miracoli". Seconda svolta: l'impegno, tra le sette "missioni ", a ridurre la pressione fiscale "sotto il 40 per cento ". Una sterzata poco notata da amici e avversari, ma clamorosa. Fin dal suo trionfale debutto, infatti, il Cavaliere aveva battuto e ribattuto su un punto: "Se i cittadini sentono che lo Stato non li rapina ma gli chiede il giusto saranno contenti di pagare le tasse e le entrate dello Stato aumenteranno ". Dunque, due sole aliquote: 23% fino a 200 milioni di lire, 33 per cento oltre. Tesi liquidata da Giulio Tremonti, pochi giorni prima di diventare un ministro berlusconiano, come una "panzana". Peggio: "Miracolismo finanziario". Ma cocciutamente perseguita dal Cavaliere per anni. Cavalcata nella campagna elettorale del 2001: "Per il Mezzogiorno, quando sarò al governo, chiederò al commissario Ue Monti gli stessi sgravi fiscali dell'Irlanda. Ridurrò l'Irpeg al 25%". "Con buon senso e attenzione, nell'arco di tre-quattro anni ridurremo la pressione fiscale dal 47 al 35%. E taglieremo del 20% il prelievo Irpef". Controfirmata nel famoso "contratto con gli italiani": "Punto primo: Abbattimento della pressione fiscale con l'esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; riduzione al 23 per cento dell'aliquota per i redditi fino a 200 milioni; riduzione al 33 per cento dell'aliquota per i redditi sopra i 200 milioni".

Terza svolta, sul giovanilismo. Ci ha sempre tenuto molto, il Cavaliere. Si faceva fotografare in tenuta da tennis mentre batteva il passo con Galliani, Dell'Utri, Letta alle Bermude. Gioiva a leggere che i compagni di una "corsa rigenerante" erano rimasti con la lingua a penzoloni e l'assai più giovane Antonio Tajani aveva dovuto mettersi a letto. Gongolava quando Michaela Biancofiore, bionda valchiria altoatesina, lo definiva "un figaccione". Faceva lo sciupafemmine, fino a innervosire Veronica, confidando: "Sono andato a Cleveland per venire incontro alle sollecitazione dei miei che volevano che mettessi un salvavita. Ora mi sento forte, giovane e prestante e sono pronto a innamorarmi". Citava a suo vanto il medico e sindaco Umberto Scapagnini: "Assicura che sono 25 anni più giovane della mia età reale". Fino alle battute più recenti: "Mi sento giovanissimo". "Mi fa piacere stare qui tra coetanei, cari ragazzi di An".
"Gli anni? Tutto dipende da come uno si sente. Io per esempio, in tutti i campi, ne ho 35". Tema: come mai, ieri, ha rovesciato tutto? Autoironia, senz'altro: anche i nemici riconoscono che ce l'ha. Ma forse, come sulle tasse e i miracoli e i sogni, c'è appunto dell'altro. Una nuova strategia. La stessa che lo portò, tempo fa, a rinvangare con Veltroni una mitica battuta di Reagan contro Mondale che gli rinfacciava d'esser vecchio: "Non sfrutterò politicamente la giovane età e l'inesperienza del mio avversario". Resta quella curiosità iniziale: e i capelli? Il "nuovo" Berlusconi più prudente e meno sognatore e meno miracolista si mostrerà anche più anzianotto? E i tacchi? Rinuncerà un giorno a quelle formidabili zeppe che lo fanno svettare oltre il metro e settanta?


Calearo, Ichino e Del Vecchio nel Pd. Cosa cambia?
Marco Castelnuovo su
La Stampa

Cos'è rimasto di sinistra nel Pd?
Il centrosinistra italiano, non la sinistra massimalista ma il centrosinistra tutto insieme, ha compiuto in passato battaglie di vita e di morte su alcune questioni dirimenti.
Ci ricordiamo, per esempio, la posizione contro la guerra. Una posizione netta, assoluta, con tanto di bandiere alla finestra.
E come dimenticare la battaglia sull''articolo 18 che il governo Berlusconi voleva modificare?
Erano posizioni condivise in toto da tutto l''Ulivo che oggi è confluito nel Pd.
Veltroni ha candidato il comandante dell'esercito Mauro Del Vecchio, già capo delle missioni all'estero in Kosovo e Afghanistan.
Ha accettato la candidatura nel Partito democratico anche Pietro Ichino, professore di Diritto del Lavoro amico e sodale di Marco Biagi e che per questo gira con la scorta. Ichino da anni si batte dalle colonne del Corriere della Sera e dai suoi libri contro l'arretratezza culturale del sindacato italiano. In ultimo, ieri, la decisione di Massimo Calearo, classico imprenditore del Nord est, presidente di Federmeccanica, uno dei più ostici trattativisti al tavolo del rinnovo dei contratti. Lo stesso Calearo che ad agosto si diceva d'accordo con Bossi per lo sciopero fiscale.
Nulla di dire sui profili, la storia, le capacità dei candidati. Per me sono ottime candidature, soprattutto quella di Ichino che ho avuto modo di avere come professore quando studiavo a Milano.
Ma che questi nomi in lista, tra gli altri, rappresentino un'ulteriore discontinuità rispetto al passato è indubbio. Mi chiedo, vi chiedo. E delle battaglie degli anni scorsi cosa rimane?
Mi si potrà obiettare che non sono necessariamente in contraddizione con il passato. Ed è vero. Ma è possibile che questa discontinuità sia avvenuta senza un'autocritica? Senza un momento di riflessione? Senza pubblica ammissione di un mutamento culturale che sembra ormai essere nei fatti.
Secondo me è un'ulteriore dimostrazione che destra e sinistra in quanto tali sono superate. Gli steccati del Novecento non si possono replicare nel ventunesimo secolo. Come nei moderni partiti europei le fratture che separano conservatori da progressisti sono altre.
Però le cose vanno spiegate onde non confondere un elettorato che sta già perdendo, via via, i punti di riferimento culturali. "Non basta dire no", dicevano i riformisti di sinistra contro i massimalisti conservatori. Ma qualcosa, secondo me, bisogna pur dire.



Le occasioni perdute
Francesco Giavazzi sul
Corriere della Sera

"Vi chiedo di aver fiducia. Non solo nella mia capacità di cambiare la politica americana. Vi chiedo di aver fiducia in voi stessi ". C'è un po' di Barack Obama nel programma elettorale del Partito democratico: "In Italia 2-3 mila imprese si sono ristrutturate e ora si sono riproposte da leader nell'economia globale. Migliaia di giovani calabresi hanno sfidato la mafia: "ora uccideteci tutti". E sono italiani quegli imprenditori che in Sicilia rifiutano di pagare il pizzo ed espellono dalle loro associazioni chi continua a pagarlo".
E' vero, e un po' di ottimismo ci vuole. Perché l'Italia ha potenzialità straordinarie e non è—come talvolta la descrive il centrodestra — una società impaurita che deve difendersi alzando barriere e cercando protezione nello Stato. E tuttavia il programma del Pd ricorda Obama anche nella sua vaghezza: ogni volta che affronta un tema spinoso scivola via e passa ad altro. La parola "pensioni" non appare mai, ma c'è un paragrafo un po' sibillino su "politiche per l'invecchiamento attivo": è il linguaggio veltroniano per definire l'innalzamento dell'età pensionistica? Sulla giustizia si chiede maggior severità delle pene. Bene, ma le carceri si avviano a raggiungere la soglia dei 60 mila detenuti, a fronte dei 43 mila regolamentari: come fare non si dice. Per rendere più efficienti i tribunali si propone di "monitorarli per fare emergere le migliori pratiche": non una parola sulla responsabilità dei giudici e sull'autorità dei presidenti dei tribunali e dei capi delle procure (il costo della partecipazione di Di Pietro alle liste del Pd?).
Sulle banche si punta l'indice contro le rendite di cui ancora godono: vuol dire che il Pd sosterrà la proposta del governatore della Banca d'Italia di non consentire più che le banche posseggano fondi di investimento, oppure si preferisce rimanere vaghi per non disturbare i banchieri? "Ciascuna università deve essere libera di assumere i propri docenti": ottimo, ma non si può fare senza abolire i concorsi e il valore legale delle lauree. E' questo il progetto? Si propone una legge annuale sulla concorrenza, ma tra le molte liberalizzazioni citate non compare il gas: solo una dimenticanza o timore dell'Eni? Sui servizi pubblici locali si parla di gare e di mercato, ma non una parola sulla proprietà delle aziende. Sul metodo della concertazione tra Stato e parti sociali si ammette (finalmente) che è un modello da abbandonare e sostituire con la contrattazione decentrata. Quando poi si dice che ciò richiede una riforma delle regole di "rappresentanza delle forze sociali ", fra le righe si capisce che ci si riferisce anche alla rappresentatività dei sindacati: se è vero, non era meglio essere espliciti?
Si propone un salario minimo di "1.000 euro al mese": anche per un lavoratore part-time?

Sui problemi del lavoro Walter Veltroni ha perso una grande occasione: proporre di abolire lo Statuto dei lavoratori (del 1970), tutto, non solo l'articolo 18, e sostituirlo con regole moderne, a partire da un sistema generalizzato di sussidi di disoccupazione. Tony Blair avrebbe avuto il coraggio di farlo, e forse avrebbe vinto le elezioni.


Nord e Sud. I nodi di Veltroni
Antonio Padellaro su
l'Unità

Con Bassolino e Calearo, personaggi diversissimi tra loro, Veltroni sta giocando un round decisivo della partita elettorale del Pd. Non avrà le dimissioni del presidente campano, che richiesto di appellarsi alla propria coscienza ha risposto di non voler "disertare". Ma avrà come capolista nel Veneto l'industriale presidente di Federmeccanica, candidatura che per il leader democratico incarna il patto tra produttori e lavoratori (ma alla Fiom non la pensano così). Bassolino rappresenta nel bene e nel male la questione meridionale del centrosinistra. Per una lunga stagione e soprattutto da sindaco di Napoli ha consentito la mietitura di vasti consensi elettorali. Fino alle elezioni del 2006 quando il voto in Campania è risultato decisivo al risicato successo dell'Unione. Adesso però il governatore è diventato, forse ingiustamente, il parafulmine politico dell'emergenza rifiuti, immagine a cui Veltroni vorrebbe comprensibilmente sottrarsi. La scelta di Calearo, invece, punta direttamente al cuore della questione settentrionale del Pd. Un Nord-Est tradizionalmente inospitale per il centrosinistra e che ora si tenta di sottrarre alla tenaglia berlusconian-leghista con un nome che può avere effetti rassicuranti nel mondo della piccola e media industria. Subito Bertinotti e Diliberto ne approfittano per definire i “fratelli coltelli” del Pd un partito non più di sinistra e ormai distante dalla classe operaia. Ma per vincere le elezioni Veltroni persegue la strategia della discontinuità del Pd. Quella di un partito maggioritario che pur senza allontanarsi dal suo tradizionale blocco sociale deve saper raccogliere consensi in tutti ceti, in tutte le categorie e tra tutte le età. Si tratta di sommare i possibili voti nuovi (Calearo) ai voti che ci sono (Bassolino) ma che potrebbero non esserci più. Non sarà facile. Ma chi ha detto che battere Berlusconi lo è?


Fini, An e il coraggio del “passo indietro”
Marcello Sorgi su
La Stampa

L'uscita di Gianfranco Fini sui lavori forzati, sulla proposta, cioè, di condannare a lavorare gratis chi danneggia il patrimonio pubblico almeno fino a che il valore delle prestazioni gratuite non sia pari ai danni provocati, ha riacceso i riflettori sul leader di Alleanza nazionale che alla vigilia dello scioglimento delle Camere, con una svolta improvvisa, ha aderito al progetto di Berlusconi di fondare il nuovo partito del Popolo delle libertà e ha dato il via al processo che porterà An, dopo le elezioni, prima a confluire in un gruppo parlamentare unico e poi a sciogliersi definitivamente. Molto più che il vecchio Msi, di cui pure era stato segretario come delfino del leader storico Almirante, Alleanza Nazionale è stata, per quattordici anni, la creatura politica di Gianfranco Fini, il veicolo su cui trasportare il gruppo dirigente e l'elettorato missino in un'area e in una logica di governo, fino alla completa rinnegazione di ogni nostalgia fascista o post-fascista. In questo senso Fini a destra ha svolto l'opera che a sinistra e nel Pci era toccata ad Occhetto.

Proprio per queste ragioni la svolta verso l'ingresso nel Pdl e il ritorno a fianco di Berlusconi, dopo le aspre polemiche che avevano accompagnato il famoso "discorso del predellino" - quando a metà novembre il Cavaliere annunciò la nascita del nuovo partito a Milano a Piazza San Babila, senza neppure avvertire il gruppo dirigente di Forza Italia - ha il segno, non solo di una svolta politica, ma personale. Fini infatti è il primo leader della Seconda Repubblica che rinuncia al suo ruolo di guida, non perché battuto, ma perchè ha scelto di costruire una nuova forza politica all'interno della quale, al momento, lui non potrà essere il numero uno, nè il candidato alla premiership, compiti riservati a Berlusconi.

E già da questi primi giorni di campagna elettorale è evidente che Fini, per la prima volta dopo venti anni, sale sul palco non più da leader, ma da cofondatore del Pdl e in sostanza da numero due. Un ruolo tutto da inventare, che lo mette in una posizione privilegiata in caso di successione a Berlusconi, ma che, nel momento in cui quella successione non è alle viste, lo obbliga a cercare uno spazio con nuove idee, iniziative, proposte. Insomma facendo politica.


Il progetto incidenti zero
Luciano Gallino su
la Repubblica

L'incidente di Molfetta, in cui quattro lavoratori sono morti per essersi calati in un'autocisterna satura di esalazioni di zolfo, è indicibilmente penoso. Anzitutto per i suoi innumerevoli precedenti, che attestano concordemente della sua prevedibilità. Di cisterna e contenitori similari, da sempre, si muore, quale che sia il particolare gas che avvelena fulmineamente chi vi entra senza un respiratore adeguato. Per memoria: novembre 2007, due operai muoiono a Marghera asfissiati dall'anidride carbonica nella stiva d'una nave. Marzo 2007: padre e figlio sono uccisi dall'ossido di carbonio in una cisterna d'acqua piovana nei pressi di Verona. Agosto 2006: muoiono in due nella cisterna di un oleificio della zona industriale di Monopoli. La lista può andare indietro per decenni, per centinaia di nomi. Ed ora questi quattro, tutti in una volta. Quella lista dice che il loro incidente si poteva prevedere. In tanti potevano prevederlo. Che tristezza. Ma anche che rabbia.

Chiunque soltanto si avvicini ad una cisterna, di qualsiasi tipo, dovrebbe saperlo che lì dentro sta aspettando la morte. Dovrebbero averglielo detto tutti, il capo, l'imprenditore, il fornitore, i compagni. Dovrebbe aver ricevuto una formazione apposita. Dovrebbe avere un respiratore alla cintura, beninteso del tipo adatto e in perfette condizioni, ed essere sollecitato ad indossarlo da scritte vistose, lampeggiatori che scattano appena si apre un portello, segnali sonori, magari dispositivi che impediscono che il portello, o quello che sia, venga aperto da qualcuno che non indossa un respiratore.

E non si dica che sarebbe difficile, o troppo costoso. Su molte auto si montano i sensori di parcheggio per evitare graffi alle portiere. Un sensore per evitare le morti dalle esalazioni di cisterna meriterebbe forse investimenti analoghi.

L'altro aspetto che accresce la pena della tragedia di Molfetta è che si tratta d'una tragedia della solidarietà sul lavoro. Simile, anche in questo, ai suoi innumerevoli precedenti. Uno si cala all'interno della cisterna per compiere una certa operazione, si sente male per le esalazioni che la saturano, chiede aiuto, oppure non si fa sentire per troppo tempo. Un compagno lo sente, o si insospettisce per il silenzio prolungato, si cala dentro per portargli aiuto, e ci resta anche lui. A Molfetta han perso la vita, per aiutare l'altro, anche l'autista della cisterna e il titolare dell'azienda. Sono i momenti in cui non si valuta il rischio. Si è magari consapevoli che ne va della vita, ma se l'altro si è sentito male bisogna portargli aiuto, succeda quel che succeda. Di conseguenza, uno dopo l'altro, si entra nel luogo infernale, e uno dopo l'altro si muore cercando con tutte le forze di riportare i compagni all'aperto, al sicuro, dove possono arrivare i soccorsi. È una nobiltà dell'agire umano che si riscontra soprattutto negli ambienti di lavoro - o nelle situazioni di guerra. Ma il lavoro, l'ordinaria fatica per guadagnarsi da vivere, non dovrebbe assomigliare a una guerra.

Adesso si riparlerà - già se ne riparla, fin dai primi minuti dopo la diffusione della tragica notizia - della nuova legge sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, della necessità di accelerare i decreti attuativi, di migliorare il coordinamento tra le forze ispettive. È necessario parlarne, di certo è indispensabile introdurre, presto, nuove norme.

Ma la agghiacciante prevedibilità della tragedia di Molfetta ci dice che le leggi, le norme, le ispezioni da sole non bastano. È l'intera organizzazione del lavoro che andrebbe ripensata, e con essa la frammentazione della produzione in catene di cui in fondo nessuno conosce bene l'inizio e la fine, chi sta facendo - o no - che cosa, chi è responsabile di questo o quell'anello, la distribuzione su territori troppo vasti per avere una conoscenza sicura di tutti gli anelli. Considerazioni di questo genere sono alla base, in altri Paesi, di progetti che si chiamano "zero incidenti sul lavoro".



Macerie sul negoziato
Paolo Garimberti su
la Repubblica

La guerra di Gaza (nascondersi dietro le parole è inutile) è destinata a produrre soltanto macerie, oltre che un numero esorbitante di vittime innocenti. Il primo cumulo di detriti politici rischia di essere quello della fragile costruzione diplomatica che fu messa in piedi in fretta e furia ad Annapolis. E che portò George W. Bush a promettere di battezzare entro il 2008, cioè entro la fine del suo mandato, uno Stato palestinese in grado di "vivere accanto a Israele in pace e in sicurezza".
L´ennesima promessa mancata di una presidenza che, per giudizio unanime degli analisti specializzati compresa la famosa commissione bipartisan Baker-Hamilton sull´Iraq, ha prodotto la peggiore politica estera americana da molti decenni a questa parte.
L´America non ha la forza, né diplomatica né morale, di fermare questa scossa tellurica mediorientale. Le parole del portavoce di turno della Casa Bianca, Gordon Johndroe, rituali e ripetitive ("le violenze devono essere fermate e i colloqui ripresi"), cadono nel vuoto che la non-politica mediorientale della presidenza americana ha creato, di cui il vertice di Annapolis è stato un tardivo placebo. E nessun altro ha la forza di sostituirsi agli Stati Uniti in quel ruolo di "broker" che l´Europa non ha mai saputo assumersi (in grande misura per la diffidenza israeliana) e che l´Onu ancora meno può riempire.
La risposta del premier Ehud Olmert all´appello del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e soprattutto alle critiche del segretario generale Ban Ki-Moon (che ha parlato di "uso eccessivo della forza da parte di Israele") tolgono ogni credibilità a una eventuale mediazione dell´Onu. "Nessuno ha il diritto morale di fare la predica a Israele sul suo diritto all´autodifesa".
Difficile dare torto a chi vede le sue città colpite da una pioggia di missili Qassam. Ma è altrettanto difficile accettare fino in fondo la rappresaglia indiscriminata degli israeliani, con quei bambini uccisi e le troppe vittime civili.
Come già accadde nel 2006 in Libano, anche la politica di difesa di Israele rischia di finire sotto le macerie della guerra di Gaza. La rabbia e la frustrazione di una potenza militare incapace di proteggere i suoi cittadini da missili fatti in casa e sparati dai militanti di un´organizzazione considerata terrorista potrebbe portare a una reazione devastante: un´invasione via terra. Il ministro della Difesa Barak non la esclude, parla di opzione "reale e tangibile". Ma gli osservatori militari dicono che sarebbe un´operazione ad altissimo rischio, dall´esito incerto e comunque con fortissime perdite da una parte e dall´altra: proprio il precedente del Libano sta a dimostrarlo.
Ma l´"over-reaction" israeliana non cancella, né riduce le colpe gravissime di Hamas, che continua la sua linea suicida di pretendere il riconoscimento politico senza rinunciare alla violenza e all´obiettivo proclamato della distruzione dello Stato di Israele. Nel libro di Robin Wright, appena uscito in America con il titolo "Dreams and Shadow" (Sogni e ombre), il leader di Hamas Osama Hamdan dice: "Gli Stati Uniti sono come il principe che cerca Cenerentola. Gli americani hanno la scarpa e pretendono di trovare gli interlocutori a misura della scarpa. Se chi è stato eletto non entra nella scarpa, allora gli americani lo rifiutano in nome della democrazia". Hamdan si riferisce alla netta vittoria di Hamas su Fatah nelle elezioni del 25 gennaio 2006. Però la legittimazione elettorale viene meno di fronte alla violenza e al terrorismo. Hamas non può pretendere di essere la Cenerentola della metafora e lanciare i suoi razzi (d´importazione iraniana) su Ashkelon e Sderot uccidendo a sua volta dei civili.
Chi rischia più di tutti di non uscire politicamente vivo dalla guerra di Gaza è il presidente dell´Anp Abu Mazen. Lui, insieme con Israele, è il bersaglio dei missili di Hamas. La sua unica reazione, finora, è stata di cadere nella trappola dell´escalation di minacce e insulti innescata dal vice ministro della Difesa israeliano, che ha minacciato una "catastrofe" (in ebraico "shoa") se il lancio di missili continua.
In questo scenario il preannunciato viaggio di Condoleezza Rice nella regione per rilanciare (?) il processo di Annapolis ha poco senso. Forse è più opportuno che il segretario di Stato resti a casa a meditare sulla vera "catastrofe" prodotta da otto anni di governo Bush: la totale mancanza di una politica e di una visione per il Medio Oriente.



Texas-Ohio. Hillary si gioca tutto
Roberto Rezzo su
l'Unità

IL D-DAY Un'espressione in gergo militare che letteralmente significa il giorno dei giorni. Il punto di svolta, una circostanza decisiva. Il più celebre fu quello dello sbarco in Normandia. Nell'ultima settimana i media americani l'hanno utilizzata 314 volte a proposito delle primarie democratiche. Perché oggi con la chiamata alle urne in quattro Stati la sfida tra Hillary Clinton e Barack Obama entra in una fase cruciale. È opinione diffusa che se Clinton non vince in Texas e in Ohio può dire addio alla nomination. Lo sforzo titanico profuso nelle ultime battute della campagna riflette l'importanza della posta in gioco: sono stati mandati in onda complessivamente 1.400 spot televisivi al giorno. Obama ha battuto Clinton con un rapporto di due a uno. Clinton a sorpresa recupera terreno in tutte le proiezioni, con un distacco di ben nove punti su Obama in Ohio, uno Stato che da solo vale 141 delegati.
L'ultimo sondaggio condotto dalla University of Cincinnati prima dell'apertura delle consultazioni attribuisce a Clinton il 51,3% delle preferenze e il 42,3% a Obama. In campo repubblicano John McCain è dato al 53,4% contro il 23,7% di Mike Huckabee. È interessante notare che mentre si sono moltiplicati gli appelli perché Clinton getti la spugna in caso di sconfitta in Texas o in Ohio, Huckabee continua la sua corsa senza speranza con il pieno sostegno della destra religiosa e la benedizione dei commentatori della Fox. American Research Group in Texas prevede una situazione di stallo totale con Clinton e Obama entrambi al 47 percento. Questo vuol dire che la battaglia per contendersi i 193 delegati si combatterà con tutta probabilità anche a colpi di regolamento.
Non solo le primarie democratiche sono governate dal sistema proporzionale, in Texas vige un sistema di una complessità quasi esoterica che non ha eguali in tutta America. Votano con le schede come in tutte le altre primarie e pure con i caucus, le assemblee di quartiere e di circoscrizione. Gli iscritti nelle liste democratiche possono prendere parte a tutte e due le consultazioni. Anzi, sono incoraggiati a farlo. Il meccanismo è stato ideato per promuovere la partecipazione personale agli appuntamenti cruciali del partito. Questo non significa che chi vota due volte conta il doppio, conta di più. Quanto esattamente non lo sa ancora nessuno. "È la prima volta che mi si presenta una situazione del genere - ammette un funzionario del Partito democratico ad Austin - Di solito quando si vota in Texas l'esito delle primarie è già deciso. Abbiamo ricevuto richieste di chiarimenti e pressioni da entrambe le campagne. Il conteggio sarà lungo ma posso assicurare che avverrà nel pieno rispetto delle regole".
Nei due Stati minori, improvvisamente importanti per lo scarto minimo che divide i due candidati, a Clinton è attribuito il 52% delle preferenze contro il 40% di Obama nel Rhode Island, mentre in Vermont Obama è dato al 60% contro il 34% di Clinton. Tutti i sondaggi indicano che la percentuale di elettori indecisi si è quasi dimezzata nelle ultime ore, passando da circa il 10 a un massimo del 6 percento. E la maggioranza di quelli che hanno scelto in tempo per essere inclusi nell'indagine hanno optato per Clinton. "È un fenomeno che gli esperti di marketing chiamano “pentimento del consumatore” - spiega un portavoce di Clinton - Si manifesta con la repentina flessione nelle vendite di un prodotto che inizialmente ha avuto grande successo. Può essere determinato dalla sovraesposizione mediatica, dalla mancata corrispondenza con la realtà delle caratteristiche vantate in pubblicità, o semplicemente dal fatto che certe mode vivono quanto le farfalle".



  4 marzo 2008