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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 25-26 febbraio 2008


G8, i pm su Bolzaneto:
violenze anche in infermeria
su
l'Unità

Serviranno almeno altre quattro udienze per completare il racconto di quelle giornate del luglio del 2001 quando Genova ospitò il G8. Ma l'assaggio dato lunedì dai pubblici ministeri che hanno iniziato la loro requisitoria al processo per le violenze nella caserma di Bolzaneto fanno di nuovo, quasi sette anni dopo, accapponare la pelle.

I pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello in questi anni hanno raccolto più di duecento testimonianze di chi quella notte finì in caserma. Sotto accusa ci sono 45 tra vertici apicali, appartenenti al personale della polizia penitenziaria, polizia di Stato, carabinieri e medici.

Quella che descrivono, più che una caserma, è un luogo di tortura: ragazzi e ragazze picchiate, tenuti ore e ore in piedi con le mani alzate, accompagnati in bagno e lasciati con le porte aperte, insultati, spogliati, derisi e minacciati. Le dichiarazioni raccolte, secondo i pm, trovano attendibilità in varie tipologie di riscontri, a cominciare dai referti medici successivi alla detenzione e dai racconti di numerosi testimoni.

Ma sono decine e decine le altre vessazioni che i manifestanti del Genoa Social Forum furono costretti a subire, dallo stare in piedi per ore o a fare la posizione del cigno e della ballerina, ad abbaiare come cani per poi essere insultati con minacce di tipo politico e sessuale. Nemmeno chi stava male ricevette conforto: «L'infermeria – ha denunciato il pm Ranieri Miniati – che doveva essere un aiuto in caso di sofferenza è diventata un luogo di ulteriore vessazione».

La requisitoria proseguirà nei prossimi giorni. Ci sarà molto altro di cui discutere: «Su oltre duecento persone offese – ha spiegato il pm Miniati – i casi di persone che non hanno reso dichiarazioni sono veramente poche: questo – ha aggiunto – denota non solo una non volontà di sottrarsi al processo, ma anzi la volontà di cercare questo processo e la verità».


L'Istat e il pasticcio delle due inflazioni
Dario Di Vico sul
Corriere della Sera

Il buonsenso insegna che il dentifricio una volta uscito dal tubetto è assai improbabile che compia il percorso inverso. Lette le interviste rilasciate ieri dal presidente dell'Istat, Luigi Biggeri, è questa la prima considerazione da fare. La scelta di divulgare urbi et orbi un doppio indice di misurazione dell'inflazione si è rivelata quantomeno un errore di comunicazione e a poco serve sostenere
ex post, come ha fatto Biggeri, che l'indice è uno solo e segna +2,9%.
Perché allora pubblicare un secondo indice, riferito ai beni acquistati con maggiore frequenza, destinato inevitabilmente ad essere considerato da sindacati, consumatori, politici e opinione pubblica come quello più veritiero? Nessuno contesta (anzi) che l'Istat debba attrezzarsi dal punto di vista scientifico e conoscitivo nel modo che ritiene più opportuno e che la ricerca in campo statistico spinga ad analizzare campionature sempre più aderenti al mutamento e alla stratificazione dei consumi. Ma una cosa è l'elaborazione scientifica, altro è contribuire di fatto alla delegittimazione di un indice che serve come insostituibile strumento di politica economica nazionale ed europea.

Ma nessuno avrebbe mai auspicato che noi, unico Paese dell'Europa avanzata, ci dotassimo di due indici. Prendiamo il caso tedesco. C'è grande attesa per le decisioni che in materia verranno adottate a Berlino alla fine di questa settimana. Sarà reso noto un nuovo parametro di misurazione dell'inflazione, rimodulato e reso sensibile alle evoluzioni del mercato dei consumi e molto probabilmente anche ammodernato nelle tecniche e frequenze di rilevamento, ma si tratterà alla fine sempre e comunque di un solo indice monocratico.
Il rischio insito nella comunicazione Istat dei giorni scorsi è quello di far crescere nel Paese un dibattito drogato. La Confindustria ha già denunciato come la nostalgia della scala mobile non sia mai del tutto tramontata e la soddisfazione con cui da molte parti nel sindacato, nelle associazioni dei consumatori ma anche in qualche settore della sinistra è stato salutata l'annuncio-bomba del 4,8% tradisce quel revival. E dimostra come sarebbe stato necessario accompagnare la pubblicazione del secondo indice con una strumentazione adeguata, spiegandone i limiti e fornendo anche una serie storica di quella particolare rilevazione. Se non ci si muove con questa accortezza il timore di una deriva degli orientamenti di politica economica si fa forte. Non vorremo tornare alla cultura antimercato degli anni 70 e infilarci nella più retrò delle rincorse prezzi-salari.

Detto che l'indipendenza dell'Istat è sacra e che mai e poi mai si deve coltivare l'idea di una statistica che si fa ancella delle maggioranze politiche del momento, anche il timing scelto per l'esternazione del 4,8%, con una campagna elettorale in corso, induce a qualche recriminazione e speriamo anche a qualche autocritica. Da quanto è trapelato il ministro competente Pier Luigi Bersani non solo è stato preso completamente alla sprovvista dalla scelta di Biggeri, ma avrebbe avuto da ridire persino sulla composizione del secondo paniere (che non comprende i farmaci liberalizzati e i telefonini). Nemmeno il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa pare che ne sapesse alcunché. E così l'inflazione «elettorale» è cresciuta di due punti senza colpo ferire. Tornare indietro non sarà facile.


Nazionalismi, veleno dell'Europa
Barbara Spinelli su
La Stampa

Nata per stemperare i nazionalismi violenti, l'Unione Europea ha compiuto in questi giorni un passo paradossale, dagli effetti forse sinistri: quasi senza rendersene conto, la maggior parte dei suoi Stati ha decretato che l'indipendenza del Kosovo era una cosa non solo ineluttabile ma buona e giusta, così come il Signore vide che erano una cosa buona la terra e il cielo appena creati. D'un colpo i principali governi europei hanno smentito la propria storia, decidendo di proteggere uno Stato che ha come palese ragion d'essere la segregazione etnica. Si sono trasformati in una forza che legittima Stati razziali, inserendoli in una Comunità che a parole li rifiuta.

Dicono i fautori del riconoscimento che la mossa era ineluttabile, visto il naufragio della diplomazia. Dicono anche che non sarà vera indipendenza, e che dunque non esisterà contagio: sarà un'indipendenza sotto sorveglianza, finta. Il nuovo Stato sarà un protettorato europeo come dal '99 è stato un protettorato Onu e Nato.

E' una storia tragica per l'Unione come per i Balcani, cui stiamo aprendo le porte senza pensieri seri sul futuro. Per quanto concerne l'Unione si conferma la malattia gravissima in cui da anni viviamo: incapace di unirsi, abolendo i diritti di veto posseduti da ciascuno Stato, l'Europa ridiventa preda dei dèmoni. Tutta la sua politica di allargamento, ormai, è all'insegna del nazionalismo ritrovato. Ogni nuovo staterello cui si promette l'adesione avrà il suo veto, neppure addolcito dalla coscienza - viva nei paesi fondatori - dei propri storici errori e orrori. La dipendenza dagli Stati Uniti si dilata, si fa patologica rivalità mimetica. Diverremo potenza anche noi se riscopriremo lo Stato nazione e ne creeremo perfino di nuovi: questo diciamo a noi stessi, vacuamente.

Questo ritorno dei nazionalismi è tragico anche per i Balcani e gli organismi internazionali. Nel prospettare l'indipendenza sotto protettorato, i ministri degli Esteri francese e inglese, Kouchner e Miliband, dissero nel 2007 che lo status quo non poteva essere accettato, e che le aggressioni serbe non andavano dimenticate. In realtà è lo status quo che oggi si accetta, e la smemoratezza dilaga. Lo status quo delle spartizioni, delle persecuzioni delle minoranze, delle logiche belliche. La smemoratezza di quel che sembrò essere l'intervento occidentale nei Balcani: una lotta contro l'odio etnico, non per suscitare mini Stati razziali. Tutto questo nasce inoltre con le migliori intenzioni: per la liberazione dei popoli. Con 90 anni di ritardo, l'Europa vive il suo momento wilsoniano, come lo chiama lo storico indiano Erez Manela. L'autodeterminazione dei popoli, proposta dal presidente Wilson tra il 1918 e il 1919, viene riproposta da un'Europa immemore di quel che già allora si nascondeva dietro l'autodeterminazione: i protettorati, i conflitti, le ipocrisie, la violenza delle disillusioni.

A ciò si aggiunga il dramma dei fuggitivi serbi: la più ampia popolazione di profughi in Europa. Sono 700.000 i serbi fuggiti da Bosnia e Croazia (in Croazia restano i serbi convertiti al cattolicesimo, scrive lo studioso Raju Thomas). A essi s'aggiungono 207.000 serbi e Rom del Kosovo.

Il protettorato Nato-Onu è stato in realtà un disastro. Lo spiega nei dettagli un rapporto redatto nel 2007 dall'Istituto di Politica Europea di Berlino, per l'esercito tedesco: in quasi nove anni, Onu e Nato hanno consentito che nascesse uno Stato criminale, che mescola radicalismo politico, servizi deviati, razzismo, mafia. Quasi tutti i suoi dirigenti, a cominciare da Hashim Thaci (premier dal novembre 2007) hanno militato nell'Armata di liberazione del Kosovo, e sono legati alla mafia internazionale e italiana: il Kosovo è specializzato nel commercio d'armi, nel riciclaggio di denaro sporco, nel traffico di droga, di clandestini, di prostituzione. È uno Stato che tollera linciaggi antiserbi come quello del marzo 2004. Che segrega i serbi in villaggi-ghetti. Che perseguita i Rom.

Ma l'Europa di queste cose non si è occupata a fondo. Si è occupata della bandiera e dello statuto della nazione: senza dare garanzie vere ai serbi, senza domandarsi cosa fosse per loro il Kosovo, considerandoli eternamente colpevoli delle colpe di Milosevic. La guerra contro quest'ultimo si giustifica ex post solo se oggi non si accettano i piccoli Milosevic kosovari. Li si accetta, invece. Qui è il paradosso: grazie all'ombrello aperto dall'Europa, il male può di nuovo insinuarsi nelle sue pieghe.

Le forze Kfor della Nato, le forze Unmik dell'Onu, sono implicate in grandi nefandezze mafiose. L'amministrazione Usa ha sistematicamente «preferito i politici più violenti», fin dai tempi di Clinton, e «più volte ha aiutato i criminali a fuggire». Nella base Usa in Kosovo c'è un carcere stile Guantanamo, il Campo Bondsteel (dal nome d'un comandante Usa in Vietnam).

I nazionalismi sono un veleno per l'Europa: alla lunga possono renderla irriconoscibile. Ancora non esiste come Unione, ed eccola pronta a creare protettorati che col tempo secerneranno risentimenti e impunità. Sotto un protettorato o dentro l'Unione (lo si è visto in Austria, Italia, Polonia) tutto diventa possibile: i razzismi al potere, l'illegalità, e quel fenomeno sempre più diffuso cui la Banca Mondiale diede il nome di State Capture, nel 2000. La «cattura dello Stato» avviene a opera di persone o gruppi che privatizzano il potere, aggirando leggi e istituzioni. Visto che esiste l'Europa come garanzia esterna, le nazioni e i loro dirigenti possono permettersi ogni cosa: i risentimenti e la caccia al diverso, l'abitudine all'irresponsabilità e la «cattura dello Stato».


Sharia e diritto
I tribunali islamici che legiferano a Londra Migliaia di sentenze
Magdi Allam sul
Corriere della Sera

Chi di voi sa che in Gran Bretagna ci sono dozzine di tribunali islamici che legiferano e emettono verdetti sulla base della sharia, la legge islamica? Con giudici e corti che si riuniscono all'interno delle moschee, dei centri islamici e delle scuole coraniche, che hanno già emesso decine di migliaia di sentenze relative allo stato civile e familiare dei musulmani del Regno, principalmente in materia di matrimonio e divorzio, eredità e contese patrimoniali? Ebbene, è un'inquietante realtà che esiste sin dal 1982 .
Una realtà che è un frutto degenere dell'ideologia del multiculturalismo che, dopo aver scardinato la società dividendola in ghetti urbanistici, scolastici, etnici e confessionali in conflitto con gli autoctoni sul piano dei valori e dell'identità, ha permesso che si creasse un doppio binario giuridico con la sharia che affianca e mette a repentaglio la legge dello Stato.
Il primo tribunale islamico in Gran Bretagna fu istituito nel 1982 a Leyton, a est di Londra, con il nome di «Consiglio della sharia islamica». Il segretario generale è Suhaib Hasan, membro del Cerf (Consiglio europeo per le ricerche e la fatwa), organismo presieduto dall'apologeta del terrorismo islamico suicida Youssef Qaradawi, leader spirituale e giuridico dei Fratelli musulmani in Europa, cui la Gran Bretagna proprio negli scorsi giorni ha negato il visto d'ingresso. Nel suo Statuto il Cerf sancisce che «la sharia incarna inequivocabilmente le leggi supreme della vita. La sharia pertanto deve essere rispettata come superiore alla legge civile e alla democrazia. La sharia non può essere emendata per conformarsi all'evoluzione dei valori e dei comportamenti umani. La sharia è in assoluto la norma a cui devono sottomettersi tutti i valori e i comportamenti umani, è il contesto cui essi devono fare riferimento ed è il parametro con cui essi devono essere vagliati».
Su questa base Suhaib Hasan ha spiegato in un'intervista rilasciata al quotidiano saudita Asharq Al Awsat lo scorso 22 febbraio che «noi operiamo come un tribunale religioso islamico. Ciò significa che noi celebriamo i processi e emettiamo delle sentenze scritte, conformemente alla sharia e al fiqh (l'elaborazione del diritto islamico, ndr ), dopo aver valutato il caso».
Quasi a voler tranquillizzare i non musulmani, spiega che «noi come comunità islamica vogliamo alcuni dei diritti sharaitici nell'ambito dello statuto personale islamico in tema di matrimonio, divorzio, eredità e diritti della seconda moglie. Ma noi non aspiriamo ad amputare la mano del ladro o a lapidare l'adultera o l'adultero». Egli ha precisato che dal 1982 il suo tribunale islamico ha emesso 7 mila sentenze di divorzio islamico, si tratta più correttamente della formalizzazione del talaq , il ripudio, che è una prerogativa dell'uomo, o del faskh e del khul , che sono l'annullamento del contratto di matrimonio su richiesta della moglie per il comportamento violento del marito e restituendo comunque la dote. Al riguardo è categorico: «Le questioni del matrimonio e del divorzio non sono di competenza dello Stato, sono bensì religiose. Se i fedeli ottengono una sentenza civile, ritengono che sia loro dovere integrarla con quella religiosa». Suhaib Hasan fa questa previsione: «La sharia viene applicata ampiamente in Gran Bretagna tutti i giorni. Pertanto nessuno deve sorprendersi se si dovesse introdurre parti della sharia nell'ordinamento giuridico britannico».

Perché è solo prendendo atto che sussiste un processo strisciante e inarrestabile di islamizzazione sociale, culturale e giuridica, da intendersi come adozione di un'ideologia integralista e radicale islamica tra i circa due milioni di cittadini britannici di fede musulmana, che si possono comprendere e contestualizzare sia la recente dichiarazione del primate della Chiesa anglicana, Rowan Williams, a favore dell'adozione della sharia, sia la decisione del governo laburista di Gordon Brown di avallare la poligamia riconoscendo gli assegni familiari alle mogli islamiche. La verità è che una volta che si è istituito che la mitizzata e inesistente «comunità islamica» deve essere lasciata libera di autogestire i propri affari interni, che si è assistito inerti alla formazione di quartieri a maggioranza islamica, che si è immaginato che non si dovesse in alcun modo interferire nell'attività delle moschee e delle scuole coraniche anche se fomentano l'odio e predicano la violenza, che si è permesso all'insegna del «politicamente corretto» che i musulmani avessero i propri tribunali così come è consentito ai cristiani e agli ebrei, non ci si deve sorprendere se poi si scopre che quest'insieme è una miscela esplosiva in grado, non solo di destabilizzare il Paese sul piano della sicurezza, ma soprattutto di sovvertire l'ordinamento costituzionale che incarna i valori e l'identità nazionale.



Berlusconi-Casini, è guerra aperta
Il Cavaliere: «Il voto all'Udc è un voto per Veltroni». Dura la replica di Casini: il leader del Pdl soffre di "ossessione"
su
La Stampa

ROMA - «Un voto a un piccolo partito come è l'Udc non solo è inutile, disperso, gettato, ma è un voto per Veltroni». Ne è convinto il leader del Pdl, Silvio Berlusconi. È solo l'ultima martellata contro il partito di Pier Ferdinando Casini in quella che è oramai diventata la "grande guerra" tra i due ex alleati. Pier Ferdinando Casini replica accusando il Cavaliere di soffrire di «ossessione».

«Non c'è una polemica tra me e Berlusconi. C'è - dice l'ex presidente della Camera - una polemica ossessiva di Berlusconi nei miei confronti di Berlusconi che tradisce nervosismo nella campagna elettorale. Mi viene da sorridere quando Berlusconi dice che un voto dato a noi è un voto dato a Veltroni. L'inciucio con Veltroni lo vuole fare lui, non io. L'idea della grande coalizione l'ha avuta lui. Mi sembra che confonda i suoi desideri con una realtà che riguarda altri. Per me Berlusconi -conclude Casini- è un interlocutore importante con cui polemizzare se c'è un motivo ma non con questa ossessività».

Per alcuni osservatori l'uscita dell'Udc dall'alleanza di centrodestra rischia di mutare la percezione sulla collocazione dello schieramento guidato da Berlusconi, timori che trovano terreno fertile anche nella guerra dei sondaggi che fanno dire stamani a Gianfranco Fini: «Ma quale rimonta del Pd, vinciamo noi. L'alleanza con la Lega al nord e con l'Mpa al sud garantisce una maggioranza solida alla Camera». Quanto al Senato Fini dice: «Ho fiducia negli italiani che sono coscienti del rischio di un pareggio e quindi premieranno chi può garantire un governo stabile».



La delusione di D'Ambrosio:
indifferenza della politica
Risponde Sergio Romano sul
Corriere della Sera
Trovo che l'intervista del 6 febbraio a Gerardo D'Ambrosio («Giorni buttati, un'umiliazione») sia sorprendentemente caduta nel nulla. Nessun commento, nessuna reazione, nessuna smentita. La stessa classe politica non ha niente da dire sullo sfogo di un senatore «esperto» che ha lavorato giorno e notte per preparare una decina di disegni di legge, di cui almeno uno fondamentale (e bipartisan, immagino) per dimezzare i tempi biblici della giustizia e non li ha visti «passare». Se il governo non ha ritenuto di doverli presentare, sarebbe interessante saperne il perché e in base a quale concetto di priorità, visto che abbiamo sentito praticamente tutti da destra a sinistra dichiarare, anche in occasioni ufficiali, che la riduzione dei tempi della giustizia è una «priorità assoluta».
Luciano Bertolino
lcnbrt@tin.it Caro Bertolino,

Ho ricercato sul sito del Senato i disegni di legge presentati dal senatore D'Ambrosio nel corso di questa breve legislatura. Perché il lettore possa rendersi conto del suo lavoro, eccone l'elenco:
  • Modifiche agli articoli 13 e 14 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, in materia di espulsione dei cittadini extracomunitari.
  • Estensione della disciplina della responsabilità amministrativa di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, ai reati di omicidio e lesioni colpose gravi conseguenti ad infortuni sul lavoro.
  • Modifiche agli articoli 262 e 676 del codice di procedura penale, in materia di devoluzione allo Stato delle somme di denaro e dei titoli sequestrati e non reclamati.
  • Modifiche al titolo VI del libro V del codice di procedura penale, in materia di arresto e di fermo, e introduzione del giudizio nei confronti di imputati arrestati o fermati di competenza del tribunale.
  • Modifiche al titolo V del libro II del codice di procedura penale, in materia di notificazioni.
  • Modifiche al codice di procedura penale, in materia di impugnazioni.
  • Modifiche al codice di procedura penale in materia di udienza preliminare e di procedimenti speciali.
  • Modifiche degli articoli 568 e 616 del codice di procedura penale in materia di introduzione di un deposito cauzionale, per il ricorso in cassazione delle parti private, da devolvere allo Stato in caso di rigetto o di inammissibilità.
  • Modifiche al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, in materia di gratuito patrocinio.
Non ho la competenza necessaria per valutare tecnicamente le proposte di D'Ambrosio, ma sono certo che siano dettate dal desiderio di sveltire e razionalizzare la macchina della giustizia italiana. Sono quindi, probabilmente, provvedimenti opportuni che il Parlamento avrebbe dovuto esaminare e approvare, eventualmente con qualche correzione, nel più breve tempo possibile. Al di là del singolo episodio, tuttavia, credo che il caso D'Ambrosio suggerisca almeno tre riflessioni.
Prima riflessione. E' davvero necessario che tutto il lavoro di bisturi fatto da un ex magistrato debba essere discusso e approvato in Parlamento? Se le leggi, oggi, lo impongono, occorrerebbe modificarle. Se non è possibile rinunciare alla competenza del Parlamento, occorrerebbe almeno prevedere, per i provvedimenti di questo tipo, deleghe particolari o corsie preferenziali.


Seconda riflessione. Non può esservi miglioramento della macchina giudiziaria senza la collaborazione di coloro che ne conoscono il funzionamento quotidiano. Credo che la riforma dell'ordine giudiziario spetti al Parlamento, ma sono convinto che soltanto i magistrati possano suggerire, dall'interno, gli aggiustamenti, gli adattamenti e le migliorie di cui il sistema ha urgente bisogno.

Sono stato molto interessato da un articolo di Mauro Garavelli, già presidente della Corte d'Appello di Genova («Piccole cose per una giustizia più efficiente», La Stampa
del 6 febbraio) in cui si parla finalmente di orari di lavoro, calendario delle udienze, ferie e produttività dei singoli magistrati.
La terza riflessione concerne il ruolo del senatore D'Ambrosio in Parlamento. La sua delusione conferma che la politica italiana ha una cattiva abitudine, comune a tutti i partiti. Sollecita la candidatura di personalità eminenti, li accoglie con entusiasmo, li usa per raccogliere voti e li tratta alla stregua di soprammobili con cui decorare il salotto buono. Con qualche eccezione il diritto di entrare in cucina è riservato alla gente del mestiere.


De Gregorio indagato per corruzione
"Ma i soldi avuti da Fi sono regolari"
Liana Milella su
la Repubblica

ROMA - Per i magistrati di Napoli e di Roma è corruzione. Per passare da uno schieramento, il centrosinistra, a un altro, il centrodestra. E per far cadere il governo Prodi. Per lui, Sergio De Gregorio, è solo un «regolare e dichiarato» finanziamento al suo gruppo Italiani nel mondo. E la ribadita iscrizione nel registro degli indagati (prima fatta a Napoli, adesso a Roma) soltanto un «veleno» preelettorale. Il procuratore di Roma Giovanni Ferrara ci tiene a definirlo «un atto dovuto», ma la formalizzazione dell´indagine su De Gregorio - un passato di giornalista, candidato eletto per l´Italia dei valori di Antonio Di Pietro nel 2006, il balzo dall´altra parte quando era appena fresco di nomina come presidente della commissione Difesa del Senato e la nascita del movimento Italiani nel mondo - fa comunque rumore.
L´inchiesta giudiziaria, già quando era a Napoli e Repubblica a dicembre ne anticipò i contenuti, mise subito in allarme la destra. Con due pezze d´appoggio di tutto rispetto, da un lato un pacchetto d´intercettazioni, dall´altro un vero e proprio "contratto" firmato da De Gregorio e (a quanto si disse) dal coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi, la procura di Napoli ipotizzò per De Gregorio il reato di corruzione e cominciò a scandagliare la possibilità che il denaro corso dagli azzurri verso di lui non fosse un «regolare e manifesto» sostegno finanziario, ma un flusso di denaro di ben altra e dubbia natura che doveva servire per allontanare il senatore da Di Pietro e dal centrosinistra per spostarlo sul versante opposto. La procura, contemporaneamente, indagava anche sulla tentata compravendita berlusconiana di altri senatori (come Nino Randazzo) con l´obiettivo di rosicchiare la già esigua maggioranza dell´Unione a palazzo Madama. Per competenza (i fatti oggetto del reato sarebbero avvenuti nella Capitale) le carte di Napoli sono passate a Roma.
E il pm Giancarlo Amato adesso sta vagliando se, effettivamente, l´inchiesta debba rimanere a piazzale Clodio oppure se debba tornare in Campania. Iscrivere sul registro De Gregorio è dunque un atto dovuto per far fare passi avanti all´indagine. Al quale però il senatore reagisce decisamente con scarso fair play. E, adottando linguaggio e movenze del Cavaliere, eccolo accusare le toghe di aver messo a segno una mossa preelettorale. Tant´è che appena apprende la notizia dichiara: «L´abitudine al lancio indiscriminato di veleni indirizzati ad arte per indebolire la posizione politica di questo o quel parlamentare si riaffaccia anche in questo scampolo di seconda Repubblica».



Un boato e l´Italia precipitò nella stagione delle bombe
Mani Pulite, il governo Ciampi, gli attentati: la guerra del ´93
Franca Selvatici su
la Repubblica

FIRENZE - Giovedì 27 maggio 1993 «Repubblica» apriva la sua prima pagina con un grande titolo: «Pecorelli e Belzebù - Andreotti indagato per il delitto del giornalista di Op - Un´inchiesta che parte dal racconto di Buscetta». Di seguito: «Tangenti, sotto accusa la legge Mammì - Mezzo miliardo Fininvest al segretario del ministro». Di spalla, richiami all´inchiesta Mani Pulite. Al centro un titolo inserito in extremis: «Terrore a Firenze - Nella notte esplosione in centro - Crolla l´Accademia dei Georgofili, danni agli Uffizi, 4 dispersi e 30 feriti. Fuga di gas?». Riletta oggi, quella pagina condensa tutti gli ingredienti delle successive indagini sulla campagna stragista del '93, che ha segnato, con il suo carico di sangue e di misteri, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
Nella notte fra il 26 e il 27 maggio a Firenze una violentissima esplosione distrusse l´Accademia de´ Georgofili, devastò la Galleria degli Uffizi, uccise due bambine, i loro genitori e uno studente. Quaranta i feriti. Quella notte era d´urgenza Gabriele Chelazzi, un magistrato formidabile scomparso nel 2003 a soli 59 anni, che da allora, affiancato poi dai colleghi Francesco Fleury, Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, non cesserà più di indagare sulle stragi. Sì perché quella di Firenze fu solo una tappa di una campagna di terrore avviata il 14 maggio ´93, a Roma: per uccidere Maurizio Costanzo era stata fatta esplodere una autobomba in via Fauro, con effetti devastanti ma senza morti. Due giorni prima si era insediato il governo di Carlo Azeglio Ciampi, che, mentre Dc, Psi, Pri, Psdi e Pli si disfacevano per effetto di Tangentopoli, sarà perseguitato dagli attentati. Nella notte fra il 27 e il 28 luglio a Milano, in via Palestro, una autobomba uccide cinque persone. Poco dopo a Roma altre due autobombe devastano la Basilica di San Giovanni in Laterano e la Chiesa di San Giorgio al Velabro. Palazzo Chigi resta isolato per ore a causa di un blackout telefonico.
Poi le stragi sembrano fermarsi. Anni dopo si saprà che il 31 ottobre un´altra autobomba doveva esplodere allo stadio Olimpico. L´innesco non funzionò o non fu fatto funzionare. «Fu una guerra», sostiene Danilo Ammannato, l´avvocato delle vittime. La procura di Firenze è riuscita a far condannare gli uomini di Cosa Nostra per «strage con finalità di terrorismo e di eversione dell´ordine costituzionale». Resta un mistero se quel disegno eversivo abbia avuto dei complici esterni.


Oscar, i fratelli Coen sopra tutti
sommari de
l'Unità

No country for old men miglior film. Per i due anche premio alla regia e sceneggiatura non originale. Migliori attori Il Petroliere Day-Lewis e la francese Marion Cotillard. Non protagonisti Bardem e Tilda Swinson. Oscar per le musiche a Marianelli e alle scenografie dark di Ferretti.


  26 febbraio 2008