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sulla stampa
a cura di G.C. - 21 febbraio 2008


Pd e Pdl a caccia di volti vip
Antonella Rampino su
La Stampa

ROMA. Veltroni le tratta personalmente, avendo avuto cura di stilare per le candidature un ferreo regolamento che gli permetterà di mettere in lista donne, moltissimi volti giovani e nuovi, e di "demitizzare" De Mita. Berlusconi scende in campo solo per i nomi di richiamo, dal generale Speciale che ingaggiò singolar tenzone col suo superiore politico Vincenzo Visco, all'ex "agente Betulla", già vicedirettore del "Giornale", e firma di punta di "Libero", Renato Farina.

Sette settimane e mezzo di campagna elettorale, ma solo 21 giorni alla presentazione ufficiale delle candidature. Come dire Pd e Pdl alla prova del fuoco. Premesso che le liste dei "nominati" saranno decise davvero solo all'ultimo minuto, è partita la girandola di nomi e contatti. A via del Plebiscito si pensa a Fiamma Nierenstein del "Giornale", al direttore di "Qn" Giancarlo Mazzuca, alla soubrette (nota per un' intervista a Fidel Castro, e alle cronache rosa per una love story con Paolo Berlusconi) Katia Noventa, a Luca D'Alessandro dell'ufficio stampa di Forza Italia che ha il merito di aver collezionato nel libro "Berlusconi ti odio" tutte le brutture dette sul capo. Il Pdl pensa di posizionare l'ex olimpionica dello sci Manuela Di Centa come capolista in Friuli, di candidare finalmente la coordinatrice dei giovani Beatrice Lorenzin e di lanciare "molti e bravi ragazzi e ragazze dei Circoli di Marcello Dell'Utri". La quadratura del cerchio sarà dura: si tratta, spiega Paolo Bonaiuti, di incrociare bene, territorio per territorio, i nomi di An con quelli di Forza Italia. Per cui la parola-chiave è "riconferma": a parte tutti i big, per ora tra i peones l'hanno spuntata solo Elisabetta Gardini e Mara Carfagna, due fedelissime.

Nel loft di Sant'Anastasia regna invece una strategia veltroniana: un nome al giorno tiene desta l'attenzione. Pare che davvero Veltroni pensi di candidare Bianca Berlinguer…

Ma al loft, ieri, han cominciato dalle regole, leggi restrizioni, che saranno varate ufficialmente stamani. Non entrerà chi ha compiuto 3 legislature, ovvero trascorso complessivi 15 anni in Parlamento o nei consigli regionali e comunali, deroga solo per presidenti e vice dei gruppi parlamentari, e per i ministri del governo Prodi. E dovranno essere elette, e dunque messe in lista in posizione adeguata, il 33 per cento di donne.

De Mita, di cui si paventa una "lista Ciriaco", non rientra in nessun parametro, come Antonio Bassolino del resto. Ed è spuntato un contro-appello anti-De Mita, firmato dalle miglior teste pensanti del Pd, da Cacciari a Galimberti, in risposta all'appello pro-Ciriaco partito dalla Campania e dal potente segretario regionale del Pd Iannuzzi. "Giù c'è un'iradiddio, ma Walter non retrocede di un millimetro", dicono dal pool candidature del loft, "e come sarebbe possibile diversamente? Uno dice viva il nuovo, i giovani e le donne, e poi ricandida De Mita?".



Coro nel Polo: salvate il soldato Mastella
Redazione del
Corriere della Sera

ROMA — Salvare il soldato Ryan, al cinema, era più facile. Intanto perché Clemente Mastella non è un soldato, ma un generale. Poi perché si porta dietro il sospetto di schierare all'improvviso le truppe — proprio lui che inventò il reparto dei fedelissimi "mastellati " — con l'avversario.
A osservare la scena (in evoluzione, si capisce) Mastella è difficile da rintracciare: appare solo, solissimo. Con il rischio concreto di non farcela, stavolta. Con il rischio di morire politicamente. Con i centristi che lo guardano di traverso. Con il veto di Gianfranco Fini, che non lo vuole nel Pdl. E con Silvio Berlusconi invece possibilista, freddino forse per calcolo, duro per principio, ma poi magari sta studiando qualcosa. Vai a sapere.
La vera notizia, comunque, è che trovare una pattuglia di coraggiosi del Pdl (generosi? Riconoscenti?) con la voglia di andarlo a trovare, il generale Mastella, per riportarlo nelle linee del centrodestra, non è complicato.
Per dire: uno molto esplicito e speranzoso è il senatore Lino Iannuzzi (che oggi compie 80 anni, leone del giornalismo e della politica). Esplicito, e con aneddoto.
"Dico: te lo devo ricordare io cosa fece Silvio quando ritornò in piazza San Babila, a governo ormai caduto?". Ricordalo. "Beh, Silvio tra la gente in festa, ad un certo punto si accorge di certi cartelli ". Che c'era scritto? "Mai con Mastella ". E lui, il Cavaliere? "Smette di sorridere, si mette la faccia seria, e s'avvicina alle transenne. Poi, arrivato a un metro da quelli che tenevano su i cartelli, sai cosa dice? Dice: ""Sappiate, che senza Mastella, Prodi sarebbe ancora a Palazzo Chigi"".
Ecco, appunto. La riconoscenza. O no?

"E non solo....". Cos'altro, senatore Iannuzzi? "Chi è che non vuole Mastella nel Pdl?". Fini. "E Fini, sai che ti dico? Ti dico che ha proprio scocciato, con questi veti. Prima dice no a Mastella, poi a Ferrara...".
Insomma, ad ascoltare il senatore Iannuzzi ci vorrebbe un'idea, per salvare il Mastella che fece crollare il governo proprio sulla questione giustizia, tema assai caro al Cavaliere e ai suoi amici-consiglieri (Dell'Utri, Previti...).
"E io una proposta ce l'avrei...". Conoscete il vocione padano di Mario Borghezio, leghista ortodosso, di stretta osservanza celtica, passionale.
Onorevole Borghezio, quale sarebbe questa idea? "Fare di Mastella il portabandiera della Lega Sud". Beh, a qualcosa del genere stanno pensando e... "E Clemente, mio amico caro, sarebbe perfetto ". E perché? "Per cultura, per filosofia. Ma l'ha visto?". Sì, certo... "No, dico: l'ha visto da vicino? L'ha sentito parlare? Quello capisce i dialetti del Sud, gli umori del Sud... e poi, soprattutto, conosce lo sgangherato mondo delle candidature ". Insomma, sarebbe utile. "Utile? Di più. Utilissimo. Clemente ha potenzialità enormi... bisognerebbe tentare un recupero in extremis...".
Te ne parlano così, di Mastella. Con affetto. E con malcelate dosi di riconoscenza. Poi, va bene: ci sono quelli come Fabrizio Cicchitto, vicecoordinatore di Forza Italia, che sull'argomento (scottante) glissa: "Preferirei non esprimermi... ". Poi c'è la rossa salmonata, come con invidia viene chiamata, dentro il Pdl, Michela Brambilla, che pure abbassa la voce: "Mastella? Eh... sa... ho le mie idee ma... sa...".
Decide il Cavaliere, si sa.

E ora sentite la Maria Elisabetta Alberti Casellati, vice-capogruppo uscente di FI al Senato: "Era con noi nel '94, Mastella... se solo condividesse i nostri programmi... Ricordo bene quando fece cadere il governo sulla questione della Giustizia...". Ecco, appunto: quanti buoni motivi paiono esserci? Alfredo Biondi, avvocato, sa come evitare la retorica, e va giù diretto: "Al Cavaliere dico: recupera Clemente. Ricordati di chi ha dato la spallata a Prodi...".


Il bipartitismo zoppo a Roma e in Sicilia
Massimo Franco sul
Corriere della Sera

Nelle pieghe del bipolarismo e delle parole perentorie dei grandi partiti sul "voto utile ", sta spuntando una verità più prosaica a livello locale. Si tratta di una politica sommersa e dettata dalla necessità di vincere, che ricompone in città e regioni le alleanze archiviate a livello nazionale. Rimane da capire se è un residuo delle coalizioni che si sono spezzate in questa legislatura; o una sorta di memoria storica dei due schieramenti, pronta a riemergere e ad imporsi a seconda dei risultati. Il fenomeno riguarda gran parte delle amministrazioni italiane, governate o dal centrosinistra o dal centrodestra in versione Unione o Cdl. Ma il caso più eclatante è la Sicilia.
Nell'isola, il 13 e 14 aprile si voterà come nel resto d'Italia per le elezioni politiche; ma anche per le Regionali. Il centrodestra offrirà la dicotomia fra Pdl e Udc a Camera e Senato; ed una Cdl ricompattata d'incanto per eleggere il governatore nella persona di Raffaele Lombardo. È l'uomo di raccordo fra il partito di Pier Ferdinando Casini e del presidente regionale uscente, Salvatore Cuffaro, e Silvio Berlusconi; e, pare di capire, il depositario di un pacchetto di consensi in grado di determinare la vittoria. Ma Lombardo dice che accetterà "solo se c'è anche l'Udc". La cosa singolare è che per appoggiarlo, Berlusconi ha sacrificato il candidato di FI, Gianfranco Miccichè, facendolo infuriare.
Fino a ieri, dunque, la prospettiva del 13 aprile era quella di un centrodestra che proporrà agli elettori siciliani una scelta senza e contro l'Udc, e un'altra in cui ci si accorda con Casini; e viceversa. Si tratta di un compromesso ritenuto obbligato. Ma si perfeziona mentre lo stesso Berlusconi e Gianfranco Fini martellano sul "voto utile" limitato al Pdl oppure, sul versante del centrosinistra, al Pd di Walter Veltroni. E mentre Casini, probabile alleato in Sicilia e avversario in Italia, accusa FI e An di chiedere voti in quanto "grandi", solo perché "non hanno altro da dire: sono alla frutta". Sono segnali a dir poco contraddittori; e destinati a disorientare l'elettorato. Implicitamente, dicono quanto sia innaturale lo strappo consumatosi nel centrodestra.
Ma mostrano anche i limiti di una campagna elettorale che evoca il bipartitismo e vuole eliminare la frammentazione; eppure alla fine non può rinunciare a patti locali con le forze minori. Il paradosso è vistoso per Pdl e Udc, tuttora alleate in circa l'ottanta per cento delle giunte; e soprattutto in Sicilia, dove l'Udc sarebbe intorno al 15 per cento. Ma vale anche per il Pd, che nel voto al Comune di Roma difficilmente potrà fare a meno di un'intesa col Prc; e che nel resto delle regioni e delle città italiane governa con i partiti dell'ex Unione guidata da Romano Prodi.
Il fatto che la coalizione di centrosinistra si sia rotta malamente ha prodotto un rimescolamento nazionale, contraddetto da questa realtà parallela segnata dalla continuità. È un elemento di potenziale confusione.



Radicali subito
Furio Colombo su
l'Unità

Credo che molti, anche fra i lettori di questo giornale, si stiano domandando con un po' di impazienza e un po' di fastidio, perché non si è ancora arrivati alla conclusione: il Pd con i Radicali per affrontare una campagna elettorale difficile e insidiosa a causa del terreno scivoloso, di sceneggiate pseudoreligiose, del rischio di un clamoroso squilibrio mediatico, del vento furioso (vedi Fiorello) dell'antipolitica. E persino di passione politica vera che cede all'esasperazione e rischia lo sbando. Ho detto "impazienza" e "fastidio" e spiego. L'impazienza è dovuta al ripetersi di un rinvio che, da fuori e da lontano, non si capisce. È tipico di una cosa nuova in cui i cittadini vedono una seria possibilità di rovesciare la situazione e cambiare l'aria di un'Italia invivibile, di agire presto e bene.
Ci sono certo molte spiegazioni. Ma l'impazienza è inevitabile, perché, letteralmente, non c'è tempo da perdere.
Ho detto "fastidio" per evocare un sentimento che credo ambivalente, tra molti ex Ds e tra molti ex Margherita che ora sono vita e struttura del Pd.
Immagino (penso per esperienza) che molti di loro stimino e approvino la presenza dei Radicali, in un momento di svolta politica davvero radicale come questa, e chiedono che si decida in fretta. Ma so anche (per esperienza) che il fastidio di altri non è il tempo della trattativa che si dilata, ma tutto questo discutere e il desiderio che si chiuda presto, anche subito, con l'esclusione di una presenza che porta troppa tensione, disturba l'idea di una presunta compattezza sui temi "sensibili".
I lettori sanno come concluderò questa nota. La concluderò dicendo di credere fermamente che i Radicali dovrebbero partecipare, con i Pd, a questa impresa arrischiata e promettente di portare l'Italia fuori da una prima claustrofobico e dentro un presente-futuro europeo, occidentale, libero, privo di fobie e di ripetizioni di errori. Ma cerco di motivare.
Primo, in politica non c'è miglior criterio del già fatto. Il già fatto, con la presenza dei Radicali, dentro e accanto al governo di Prodi, sono state due prove diverse e importanti: il lavoro (e il modo di lavorare) di Emma Bonino. E la "Moratoria sulla pena di morte del mondo" approvata dall'Onu. Chiedo anche a coloro che non hanno simpatia per Pannella o credono che Radicali voglia dire "destra", di considerare lo spazio davvero notevole di una presenza segnata da questi due punti: il buon lavoro, leale, concreto (tra l'altro con risultati da record, più dodici per cento nelle esportazioni italiane) e il punto alto, nobile, disinteressato segnato per l'Italia con la "moratoria". È stato un risultato talmente alto da ispirare accaniti imitatori, che vorrebbero rifare la prova a rovescio, ma sognano una equivalente mobilitazione morale. Il Pd ha la possibilità di avere in casa l'originale, mentre fuori infuriano le imitazioni. Non me ne priverei.
Secondo. Possiamo discutere fino a domani sul "più a destra" o "più a sinistra" dei Radicali. Però, da un lato è impossibile dimenticare i due o tre drammatici eventi che, grazie alla loro ostinazione, hanno cambiato la vita italiana e l'hanno resa europea prima che ci fosse il legame dell'Unione (il divorzio come dignità delle coppie e la libera scelta come dignità delle donne).
Dall'altro come non attribuire, in un partito nuovo e moderno, capitale importanza ai diritti civili, che sono esattamente il punto di forza della spesso invocata battaglia americana di Barak Obama?
Terzo, la questione spesso malposta e maldiscussa, della laicità. È malposta quando sono gli altri che pretendono di decidere se la tua laicità è “sana”. È maldiscussa quando le persone credenti che credono di opporsi al "laicismo" in realtà si oppongono alla integrità e intangibilità dei diritti civili.
I Radicali, dovunque vadano, portano in dote la laicità come fatto già discusso e deciso dalla Costituzione e dai fondamenti della democrazia. Un bene dunque non negoziabile non per superiore grado di moralità, ma perché su quei diritti si fonda l'edificio nel quale è garantita, come bene comune a tutti, la libertà di religione. È una visione nella quale i contenitori che tradizionalmente ci vengono indicati (la fede che contiene la vita civile e la regola) sono rovesciati: la vita civile - quando è sistema democratico - include, sostiene e protegge tutti i diritti, a cominciare dal diritto dei credenti.

Poiché sono convinto che questa campagna elettorale vada condotta nel modo più alto e chiaro e pulito, a cominciare dai simboli (e questa sarà la prima vittoria, anche se quella delle urne ci terrà col fiato sospeso fino all'ultimo giorno) sono certo che si dovrà partecipare insieme a questo importante episodio di vita italiana ed europea.
Invece di ricordare la bella e famosa frase di Charlie Brown ("ho bisogno di tutti gli amici che posso trovare") dirò l'altra: certe presenze segnano e garantiscono. Persino i militanti della antipolitica vedono subito quando una alleanza e uno stare insieme non è di convenienza ma di valore. E ha a che fare con la reputazione (che per qualcuno vale ancora) degli uni e degli altri.


Se An riscopre il Duce
Bruno Gravagnuolo su
l'Unità

Le voci di dentro inquietano An. E così si scopre che quella del "voto utile" non è l'unica parola d'ordine o lo slogan prevalente del partito che confluisce ormai sotto le insegne del Biscione. Ce ne è un altro di argomento forte, per cementare la volontà unitaria degli ex post-fascisti, e sedarne le ansie di sparizione all'ombra della fusione elettorale decretata da Fini. È l'argomento, distillato sul Secolo d'Italia di ieri, è: il "listone" porta bene. Appartiene alla "nostra" storia.
E già una volta ci consentì di vincere: "questione di leadership, egemonia e vocazione maggioritaria".
Sì, così sta scritto sul quotidiano di An, in prima pagina, proprio sotto il resoconto dell'intervento di Fini a "Radio Anch'io", e titolato sul "voto utile" e i "cittadini che non sceglieranno chi non ha possibilità di governare": con Casini nel mirino ed eventualmente Storace e Santanché. Già, ma a che "listone" e a che "memoria" si ispira "Gil" nel suo corsivo in bella mostra sotto Fini? Presto detto: il listone del 1924, che grazie alla legge Acerbo consentì a Mussolini e al suo blocco nazionale di rastrellare il 75% dei seggi. In virtù del premio di maggioranza che scattava dal 25% in su, nonché grazie al manganello. E la suggestione di memoria arriva dopo che l'articolista registra bonariamente tutti i tormenti interiori di An, dinanzi all'operazione Fini-Berlusconi. "Mi dicono - scrive Gil - che sta diventando un tormentone, la base mugugna...il listone è uno choc per la nostra base...". E per sedarli quei tormenti, l'articolista la prende da lontano. E cita Tatarella, che voleva andare "oltre il Polo". Poi fa l'avvocato del diavolo di sé stesso, e si autorisponde, evocando possibili obiezioni :"beh, il predellino di Berlusconi è un po' leggerino, qui c'è in ballo l'identità storica, il sangue e l'acciaio, serve di più...". Allora, prosegue "Gil", pensate ad Almirante, "all'apertura del Msi" al governo nel 1972 . Ma, nuova autobiezione: no, quella storia finì con la "destra nazionale" e "l'alleanza coi monarchici"! Troppo poco, non basta, visti pure i risultati. Dunque, ancora nessun "grumo di emozioni". Nessun sussulto da "far alzare le serrande di sezione" ai militanti e mandarli a votare con romana volontà. Oltretutto proprio oggi, con questo clima, quando anche "Casini cita El Alamein"... E allora?
E allora Il Secolo cala l'asso di bastone, la briscola che vale. E che fa "giocare sul sicuro". Ovvero, il fatidico 1924 e "la madre di tutti i listoni", quello che permise ai fascisti, sdoganati dal Re dopo la Marcia su Roma, di conquistare i "due terzi dei seggi" muovendo da un partito del 6%. Pure lì, scrive Gil, "c'era chi storceva il naso per l'ammucchiata coi liberali, democratici, nazionalisti, ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti". Ma - qui l'asso di bastone - "finì come finì... e il partito unico si sa chi se lo è preso. Questione di leadership, egemonia etc...". Segue battuta maramalda. Gli obiettori malpancisti post fascisti evocati, "sgranano gli occhi, si guardano intorno, abbassano la voce". E dicono: "sai che non ci avevamo pensato?". Chiosa finale del corsivista: "E poi dicono che c'hanno il culto della memoria...".
Perciò, ricapitoliamo. An va alla fusione col Cavaliere, con eventuale "patto di staffetta" tra il signore di Arcore e Fini stabilmente secondo, come aspirante premier per interposto Berlusconi. La base di An recalcitra e vuol vederci chiaro, mentre "le voci di dentro" in cantina filtrano in alto. Ma dall'alto giungono la spiega e il fervorino. Con argomenti "corazzati", che sono musica soave per una base già stranita e spaesata nella nuova foggia d'ordinanza del Ppe, e in quella arcoriana di una San Babila ormai "azzurra". Sicché arriva l'elisir di lunga vita, per sedare l'ansia di sparizione: siamo noi, siamo noi, i campioni dell'Italia siamo noi! Ieri come oggi, indefettibilmente e lungo un filo nero che continua malgrado le apparenze. La svolta di Fiuggi? Una trovata. La democrazia? l'antifascismo non tutto da buttare? E il viaggio di Fini a Gerusalemme? Tutte trovate inessenziali, e buone a "sdoganarsi" per continuare a stare in campo, nel nuovo campo inaugurato dall'"apripista"Berlusconi.



Bandiera bianca al Fisco di star e "furbetti"
Alberto Statera su
la Repubblica

"In questo mondo nulla può essere certo, eccetto la morte e le tasse", scriveva nel 1789 Benjamin Franklin a un suo amico francese, non potendo allora immaginare che nel terzo millennio una della grandi democrazie industriali del mondo, la nostra, impotente con la morte, avrebbe espunto dal motto le tasse. E che a espungerle di fatto sarebbero stati non i poveri cristi ma i ricchi e famosi, quelli che nel migliore dei casi praticano l´"avoidance", l´aggiramento, la libertà di poter fare ciò che con la consulenza di stuoli di avvocati superpagati ritengono in modo autoassolutorio non sia espressamente vietato dalla legge; e che nel peggiore sono stati protagonisti di grassazioni che li hanno enormemente arricchiti.
Vincenzo Visco e Massimo Romano, direttore dell´Agenzia delle Entrate, ne hanno presi nel paniere decine in pochi mesi andando a spulciare gli elenchi degli italiani fiscalmente "residenti" all´estero e nei processi per gli ultimi scandali. E quasi tutti hanno rinunciato a far ricorso, per patteggiare col fisco la cifra da pagare in base al cosiddetto "Concordato con adesione". Pochi (tutto è relativo), maledetti e subito.
Le tipologie di evasione, naturalmente, sono assai diverse. Giovanni Consorte, l´ex ras dell´Unipol, che ha accettato di restituire 12 milioni al fisco per evitare l´accusa di riciclaggio di 20 dei miliardi di lire avuti all´estero da Emilio Gnutti, a sua volta titolare di una cartella esattoriale da 2 miliardi di euro, non si può paragonare a Valentino Rossi, che ha accettato di pagare 35 milioni sui 112 che si è guadagnati e per i quali presentò dichiarazioni irrisorie in Gran Bretagna, dove si diceva residente. Così Leonardo Del Vecchio, il secondo uomo più ricco d´Italia dopo Berlusconi, che ha "esterovestito" parte del suo patrimonio e ha avuto un accertamento di 20 milioni, non è assimilabile a Danilo Coppola o a Stefano Ricucci, i campioni dei furbetti del quartierino che misero a ferro e fuoco la finanza italiana nell´estate del 2005, i quali hanno accettato di pagare al fisco rispettivamente 70 e 26 milioni di euro. In situazioni assai diverse, Fabio Capello, campioni come Mario Cipollini, Giancarlo Fisichella, Loris Capirossi, un "mediatore di veline" come Lele Mora e tanti altri famosi e meno famosi.
Non che "esterovestirsi" per pagare meno sia attività proprio commendevole, soprattutto per chi è straordinariamente ricco, ma una certa "etica" corrente tende a distinguere tra l´evasione-elusione e la vera e propria delinquenza finanziaria, scomodando persino Adam Smith che giustificava la "resistenza del popolo" nel caso di "crescita delle tasse a livelli esorbitanti". Persino l´Agenzia delle Entrate distingue - anche se forse non lo ammetterà mai - tra quelli che si sono fiscalmente accasati in paesi inclusi nella "White list", come l´Inghilterra, e quelli uccel di bosco nella "Black list" dei paradisi fiscali che proliferano nel mondo, verso i quali prevale una presunzione sfavorevole.
Vuoi vedere che "Nosferatu", al secolo Vincenzo Visco, con Prodi l´uomo su cui si è convogliato il massimo tasso di livore nazionale, non è poi quell´essere alato e nero assetato di sangue che viene descritto agli italiani dal suo predecessore Giulio Tremonti, ma è solo uno che ha fatto bene il suo mestiere nelle condizioni date, senza condoni, ma anche senza "soluzioni militari"? Fatto si è che gli evasori "white", o quantomeno caffèlatte, scovati in pochi mesi con i controlli sono stati chiamati a un comportamento "dialogante" dal viceministro presunto autistico oltreché sanguinario e quasi tutti hanno accettato il "Concordato con adesione".
Risultato: 250 milioni rastrellati solo in pochi mesi tra i ricchi e famosi. Visco non ha messo in galera nessuno, come fece invece un suo predecessore con Sofia Loren. Se mai, con Massimo Romano in conferenza stampa, ha replicato in modo assai più contegnoso e sobrio, il "Caso Villa", che risale a una quarantina d´anni fa, quando il cantante melodico Claudio Villa ("Binario triste e solitario") venne convocato dal ministro socialdemocratico delle Finanze Luigi Preti, un emiliano mite che girava sempre con la sciarpa, per concordare quanto dovesse pagare al fisco sui redditi evasi. Il cantante arrivò al ministero nelle Torri dell´Eur in motocicletta - Valentino Rossi l´ha lasciata a casa - bardato in una tuta nera e la trattativa si svolse come uno show davanti a decine di giornalisti e alle telecamere.
Colpirne uno per educarne cento? Se la tecnica scelta era questa non si può negare che abbia funzionato. Se no, ha funzionato lo stesso: 251.150 italiani qualunque hanno seguito negli ultimi dodici mesi l´"esempio forzoso" di Valentino Rossi e degli altri soliti noti, con un aumento del 47% rispetto ai 170.555 dell´anno precedente, per una "maggiore imposta accertata" di quasi un miliardo e mezzo (più 30%) e un introito per lo Stato di 926 e rotti milioni contro i quasi 648 del 2006. Altri 400 milioni sono venuti da una semplice lettera dell´Agenzia delle Entrate a centomila contribuenti: "Non ha forse dimenticato qualcosa nella sua dichiarazione"?, chiedeva pressappoco la missiva a signori un po´ distratti che giungevano magari a scaricare l´Iva sull´auto acquistata, ma senza dichiararne il possesso.



Kosovo, se rinasce il seme della paura
Slavenka Drakulic su
la Repubblica

Il 17 febbraio è stata una giornata storica e non soltanto per i kosovari, che hanno finalmente proclamato l´indipendenza. Il lungo processo di secessione dalla Serbia, iniziato quasi vent´anni fa, è stato, in effetti, completato. Ha avuto invece inizio un periodo in cui difatti saranno altri – l´Unione Europea, le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale o altre entità analoghe – a governare questo piccolo Paese. Il Kosovo indipendente, uno Stato senza economia e senza proprie istituzioni funzionanti, appare più come un miraggio. Simile alla Bosnia, che a tredici anni dalla fine della guerra, non è ancora diventata indipendente.
"Oh, come odio queste giornate storiche", dice mia figlia, mentre guardiamo insieme la diretta televisiva dal Parlamento a Pristina, "ognuna di queste giornate storiche non ha portato finora che guai…". E ha ragione, perché ricorda bene le giornate storiche delle secessioni slovena, croata e bosniaca del 1991 e la terribile guerra che ne seguì.

Resto a guardare l´intero solenne evento, che a me, tuttavia, non sembra molto solenne. I discorsi del presidente e del primo ministro sono troppo lunghi e pieni di ripetizioni e di frasi enfatiche. Mi ricordano, tristemente, le lunghe sessioni, di più di trent´anni fa, del Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia. Mancano l´entusiasmo, la poesia e l´ispirazione, anche nella stessa proclamazione, che, così mi sarei aspettata, doveva essere scritta con le emozioni della prolungata sofferenza delle persone. Perché le persone hanno sofferto. Il mondo ricorda ancora le lunghe fila di persone, centinaia di migliaia, che lasciavano il Kosovo per riversarsi nelle vicine Albania, Macedonia… un esodo di proporzioni bibliche. I 2,2 milioni di persone della forte minoranza albanese in Serbia erano vittime della brutalità dei loro vicini serbi, di Milosevic, della sua polizia e dell´esercito, tutti impegnati nel compito della pulizia etnica. Ciò dà loro il diritto morale a un proprio Stato, alla libertà e all´indipendenza.
Tuttavia, la loro legittima rivendicazione di uno Stato, il loro diritto morale e il loro diritto a una giustizia non coincidono con il diritto legale ed è qui che cominciano le complicazioni. Non soltanto per i kosovari. Anzi, forse non tanto per i kosovari quanto per gli altri. Innanzitutto, vi è, ovviamente, la questione di quali Stati della Ue riconosceranno la loro indipendenza. Qui si è creata subito una prima frattura: come potrebbe riconoscerla, per esempio, la Spagna, quando i baschi non vedono l´ora di fare altrettanto? Oppure la Romania, dov´è la minoranza ungherese a sollecitare l´indipendenza. O Cipro… È vero, gli uomini politici della Ue continuano a ripetere tutti che il Kosovo è un "caso unico", anche se nessuno spiega perché dovrebbe esserlo o chi può garantire, e in quale modo, che resti tale. Il fatto stesso che finora la Ue sia divisa tra 17 membri pronti a riconoscere l´indipendenza del Kosovo e 10 che non la riconosceranno (perché hanno, ovviamente, problemi analoghi in casa propria) dimostra che la Ue non è abbastanza forte da arrivare a una politica comune. E più importante ancora, questa frattura genera un sentimento di incertezza, soprattutto per il fatto che, in questo caso, la Russia è profondamente coinvolta con una delle parti e gli Stati Uniti con l´altra.
E che dire della regione dell´ex Jugoslavia in quanto tale e delle voci che l´indipendenza del Kosovo possa essere la fine della guerra che qui è cominciata? Tralasciando la frustrazione della Serbia per la perdita del Kosovo (che dovrebbe essere tenuta in dovuto conto), ora l´intera regione sembra essere quasi pronta a manifestare le singole aspirazioni: i serbi della Repubblica Serba e i croati nella Bosnia Erzegovina, gli albanesi della Macedonia… nonché i serbi della regione croata della Krajina – perché non dovrebbero anche loro tentare di seguire la stessa strada? Chi spiegherà loro che non sono un "caso speciale"?
Il seme della paura è stato nuovamente seminato e questa è, in effetti, una conseguenza triste di un atto di secessione altrimenti giusto e meritato. Oppure, quanto meno, questo è quel che mi viene in mente mentre continuo a guardare la televisione in questa giornata. Sto qui seduta, pervasa da un sentimento ambivalente: felice che sia stata fatta giustizia, mentre, al tempo stesso, sono preoccupata per ciò che il futuro, che si svolge davanti ai miei occhi, porterà. Che altro potrei fare in un´altra giornata storica?


Borghezio: Padania come il Kosovo
Marco Zatterin su
La Stampa

Ho aperto Straneuropa per raccontarvi quanto sia bravo il ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremic. E' giovane, ha studiato a Harvard, parla un inglese perfetto con accento americano, si muove come un americano, anzi come un americano dei telefilm. Salvo che in questo momento gli americani gli provocano controllati sbocchi di bile.

E' sobriamente dinamico nel modo di fare. Ha sempre il tono giusto anche quando giura che "Belgrado non riconoscerà mai il Kosovo sino a che esiste la Serbia". E' freddo nel minacciare ritorsioni economiche e politiche. Gli hanno insegnato che si dice "grazie per la domanda" e lo fa tutte le volte. Rispetta la stampa. E i suoi interlocutori. Poi fa come vuole lui, il che è più che legittimo, anche se ripete sino alla nausea di essere contrario alla violenza e di essere votato a rispetto della democrazia, soprattutto ora che il suo popolo è stato tradito. Fa bene il suo mestiere, molto bene. Farà carriera. Parecchia.

Avrei voluto raccontarvi qualcosa in più (vabbè, lo trovate domani sul giornale), quando è arrivato un comunicato stampa del leghista Borghezio. Anche lui è uno che fa bene il suo mestiere, si presenta come un mite indifeso e poi lancia macigni nello stagno. L'ultimo ve lo state immaginando. Preciso che lo ha detto in aula al Parlamento europeo e che ha sottolineato di essere comunque inquieto per la nascita di un altro regime islamico.

" L'indipendenza del Kosovo è un precedente per le aspirazioni dei popoli, che è molto importante per la Padania, una nazione senza Stato. E' una concreta applicazione in Europa del principio di autodeterminazione dei popoli, sancito dalla Carta dell'Onu".

Immediata la reazione, con la nota degli eurodeputati della Sinistra Arcobaleno Roberto Musacchio (Rifondazione), Monica Frassoni (Verdi) e Pasqualina Napoletano (Sd).

"Le affermazioni in aula dell'onorevole Borghezio, in occasione della discussione sul caso Kosovo, sono inquietanti e richiedono un immediato chiarimento da parte della forza politica di cui fa parte e di quelle a lui alleate".

Personalmente non commento, almeno per ora. Provo a mantenere le distanze, se mi riesce. In senso lato, viene solo da pensare che tutti in Europa stanno cercando di legare il Kosovo ad altre situazioni e farlo vuol dire andare a cercare guai veri. Baschi, Catalani, Fiamminghi, tutti indipendenti? Massì, torniamo alla cartina geografica del Settecento, coi principati. O magari ai comuni, così tutti saranno presidenti di qualcosa. O magari re. E presto o tardi qualcuno rimetterà le frontiere, i dazi e le dogane. E poi alla lunga trionferà – nell'ordine – localismo, regionalismo e nazionalismo. Termine, quest'ultimo, che, per il monumentale Mitterrand, era sinonimo di guerra.



Il dittatore e il mito
Franco Venturini sul
Corriere della Sera

Cinico dittatore per alcuni e icona nazional-popolare per altri, Fidel Castro non sarà meno controverso nel suo crepuscolo politico di quanto lo sia stato nel suo mezzo secolo di potere. Senza lasciare del tutto la scena (perché resta segretario del Pc, carica cruciale in tutte le patrie del "socialismo reale"), il
Líder Máximo cubano si propone come paternalistico garante di una transizione imposta dalle sue precarie condizioni di salute: prima a beneficio del fratello Raúl che già lo sostituisce dall'agosto del 2006, più avanti con l'avvento di dirigenti giovani ma sempre fedeli alla matrice della Revolución.
Se questo programma avrà successo lo dirà il futuro. Oggi si può soltanto osservare che nella storia dei Pc al potere ogni tentativo di evoluzione riformista ha portato al crollo del regime, con le eccezioni, ogni giorno più flagranti, della Cina capital- comunista e del Vietnam che ne segue le orme. Sono probabilmente questi due ultimi esempi che Fidel e Raúl hanno in mente, ma stavolta l'unicità geopolitica dell'esperienza cubana rischia di non bastare a dar loro ragione.
Ancora oggi discussa nelle sue origini (fu l'embargo Usa a spingere i barbudos tra le braccia di Mosca?), quella di Fidel Castro è stata una dittatura classica. Non particolarmente sanguinaria, ma classica: partito unico, elezioni a lista unica, controllo ferreo dell'informazione, limiti alla mobilità dei cittadini, maxi-apparato poliziesco. L'originalità, semmai, risiedeva nel sostegno di un ampio consenso popolare fatto di nazionalismo ben più che di suggestioni marxiste. Forte di un carisma che aveva dimostrato già ai tempi della lotta contro Batista e aiutato dalla sfida esaltante del piccolo Davide cubano contro l'arrogante Golia statunitense, Fidel si identificò all'interno con una mitologia popolare non inferiore a quella internazionalista del Che. E le conquiste ancora oggi rilevanti ottenute nel settore della sanità e in quello dell'istruzione valsero al Líder ulteriori consensi, consentendogli di superare indenne la Baia dei Porci, la crisi dei missili, il disastroso impatto del crollo dell'Urss e quell'embargo americano di cui il regime si è sempre e clamorosamente servito in chiave nazionalista.
Ma ad un certo punto, forse una decina di anni fa, l'incantesimo di un castrismo orgoglioso e capace di resistere a tutto è andato in frantumi per consunzione. A Fidel non è bastata più la mobilitazione permanente della base, si sono moltiplicati gli arresti di dissidenti, anche le celebrate sanità e istruzione hanno visto declinare la loro efficacia, è diventato sempre più impalpabile il vantaggio teorico delle dittature comuniste su quelle fasciste: il richiamo a un'utopia di giustizia sociale.
Ad esprimere un ormai incontenibile desiderio di voltare pagina sono stati, per quello che hanno potuto, gli stessi cubani che nei decenni precedenti idolatravano Fidel ela Revolución. Perché aveva avuto luogo un ricambio generazionale, come hanno da poco dimostrato i malumori non più segreti degli studenti.

Ma anche perché il nazionalismo non riusciva più a prevalere sui bisogni dei cittadini e sulla loro sete libertaria, perché diventavano insopportabili le barriere all'espatrio e l'esistenza di aree turistiche vietate ai cubani, perché in un Paese clandestinamente cablato l'informazione di regime e il culto della personalità diventavano oggetto di scherno più che di rispetto.
Ora che sceglie di abbandonare almeno parzialmente il campo, Fidel Castro conserva una sua grandezza storica. E' stato l'eroe di una lotta popolare, ha tenuto testa all'America a un tiro di schioppo dalle sue coste, ha in qualche modo digerito la fine dell'Urss, si è costruito un sistema di relazioni che va oltre il benefattore venezuelano Hugo Chavez, e, complice la malattia, sta favorendo un ricambio al vertice negato per 49 anni.
Ma l'eredità vera di Fidel, quella che tocca i cubani, è devastante. Una incauta politica monetaria, il razionamento alimentare che a nessuno basta, il salario medio di diciotto dollari hanno costretto la popolazione ad "arrangiarsi" per sopravvivere. Da questo bisogno hanno tratto origine una corruzione endemica e generalizzata, un capitalismo individuale selvaggio (e qui siamo al paradosso più crudele) che non trova limitazioni etiche, il convincimento che soltanto nell'illegalità possa stare la salvezza.

E' troppo tardi per inseguire il modello cinese, Raúl o chi per lui sono condannati a finire come Gorbaciov? Questa è la domanda che Fidel lascia in sospeso mentre la Chiesa e l'Europa chiedono un "gradualismo democratico" e i cubani sperano nel prossimo presidente Usa. La Storia, ama ripetere il Líder Máximo, mi assolverà. Il meno che si possa dire è che la partita è ancora molto incerta.


  21 febbraio 2008