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sulla stampa
a cura di G.C. - 7 febbraio 2008


Il cambiamento
Ezio Mauro su
la Repubblica

Come se ogni volta il Paese aspettasse l'anno zero, dopo lo scioglimento delle Camere la destra guarda al voto di aprile come a un giudizio di Dio ritardato, che dovrà finalmente riconsacrare l'unione tra il Capo e il suo popolo nel destino della nazione. Nient'altro: si sente il filo della spada che taglia corto tra gli indugi della politica, che rassicura gli indecisi e ammonisce gli avversari, mentre raduna i reprobi e i convertiti, dopo l'ora d'aria.

Naturalmente, la sinistra italiana porta la piena responsabilità di tutto questo. In meno di due anni, la finta alleanza dell'Unione ha sperperato l'idea di un'alternativa credibile di governo, di classe dirigente, di cultura. Ha divorato nelle risse intestine i meriti del governo Prodi, ingigantendo nelle polemiche tutti i demeriti. Non ha trovato un'interpretazione dell'Italia capace di parlare al Paese, di portarlo a credere e a scommettere su se stesso. Ha dovuto dichiarare fallimento, riconsegnando le chiavi del governo come se il Paese le fosse non solo ostile, ma addirittura sconosciuto.

Ma con la sinistra colpevole, e dunque obbligata a cambiare radicalmente, nessuno in realtà può considerarsi assolto. Quando il capo dello Stato denuncia "l'anomalia" di uno scioglimento così anticipato delle Camere, parla per tutti e rivela l'impotenza di ognuno. Improduttivo sul piano politico, il sistema è bloccato sul piano istituzionale. E le istituzioni riguardano tutti, anche la destra che non ha saputo cambiare una legge elettorale sbagliata e dannosa, e non ha voluto due riforme essenziali per la governabilità e la legittimità del sistema: la riduzione del numero dei parlamentari (con la fine del bicameralismo perfetto) e la riduzione del numero dei partiti.

Anche su questo giudicherà ora il popolo sovrano. Dopo tante paure ideologiche e altrettante gabbie, il cambiamento sarà la leva del voto, l'innovazione la sua misura. Chi pensa a nuove alleanze finte, a destra e a sinistra, non ha capito il disincanto del Paese, la propensione al cambiamento, l'effetto della nuova solitudine repubblicana che nasce dalla disconnessione di molti cittadini dalla vicenda pubblica.



L'arma di Walter
Augusto Minzolini su
La Stampa

Potrà sembrare paradossale che una formazione politica come il Partito Democratico per rinnovarsi debba prima rischiare consapevolmente una sconfitta elettorale.
Eppure Walter Veltroni non ha alternative: deve costruite una forte identità del Pd anche a scapito delle alleanze. Deve seguire una logica assolutamente opposta a quella dell'Ulivo.
E in questa operazione, in cui l'immagine è tutto, per essere davvero convincente deve andare da solo senza la sinistra massimalista anche nelle regioni rosse che (vedi la Toscana) rischia addirittura di perdere.

Questa decisione, opportuna se non addirittura obbligata, lascia però qualche dubbio sul piano del metodo. Per ora, infatti, la scelta degli alleati nasce più da una decisione unilaterale del vertice del Pd, magari maturata per dimenticare la cattiva esperienza del governo Prodi, che non da un ragionamento sul futuro. Quello che manca, insomma, è la motivazione palese, indiscutibile, inattaccabile, che spinge il Pd a presentarsi da solo, o con alcuni alleati e senza altri: la ragione che dovrebbe spegnere sul nascere le polemiche di chi da sinistra accusa il partito di Veltroni di correre per perdere. Questa ragione non può che essere il programma. È da lì che bisogna partire. Ma un Programma con la P maiuscola, non quelli che sono stati accolti dalla gente con sbadigli o fuggi fuggi a cui ci hanno abituato in questi anni le diverse coalizioni.

Il Programma di cui si parla deve essere sintetico e non enciclopedico come quello del governo Prodi. Deve essere formato da proposte di legge che all'indomani delle elezioni la coalizione dovrebbe depositare in Parlamento. Pochi punti, caratterizzanti: il provvedimento sul fisco, quello sull'energia, quello sulla giustizia, quello con il quale (è argomento di questi giorni) il Pd dovrebbe rifinanziare le missioni di pace italiane all'estero. Un programma sintetico e rigoroso che il candidato premier propone agli altri. E che deve essere accettato senza "se" e senza "ma". All'insegna del chi ci sta, ci sta. In questo modo non sarebbe il Pd ad escludere, chessò, Rifondazione, o a preferire Di Pietro ai radicali, ma sarebbero queste stesse forze, non aderendo, ad autoescludersi. E non sarebbe Veltroni ad impedire a priori a questi settori della sinistra un tentativo di modernizzazione, sarebbero loro stessi a rifiutarlo.

Questo discorso vale ancora di più per il centro-destra dove è già cominciato il dibattito su quanti debbono essere i simboli e le liste della coalizione. Un dibattito finora condizionato più da rancori e personalismi che non da motivazioni politiche. Anche qui, se il leader è il Cavaliere, deve essere lui a presentare un programma di proposte di legge, che gli alleati debbono firmare per far parte della coalizione. L'adesione, quindi, deve essere totale, senza riserve. Saranno i "sì" e i "no" a determinare i confini della coalizione. Non sarà, quindi, Fini a dire "no" a Storace. Né Casini a Rotondi. Sarà un meccanismo virtuoso: se Storace per entrare nella coalizione dovrà riconoscere fino in fondo lo Stato di Israele, farà fare un passo avanti alla destra estrema; viceversa sarà lui a staccarsi dal centrodestra di governo.

Inoltre uno schema del genere può servire per l'oggi, il domani e il dopodomani. Oggi potrebbe offrire agli elettori un'idea chiara dei propositi del premier e della coalizione che si apprestano a votare. Domani, se qualche alleato ritirasse l'appoggio ad uno dei provvedimenti contenuti nel programma, l'opinione pubblica potrebbe giudicare chi è venuto meno agli impegni. Dopodomani il premier, forte del fatto che uno degli alleati si è rimangiato la parola data, sarebbe autorizzato a mettere in piedi altre alleanze. Una logica del genere sarebbe più attinente alla realtà perché una coalizione è stabile non tanto per i numeri di simboli che presenta, quanto per i comportamenti di chi vi aderisce. Non vi è dubbio, ad esempio, che nell'esperienza di governo del centrodestra è stata più destabilizzante la linea politica seguita da un partito di media grandezza come l'Udc che non l'atteggiamento dei Repubblicani o della nuova Democrazia Cristiana di Rotondi. Mentre, sull'altro versante, al di là delle preferenze di oggi di Veltroni, l'azione di Di Pietro è stata sicuramente più destabilizzante per il governo Prodi che non l'atteggiamento dei Radicali. Insomma, bisogna sfatare anche un falso mito. In Italia il problema non è tanto la legge elettorale (ne abbiamo cambiate tante), quanto i comportamenti delle forze politiche.



Udeur e Destra, la Cdl tratta
Paola Di Caro sul
Corriere della Sera

ROMA — Vittorio Feltri la butta là, come qualcosa di più di una suggestione e qualcosa di meno di una notizia: Silvio Berlusconi potrebbe aver deciso di imitare Veltroni, e di correre pure lui da solo: "Lo conosco, lui non vuole mai arrivare secondo, neanche nella gara tra i più coraggiosi... ". Ma dal quartier generale del Cavaliere, che ha passato il pomeriggio riunito con i vertici di Forza Italia, smussano: l'ipotesi di un listone che veda assieme tutti quelli che sostengono Berlusconi premier sotto sotto esiste, e fa capolino nei discorsi soprattutto nel momento in cui il leader del Pd assicura che lui non farà accordi con nessuno, nemmeno tecnici, nemmeno al Senato, dichiarazione che ieri pomeriggio ha molto colpito e fatto molto riflettere il Cavaliere.
Ma alla fine, scommettono i fedelissimi del Cavaliere, non dovrebbe finire così. Piuttosto, in un momento in cui davvero tutto è in ballo e ogni segnale si presta a diverse letture (ieri sembrava dovesse esserci un vertice tra i leader, secondo Bonaiauti un'assoluta invenzione perché non era in programma, ma il fatto che non si è tenuto ha alimentato voci di difficoltà tra gli alleati), l'ipotesi di schieramento che pare più accreditata vede la discesa in campo dei quattro partiti fondatori della Cdl — FI, An, Udc e Lega — alleati ad una sorta di lista comprendi-tutto che vedrebbe assieme dai repubblicani ai pensionati, dai diniani a Rotondi a Giovanardi. Ma al di là delle difficoltà dell'operazione — la lista potrebbe sottrarre voti all'Udc, e comunque i leader dei partitini non avrebbero la sicurezza di essere eletti — restano ancora tutti da sciogliere due nodi grossi: cosa farà Mastella, e che collocazione avrà la Destra di Storace.
Sull'Udeur, la posizione più rigida l'ha presa la Lega, con Maroni che invita Berlusconi a non fare il Noè che imbarca tutti. Castelli è ancora più duro: "Perché l'Udeur entri dobbiamo essere tutti d'accordo e la Lega non lo è". E se Stefania Craxi boccia la "serenata " a Mastella che offende "la sua e la nostra dignità", anche An non sprizza entusiasmo, per quanto Ignazio La Russa sostenga che "per Mastella vale il discorso che vale per tutte le altre forze, nessuna preclusione preventiva". E però, è FI a spalancare le braccia, con una nota di Bondi e Cicchitto in cui si auspica che nel decisivo consiglio nazionale di sabato Mastella decida di aderire al centrodestra: "In tal caso, l'Udeur sarà il benvenuto nel nostro schieramento ".
L'ex ministro non svela come finirà, piuttosto ipotizza dopo il voto "un'alleanza tra Pd e Fi", ma i suoi fedelissimi spiegano la situazione: l'Udeur è pronta a presentarsi con la Cdl con il suo simbolo, per dragare voti a favore della coalizione anche nelle Regioni dove non può superare il 3%, ma vuole essere salvaguardata nella "riserva" che scatterà con il premio di maggioranza. E in ogni caso, Mastella non ha intenzione di ritirare la sua delegazione da tutte le giunte locali dove governa con il centrosinistra.
Complicata anche la partita con Storace, che ieri ha incontrato Berlusconi ed è parso rinfrancato sulla possibilità di correre con la Cdl, ma con il proprio simbolo: "Noi ci saremo ", assicura la Santanchè, nonostante le forti perplessità di Fini e dei centristi su una forza che, sul tema dei rapporti con Israele, potrebbe creare — dicono — più di un problema al centrodestra.


Il vincitore non farà sconti
Michele Salvati sul
Corriere della Sera

Marini ha gettato la spugna e si andrà ad elezioni in aprile con la legge elettorale in vigore. Non è una buona notizia.
La legge con la quale si voterà tende a creare due schieramenti incoerenti e l'un contro l'altro armati, che non hanno alcun interesse a rappresentare in modo serio la difficile realtà in cui viviamo e poi, una volta ottenuta una vittoria elettorale, nessuna possibilità di attuare le misure che da quell'analisi conseguono. Perché dovremmo credere che, chiunque vincerà, sarà questa volta in grado di governare meglio che nelle passate legislature? Per chi votare? Ma, soprattutto, perché votare con questa legge?
Il centrodestra non nega che i problemi del Paese siano gravi e che uno stile di governo meno partigiano e più consensuale sarebbe utile. Né nega che riforme elettorali e costituzionali siano necessarie e debbano essere approvate da un'ampia maggioranza. Ma afferma che il nuovo stile potrebbe affermarsi dopo le elezioni, dopo che questo governo è stato spazzato via dal voto popolare. Si fa fatica a crederci. Sia perché non c'era bisogno di nuove elezioni per avere un governo diverso da quello di Prodi. Sia e soprattutto perché è probabile che nuove elezioni — con gli scontri frontali alimentati dal sistema elettorale — spengano sul nascere quegli accenni a una logica consensuale di cui siamo stati testimoni nelle scorse settimane e che Berlusconi sta rafforzando in questi giorni.
Se il Partito democratico sarà sconfitto dalla coalizione degli avversari, Veltroni farà molta fatica a sostenere un progetto come quello che Mario Monti auspicava sul Corriere del 3 febbraio: inevitabilmente esso sarebbe visto come il cedimento al "nemico", che prima ha imposto la sua volontà e poi graziosamente concede un dialogo secondo le proprie convenienze. Non ho dubbi che Veltroni sia convinto della necessità per il Paese di una strategia consensuale vicina, nel merito, a quella di Monti. Dubito però che, alla guida di un partito appena nato e di cui non ha il pieno controllo, in cui molti vivono ancora nel clima di demonizzazione del recente passato, riuscirà ad imporre queste sue convinzioni. E saremmo alle solite.
Un governo di stile bipartisan, con obiettivi importanti ma limitati, con una scadenza ragionevolmente breve, lo si poteva fare sotto il "velo d'ignoranza" che precede le elezioni. Sarà difficile farlo come concessione che il vincitore (se così sarà) fa allo sconfitto. Inoltre, con una legge elettorale che non rendesse convenienti coalizioni forzate, il nuovo stile auspicato da Berlusconi sarebbe stato assai più facile da attuare anche dopo le elezioni. Ma questa occasione l'abbiamo persa.

Una cosa è la Grosse Koalition dei tedeschi, tra due partiti normalmente bene assestati in una logica bipolare, ma di cui nessuno era in grado di governare, da solo o con alleati congeniali, dopo le ultime elezioni: è concepibile che Forza Italia e Partito democratico formino un governo di coalizione, in condizioni quasi paritetiche, abbandonando i loro tradizionali alleati? Una cosa assai diversa è lo stile Sarkozy, in un caso in cui dalle elezioni era emerso un vincitore evidente, di centrodestra. Un vincitore che ha inserito nel suo governo eminenti personalità di centrosinistra, nello sconcerto e con l'opposizione dei loro partiti di provenienza, e con forti mugugni anche nel proprio. Come patron del Milan, Berlusconi ha fatto delle ottime campagne acquisti. Dubito che riesca a farne in politica.


La fiducia perduta nei politici
Giancarlo Bosetti su
la Repubblica

Perché i politici sono detestati in democrazia? E perché gli italiani più degli altri? L´onda lunga del disincanto, il cosiddetto "declino della deferenza", è cominciata nel '68 e poi si è ravvivata negli anni Novanta. Corruzione e malefatte in genere provocano una ovvia reazione di rabbia: via i mascalzoni, get out the rascals! Oltre che una questione umana elementare, è anche un principio di teoria democratica. Ma in questa stagione da noi c´è qualcosa di più paralizzante e nebuloso e cresce la frustrazione per non riuscire in nessun modo a voltare pagina. Altri ci riescono.
Molti politici dovrebbero cambiare stile o cambiare lavoro. Quando ascoltiamo uno di loro a caso in tv, la nostra reazione - più o meno consapevole - è quella di valutarlo istintivamente per il "noi" che quel politico sottintende, suggerisce. Drew Westen, stratega della comunicazione vicino ai Democratici americani (The Political Brain, Public Affairs, 2007) propone di fare sempre questo esperimento, da elettori: chiedersi "come mi sento quando parla questo leader?". L´esito è nefasto. Nessun politico italiano quando parla nei Tg si preoccupa di come ci sentiamo.
Un leader in ascesa, portatore di novità e di futuro, è quello che trasmette l´idea che il suo "noi" siamo proprio "noi", "tutti noi" cittadini, e che sarà al nostro servizio in quanto eletto; si identifica naturalmente con il "noi" che è la sua stessa missione, e anche il motore del suo successo. Nella carica di entusiasmo che mette, nella sua carriera di nostro rappresentante professionale, noi ci riconosciamo, sentiamo che la sua ambizione contiene del buono, siamo anche contenti che sia ambizioso, perché la sostanza della sua ambizione è un progetto che ha futuro, non solo per lui, anche per noi. Non è il professionismo che ci preoccupa. È il "noi".
In questi giorni di consultazioni istituzionali sono comparsi in tv partiti così piccoli che se ne ignorava la esistenza, e che parlano di crisi del sistema politico, di "distacco" - udite! - tra le istituzioni e la gente, e che non sono neanche in grado di affidarsi a un unico portavoce. Parlano in due. Il sistema politico sono sempre "gli altri", tutti e nessuno. Altrove, dicevamo, va meglio. Il "noi" che abbiamo visto in gioco con Obama, Hillary, McCain, ma anche con Sarkozy e Ségolène, o con Zapatero è vivo sulla scena. Certo Barack riesce ad allargarlo immensamente. Di lui Ted Kennedy ha potuto dire, sollevando ovazioni, che "rinnova la nostra fede in un principio: i giorni migliori del nostro paese devono ancora arrivare". È proprio quella "chiamata al futuro" (De Rita) che manca all´Italia.
Retorica? Certamente. E si tratta di una retorica che è parte costitutiva del sistema democratico americano. Ma non basta alzare i toni lirici dei discorsi perché funzioni, bisogna essere credibili. Nella retorica quotidiana dei nostri politici prevale la carogneria verso altri politici o il gergo delle comunicazioni interne. E solo una cieca ingenuità impedisce loro di vedere il danno che infliggono a se e a noi. Non perfidia ma ingenuità, come già per Craxi, Forlani e gli altri caduti di Mani Pulite. Quos Deus vult perdere prius dementat.
Da ogni accento, allusione, smorfia altezzosa dei politici di oggi si ricava la conferma che il "noi" micragnoso che stanno mettendo in scena non ci comprende affatto, è un "noi" di "loro", entourage di fedelissimi. Perché? Non hanno vere sfide da lanciare, ma posizioni da difendere, la loro carriera è alle spalle. Da Bassolino a Berlusconi, da Casini a Prodi, passando per tanti ex Pci, ex Dc, ex Psi, e decine e centinaia di minori, da Rifondazione ad An, sono tutti la testimonianza di parabole che hanno toccato il loro apice e che, (non nel caso di Prodi, che ha annunciato la sua uscita di scena) cercano di mantenersi in quota e bloccano gli ingressi. A nessuno verrebbe in mente che siano capaci di incarnare il principio "che i giorni migliori del nostro paese devono ancora arrivare".

E questo accade non solo quando cercano di mettere in cattiva luce gli avversari, ma anche quando illustrano cinicamente i propri "meriti". Ma ha avuto un gran peso anche l´insistenza neoliberale nel predicare la inefficienza di tutto quello che è pubblico, che è Stato, che è politica: pensate ai "centristi" nel governo Prodi per esempio parlavano di riforme liberali e intanto nominavano i ginecologi di partito. E pensate alla lezione "liberale" di cinque anni di Berlusconi: il suo fatturato. C´è autolesionismo nella perversione per cui le elite politiche insistono sul fatto che ci vuole meno politica, ma si abbarbicano a quel che ne resta per mungerla.
Le contromisure urgenti sono relativamente semplici (da descrivere): i cittadini non si accontentino di forme non istituzionali di attività politica, come il volontariato o le scelte impegnate che fanno da consumatori, cerchino la politica anche nei partiti. I politici che non hanno carattere e idee per imbarcarsi in un grande e affascinante futuro, lascino perdere. Facciamoli smettere. Sulle dosi di cinismo che hanno inquinato la vita politica riflettano sia la destra (altri cinque anni di business politico berlusconiano?) sia la sinistra, specialmente l´area riformistica e moderata, quella che, pur con tante ragioni, ha dato più corda ai discorsi neoliberali sull´arretramento della politica. Non basta assumere le parti del realismo. Deve entrare in scena una forma nuova di politica, con un futuro e un "noi" ben chiaro. In fin dei conti quello che non finisce di stupire è che gli elettori continuino ad amare la democrazia, e che si riprendano dopo ogni ciclo di delusione. Si ripresentano pronti ad investire in un nuovo capitale di speranza.


Pillola, il no è fuorilegge
Flavia Amabile su
La Stampa

ROMA. Medici e farmacisti non possono essere obiettori di coscienza sulla pillola del giorno dopo. Il ministro della Salute Livia Turco preferisce non rilasciare dichiarazioni sull'odissea che le donne sono costrette a vivere per ottenere la pillola del giorno dopo durante i fine-settimana. "Non intendo commentare", spiega.

I medici, invece, i protagonisti di questa vicenda, chiariscono che al massimo esiste la "clausola di coscienza". Se dunque per avere la prescrizione della pillola durante i fine settimana la donna si reca al pronto soccorso e si trova davanti al rifiuto di chi si dichiara obiettore di coscienza ha almeno il diritto di ottenere un collega in grado di fornire nel più breve tempo possibile il farmaco. "L'obiezione - spiega il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici, Amedeo Bianco - addotta a giustificazione del rifiuto non esiste sotto il profilo giuridico in altre fattispecie all'infuori dell'aborto o di alcune tecniche di fecondazione assistita".

Che cosa può opporre il medico per spiegare il rifiuto? "Una clausola di coscienza che però non esaurisce i suoi doveri perché i medici devono garantire a tutti i cittadini un uguale accesso ai diritti. Dunque se i medici sono liberi di esprimere in autonomia e indipendenza un rifiuto a prestare una certa attività in scienza e coscienza, allo stesso tempo devono adoperarsi affinché il paziente che richiede quella prestazione possa averne la disponibilità entro i tempi appropriati".

La soluzione secondo il presidente della Fnomceo deve partire dalle direzioni sanitarie: "Dovrebbero fare in modo che certi incidenti non accadano mai, per esempio attivando una rete che garantisca durante tutte le 24 ore il servizio di medici non obiettori".

Ben diversa la posizione dei medici cattolici. Angelo Francesco Filardo, ginecologo obiettore, sottolinea quello che è scritto nella Carta degli Operatori Sanitari del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari: "È atto abortivo anche l'uso di farmaci o mezzi che impediscono l'impianto dell'embrione fecondato o che ne provocano il distacco precoce. Coopera con l'azione abortiva il medico che consapevolmente prescrive o applica tali farmaci o mezzi".

E i farmacisti? Possono rifiutarsi di vendere la pillola del giorno dopo? "Il farmacista non può essere obiettore per legge", spiega Franco Caprino, segretario nazionale di Federfarma. "Il farmacista ha l'obbligo di fornire il prodotto se c'è una ricetta". E allora può fingere di non averlo? "E' vero che si tratta di un farmaco non molto venduto per cui può succedere che non sia in negozio in quel momento ma ci si attiva e lo si procura in poche ore". Altrimenti? "Altrimenti si può anche denunciare il farmacista", conclude Franco Caprino.

Favorevoli al ricorso alle vie legali anche i radicali. I medici obiettori "vanno denunciati alla Procura della Repubblica" sostiene Massimo Iervolino segretario dell'Associazione Radicali Roma. "L'obiezione di coscienza non è possibile: la pillola del giorno dopo non è un farmaco abortivo poiché agisce inibendo e ritardando l'ovulazione cioè prima della fecondazione".

Ma i cattolici la vedono in modo diverso. Vittorio Baldini, farmacista bolognese. "Il tempo che la carica spermatica impiega per il raggiungimento della sede di fecondazione, spinta dal movimento delle cellule ciliate e della contrazione muscolare liscia uterina generata dal coito, è di un'ora circa". E quindi quella della pillola del giorno dopo è "un'azione tutt'altro che farmaceutica: intercettare il concepito in gergo medico significa impedire il suo annidamento. Esito finale: la morte di un embrione umano in sede uterina (leggesi aborto)".



"Corruzione patologica su appalti e sanità"
Redazione de
l'Unità

Nei lavori pubblici, negli appalti e nella sanità ci sono situazioni "patologiche" con un quadro di corruzione "ampiamente diffuso". È la denuncia fatta dal procuratore generale della Corte dei conti, Furio Pasqualucci, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2008. La "mazzetta" non è mai sparita in Italia è la denuncia della magistratura contabile, che traccia anche un impietoso ritratto di un paese in cui la "Repubblica - come sottolinea il presidente della Corte dei Conti, Tullio Lazzaro - vive un momento di diffuso malessere e incertezza", rappresentato da un livello di investimenti minimo che frena lo sviluppo; da una "non adeguata" politica dei redditi per gli statali, e dalla necessità di tenere d'occhio la spesa previdenziale: seppure i conti pubblici appaiono "in netto miglioramento" nel 2007. Walter Veltroni, segretario del partito Democratico: "Un allarme che non va sottovalutato. Dobbiamo tenere alta la guardia: corruzione e tangenti - spiega - sono da combattere col massimo di attenzione e di impegno. Allo stesso modo va battuta la percezione di una pubblica amministrazione ancora lontana, per costi ed efficienza, dalle necessità di una Italia che vuole crescere economicamente e socialmente. È questo uno degli impegni del Pd per rinnovare la pubblica amministrazione e renderla all'altezza delle ambizioni e delle possibilità del nostro paese".
Secondo il Pg della Corte dei Conti, l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici e irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrice, l'illecita aggiudicazione, l'irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione di appalti, opere, forniture e servizi. A questi comportamenti illeciti "consegue in ogni caso - sottolinea Pasqualucci - il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato, o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese". E si scopre così che nel 2007 su un totale di 1.905 sentenze di condanna in primo grado, emesse dalle sezioni regionali della Corte dei Conti per un totale di oltre 92milioni di euro, una buona parte (l'11,4%) ha riguardato proprio danno causati da corruzione, tangenti e concussione. Poi Pasqualucci passa in rassegna i condoni introdotti dalle finanziarie e si sofferma su due sanatorie contenute nel decreto milleproroghe attualmente all'esame della Camera per la conversione in legge: quella che esonera l'Istat dal giudizio di responsabilità per non aver applicato le sanzioni previste in caso di mancata risposta ai questionari da parte delle imprese; e l'altra meglio conosciuta come condono fiscale.
E non finisce qui. Bloccare gli "sperperi" è il monito che arriva dal presidente Lazzaro. "Uno dei problemi della cattiva gestione degli amministratori pubblici - ha precisato - è il non agire, il rifuggire da scelte e decisioni che provoca il fallimento di piani e programmi, la lapidazione delle risorse per opere poi non portate a compimento". Nella pubblica amministrazione ci sono troppi dirigenti e dilagano i contratti a termine.



Una marcia formidabile
Vittorio Zucconi su
la Repubblica

Assorbiti dalla dinamica giornalistica della "corsa dei cavalli", da numeri, percentuali, risultati e sondaggi (più che mai smentiti dai voti reali anche in questo supermartedì) noi che guardiamo questa stagione elettorale americana così importante per giudicare la salute politica della democrazia cardine, rischiamo di dimenticare l´enormità storica di quanto stiamo vivendo: la formidabile marcia di un candidato al quale nessun sondaggista, nessun esperto, nessun "guru" elettorale aveva dato una seria possibilità di competere ancora un mese fa.
E che oggi, a oltre la metà della gara, vede la propria popolarità crescere in tutti i settori dell´elettorato, uomini bianchi, afro americani, giovani, persino quelle donne che dovrebbero essere la rocca imprendibile della signora Clinton, ancora testa a testa con lei oltre la metà della partita.
Basta guardare la mappa elettorale uscita dai milioni di voti espressi martedì (una partecipazione inaudita a consultazioni primarie) per vedere sulla scacchiera degli stati americani come nessun altro, non il repubblicano McCain, forte soltanto lungo le coste, non il suo probabile futuro vice, Huckabee, campioncino del sud devoto e cristianista, e neppure la Clinton che pure ha vinto i grandi stati bagnati dai due oceani, ha lo stesso "appeal" traversale, nel sud, nella prateria, nel Midwest, nel Nord, che Barack Obama ha. C´è una sorta di "Obama belt" di cintura di stati per lui, che si sta tendendo fra le Montagne Rocciose e l´Atlantco. Persino in stati come lo Idaho, dove una persona di colore si trova soltanto se è un turista di passaggio con l´auto guasta, il figlio di una tribù del Kenya, allevato da un patrigno indonesiano di fede musulmana, ha stravinto.
Il cosiddetto "supermartedì" del 5 febbraio era stato costruito dagli ingegneri elettorali dei partiti per comprimere e abbreviare la maratona estenuante (e costosissima) delle primarie diffuse, incoronare un vincitore e dare quindi il tempo ai due finalisti di rifiatare, ricostitutire il tesoretto elettorale e poi lanciarsi verso le convention di fine agosto e di settembre, liberi da altre preoccupazioni.
Il marchingegno era stato montato pensando soprattutto ai due favoriti e inevitabili vincitori delle previsioni, Rudy Giuliani, il "sindaco dell´11 settembre" e Hillary Clinton, colei che avrebbe dovuto chiudere la parentesi di Bush e aprire la fase della restaurazione clintoniana.
La macchina si è rivoltata contro i suoi creatori. Non avevano calcolato il collasso del "fattore Iraq" e della mistica del terrore, né la voglia di cambiamento che ha smantellato il progetto. Avevano dimenticato che in una democrazia viva e reale, in una nazione ormai uscita dall´ipnosi della paura e dal ricatto del jihadismo alla rovescia, i meccanismi, i nomi, anche i soldi, che molto possono ma non votano, fare i conti senza i cittadini è sempre un proposito rischioso. Infatti dalle file di persone che si sono accalcate ai seggi come a memoria di scrutatori mai si erano viste, pensando soprattutto all´economia e molto poco a Bin Laden o alla Bibbia, sono usciti il nome del meno repubblicano dei repubblicani, del più ferocemente antibushista, John McCain, contro il quale lo zoo delle radio ultraconservatrici, i commentatori puri e duri della destra e riviste solenni e schierate come la National Review, si sono scatenate, minacciando diserzione e fulminando scomuniche ideologiche. E dalle urne democratiche è esploso Barack Obama, l´uomo senza ideologia, forte del proprio carisma, del proprio messaggio alla Tony Blair, credibile perché inedito, di un "nuovo modo di fare politica" a sinistra, che ha completamente spiazzato il mandarinato del partito raccolto attorno a Hillary bloccato sul messaggio classico della partigianeria.
Obama è diventato il Reagan della sinistra, il Blair di un New Labour americano, ha fatto ciò che nel 1976 fece il futuro presidente, incendiando entusiasmi sopiti e lanciando segnali agli altri, prima che ai suoi, secondo una strategia che nel 1980 lo portò alla Casa Bianca. E si delinea il fenomeno, micidiale per la destra, degli "Obama republicans", come c´erano stati, e decisivi, i "Reagan democrats". Gli ingegneri della politica a tavolino avevano sottovalutato quel fiume carsico di nausea per la politica vecchia, ultrapartigiana, che pure i disastrosi indici di gradimento sia per Bush che per il Congresso a maggioranza democratica, indicavano, e che cercavano una foce per uscire allo scoperto. È stato un rifiuto che ha avuto la sua conferma più sbalorditiva nella sconfitta di Barack Obama in quello stato del Massachussets dove lui aveva ricevuto l´unzione da parte dei superstiti del mausoleo kennedyano, la figlia di Jfk, Caroline, il fratello Ted, in una cerimonia solenne che aveva dato la brutta sensazione di un improvviso invecchiamento di Obama, di un suo riassorbimento nel grande fiume della retorica istituzionale. I Kennedy avevano di colpo invecchiato Obama.
Come McCain tra i repubblicani deve continuare a mantenere la propria aura di "maverick", di cavaliere solitario, di uomo capace di attaccare Bush per la guerra in Iraq quando tutti lo applaudivano, e poi di appoggiare l´escalation, quando tutti lo stavano abbandonando, così Obama deve restare l´uomo dello scandalo, il ribelle dolce, il leader di un movimento spontaneo che non propone di annientare il nemico, alla maniera dei democratici clintoniani e dei bushisti nel 2000 e 2004, ma di conquistarlo alla propria causa. Di "invitarlo a fare il bagno con te per poi portargli via i vestiti" secondo la frase di un grande primo ministro inglese. Per questo fa paura, ai professionisti della politica politicante, come Hillary e ad avversari che portano il peso degli otto anni di manicheismo bushista.
Soltanto così continuerà ad attirare quei giovani ormai neppure più tanto giovani che ha conquistato, fra i 18 e i 40, a rosicchiare il vantaggio dei Clinton fra i latino americani, fra le donne, e fra i bianchi del sud dove il suo successo è stato notevole ed è in continuo aumento. E continuerà a seminare il terrore nel campo dei repubblicani che erano vogliosi di battersi con "l´altra Clinton" e riesumare la macchina da guerra contro la coppia che ogni elettore moderato odia appassionatamente e che molti elettori anche democratici non vorrebbero più vedere alla Casa Bianca. Fra l´odio per i Clinton e la paura dell´Uomo Nero, la destra preferirebbe di molto utilizzare il primo come arma.



  7 febbraio 2008