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sulla stampa
a cura di G.C. - 5 febbraio 2008


Tra calcolo e scommessa
Edmondo Berselli su
la Repubblica

È finita come ormai si era capito che finiva, nonostante gli sforzi di persuasione morale da parte del Quirinale, con il rammarico del presidente del Senato, la disillusione di Walter Veltroni per l'"occasione mancata", la soddisfazione degli inquilini della ristrutturanda Casa delle libertà e di Silvio Berlusconi. Adesso c'è da aspettare soltanto che si compia l'atto obbligato di indire il referendum e che il presidente Napolitano sciolga le Camere per convocare le elezioni. Ma il tentativo di Franco Marini, per quanto silurato a priori dal niet del centrodestra, non è stato del tutto inutile.

Nello stilare un bilancio della crisi, occorre innanzitutto mettere a fuoco la linearità dell'asse fra i vertici istituzionali: Napolitano e Marini condividevano l'idea che occorresse praticare ogni ragionevole tentativo per evitare di andare alle urne con una formula elettorale già rivelatasi infausta, e insieme hanno tentato di venire a capo del rebus. Il capo dello Stato ha esercitato la sua autorevolezza, nell'auspicio che la razionalità delle preoccupazioni più volte manifestate potesse convincere una parte del centrodestra a impegnarsi nella riforma del sistema elettorale. Il presidente del Senato ha allargato la platea delle consultazioni alle parti sociali, allestendo una specie di "concertazione di scopo" e cercando di fare avvertire alla politica l'opinione praticamente unanime del sindacato e delle imprese.

Non è servito a niente. Ha prevalso il "sacro egoismo" del centrodestra, convinto di poter vincere a mani basse le prossime elezioni, a dispetto delle trappole di cui è disseminato il sistema elettorale del Senato.

Berlusconi e i suoi alleati faranno il possibile per respingere l'etichetta di sfasciacarrozze, cioè di gente che per pura voracità elettorale ha rifiutato la chance di modificare utilmente le regole della politica. Tuttavia è chiaro che il centrodestra ha sabotato il tentativo di Marini praticamente all'unanimità (fatto salvo qualche tenue distinguo di Pier Ferdinando Casini): Berlusconi con qualche generico rilancio sugli accordi costituenti da fare nella prossima legislatura, An con la durezza che Gianfranco Fini rispolvera quando sente odore di interesse personale e di partito, al punto di dimenticarsi di avere sostenuto il referendum Segni-Guzzetta; e la Lega addirittura con una sgrammaticatura volgare, rifiutando il confronto con il presidente del Senato.

Tutto questo per poter condurre una campagna contro "il migliore avversario possibile", Romano Prodi, contando sull'impopolarità del governo, senza avere mai indicato, in venti mesi, una proposta politica che non fosse la famosa "spallata" per mandare a casa il centrosinistra. Il calcolo è elementare, ma che sia esatto è tutto da vedere. Perché sul campo politico si è già vista una realtà nuova: al calcolo di Berlusconi, si contrappone la scommessa di Veltroni. Vale a dire che la decisione del segretario del Partito democratico di correre da solo, e comunque di stringere alleanze soltanto con chi condivide il programma del Pd, rappresenta una novità in grado di scompaginare molte previsioni.

In pratica: fra qualche tempo Berlusconi e il centrodestra potrebbero anche accorgersi di combattere una battaglia immaginaria. Perché la scommessa solitaria di Veltroni e del Pd rappresenta una innovazione politica radicale, con una fortissima assunzione di responsabilità anche personale. È una specie di rupture nella strategia bipolare, discutibile e discussa anche all'interno del partito, rischiosa negli esiti ma anche rigorosamente impegnativa sul piano politico, e quindi presumibilmente di impatto ancora imprevedibile sull'opinione pubblica. E dunque non va sottovalutato che fin da oggi si pone sul tappeto una questione che investe la credibilità delle proposte politiche: perché è probabile che gli elettori dovranno scegliere fra uno schieramento e un partito.

Come conseguenza c'è un'asimmetria vistosa fra quello che sarà lo schieramento di centrodestra, un'alleanza verosimilmente composta da qualsiasi formazione in grado di portare voti, e invece il Partito democratico, orientato a presentarsi nella competizione elettorale con un'identità precisa e a presentare un programma stringente per chi vorrà accettarlo. La novità è così spettacolare che potrebbe avere riflessi importanti nell'elettorato, e potrebbe anche imporre al centrodestra qualche forma di razionalizzazione della propria offerta politica.

Perché con il calcolo si può conquistare il potere; ma una scommessa intelligente può far saltare il banco.



Il signor No parla di dialogo
Luigi La Spina su
La Stampa

Non si saprà mai se la sorprendente ipotesi di una intesa Berlusconi-Veltroni lanciata sulla prima pagina del Giornale di ieri sia stato un ballon d'essai ispirato dal Cavaliere per ammonire gli alleati del suo schieramento, cercare di seminare lo scompiglio in campo avverso, ribaltare la responsabilità dell'interruzione della legislatura. Oppure, più semplicemente, sia partorita solo dalla imprevedibile fantasia del direttore del giornale di famiglia, per di più nel giorno del lutto per la scomparsa di mamma Rosa. Qualunque sia la verità, la proposta-provocazione ha avuto un merito, quello di individuare il più insidioso punto di debolezza, tra i tanti di forza, di Silvio Berlusconi alla vigilia dell'apertura della campagna elettorale: quello di apparire come il "Signor No". Colui che, per un vantaggio elettorale immediato, personale e di partito, costringe gli italiani ad andare al voto con una legge contro la quale si sono pronunciati, oltre che mezzo Parlamento, non solo i sindacati, che si potrebbero dipingere come fiancheggiatori del centrosinistra, ma quasi tutte le organizzazioni imprenditoriali e artigiane, in genere non tenere nei confronti di quella parte politica.

Nei prossimi due mesi, fino a metà aprile, quando molto probabilmente si voterà, dovremo aspettarci molti altri colpi di scena, da entrambi gli schieramenti. Berlusconi, infatti, dovrà cancellare, con una campagna propagandistica a suon di colpi d'artificio, l'impressione di un noioso revival di quelle del 2006 e del 2001, per non rievocare addirittura quelle del secolo passato. Veltroni dovrà costantemente segnare la discontinuità con l'era prodiana, rimarcando la novità della sua offerta elettorale, sia nei contenuti politici sia nelle forme in cui si presentano.

Così, ancor prima che il presidente della Repubblica abbia ufficialmente dichiarato il fallimento della legislatura e sia stata stabilita la data delle elezioni, già si intravedono, con sufficiente chiarezza, le linee fondamentali di quello sforzo di convincere gli elettori che non siamo alla vigilia della più noiosa campagna elettorale degli ultimi tempi. Anche per non contribuire a rafforzare il maggior rischio del prossimo voto, quello di una straordinaria vittoria dell'astensionismo.

Il Cavaliere, poiché non può cambiare il nome del solito candidato alla presidenza del Consiglio, né la formazione degli alleati, col consueto terzetto Fini-Bossi-Casini, ha deciso di cambiare il messaggio con il quale si presenterà agli italiani. Non più l'uomo della "rottura", anzi della rupture come si dice adesso alla Sarkozy, rispetto ai tradizionali ipocriti balletti consociativi della politica italiana. Ma l'uomo del dialogo, l'unico, ora, capace di mettere fine a quella sterile guerra di tutti contro tutti che, nella seconda Repubblica, ha portato l'Italia sull'orlo di un declino storico. La riforma della legge elettorale, simbolo di una nuova fase della politica italiana, sarà lui a riuscire a portarla a compimento, nella prossima legislatura. Il traguardo del Quirinale, in questo modo, potrebbe sancire la sua avvenuta mutazione: da capopopolo di una guerresca fazione a padre della patria, consacrato, se non unto, dal balsamo della grande riconciliazione nazionale.

Più facile, apparentemente, l'annuncio innovativo di quello che sarà il suo avversario, Walter Veltroni. Innanzi tutto il nome di un candidato che, per la prima volta, si presenta nella corsa a palazzo Chigi. Poi un partito nuovo, il Pd, che ha scelto il suo leader con un metodo inedito in Italia, le primarie. Veltroni, inoltre, aggiungerà a queste caratteristiche alcune innovazioni, esteriori ma non secondarie: un programma di pochi punti che dovrebbe far dimenticare le famose 278 pagine di quell'autentico inutile elenco del telefono che appesantì subito il governo Prodi e la promessa, in caso di successo, di un governo snello, con una forte riduzione di ministri. Ma, soprattutto, Veltroni annuncerà, sia pure con tutto il garbo che gli conosciamo, la rupture più significativa: quella dell'esperienza dell'Ulivo, la formula con la quale, per 15 anni, il centrosinistra, con alterne fortune, ha gareggiato nella competizione politica italiana. L'intesa con la sinistra radicale, prima di desistenza elettorale, poi, di alleanza organica nell'Unione, è stato il vincolo, nel bene e nel male, al quale si è legato il partito del riformismo italiano. Ora, aldilà di possibili intese tecniche al Senato, sembra si sia chiusa la lunghissima epoca, cominciata agli esordi della nostra Repubblica, nella quale, dalla sinistra del nostro paese, era stata sempre osservata scrupolosamente la regola di non avere mai nemici da quella parte.



La legislatura dei tre cilici
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

E chi se la scorda, questa legislatura dei tre cilici? Breve ma intensa. Penitenziale e insieme sadomaso. Ruotata tutta intorno a tre sofferenze. Il cilicio di Paola Binetti, il cilicio di Franco Turigliatto, il cilicio del popolo di sinistra. Tre cilici diversi. Portati con spirito diverso. Paola Binetti, psicologa vicina all'Opus Dei, convinta che l'omosessualità sia "una malattia da curare", sarà ricordata soprattutto per la sua invocazione al cielo quel giorno in cui si apprestava a negare la fiducia al "suo" governo piuttosto che votare l'articolo che puniva chi "incita a commettere o commette atti di discriminazione" fondati su religione o tendenze sessuali: "Mi auguro solo che lo Spirito Santo scenda su quest'aula perché non so proprio se, alla fine, potrò votare il decreto". Votò contro. Decisa a sopportare fino in fondo le ironie dei compagni della maggioranza intorno a un paio di interviste in cui aveva confidato di dormire su una tavola di legno e di portare appunto il cilicio: "La vita di ognuno di noi è esposta a prove e difficoltà e ci vuole un certo "allenamento". Le privazioni, lo spirito di mortificazione, un domani mi aiutano ad affrontare cose più grandi".
E fa male? "Non più che portare il busto come facevano le donne in altri tempi. O girare in inverno con l'ombelico di fuori". Sempre meglio, aveva precisato successivamente, "che i tacchi a spillo". "Il sadomasochismo è un modo di godere. Purché ci sia libera scelta", commentò feroce Franco Grillini, storico leader gay e deputato della stessa Unione. E mai come in quel momento, in un Paese come il nostro che vede atei devoti come Marcello Pera corteggiare il Papa e cristiani ricchi di fede come Oscar Luigi Scalfaro battagliare in difesa della laicità, si è visto quanto fosse assurdo tenere insieme tutte le anime di un centrosinistra che per anni, all'opposizione, s'era illuso che per fare squadra bastasse l'antiberlusconismo. Come se questo potesse tenere insieme un teorico delle liberalizzazioni come Pierluigi Bersani e un no-global come Francesco Caruso, capace di portare alla Camera due finte molotov e marchiare Tiziano Treu e il povero Marco Biagi come "assassini".
Il cilicio di Franco Turigliatto era un cilicio autoflagellatorio sul genere di quello di Mara "d'Arco" Malavenda, la pulzella rossa di Pomigliano, che per il senso di colpa di chiamarsi Assunta tra i disoccupati aveva cambiato nome e nella legislatura ulivista scaricava in Parlamento decine di migliaia di emendamenti tesi a intralciare il governo della sinistra "borghese" traditrice del proletariato. Affetto da sensi di colpa operaisti dolorosi come una colica addominale e più cupo di un vedovo in lutto stretto, Turigliatto fu il primo ad abbattere Prodi, sparandogli contro sulla missione di pace in Afghanistan. E spiegò tra i sospiri a Jacopo Jacoboni de La Stampa che lui non poteva porsi il problema della precarietà del governo: "Non ho mai avuto uno stipendio regolare, io. La pensione non l'avrò neanche, credo; quella vita senza certezze la conosco bene perché l'ho vissuta su di me". Al che, perfida, arrivò una lettera del rifondarolo Rocco Papandrea che spiegava come il compagno, dopo aver lavorato al Comune di Torino "con un contratto dirigenziale", fosse stato sistemato in Regione fin dal '99: "Fui io ad assumerlo e firmare il contratto...". Espulso dal partito, sospirò. Durissimo, purissimo, levissimo.Come nel '98 lo erano stati i trotzkisti di Livio Maitan: "Oooh! Erano decenni che aspettavo di abbattere un governo borghese!".
Il terzo cilicio l'ha portato per due anni, patendo e sanguinando a ogni stazione del calvario, dalle spaccature sulla base di Vicenza a quelle sui Dico, il popolo ulivista. Quello che aveva riempito il Circo Massimo con Cofferati ed era andato entusiasta a votare alle primarie per Prodi e per anni aveva sognato "un grande governo" come quello promesso dal Professore per ritrovarsi con una maggioranza scheletrica e un governo grasso. Di cotica pesante. Così obeso, con quei 102 ministri e viceministri e sottosegretari, da imbarcare panchinari della politica provinciale come il mitico Pietro Colonnella, che si vantava sul sito governativo d'essere stato protagonista, come presidente della Provincia ascolana, dell'"apertura del Traforo di Forca Canapine" e dell'avvio dei lavori per il "polo scolastico del Pennile di Sotto".
Come dimenticarle, certe istantanee? Fausto Bertinotti che, eletto presidente della Camera, solca il Transatlantico tra un'ala di commessi come non avesse fatto altro in vita sua e si installa dedicando la vittoria "alle opevaie e agli opevai". E poi lo schiamazzo a Montecitorio di Elisabetta Gardini, che esce stravolta dai bagni femminili, dopo averci incrociato la deputata transgender Vladimir Luxuria manco se l'avesse palpeggiata un maniaco: "Sono entrata, l'ho visto e l'ho vissuta come una violenza, una violenza "sessuale", mi sono proprio sentita male". Per non dire di Clemente Mastella, che appena conquista la poltrona di ministro della Giustizia ("Vedrete", confida Prodi ai cronisti, "Sarà una sorpreeesa! ") prende di petto la catastrofe di dieci milioni di processi arretrati spostando la sede della scuola superiore per la magistratura da Catanzaro alla "sua" Benevento. Nobili motivi: "Avere la presenza di 2500 magistrati ogni settimana significa persone che vengono qua. Alloggeranno negli alberghi della città, mangeranno nei ristoranti della città, andranno a cena... Un indotto interessante... Qualcuno comprerà un vestito, comprerà una camicia, comprerà un prodotto dell'artigianato locale...".
E come scordare Sergio De Gregorio? Neanche il tempo d'essere eletto tra gli anti- berlusconiani diepietristi e, in cambio della poltrona di presidente della Commissione Difesa, diventa un berlusconiano di ferro e mette a disposizione del nuovo capo il suo micropartito, "Italiani nel Mondo", nato dal commercialista cambiando la ragione sociale di un grossista di ombrelli e pellami.
E Luigi Pallaro? El hombre de la pampa, arrivato direttamente dall'Argentina, si presenta con un misterioso paso doble: non è di destra, non è di sinistra, che farà? "Non butterò mai giù io un governo". E il giorno della mancata spallata sulla politica estera mantiene la promessa. Regalando a Francesco Storace l'opportunità di una battuta: "Du' ggiorni perzi a parla' der monno e bbastava chiede' a Pallaro: 'a Palla', che voti?". E resterà la legislatura di Vincenzo Visco, accusato d'essere un "Vampiro delle tasse" e di avere rimosso il generale Roberto Speciale non perché si faceva portare sulle Dolomiti i branzini appena pescati ma perché insisteva a volere indagare sul caso Unipol. E quella delle polemiche sui costi e i privilegi della politica, polemiche ereditate dal passato ma ravvivate da episodi come quello di Gustavo Selva che, per aggirare il traffico bloccato e raggiungere La 7 per una comparsata, al posto di un taxi prese un'ambulanza. E quella delle risse volgarissime su Rita Levi Montalcini e gli altri senatori a vita, bollati da maturi settantenni come "senatori pannoloni". Insomma, una legislatura tragica e ridicola, drammatica e insensata, di buone volontà e esasperanti furbizie, di virtuosi risparmi e sventurati sprechi.



La forza del Porcellum
Gianfranco Pasquino su
l'Unità

Nelle difficili, quasi disperate, consultazioni, è probabile che il presidente del Senato Marini abbia toccato con mano quanto distanti fossero e quanto aspramente si confrontassero e si scontrassero due esigenze. Da un lato, stavano le esigenze, non tutte fra loro pienamente compatibili, del centro-destra e, in special modo di Berlusconi: andare a elezioni il prima possibile, ovvero subito. Non c'era spazio in queste esigenze per qualsivoglia riforma della legge elettorale.
Non c'era spazio né per una nuova legge né per migliorie possibili e, poiché notissime e condivisibili, rapidamente fattibili, alla pur pessima legge vigente. D'altronde, il ragionamento (è un modo di dire) di tre capi del centro-destra su quattro (anche se Casini non può chiamarsi fuori né per il passato né per il presente) è semplice: la legge l'hanno fatta loro e non è davvero il caso che la sconfessino platealmente proprio adesso. Dall'altro lato, stava il centro-sinistra, con i suoi ritardi, le sue contraddizioni, la sua incapacità di decidere che cosa davvero voleva tranne affidarsi, magari anche con l'intercessione dei suoi agguerriti teo-dem, alla Provvidenza e guadagnare tempo.
In parte, ovviamente, il tempo che il centro-sinistra fosse riuscito a guadagnare poteva essere messo al servizio anche di una esigenza particolaristica: consentire nella misura del possibile, che non è molta, il rafforzamento del Partito Democratico (esattamente quello che Berlusconi vuole impedire). In parte, invece, quel tempo avrebbe permesso e facilitato una riformetta decente del sistema elettorale tale da dare più potere agli elettori e da produrre un esito politico più soddisfacente in special modo per il funzionamento futuro di governo e Parlamento. A questo punto, comunque, i dirigenti del centro-sinistra e, in special modo, quelli del Partito Democratico potrebbero decidere di comportarsi come se una legge migliore fosse già in esistenza, per esempio, affidando ai loro elettori la selezione con le primarie di almeno una parte delle candidature al Parlamento, decidendo con maggiore chiarezza gli impegni e le alleanze fino a, addirittura, correre ciascuno per conto suo magari evitando suicidi a catena.
Sulle esigenze particolaristiche del centro-destra e su quelle in parte sistemiche del centro-sinistra continua ad incombere il referendum elettorale, richiesto da ottocentomila e più elettori. Infatti, anche dopo che si sarà votato con l'attuale legge elettorale, il referendum elettorale non risulterà in nessun modo vanificato. Verrà semplicemente spostato nel tempo. Dovrebbe, comunque, tenersi nel 2009. Per ricorrere alla metafora finora prevalente, la pistola referendaria continuerà ad essere carica anche se il centro-destra intrattiene l'idea che le polveri si bagneranno sotto un pesante acquazzone di voti e che le pallottole finiranno per arrugginirsi. È una idea particolaristica soltanto parzialmente sostenuta dall'argomentazione che l'elettorato avrebbe già espresso il suo verdetto a favore del loro governo, certamente legittimo. Anzi, un elettorato incattivito dalla scarsa considerazione del suo attivismo partecipatorio potrebbe dare comunque la sua spallata referendaria. L'eventuale governo di centro-destra tenterà di chiamarsi fuori, ma la legge elettorale sarebbe, lei sì, certamente “delegittimata”, comunque pesantemente ritoccata. Inoltre, un problema sistemico continuerebbe a sussistere derivante dall'ormai abituale disprezzo del centro-destra per le istituzioni, le procedure, le regole, mai tutte esclusivamente formali, di una democrazia che vorremmo vitale e complessa, presa sul serio. Su questo terreno, senza infingimenti, senza furbizie, senza doppi giochi, si misura non la pure importante leadership politica, che consiste nel costruire, guidare, fare funzionare i partiti e le coalizioni, ma le decisive leadership istituzionali, quelle che hanno a cuore la qualità delle regole del gioco. Si diventa statisti quando, ovviamente senza distruggere le proprie preferenze e le proprie opportunità politiche, si riesce a costruire un sistema istituzionale migliore, attraverso il quale avere appropriate opportunità di governare per poi lasciarlo in condizioni più avanzate ai propri successori. Giusta era, dunque, la preoccupazione di D'Alema relativa al contorto ingorgo referendario elettorale, anche se purtroppo non tutti nel centro-sinistra hanno manifestato per tempo eguali sensibilità sistemiche. Comprensibili, ma non del tutto giustificabili e certamente né apprezzabili né sistemiche sono state le reazioni del centro-destra.



Se la madre non conta
Vittoria Franco su
l'Unità

Dopo Milano e la Lombardia, anche neonatologi di università statali e cattoliche di Roma pongono la questione della opportunità e della necessità etica di rianimare un feto vitale anche di estrema prematurità e - aggiungono - senza il consenso della madre.
La questione non è nuova sotto il profilo giuridico, ma è nuova proprio sotto il profilo etico. La legge è, infatti, chiara sul punto che tratta dell'aborto "terapeutico", quello a cui si ricorre dopo i primi 90 giorni di gestazione.
L'articolo afferma che esso può essere praticato "quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna" e quando "siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica". All'articolo 7 si dice ancora che, quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, la gravidanza può essere interrotta solo nel primo caso e "il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto".
Ciò che il legislatore non poteva sapere trent'anni fa, quando la legge è stata varata, è il fatto che la scienza e le tecniche avrebbero consentito di rianimare un feto anche di 22 settimane. Nella sua lungimiranza esso ha, infatti, evitato di porre limiti temporali e ha affidato la decisione a una valutazione medica fatta insieme con la paziente. Certamente la novità è rilevante e non la si può trascurare. E bene ha fatto la ministro Turco a chiedere un parere tecnico prima di dare indicazioni che ristabiliscano uniformità di criteri a cui ispirarsi.
Resta però il problema del consenso o meno della donna. Io credo che non si possa fare tutto obliterando il fatto che c'è un'altra volontà e che con la gravidanza si stabilisce una relazione insopprimibile tra la madre e il feto. Se diventa un obbligo rianimare il feto anche quando è altamente probabile che diventerà un bambino con gravi malformazioni, non si contraddice uno dei principi della legge 194 che tutela la libertà di decisione della madre e cha salvaguarda la sua vita fisica e psichica? Sostenere la legittimità di fare a meno del consenso della madre sempre e comunque a me sembra un primo passo verso lo svuotamento del principio fondamentale della legge, la maternità responsabile e consapevole.
Questa è una linea di ragionamento che parte dai fatti e che richiede una riflessione. Ma non si può non vedere che sono in campo altre posizioni con diversi intenti. Una consiste nell'uso della 194 come clava a cui ricorrere periodicamente per tenere alto il livello dello scontro ideologico. Si veda la polemica ancora in corso sulla moratoria sull'aborto, che assimila l'interruzione di gravidanza alla pena di morte. Una proposta aberrante. L'altra consiste nell'assunzione di un'etica della vita prescindendo dalle condizioni concrete delle persone. La vita, anche quella iniziale, viene collocata sopra ogni cosa, anteposta anche alla vita di coloro che sono già nati. Una concezione astratta che annulla e distrugge gli elementi relazionali sui quali l'etica si fonda e che entrano in campo con più forza proprio nel caso della nascita, della maternità, della perdita. Con la legge 40 sulla procreazione assistita si difende, ad esempio, la vita dell'embrione o del feto a tutti i costi, ma si impedisce a una coppia portatrice di malattie genetiche di avere figli con le tecniche riproduttive. Si pensa di semplificare in questo modo la scelta etica con un dovere astratto. Ma soprattutto, con i continui attacchi alla legge 194, si mira a indebolire quel concetto di autonomia della scelta di maternità che è il fondamento della facoltà morale della donna.


Bagarre su Malpensa
Luigi Grassia su
La Stampa

MILANO. Il fronte del Nord si scatena contro Padoa-Schioppa per tentare l'estrema difesa di Malpensa, l'aeroporto che sembra sempre più condannato, sempre più perso. Il lombardo Formigoni stigmatizza come "lunare", "da fantascienza" (ovviamente in senso negativo) la posizione espressa sulla vendita di Alitalia dal titolare del Tesoro, che Formigoni declassa ripetutamente, con spregio, a "ministro pro-tempore". E intanto la AirOne, candidata a sua volta all'acquisizione (ma scartata a vantaggio di Air France) rilancia la sua sfida: "Siamo pronti a presentare in tempi brevi" diceva ieri sera una nota della compagnia "una proposta vincolante con un gruppo di imprenditori italiani, non solo del Nord, ma di tutta Italia".

Una proposta vincolante di AirOne, va sottolineato, sarebbe un passo avanti rispetto a Air France, che per adesso tratta sì in esclusiva, ma di vincolante non ha ancora fatto sapere nulla. "In questi giorni - incalza AirOne - stiamo lavorando per evitare la sciagurata perdita di due leve strategiche del Paese: la compagnia di bandiera e lo scalo di Malpensa, entrambi fondamentali per lo sviluppo e la crescita della nostra economia e del nostro turismo. E questo non perché una soluzione italiana sia necessariamente migliore di una straniera, ma perché la nostra proposta è l'unica che tuteli gli interessi reali di Alitalia, dei suoi lavoratori, dei suoi azionisti, del Paese e di Malpensa".

Chi sono i nuovi alleati di Carlo Toto? Finora il patron di AirOne ha avuto dalla sua Intesa Sanpaolo; adesso si schierano al suo fianco dei soci industriali, non meramente finanziari, che apportano soldi loro. Un'indicazione utile per capire l'aria che tira: Pirelli nega di volersi impegnare massicciamente in questa partita, ma fa sapere che se si forma una cordata di imprenditori lombardi non si tirerà indietro e parteciperà con un "chip", un piccolo contributo di capitale. Questo farebbe, si può presumere, da esempio ad altri.

Già domani potrebbero esserci novità sul fronte legale perché si discuterà al Tar del Lazio il ricorso di AirOne che per questa via chiede formalmente di essere riammessa alla gara per Alitalia su un piede di parità con Air France. Toto si sente pronto fin d'ora.


Formigoni argomenta che "Alitalia è un'azienda monopolistica che ha il compito di garantire un bene essenziale, le connessioni aeree con tutto il mondo. Liberarsi di Alitalia come priorità, disinteressandosi del disastro che ricade sui territori, è da irresponsabili. Procura un danno gravissimo all'economia non solo delle regioni del Nord, ma dell'intero Paese. Mi auguro che il governo non segua il suo astratto ministro su questo terreno".

Sul destino di Malpensa il governo ha convocato per dopodomani un "Tavolo Milano". Ieri il segretario lombardo del Pd, Maurizio Martina, diceva che "l'uscita di Alitalia deve essere gestita gradualmente, come è stato fatto in circostanze analoghe da altre compagnie in altri aeroporti".


Primarie Usa: verso il supermartedì
Mario Calabresi su
la Repubblica

NEW YORK - Il vecchio pastore dell'Evangel Pentecostal Temple non ha mai parlato di politica nelle sue prediche domenicali, in quest'angolo di Brooklyn abitato da neri di origine caraibica. Questa domenica ha sorpreso tutti: "Martedì dobbiamo andare a votare per Barack Obama. Il tempo per il cambiamento è adesso e lui è il presidente di cui abbiamo bisogno oggi. I suoi valori sono i nostri valori". Per un momento il silenzio è stato totale, quasi imbarazzato, poi è scoppiato un applauso da stadio, si sono alzati in piedi e hanno ricominciato a cantare. Ma si è riuscita a sentire la voce di una donna giovane, con un bambino in braccio, seduta al terzo banco: "Sì, ma basta che non ce lo ammazzino".

All'angolo opposto della geografia newyorkese, nel cuore di Harlem, nella sua Chiesa simbolo per i gospel e la tradizione, l'Abyssinian Baptist Church, il reverendo Calvin Butts III non ha avuto dubbi: si è schierato con Hillary Clinton. "Non è il tempo di aspettare o sperare che arrivino nuove soluzioni - ha detto bocciando Obama - ma è il tempo di un presidente con esperienza, capacità e carattere".

Domani New York sceglierà il suo candidato, il suo verdetto è fondamentale perché è la più grande città democratica d'America e perché lo Stato assegna il più consistente numero di delegati dopo la California. Ma, se in Iowa, in New Hampshire, perfino a Las Vegas o a Miami la campagna elettorale si vedeva, era in ogni angolo, nei manifesti sulle vetrine dei negozi, nei cartelli piantati nell'erba, nei volontari che fanno il porta a porta, qui, nella città di otto milioni di abitanti, puoi non accorgertene.

Però basta aprire una porta, fare una domanda, tendere l'orecchio sulla metropolitana, e appena sotto il ritmo di New York, c'è una città che si sta dilaniando nella scelta tra Hillary e Barack. Quella delle famiglie che discutono da settimane, che litigano e si dividono è una storia talmente presente e ripetuta da non fare più notizia. La città è spaccata, lo sono i quartieri, le università, le chiese, i giornali, le televisioni e perfino i ristoranti e i sindacati.

Sulla carta non c'è partita: siamo in casa di Hillary Clinton, che qui è stata eletta senatrice, e siamo in una metropoli in cui le donne che votano democratico sono 500mila di più degli uomini (per un totale di 2milioni e mezzo di persone). Si potrebbe obiettare che uno su quattro è nero, ma la risposta pronta è che la stessa percentuale di ispanici vuole l'ex first lady, tanto che in città i sondaggi le assegnano la vittoria per 52 a 42. Ma il vantaggio si assottiglia e la gara è diventata simbolica: qui i delegati si assegnano con il sistema proporzionale e se Obama arrivasse sopra il 40 per cento sarebbe un gigantesco danno d'immagine per lei. Se poi si guarda ai grandi quartieri, lui può portarsi a casa Brooklyn e Queens e dare battaglia ad Harlem.


L'area di New York ha il sei per cento della popolazione degli Stati Uniti, ma paga il venti per cento della campagne presidenziali. Qui bisogna venire per potersi permettere di trasmettere spot a ripetizione in 22 Stati, come stanno facendo i due candidati da venerdì scorso e comprarsi uno spazio pubblicitario durante il Superbowl - 90 milioni di ascoltatori - come ha fatto il senatore nero.

Anche Obama, da ragazzo, quando studiava a Columbia University e si faceva chiamare Barry, viveva nell'East Side, ma ben più in alto, nella Harlem ispanica. In una palazzina di sei piani infestata dai topi e dagli spacciatori. Dodici mesi fa la porta era ancora sbarrata per lui, poi ci ha pensato il finanziere miliardario George Soros ad introdurlo nei salotti e Barack, con il suo abito nero stretto e la cravatta lilla delle grandi occasioni, è riuscito a sedurre finanzieri e potenti dei media e dell'editoria. Ma il suo quartier generale lo ha tenuto in Fulton Street, tra il ponte di Brooklyn e la borsa di Wall Street, in un loft con i murales ovunque e centinaia di ragazzini che corrono.

Lei ha scelto un ufficio tra Grand Central Station e il grattacielo dell'Onu, dove alla porta si viene fermati da un gorilla che chiede di indentificarti. C'è una differenza visibile di età sia tra i sostenitori e i volontari sia nei salotti dei quartieri alti: gli invitati ai party per la Clinton hanno in media 50 anni, quelli di Obama dieci di meno.

E così in queste ultime 48 ore è battaglia ovunque: a Manhattan a preoccupare lo staff di Hillary sono i liberal antiguerra che abitano l'Upper West Side, il quartiere tra il parco e il fiume Hudson. Ad Harlem, dove ha l'ufficio Bill Clinton, Charles Rangel, il deputato più potente di New York, il nero che guida la Commissione finanze della Camera, aveva promesso all'ex First lady che sarebbe stata una passeggiata. Lui comanda da queste parti dal 1971, e l'accordo tra loro venne stipulato platealmente ad un tavolo della Pool Room dell'albergo Four Season, il ristorante simbolo dell'establishment newyorkese.

Ma a rovinare il fine settimana a entrambi ci ha pensato Alma Rangel, consorte del deputato 78enne, che si è presentata ad una raccolta fondi organizzata da Michelle Obama e ha dichiarato platealmente: "Barack è il futuro, fa parte di una nuova generazione che può trasformare L'America". Charles e Alma già dormivano in camere separate, ora, scrive il New York Post, anche in appartamenti diversi.

A dividersi sono anche studenti e professori, con Obama che conquista la New York University (il 40 per cento degli allievi è per lui, solo il 20 per lei) mentre Hillary gli restituisce il colpo raccogliendo più soldi tra gli insegnanti di Columbia, dove lui ha studiato ma dove non è mai apparso durante la campagna elettorale creando un caso sul giornalino scolastico.

Il feudo di Obama è a Brooklyn, l'unico luogo della città dove sia riuscito a raccogliere più fondi della rivale, qui c'è la casa di produzione di Spike Lee che lo sostiene con una passione incredibile, qui ci sono gli artisti di Williamsburg, i grafici di Fort Greene e le coppie miste di Clinton Hill: l'elettorato perfetto per il senatore. Hillary non vuole perdere neppure un isolato, e da queste parti sta cercando di ribaltare la situazione corteggiando gli ebrei ortodossi di Crown Heights. E per non farsi rapinare in casa, oggi e domani farà base a Manhattan, dove aspetterà i risultati.

La regola è rispondere colpo su colpo…

Per molti, non solo per gli studenti, quest'elezione è la prima partecipazione alla democrazia. La sfida sta scuotendo una generazione che veniva definita poco idealista e interessata alla politica. Tra i banchi delle università si notano le assenze. Hilary Saccomanno studia storia a Columbia e questo è il suo scambio di mail con la professoressa Karen Van Dyck, che insegna poesia ellenistica: "Ero molto contenta di continuare a studiare greco anche questo semestre e sentivo che finalmente cominciavo a comprenderlo, ma durante le vacanze di Natale - scrive Hilary, che è una supporter di Obama - mi sono fatta coinvolgere nella campagna per le primarie: sono stata in Iowa, New Hampshire e Nevada, sto imparando tantissimo e penso che sia così importante che non voglio abbandonare. Fino al 7 febbraio sarò in California e forse anche dopo farò un po' di assenze. Devo considerare il semestre perso o posso sperare di salvarlo?". La professoressa le ha risposto: "Ma gli altri insegnanti cosa dicono?". "Di non preoccuparmi e di non mollare, perché sto vivendo la storia".


Il fuoco dei Balcani
Alberto Ronchey sul
Corriere della Sera

Dopo l'elezione presidenziale in Serbia, la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo è prossima ormai, non senza rischi. Da quando, il 10 dicembre, l'Onu ha rinunciato alla mediazione tra Belgrado e Pristina, si teme un altro groviglio conflittuale balcanico. I 2 milioni di kosovari, sulla base del principio di autodeterminazione, vogliono uscire a ogni costo dallo Stato serbo.
I serbi ricordano che la risoluzione 1244 dell'Onu aveva confermato la loro sovranità, sia pure condizionata, sulle terre contese che includono gli storici o "inalienabili" monasteri ortodossi e i connazionali rimasti oltre il fiume Ibar. Lungo l'arteria "magistrale " che dal Kosovo conduce in Serbia, i ribelli minacciano il ritorno alla guerriglia indipendentista di Hashim Thaci. A Belgrado s'invoca la mobilitazione, tornano sulla scena le "Guardie del re Lazar". Mentre l'Onu se ne va, insieme con la spedizione Unmik, non è chiaro in quali condizioni le forze Nato che l'affiancavano possano assumere le gravose responsabilità conseguenti alla loro presenza.
Una missione civile dell'Ue deve aggiungersi ai 16.450 soldati della Nato già sul territorio per opporsi a un'altra guerra o guerriglia balcanica. L'indipendenza del Kosovo appare inevitabile alla maggioranza dei governi europei e a Washington, altri obiettano che potrà fomentare in diversi Stati separatismi e irredentismi, come la Spagna esitante nel timore dei secessionisti baschi. La Russia oppone un niet categorico e contrasterà tenacemente l'impresa, che Putin reputa calamitosa per la stabilità internazionale. Sulla conflittualità tra Kosovo e Serbia gravano complesse vicissitudini di molti secoli, come ci ricorda Henry Kissinger in ogni occasione. Risale al 1389 quella storica disfatta dei serbi nella battaglia di Kosovopolje contro i turchi, alla quale seguì la dominazione ottomana portatrice dell'immigrazione musulmana. Ora, il 90% dei kosovari è di fede musulmana.
Ma gli slavi serbi, di fede cristiana ortodossa, considerano la regione come loro "culla storica", sebbene all'origine fossero stati conquistatori di quella regione abitata già da illirici e traci romanizzati. L'intransigente opposizione di Putin all'indipendenza kosovara è dovuta non solo ai rischi del contagio separatista fra le innumerevoli etnie della Russia. E' in questione la tradizionale tutela di Mosca su Belgrado e gli "slavi del Sud", mentre il Gazprom acquista il controllo della Nis, la società energetica dei serbi. Se ormai davvero l'indipendenza del Kosovo è inevitabile, gli occidentali dovranno muoversi con la massima cautela, offrendo adeguate garanzie di controllo internazionale su Pristina, negoziando e offrendo ai serbi anche un'apertura dell'Ue.



  5 febbraio 2008