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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 1-2 febbraio 2008


Il vecchio che avanza
Barbara Spinelli su
La Stampa del 27 gennaio

Basterebbe fare una semplice operazione aritmetica - due più due uguale quattro, ad esempio - per fugare parecchi equivoci sulla caduta di Prodi e vedere l'Italia così come s'accampa davanti a chi sa vedere: nello stesso momento in cui il governo di centro sinistra è sfiduciato in una delle due Camere, l'opposizione che si prepara a tornare al potere fa quadrato attorno a personaggi del ceto politico o dell'amministrazione condannati dalla giustizia: attorno al governatore della Sicilia Cuffaro, condannato a 5 anni per favoreggiamento a mafiosi e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici; attorno a Contrada, condannato definitivamente a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa; attorno a chiunque chieda che il politico o l'alto funzionario dello Stato non sia, come ogni cittadino, imputabile quando infrange la legge. Cuffaro ieri si è dimesso ma Casini insiste ad accusare gli «sciacalli» che avrebbero screditato un'onesta persona.

Questa è l'evidenza matematica che abbiamo di fronte: nell'Italia che sta richiamando Berlusconi ai comandi non ci si fida di Prodi ma ci si fida di Cuffaro, di Contrada, di Dell'Utri, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e in secondo grado per estorsione aggravata. Non ci si fida di Prodi, ma si fa capire a Mastella che la magistratura, caso mai dovesse giungere a un giudizio negativo sul suo operato in Campania, non avrà l'autonomia per farlo. Quando si parla di tramonto del prodismo e di una scommessa invecchiata e morta conviene tenere a mente questa realtà, limpida e ben visibile. Quel che viene offerto oggi agli italiani non è un nuovo che caccerà il vecchio, non è la fine dello spadroneggiare dei partiti sulla cosa pubblica, come chiesto da tanti cittadini. I partiti tornano a essere decisivi, e sono loro a far quadrato attorno alla presunzione d'impunità che sostituendo la presunzione d'innocenza diverrà il marchio del rinnovamento promesso. Di questa restaurazione Berlusconi è principe, e tutto quel che ha detto nell'ultimo decennio sul teatrino della politica si copre di polvere e frana. Il teatrino è imperante, e quel che vediamo non è quel che appare. Prodi non è riuscito a imporre il nuovo, ma nuovo resta pur sempre quel che ha proposto e tentato. L'aura di novità abbandona Berlusconi e quel che propone è in realtà il vecchio.

Anzi è vecchissimo. Poco prima del voto al Senato, il capo dell'opposizione fece capire che se Prodi avesse ottenuto la fiducia in ambedue le Camere, lui si sarebbe appellato alle Piazze. Bossi ha rincarato la dose assicurando che quelle piazze avrebbero «trovato facilmente le armi», per una rivoluzione. Hanno detto queste cose nell'indifferenza generale: della destra, dei leader di sinistra, di stampa e televisione, delle Istituzioni della Repubblica. Anche questo non è davvero nuovo. Nella storia recente d'Europa c'è memoria viva di tempi simili, quando si pensava che le parole non pesassero e invece pesarono: la Repubblica di Weimar aveva queste caratteristiche, questa violenza linguistica, questi demagoghi. Due più due non ha fatto cinque nella storia passata e non farà cinque neppure in quella che si sta tessendo, opaca ma consequenziale, sotto il nostro sguardo.

Dicono non senza ragione che il Presidente del consiglio è fallito perché i particolarismi potenti nella maggioranza hanno corroso la sua autorevolezza, il suo governare, il suo desiderio di risanare non solo l'economia ma l'etica pubblica. Ma le forze vincenti sono ben più vecchie dei vecchi impedimenti che hanno reso così difficile il compito di Prodi e che ce l'hanno mostrato negli ultimi venti mesi così solo, come Franca Rame ha scritto con cristallina sconsolatezza sulla Stampa del 25 gennaio: «Prodi, in quel suo governo, di fatto, si è trovato come un condannato agli arresti domiciliari con manco un cane che gli portasse le arance... non l'avete mai considerato? Andavano da lui solo a imporgli, a chiedere e a ricattare. Bella gente!». Questa bella gente gli ha impedito di fare quel che si era ripromesso: una legge sul conflitto d'interessi, una legge che sottraesse le televisioni al dominio dei politici. Questa bella gente ha chiuso e chiude gli occhi davanti alla triplice violazione della Costituzione di cui Berlusconi si è reso colpevole: delegittimazione non solo dell'iniziale voto alle legislative ma anche del voto delle Camere (il ricorso alle piazze in caso di fiducia del Senato vuol dire questo); controllo dei mezzi televisivi da parte di un candidato alla guida del Paese; corruzione dei senatori come appare dalle intercettazioni dei colloqui tra Berlusconi e Saccà, manager della Rai.

I partiti che hanno partecipato all'esperienza Prodi escono particolarmente malconci, perché più d'ogni altro si prestano all'equivoco, scambiando il vecchio per il nuovo. Cosa resta infatti del centro sinistra? Resta lui, Prodi, che si è battuto usando la forza durissima della sua testa («Sembra un ferro da stiro o il muso di un'escavatrice», scrisse Eugenio Scalfari) e che contro praticamente tutti ha deciso di contare i fedeli in Parlamento e dunque di far politica pubblica in pubblico, non nelle segrete dei partiti. Resta un'estrema sinistra, che ha fatto il tentativo di governare contro se stessa, contro il proprio istinto, che ha ripetutamente teso la corda ma sarà influenzata da un esperimento di gestione responsabile che non è stata lei a rompere.

Ma soprattutto resta il Partito democratico, che il nuovo pretende di costruirlo seppellendo l'Unione come fosse un logoro vestito di cui spogliarsi. Per la verità non si sa che partito sia, che programmi di governo abbia, che militanza vanti, che alleati cerchi. Anche in questo caso, è il potere ciò cui sembra aspirare e non il governare, e l'equivoco è esistito in fondo sin dalle primarie del 14 ottobre, che suscitarono l'adesione di più di tre milioni di cittadini ma a questi cittadini non chiarì, per l'occasione, né quale fosse il programma né quale fosse la politica di alleanze. Chiarì che Veltroni sarebbe stato il leader, creò innanzitutto una personalità, alla maniera berlusconiana. Il 19 gennaio, a Orvieto, Veltroni ha poi detto che il suo partito «correrà da solo alle prossime elezioni», e con questo ha di fatto screditato la scommessa di Prodi e dell'Ulivo (2 giorni prima dell'uscita di Mastella dalla maggioranza, 5 prima della caduta di Prodi). Per suggerire che cosa, anch'egli, che non sia il vecchio, e cioè un partito che si presenta alle urne e poi deciderà con chi e con quale programma governerà? In una lettera a Repubblica, il 2 settembre 2006, l'odierno segretario citò Tahar Ben Jelloun: «I nostri passi inventano il sentiero a mano a mano che si va avanti». Il libro da cui sono tratte queste parole è un romanzo, Creatura di sabbia. Ma la politica non è letteratura…

C'è un passaggio nel discorso di Prodi al Senato, che vale la pena rimeditare: «Sarebbe necessario innanzitutto rileggere la nostra Costituzione con lo spirito con cui i padri costituenti la scrissero. Non vi troveremmo, se la rileggessimo così, la debolezza dell'Esecutivo che paralizza chiunque sieda a Palazzo Chigi; non l'ammissibilità di voti di sfiducia individuali nei confronti di singoli ministri; né la prassi delle crisi extraparlamentari; né l'asservimento dell'informazione pubblica al potere politico». È un passaggio che nessuno a sinistra ha fatto proprio, e non stupisce oltre misura. I partiti riprendono il potere, e presentano tutto questo come Nuovo che avanza. Ma i partiti sono come gli Stati nazione: la loro forza sovrana è del tutto fittizia. Un partito che decide di correre da solo e poi di allearsi con chi vuole è un partito in costante metamorfosi coatta, non è sovrano, è più che mai prigioniero delle forze extraparlamentari (mezzi di comunicazione, istituti di sondaggio, potentati non eletti) che hanno voluto la fine di Prodi.

La parola «popolo delle primarie» non significa niente; se non significa nulla non ha poteri. È un'illusoria figura. Immagino che la stragrande maggioranza degli elettori di Veltroni lo sappia: la loro forza, i loro diritti-doveri, il loro peso, sono infinitamente più insignificanti del peso e dei diritti che nei vecchi tempi avevano gli iscritti, figura scomparsa nel vocabolario del Pd. Chi ha forza sono i poteri che perdurano nonostante il voto, sono le Piazze sempre di nuovo invocate, sono gli uomini con capacità di dominio sui telegiornali, e sono, non per ultimi, i politici decisi a riconquistare l'impunità che per un breve lasso di tempo hanno visto minacciata.


Sua frequenza
apertura de
il Manifesto

La Corte di giustizia europea ha emesso la sentenza che impone all'Italia di assegnare le frequenze televisive a Europa 7, dopo una battaglia legale di nove anni. E a trasferire Retequattro sul satellite. La legge Gasparri è in totale conflitto con il diritto comunitario. Mediaset risponde sprezzante: le mie reti non si toccano. E il risarcimento lo pagherà lo stato italiano. Prova di forza di Berlusconi, che si sente già a palazzo Chigi.


Caos calmo
editoriale di Antonio Padellaro su
l'Unità

L'altro giorno abbiamo letto sulla Stampa che il direttore del Corriere della sera, Paolo Mieli aveva fatto «capolino» a palazzo Grazioli. Circostanza che veniva interpretata come segnale esplicito di elezioni anticipate ad aprile. Sulla inevitabilità del voto non aveva dubbi quasi più nessuno. E, a quanto sembra, comincia a non averne anche il presidente del Senato Franco Marini incaricato da Napolitano di coltivare la più esile speranza. Molto più sorprendente, invece, la prima parte della notizia, soprattutto perché a palazzo Grazioli abita Silvio Berlusconi. I maligni si saranno subito interrogati sulle ragioni della visita del direttore del più importante giornale italiano al probabile vincitore (secondo i sondaggi) delle ormai imminenti elezioni. E si saranno subito risposti malignando, appunto, su un possibile nuovo endorsement (in inglese la pubblica dichiarazione di appoggio) da parte dello stesso Mieli. Che due anni fa, alla vigilia del voto, aveva schierato il Corrierone a favore di Romano Prodi, dato per sicuro vincitore. Noi che maligni non siamo abbiamo pensato ad altre ipotesi.

Terzo. Mieli si è recato effettivamente a trovare Berlusconi ma per fargli tutt'altro discorso rispetto a quello che i soliti maligni immaginano.

È andato cioé a spiegargli che con questo suo ossessivo gridare al voto al voto senza prendere in considerazione le offerte di dialogo su legge elettorale e riforme avanzate dal centrosinistra, e incoraggiate dal Quirinale egli Berlusconi sta danneggiando non solo il Paese ma se stesso. Lei invoca lo scontro elettorale, è possibile che gli abbia detto Mieli, mentre tutte le più importanti categorie economiche e produttive pretendono stabilità. Lo chiedono dalla Confindustria alla Confcommercio che tradizionale bacino elettorale del centrodestra ha accolto con un'ovazione il leader del Pd Walter Veltroni. Che il fronte anti-urne comprenda oggi un mondo di industriali, commercianti e professionisti che nel 2006 votò a grande maggioranza per la Cdl dovrebbe far riflettere chi continua a presentarsi come il nuovo ma comincia ad essere accomunato alla politica più vecchia e megalomane. Se poi Berlusconi avesse letto l'ultimo numero dell'Economist ne ricaverebbe un giudizio ancora più severo sul suo essere del tutto inadatto a guidare l'Italia, concentrato com'è sul proprio ombelico.

Temiamo tuttavia che se anche Mieli avesse fatto «capolino» a palazzo Grazioli con questi argomenti non avrebbe avuto granché ascolto perché a Berlusconi dell'interesse del Paese «non importa un fico secco» (lo ha scritto ieri Giovanni Sartori proprio sul «Corriere»). Pur di prendere un voto in più metterà insieme una compagnia che andrà da Salò a Ceppaloni, affiancato dagli «ectoplasmi» Fini e Casini subito accorsi a un fischio del capo. Ma prenderà un voto in più Berlusconi?

Tutte i cattivi propositi a carico del leader di Forza Italia possono infatti essere usati come buone ragioni a favore del Pd. Perché la gente dovrebbe dare fiducia a un imbonitore che da un quindicennio si presenta sempre con lo stesso spettacolo, e non invece all'unica vera novità della politica italiana? Perché il senso di responsabilità non dovrebbe essere apprezzato e invece sì l'assalto alla diligenza? Perché non pensare che il buongoverno del governo Prodi stia cominciando a sedimentare tra gli italiani l'apprezzamento che merita ora che la grancassa dell'opposizione fa meno chiasso?

Non sarebbe la prima volta che chi baldanzosamente invoca le elezioni ne finisce sepolto. Accadde alla Dc negli anni 50. Accadde, duole ricordarlo, alla gioiosa macchina da guerra progressista travolta nel '94 dall'uomo di Arcore appena sceso in politica. Chi vuole l'Italia confusa e agitata del caos permanente descritta ieri dal Capo dello Stato non può averla sempre vinta.


Bella addio, il Pd dimentica la Resistenza
Giovanni De Luna su
La Stampa

Nei tre documenti fondanti del Partito democratico (il Manifesto dei valori, il Codice etico e lo Statuto), che oggi saranno approvati dalle relative commissioni, non c'è traccia della Resistenza e dell'antifascismo. I motivi di questa omissione non sono facilmente spiegabili. È possibile che si sia voluto consegnare alla storia quelle esperienze, considerandole ormai un patrimonio acquisito degli italiani, connotate da valori - come il «patriottismo costituzionale» richiamato e dal presidente Napolitano - che non possono essere di parte o di partito.

È anche possibile che in questa scelta ci sia invece l'ossessiva ricerca di una sempre più marcata discontinuità con «tutte» le identità novecentesche della sinistra italiana e che il nuovo partito abbia scelto di azzerare tutto il passato senza distinzioni, facendo precipitare in un unico tritacarne di rimozioni e di oblio lo stalinismo e Giustizia e Libertà, i funzionari al servizio di Mosca e i partigiani morti combattendo per la democrazia, il partito di massa e le eroiche minoranze che furono protagoniste della Resistenza. È possibile che ci sia semplicemente un calcolo di pura opportunità, il tentativo di modellare i valori del partito che nasce su quelli di un'ipotetica coalizione di governo di centro, al cui interno, verosimilmente, gli alleati non sarebbero certamente teneri verso quel tipo di eredità. A differenza della Dc, infatti, il mondo cattolico disposto a dialogare con il Partito democratico ha liquidato la Resistenza, seppellendola sotto l'etichetta della guerra fratricida e spostando l'attenzione piuttosto verso la cosiddetta «zona grigia» (fascisti e partigiani furono due minoranze contrapposte, rispetto a una popolazione che non voleva più saperne di combattere né da una parte né dall'altra), verso quella grande maggioranza di italiani che allora preferì non scegliere e tirare a campare.

Scelta culturale o scelta politica, si tratta comunque di una sorta di autorete. Ha suscitato molte perplessità la «fusione fredda» che ha preceduto la nascita del Partito democratico: molti ragionamenti sugli spazi politici da occupare, sulle alleanze da disfare, sugli avversari con cui dialogare; pochissimi sulla propria identità, sulle proprie radici, su un qualcosa che rendesse l'adesione al partito un gesto diverso dall'iscrizione all'anagrafe o ai registri dell'Inps. Forse, in questo senso, l'antifascismo, con il surplus di democrazia che è racchiuso in quell'esperienza, e la Resistenza, con l'imperativo morale di scegliere da che parte stare, potevano essere riferimenti ingombranti, ma utili.


Politica lontana dalla verità vicina alla mafia
La questione morale, sempre più grande, provoca il disastro del Mezzogiorno
Giancarlo Caselli* su
Liberazione

Molte cose sono cambiate in positivo, in questi anni, sul versante dell'antimafia.
Quel che non cambia o che cambia troppo poco è la politica, o perlomeno certa politica. Preliminarmente vorrei fissare alcuni punti.
Primo punto. Larga parte della politica oggi (anche trasversalmente, purtroppo) considera troppa giustizia e troppa legalità come un fastidio. Gli viene l'orticaria. Non si identifica con l'Italia delle regole quanto piuttosto con l'Italia dei furbi, degli affaristi o degli impuniti.
Secondo punto: io sono assolutamente convinto (non lo dico retoricamente) del primato della politica. Spetta alla politica, soltanto alla politica, operare le scelte di governo nell'interesse - si spera - di tutti. Non spetta a nessun altro, meno che mai ai giudici (la storia del governo dei giudici è bieca propaganda). Ma proprio perché sono seriamente convinto del primato della politica sono altrettanto convinto che la politica questo primato lo deve vivere ed interpretare nella consapevolezza della sua importanza effettiva, non con attenzione alla sola facciata. Allora, se ci sono delle inchieste giudiziarie che rivelano fatti dando indicazioni preziose in tema di corruzione e collusione fra mafia e politica, ecco che la politica dovrebbe - secondo me - esercitare il suo primato intervenendo con nuove leggi, con controlli più adeguati. E invece di tutto questo abbiamo avuto ben poco dal '90 ad oggi. Molte volte invece sembra di avvertire una certa tendenza (trasversale) a mal concepire il primato della politica come pretesa di sottrazione dei politici ai controlli, alla legge che dovrebbe essere uguale per tutti. Ecco allora che la giustizia nel nostro paese non funziona, ma invece di chiedere più giustizia si chiede meno giustizia, tutte le volte che la giustizia incrocia determinati interessi. Ecco allora che alla magistratura si chiede di fare un passo indietro, invece di potenziarne gli strumenti e le possibilità di risolvere - nelle sue competenze istituzionali - questo o quell'altro problema.
Terzo ed ultimo punto preliminare. Usa dire che l'antimafia e l'anticorruzione non portano voti. Non è vero, secondo me, ma sta di fatto che antimafia e anticorruzione nell'agenda politica, quando ci sono, sono in posizioni non primarie. Per quanto riguarda la mafia ciò accade a partire dal 1996, con vari sussulti successivi di tipo emergenziale e quindi effimero. Nel senso che soltanto dopo un fatto clamoroso che ci sveglia, troviamo tempo e modo di occuparci di queste cose, ma con una forte tendenza a dimenticarle presto e rimetterle ai margini dell'agenda.

Allora, se questo è lo scenario di fondo, non stupisce che tanti uomini politici, amministratori, imprenditori, operatori economici, professionisti (con frequente predilezione nel settore della sanità), non stupisce che tanti, troppi soggetti ancora oggi intrattengano rapporti di affari o di scambio con mafiosi o paramafiosi. Ancora oggi, dopo le terribili stragi del 92 e del 93, ancora oggi ci sono personaggi che vivono e operano nel mondo legale, talora con responsabilità istituzionali di altissimo rilievo, che sono disposti a trescare, a trattare con mafiosi o paramafiosi come se nulla fosse, come se fosse cosa assolutamente normale. Questa è una totale vergogna, che dovrebbe fare drizzare i capelli in testa a tutti. Invece quelli che si indignano sono sempre di meno. E chi viene colto con le mani nel sacco può sempre contare sulla solidarietà dei propri capi cordata, sia locali che nazionali. E allora ecco che invece dell'indignazione o della giusta tensione abbiamo la passività e la rassegnazione. Ci si convince che così va il modo, che c'è poco o nulla da fare. La questione morale e la responsabilità politica diventano reperti archeologici. Favole per i gonzi e la mafia obiettivamente e inesorabilmente cresce. Mentre è sempre più difficile agganciare i giovani con discorsi credibili in termini di impegno per la legalità.
Io ho un' impressione, sempre più forte: che la buona politica sia stata soppiantata o rischi di essere sempre più soppiantata da una politica che va facendosi sempre meno compatibile con la verità. Politica e verità stanno imboccando sempre più strade diverse. Una certa politica (oltre ad essere autoreferenziale, oltre a trasformare il confronto in perenne rissa ideologica) costruisce verità virtuali per conservare e consolidare il suo potere. Nasce anche di qui la perenne autoassoluzione di se medesima da parte della politica, anche quando sono evidenti ed indiscutibili clamorose responsabilità, se non giudiziare, certamente politiche. La strada maestra ormai è confondere deliberatamente assoluzione con prescrizione. Non sono la stessa cosa, anche se confonderle ormai è la regola. Se una sentenza - magari una sentenza definitiva di cassazione - elenca come provati e commessi fatti gravissimi (scambi di favori con mafiosi; incontri con boss per discutere di fatti criminali gravissimi, compresi omicidi; senza mai denunziare niente di niente; contribuendo in questo modo ad un sostanziale rafforzamento della organizzazione criminale: il riferimento è al "caso Andreotti"), se tutto questo - in quella sentenza - si dice che è stato commesso fino a una certa data e che costituisce reato, non punibile ancorché commesso sol perché prescritto, questa non è assoluzione! E' un'altra cosa. Confondere la prescrizione di un reato provato come effettivamente commesso con l'assoluzione è prima di tutto un errore tecnico. Ma non solo. E' anche, è soprattutto un grave errore politico. Perché se io dico che c'è stata assoluzione, a fronte di fatti gravissimi accertati in una sentenza, io questi fatti li cancello, io questi fatti li sbianchetto. Ma cancellando questi fatti, io legittimo un certo modo di fare politica, che contempla anche rapporti organici con la mafia. E questo modo di fare politica lo legittimo per il passato, per il presente e anche per il futuro. Tutto ciò è di una gravità inaudita : si cancella il confine tra lecito ed illecito, tra morale ed immorale. Ma se cade questo confine, non c'è convivenza civile al mondo che possa reggere più di tanto. Prima o poi si va a sbattere. Tutti. E tutti ci si può ritrovare sotto un bel cumulo di macerie. Oppure si va alla deriva e si finisce chissà dove. E' l'eclissi della questione morale, quando la questione morale è la premessa fondamentale di ogni buona politica.

E allora si capiscono tante cose, a partire dalla mancanza di continuità. L'antimafia "militare" bene o male ormai procede costante (come prova la sequenza di arresti: da Riina e soci a Provenzano ai Lo Piccolo). Non cosi' l'antimafia che voglia colpire la spina dorsale del potere mafioso, le cosiddette relazioni esterne, le complicità, le collusioni, le coperture. Su questo vesante, si riesce a rimanere ad un certo livello - quando lo si raggiunge - per non più di due anni tre anni. Poi stop. Allora si capisce come la nostra antimafia sia quella del giorno dopo: se non succede qualcosa che ci costringe ad intervenire e finalmente ci sveglia dal nostro torpore, non ce ne occupiamo. Allora si capisce perché quel punto nevralgico dell'antimafia che è la gestione efficiente, razionale, incisiva dei beni confiscati ai mafiosi stia subendo -lentamente ma inesorabilmente - vischiosità ed inceppamenti che rischiano di svuotare e rendere sempre meno credibile una delle conquiste più importanti dei nostri tempi. Allora si capiscono le amnesie: per esempio l'anagrafe dei conti bancari, una legge del '93 che non è mai stata attuata. Sterilizzata fino ad oggi, con qualche recentissimo segnale di novità ancora tutto da verificare. Allora si capiscono le gaffes di chi dice che con la mafia bisogna convivere. E magari dice cose che tanti altri pensano anche se lo negano, ma poi le praticano.

E attenzione, che questo quadro insieme comporta delle scelte disastrose. Una recente ricerca della Svimez, e prima ancora una ricerca del Censis, dimostrano lo zavorramento dell'economia delle aree meridionali ad opera delle mafie. Zavorramento che significa 180 mila posti di lavoro perduti ogni anno; zavorramento che significa produzione di ricchezza in meno pari a 7,5 miliardi di euro ogni anno; zavorramento che significa (secondo il Censis) che senza le mafie il PIL pro-capite del mezzogiorno sostanzialmente sarebbe identico a quello del centro-nord. Ma non basta. Il Censis ha anche denunciato che il potere criminale è sempre più potere economico, al punto che sta trasformando radicalmente il mercato e la concorrenza in paraventi, simulacri, scatole vuote. Perché l'imprenditore mafioso - rispetto a quello onesto - gode di vantaggi enormi: capitali a costo zero (il mafioso è ricco di suo, grazie al denaro illecito che continuamente riempie le sue tasche); possibilità, proprio perché già immensamente ricco di suo, di offrire prezzi molto più bassi, non avendo come obiettivo immediato quello del profitto. E infine, se ci sono dei problemi l'imprenditore mafioso, rispetto all'imprenditore normale ha il vantaggio di poterli risolvere - questi problemi - coi sistemi che sono nel suo DNA di mafioso: la corruzione, la suggestione, l'intimidazione e la violenza. Vantaggi che spiazzano ogni concorrente pulito, ne comprimono gli affari o lo espellono dal mercato. Oppure lo spolpano fino a svuotarlo, consentendo ai mafiosi o ai prestanome dei mafiosi di impadronirsi di quelle attività.
Così, il libero mercato e la legale competizione economica diventano scatole sempre più vuote e la situazione è tale che bisogna soltanto sperare che Francesco De Gregori, quando cantava: "legalizzare la mafia sarà la regola del 2000", non fosse - mentre faceva della intelligente ironia - un profeta.


Terrorismo, orrore infinito ragazze down kamikaze
Le hanno fatte esplodere a distanza a Bagdad: 60 vittime
Renzo Guolo su
la Repubblica

L´orrore non ha mai fine. Che le donne fossero ormai vittime sacrificali del terrore era noto. Cecene, palestinesi, irachene avevano già seguito nella "bella morte" i mariti, fidanzati o figli. Spinte da un´ideologia che le eleggeva a martiri mentre riduceva, allo stesso tempo, a cosa la loro vita: ritenuta ormai impossibile senza gli uomini della famiglia.
Scelte disperate e di disperazione, di autonomia negata: lenite , solo apparentemente, da una mortifera "teologia della ricomposizione". Quella che promette il ricongiungimento con i corpi amati dei familiari "martiri" attraverso lo smembramento di altri corpi, eretti a collettivi simboli del Male. Secondo la tradizione religiosa, infatti, ancora prima del giorno della Resurrezione, gli shahid, i "martiri", sarebbero guidati da uccelli verdi in uno stato intermedio tra il mondo e il paradiso.
Ma se fosse vero che i qaedisti iracheni sono giunti a utilizzare donne disabili, del tutto inconsapevoli e fatte esplodere a distanza , il limite dell´orrore sarebbe stato dilatato sino a limiti inauditi. Un salto nella vertigine della guerra, che i terroristi legittimano , attraverso l´uso del fiqh haraki , il diritto dinamico: una sorta di giurisprudenza della necessità, che va oltre il "consenso della comunità", caratterizzata da un´interpretazione assai estensiva della norma fondata , più che sul responso delle diverse scuole giuridiche, sulla pratica combattente. In questa visione del mondo solo i combattenti , e non teologi e giuristi, decidono ciò che è lecito. Una breccia già aperta in passato, quando i fautori radicali del jihad avevano prima teorizzato la necessità di opporsi con ogni mezzo al "nemico empio"; poi trasformato il suicidio in "martirio"; infine ritenuto il jihad in armi un obbligo personale anche per le donne, sin lì tenute fuori dal campo del " combattimento in nome di Dio" per timore delle conseguenze imposte dall´irrompere in quella particolare sfera pubblica della violenza costituita dal Politico e dalla guerra. Ma quell´ultima soglia è ormai stata varcata da tempo , spalancando le porte all´orrore. Così due donne disabili , non solo uno stratagemma per sfuggire ai controllo ma anche segnale di un barile dei "candidati martiri" raschiato sino in fondo, sono state mandate a morire, e a infliggere morte, a Suq Al Ghazil e a Al Jedida, mercati in cui si vendono animali domestici, uccelli esotici , pesci . Travestite da venditrici , infagottate in vesti che nascondevano cinture esplosive anziché mangime. Sacrificabili perché ritenute malate. Sferrando ancora una volta, a dimostrazione che quella in corso dentro all´islam è anche una battaglia per l´interpretazione della tradizione religiosa, un colpo contro i principi fissati dal Corano(48,17) che dispensano le donne afflitte da qualsiasi malattia (marid) dal jihad . Ma nell´eugenetica jihadista la sola malattia che conta è quella dell´anima; quella sintetizzabile nelle parole kufr, miscredenza, e nifaq, ipocrisia. In questa scura visione del mondo l´unica guarigione( shifa) per il corpo malato, mai quello delle persone sempre quello della "società corrotta" , è il jihad. Nessun uccello verde guiderà le due infelici donne sacrificate in Paradiso; sul selciato insanguinato di Bagdad resta solo il sangue di altri uomini e donne , oltre che di altri ignari, animali.


La grande sfida all´impero di Google
Vittorio Zucconi su
la Repubblica

«Lei è un pigmeo», gridò dall´alto del suo scanno parlamentare Tom Lantos, il presidente della Commissione Esteri della Camera al fondatore di Yahoo! Jerry Yang trascinato in Parlamento. «Sarete anche dei giganti finanziari, ma siete dei pigmei morali. Avete collaborato con la polizia politica cinese per salvarvi i profitti».
Non sapeva che non sarebbe stato l´impero Cinese, ma l´impero, quello di Bill Gates e di Microsoft quello che avrebbe tentato di salvare i profitti e l´esistenza stessa della ex regina dei motori di ricerca, ridotta ormai a nano anche finanziario.
Pochi giorni dopo l´annuncio della morte di un altro nome storico nella giovane storia di Internet, Netscape, l´offerta di acquisto per 46 miliardi di dollari lanciata dall´amministratore di Microsoft, Steve Ballmer, per conto di Bill Gates, di inghiottire Yahoo! è la conferma di quanto rapide, imprevedibili e brutali siano le sorti di queste «start up companies», di questi funghi che dagli anni '90 spuntano, crescono e muoiono in vortici di miliardi creati dal nulla e tornati nel nulla. Sono notizie che servono a ricordare, soprattutto ad azionisti che videro il titolo di Yahoo! salire a 450 dollari e poi scendere, prima dell´Opa di Gates e Ballmer a 14, che questa è la prima era geologica sul pianeta Internet, e tutti i tirannosauri di oggi possono diventare i fossili di domani.
Yahoo! che nello slang Americano derivato dal Gulliver di Swift significa burino, zotico, persona ruvida e incolta, ha vissuto la parabola di queste creature balzate dal brodo primordiale del nuovo Pianeta. Esattamente come la sua concorrente che l´avrebbe spolpata e ridotta ad avere meno del 25% del mercato dei «motori di ricerca», quei programma che consentono a chi è collegato in rete attraverso un browser di compitare un nome e di vedere i risultati in ordine, è nato in quella università di Stanford, in California, dove un tempo regnavano i "dottor Stranamore" come Eduard Teller, padre della bomba H e profeta delle "Guerra Stellari" care a Reagan. Di nuovo come Google, che fu partorita dalla creatività di due ventenni e di quegli «immigrati stranieri» che i miopi aborrono come minaccia sociale, Larry Page e il russo Sergej Brin, anche Yahoo! fu figlia della collaborazione fra un Americano della Louisiana, David Filo e di un giovane immigrato cinese nato a Taiwan, Yang Chi-Yuan, poi anglicizzato nel più pratico Jerry Yang.
Era il 1994 e nel magma di Internet quei due giovanotti non ancora trentenni cominciavano a perdersi, vagando, e perdendo tempo, nella ricerca di informazioni e siti sparpagliati ovunque. «La nostra idea - spiegò poi Filo - fu quella di creare una formula che raccogliesse e creasse un gerarchia ordinata fra quei frammenti sparsi in rete» e dunque semplificasse il compito di chi cerca notizie, informazioni scientifiche, prodotti, contatti, immagini.
Nacque Yahoo, il solito astruso acronimo di varie parole, ma letto proprio come riferimento ironico al senso di smarrimento che i primi «zotici» dispersi in rete come contadini in una metropoli, avvertivano. Nel 1995 ottennero finanziamenti di ventura, e brevettarono il nome, scoprendo che era già stato appropriato da una salsa per il barbecue.
Il problema fu risolto aggiungendo un punto esclamativo: Yahoo!. Dozzine di «motori di ricerca» uscirono, Altavista, Excite, Inktomi, Infoseek, HotBot, Northern Light, eredi del primo rudimentale «motore» di successo, Gopher (la talpa). Si alimentavano dell´euforia che rovesciava miliardi su titoli che garantivano di decuplicare l´investimento in pochi mesi, senza preoccuparsi di bilanci e profitti inesistenti.
Nessuno ebbe il successo di Yahoo! che fino al 1998 crebbe sicuro, fino al giorno in cui spuntò il dinosauro più rapido e vorace: Google. Nella logica del «sarà fatto a te quello che tu hai fatto agli altri», Google, con un formula, un algoritmo migliore e un modello di business pubblicitario più redditizio divenne, in pochi anni, il re della foresta, conquistando il 62% del mercato mondiale e lasciando alla concorrente appena il 12%.
Quando la prevedibile «bolla di Internet» implose nel 2001, Yahoo! resistette meglio di altri, ma Google che in borsa ancora non era presente e quindi fu immune dal contraccolpo, emerse come la più sana. Yang, che aveva nel frattempo arricchito il proprio «portafoglio» personale a 2,5 miliardi di dollari entrando con il partner Filo fra i 500 più ricchi del mondo, puntò sulla propria terra natale, la Cina. Ma aveva anche lui dimenticato che le statistiche ammirevoli e i grattacieli scintillanti non fanno ancora una democrazia da soli. Quando il governo di Bejing gli chiese di rivelare chi fosse quel giornalista dissidente che, attraverso Yahoo!, criticava il regime, Yang e Filo cedettero all ricatto e si fecero «pigmei». Risalirono alla persona e il giornalista, Shi Tao, fu condannato a 10 anni di carcere duro per «attività sovversiva». Il congresso Americano lo umiliò, la «umma» dei fedeli della rete s´indignò e le organizzazioni internazionali e i «Reporters senza frontiere» invitarono al boicottaggio di Yahoo! per collaborazionismo.
Tutto questo non sembra avere dissuaso Bill Gates e la Microsoft, dal tentare, per la quarta volta, di assorbire «Yahoo!», con un´offerta principesca di un premio di 31 dollari per ogni azione oltre al valore corrente e che i fondatori, e soprattutto gli azionisti, troveranno molto difficile da rifiutare. Costerà almeno 44,6 miliardi, questo boccone, e forse di più, perché la Microsoft deve assolutamente acquisire un motore di ricerca nella propria scuderia e Yahoo! rimane pur sempre un pigmeo da 130 milioni di visitatori al giorno nel mondo. Deve finalmente raggiungere quel mondo della rete che il fondatore Gates e la cultura «ingegneristica» che domina l´azienda di Redmont avevano disprezzato, aggrappati alla propria schiacciante superiorità di mercato nei sistemi e nei programmi.
A Redmont si vive nel terrore che la Google compia il percorso inverso e passi dalle steppe di Internet alla invasione del territorio dei programmi e dei sistemi che appartiene a Microsoft. L´acquisizione di Yahoo! è quindi il caso dell´impero che arruola i barbari di ieri perché divengano i pretoriani di domani. Il rischio, storicamente ben provato, è che le bande dei «barbari creativi» venuti da Internet prendano un giorno possesso dell´impero degli «ingegneri programmatori» e l´ostilità creata attorno a Yahoo! dalla «sindrome cinese» non gioverà all´immagine della Microsoft pigliatutto. Ma, come ogni museo di storia naturale dimostra, nei mondi primordiali non importa essere buoni, importa soltanto sopravvivere.


  2 febbraio 2008