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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 30-31 gennaio 2008

Staino sull'Unità

La volonta' di non rassegnarsi
Massimo Franco sul
Corriere della Sera

Cercare di evitare le elezioni dopo nemmeno due anni di legislatura, per un capo dello Stato è un obbligo. L'incarico affidato ieri da Giorgio Napolitano a Franco Marini va letto dunque come una scelta inevitabile, che anche una parte dell'opposizione ha compreso. L'importante è che si capisca presto se porterà alla formazione di un altro governo; o, più probabilmente, al voto anticipato. Nel tentativo estremo del Quirinale si coglie tutta la drammaticità del momento. Riacciuffare adesso i fili della riforma elettorale appare un tentativo disperato. Per questo, il sospetto che Marini abbia resistito un po' prima di accettare non è una malignità gratuita. Ma il fatto che Napolitano abbia puntato sulla seconda carica istituzionale, sottolinea la volontà di non rassegnarsi ad una deriva ritenuta dai più inevitabile. Il compito del presidente del Senato è capire se esiste una via d'uscita per scongiurare il voto. Sulla carta, si tratta di una missione impossibile. Il centrodestra da anni non appare così compatto: almeno nel volere le elezioni.
È probabile che la resurrezione della Cdl nasconda anche calcoli opportunistici. Nasce, tuttavia, dalla presa d'atto che finora non si vedono margini per proseguire la legislatura in modo decente. In teoria, Marini potrebbe trovare qualche voto di ritorno dei senatori dell'ex Unione; e chissà, perfino la disponibilità di alcune schegge in bilico. La prospettiva di spaccare ancora di più il Parlamento ed il Paese, tuttavia, rende improbabile un epilogo pasticciato.

L'incarico prevede una consultazione supplementare dei partiti; non necessariamente, però, la formazione di un governo. Se alla fine Marini dirà a Napolitano che le riforme elettorali non sono possibili, l'ultimo tratto di strada potrebbe toccare a lui; ma anche a Romano Prodi, come chiede Berlusconi ricordando che è il premier indicato nel 2006 dagli elettori.
Il centrodestra segue la traiettoria con diffidenza e nervosismo. Napolitano cerca di rassicurarlo escludendo una scelta «rituale e dilatoria». E a garanzia di una volontà distensiva offre proprio il sindacalista moderato e astuto, considerato il meno antiberlusconiano della coalizione prodiana. Marini, però, è anche l'antitesi politica e quasi antropologica di Prodi. E alimenta l'immagine di un'Unione ansiosa di emanciparsi dal Professore. Sarà difficile evitare tensioni. Il tempo diventa sostanza, e la crisi non sembra affatto finita. E probabilmente, neppure le sorprese.


Berlusconi assolto: falso in bilancio non è più reato
sommari de
l'Unità

Era accusato di aver falsificato i bilanci della Fininvest dal 1986 al 1989. Ma dal 2002, quando al governo c'era il centrodestra, il falso in bilancio non è più reato. Quindi, oggi, sei anni dopo, per Berlusconi arriva l'assoluzione. Il falso in bilancio sarebbe stato reintrodotto dal decreto sicurezza voluto dal governo Prodi.


Berlusconi prosciolto per il caso Sme
L´accusa di falso in bilancio cancellata dalla "legge ad hoc" della Cdl
Oriana Liso sul
Corriere della Sera

MILANO - Cinque minuti di camera di consiglio e sei anni di attesa per una sentenza quasi scontata. Prosciolto Silvio Berlusconi - con una formula che solo per sfumature si distingue dall´assoluzione - nell´ultimo filone dell´infinita vicenda Sme, quello relativo al falso in bilancio della Fininvest nella seconda metà degli anni Ottanta. Prosciolto in base al primo comma dell´articolo 129 del codice di procedura penale dai giudici della prima sezione penale di Milano perché «il fatto non è più previsto dalla legge come reato».
Nel 2002 era stato proprio il governo Berlusconi a "mitigare" drasticamente la punibilità del falso in bilancio, di fatto quasi depenalizzato. All´epoca si gridò alla "legge ad personam", tanto che la procura ricorse alla Corte di Giustizia Europea e alla Consulta, mentre il processo - era il 26 ottobre del 2002 - veniva sospeso.

Si chiude così, salvo un poco probabile ricorso in appello, un processo dalla gestazione lunghissima, nato dalle confessioni, nel 1995, del teste Omega Stefania Ariosto. I pm Gherardo Colombo e Ilda Boccassini portarono il premier in tribunale per aver falsificato tra il 1986 e il 1989 i bilanci della Fininvest di cui era presidente per accantonare i fondi neri per corrompere i giudici romani che dovevano decidere sulla vicenda Sme. Il filone sulla corruzione è arrivato a sentenza definitiva - di assoluzione - nell´ottobre scorso, mentre per quello sul falso in bilancio lo stop era arrivato dopo che il governo guidato da Berlusconi, nel 2002, aveva modificato la legge in materia, alzando di molto la soglia di punibilità. Colombo e Boccassini avevano chiesto che fosse la Corte di Giustizia Europea a dichiarare l´inadeguatezza della legge, così i giudici avevano sospeso il processo, ma la Corte del Lussemburgo, nel maggio 2005, aveva dichiarato «irricevibile» il ricorso, così come poi aveva fatto la Consulta.
E se Berlusconi si è dichiarato «contento» dell´esito del processo, molte sono le reazioni della politica. «Con la depenalizzazione del falso in bilancio, approvato da Berlusconi, il conflitto d´interessi emerge in tutta la sua gravità», dice l´ex ministro Antonio Di Pietro, mentre Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, aggiunge: «Ognuno ha il diritto di stappare lo champagne, ma almeno non si tarocchi la realtà».

Le disavventure giudiziarie del leader di Forza Italia, però, non sono ancora chiuse. Restano aperti, a Milano, il processo sui presunti fondi neri per i diritti tv di Mediaset, quello sulla presunta corruzione dell´avvocato inglese David Mills, mentre è ancora in corso l´inchiesta per appropriazione indebita sui diritti tv di Mediatrade. A Napoli, invece, Berlusconi dovrà comparire il prossimo 15 aprile davanti al gup per l´accusa di corruzione, per aver segnalato alcune attrici al dirigente Rai Agostino Saccà, mentre gli atti sulla presunta istigazione alla corruzione dei senatori sono arrivati a Roma.


Una legge sbagliata, un'immagine distorta
editoriale di Ferruccio de Bortoli su
Il Sole 24 Ore del 27 gennaio

L'immagine del Paese che la sceneggiata di palazzo Madama ha trasmesso al mondo è devastante. La notizia della caduta del Governo Prodi è inesorabilmente accompagnata, sui media internazionali, dalle fotografie del senatore che sputa, di quello che si ingozza di mortadella e dell'altro che stappa una bottiglia di spumante. Ieri il primo era accanto al suo capo e mentore Mastella, al Quirinale, dopo l'incontro con Napolitano; il secondo distribuiva interviste compiaciute dal sapore futurista; fortunatamente del terzo si sono perse le tracce. L'Italia seria che produce e crea ricchezza, quella delle imprese che innovano ed esportano, del lavoro e delle professioni merita di essere rappresentata nel mondo da questi tre (e tanti altri) eletti in entrambi gli schieramenti? No. Merita di essere travolta e sporcata, sempre nella percezione internazionale, dallo scandalo dei rifiuti campani per i quali nessuno, dalla Iervolino a Bassolino fino all'ineffabile Pecoraro Scanio, ha provato vergogna? No, ancora no.
Deputati e senatori sono stati scelti democraticamente. Giusto. Dunque, vanno rispettati anche se loro non rispettano noi, danneggiandoci con le loro gesta. E hanno un'idea del tutto vaga del mandato parlamentare. Si aggiungerà: sono stati indicati dagli elettori. Qui dovrebbero cominciare i primi dubbi. No, sono stati imposti dalle segreterie dei partiti con l'attuale legge elettorale, per la quale la quasi totalità dei deputati e dei senatori è già nota prima del giorno delle elezioni. E state sicuri che ce li ritroveremo in lista, da una parte e dall'altra, se si dovesse andare, come è ormai più che probabile, al voto in primavera. Giuseppe Pisanu, ministro dell'Interno del Governo Berlusconi, intervenendo l'altro giorno a Radio 24, ha ricordato quello che Gaetano Salvemini diceva ai suoi tempi del Parlamento. Un dieci per cento rappresenta la crème, un dieci la feccia, gli altri il resto d'Italia. Dunque, inutile dare tutte le colpe alla legge elettorale. Le Camere sono lo specchio del Paese. Punto. Del resto è così anche altrove, persino in democrazie più solide e antiche. Ed è normale che ci si accapigli. Pisanu ha ragione: accadeva anche nella prima Repubblica.
Con la legge Calderoli (definita dall'autore «una porcata») però è successa, e probabilmente si ripeterà, un'altra e più grave cosa. La necessità di formare coalizioni sempre più vaste per conquistare i premi di maggioranza, nazionali e regionali, spinge a stringere gli accordi più inconfessabili con chicchessia purché sia portatore di voti decisivi.


Il voto appare, al momento, inevitabile. La richiesta di andare alle urne legittima. Ma gli elettori dovrebbero essere messi nelle condizioni di votare lo schieramento che li governerà, senza che questo sia costretto al ricatto di piccole formazioni e a soddisfare interessi particolari al di là di quelli corporativi, e qualche volta personali, che la seconda repubblica, per altri motivi, ha già perseguito. Gli elettori dovrebbero scegliere direttamente i propri rappresentanti senza lo spettacolo amaro di constatare, come è avvenuto spesso in questi due anni scarsi, che pochi eletti con potere di ricatto contano più di tutti gli altri messi assieme. I maleducati, come i tre di cui sopra, ci saranno sempre, purtroppo, ma almeno facciano la fatica di conquistarsi il consenso in una campagna elettorale vera, non alla corte del capo. La fiducia nella politica, oggi al minimo storico, si ristabilisce anche così. E il tentativo di fare una legge elettorale migliore, o almeno di varare correzioni minime all'attuale, come ha proposto sul Sole-24 Ore Roberto D'Alimonte, è anche nell'interesse di chi si appresta a tornare con largo consenso al potere, facendo tesoro (stavamo per scrivere tesoretto) dei gravi errori di chi l'ha preceduto.


Mattarellum contro porcellum
Michele Ainis su
La Stampa

Giorno dopo giorno la crisi di governo s'avvita su se stessa, e come nel gioco dell'oca rimbalza al punto di partenza. Sicché a fine gioco c'è un'altra elezione nel nostro orizzonte collettivo. Diciamolo: con questa legge elettorale sarebbe una vergogna, una sciagura nazionale. Non solo perché il marchingegno escogitato da Roberto Calderoli ha già dimostrato di rendere ogni esecutivo precario come un co.co.co. Ma anche perché il porcellum espropria i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, degradando il voto a un trucco, una finzione. Da qui l'imperativo di non ripetere l'esperienza consumata nel 2006. Tuttavia l'imperativo s'infrange contro una duplice obiezione, sollevata da Berlusconi nonché dai suoi alleati. Primo: è una chimera, e forse anche un imbroglio, immaginare che i partiti siglino un accordo sulla bozza Bianco o su altre soluzioni, quando non vi sono mai riusciti nei 18 mesi precedenti. Secondo: prima d'arrendersi di fronte all'evidenza, l'Italia getterebbe in un cestino molti mesi, mentre la crisi economica e sociale reclama tempi rapidi, decisioni repentine.

Le obiezioni sono ambedue plausibili, se non anche fondate. Ma una via d'uscita esiste, e a pensarci sopra è un po' come l'uovo di Colombo. Difatti se suona pressoché impossibile chiamare i carpentieri all'opera su una nuova legge elettorale, si può sempre riaprire la vecchia costruzione. Perché una legge elettorale bell'e pronta ce l'abbiamo già, anzi ne abbiamo due in alternativa. Intanto il mattarellum, che ha funzionato per oltre un decennio, dando la stura al sistema bipolare. Per riesumarlo basta una norma di due righe, e bastano due giorni per votarla. Questa: «E' abrogata la legge n. 270 del 2005; in sua vece s'applica la legge n. 277 del 1993». E se i partiti non s'accordano neppure su questa reviviscenza del passato? Avrebbero qualche difficoltà a spiegarne le ragioni, dato che il mattarellum ha consegnato a turno le chiavi del governo alla destra e alla sinistra, e dato inoltre che esso ospita un impianto maggioritario con un 25 per cento di proporzionale, consentendo in ogni caso un diritto di tribuna alle forze politiche minori. Ma in tale ipotesi c'è pronta pure la soluzione di riserva: il referendum.

Questo itinerario ci risparmierebbe lo spettacolo di deputati e senatori non già eletti bensì nominati dalle segreterie politiche; a replicarlo una seconda volta, il vento dell'antipolitica si trasformerebbe in un tifone. Sulla carta, esso presenta inoltre tre vantaggi. Primo: è agibile, perché s'affida a soluzioni normative già confezionate. Secondo: è efficace, o almeno dovrebbe, non foss'altro perché fa leva su due gambe (mattarellum e referendum). Terzo: restituisce lo scettro ai cittadini, strappandolo dalle mani dei partiti. Vale per il referendum, ma vale altresì per la vecchia legge elettorale, che nel 1993 tradusse l'esito d'un altro referendum. Di questi tempi non è poco.



Un paese di classe
Galapagos su
il Manifesto

I conti pubblici sono a posto, le imprese da due anni «sgavazzano» con la riduzione dell'Irpeg e dell'Irap. Ora doveva essere il turno dei lavoratori dipendenti ai quali - l'aveva promesso Prodi - doveva essere destinato tutto l'extra gettiti, per cercare di recuperare un po' del potere d'acquisto perso negli ultimi anni. Dal 2000 al 2006 - ci ha detto ieri Bankitalia - il reddito netto delle famiglie il cui capofamiglia è lavoratori dipendenti è cresciuto solo dello 0,3%, mentre per i lavoratori autonomi sono stati anni di vacche grassissime: i loro redditi sono aumentati del 13,1%. Ma c'è di più: i dati Bankitalia ci dicono che il 10% dei ricchi posseggono il 45% di tutte le ricchezze nazionali, mentre il «rimanente» 90% si spartisce il 55% e nella ricchezza è compresa anche la casa di proprietà. Forse è giunto il momento di rilanciare l'idea di una imposta patrimoniale per cercare di rendere un po' meno disumano il paese per renderlo un po' meno «stato libero di Bananas».
Dal 2000 al 2006 ci sono stati due avvenimenti particolari: l'arrivo dell'euro e il governo Berlusconi. «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani», era stato il fortunato slogan di Berlusconi e Tremonti. Purtroppo ai lavoratori dipendenti è stato rubato il portafoglio, mentre a chi non lavora sotto padrone è stato concesso tutto: condoni fiscali tombali, diritto di sfruttare e precarizzare grazie alla legge battezzata Biagi.

Bankitalia fa una ammissione molto onesta: attenti - ci dice - il lavoro autonomo ha varie forme. E così scopriamo che bottegai e artigiani seguitano a spassarsela, mentre altri autonomi vedono il loro reddito diminuire. Il trucco è che non si tratta di veri autonomi, ma di lavoratori atipici il cui numero sta crescendo in maniera esponenziale, direttamente proporzionale al loro basso livello retributivo.
Visco - il ministro più odiato dagli italiani evasori - ha fatto un grande sforzo per stanare chi non pagava le tasse. Un grande sforzo è stato fatto, come negli anni '90, allora per non perdere il treno dell'euro - per sanare i conti pubblici. Il risultato, purtroppo, è negativo: forse il risanamento andava fatto, ma doveva essere accompagnato da una politica di redistribuzione dei redditi ovviamente di segno opposto a quella di classe dei tempi di Berlusconi. Insomma, serviva una politica di rientro più soft e non una politica dei due tempi. Anche perché c'è il rischio che con Berlusconi il secondo tempo si trasformi in un primo tempo bis con nuovi benefici per le imprese (in nome della competitività), riduzioni fiscali spalmate su tutti e lavoro ancora più flessibile e precario.


Chiusa per mafia Calcestruzzi, leader nel cemento
su
l'Unità

È il primo produttore italiano di cemento (NDR calcestruzzo). Da mercoledì è chiuso per mafia. Il gip del Tribunale di Caltanissetta ha posto sotto sequestro la Calcestruzzi spa, l'azienda italiana leader della produzione di calcestruzzo società che è valutata 600 milioni di euro e che fa parte del gruppo Italcementi.

Quattro ordini di custodia cautelare hanno raggiunto l'amministratore delegato Mario Colombini e tre dirigenti: Fausto Volante, direttore di zona per la Sicilia e la Campania, Francesco Librizzi, ex-capo area per la Sicilia, e Giuseppe Giovanni Laurino, anche lui ex dipendente come capo area per la Sicilia. Le accuse a loro carico vanno dalla truffa all'intestazione fittizie di beni, fino all'inadempimento di contratti di pubbliche forniture. Per tutti – come si dice chiaramente nei provvedimenti firmati dal gip Giovambattista Tona, su richiesta del procuratore aggiunto Renato Di Natale e del pm della Dda, Nicolò Marino – c'è l'aggravante del favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra.

Secondo gli inquirenti, la Calcestruzzi avrebbe proceduto, non solo in Sicilia ma su tutto il territorio nazionale, alla creazione di fondi neri, «da destinare, quantomeno in Sicilia, alla mafia». L'azienda avrebbe fornito calcestruzzo di qualità inferiore a quello richiesto dalle imprese che eseguivano appalti pubblici. Questo sistema, per gli inquirenti, sarebbe stata «una strategia aziendale della Calcestruzzi, adottata su scala nazionale e gestita a mezzo, anche, del sistema informatico, con la consapevolezza dei vertici aziendali».

Ad inchiodare l'amministratore delegato e i dirigenti ci sono non solo i documenti acquisiti durante le perquisizioni effettuate negli stabilimenti siciliani e negli uffici della direzione di Bergamo, ma anche gli accertamenti tecnici effettuati su alcune opere edilizie, nonché le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia.


Se anche i francesi si arrendono ai rifiuti di Napoli
Maurizio Ricci su
la Repubblica

Chi pensa che Napoli, sepolta dalla spazzatura, stia scivolando nel Terzo Mondo è un ottimista istupidito dalle illusioni. Una delle più grandi città italiane, sotto il peso di tonnellate di rifiuti, è, in realtà, già sprofondata al di sotto del Quarto Mondo, quella costellazione di megalopoli-baraccopoli che, a colpi di 10-20 milioni di abitanti ognuna, sfigurano, i paesi ad urbanizzazione esplosiva dell´Africa, dell´Asia, dell´America latina, da Lagos a Calcutta, da San Paolo a Douala.
In queste città, con il loro contorno di slum e favelas, fogne a cielo aperto, strade precarie, infrastrutture fatiscenti, la raccolta e il trattamento dei rifiuti sono compiti difficili, spesso proibitivi. Però si fanno, a volte meglio, a volte peggio, ma esistono le competenze tecniche e le volontà politiche per gestire i rifiuti. A Napoli no, Napoli è più in là, al di là del Quarto Mondo, ormai in un buco nero su cui manca solo il cartello: irrecuperabile. Lo certifica la notizia che l´asta per il termovalorizzatore di Acerra, attorno a cui ruota tutta la strategia di trattamento dell´immondizia campana, è andata ancora una volta deserta. Hanno rinunciato i bresciani e i milanesi di A2A, il colosso lombardo dei servizi pubblici locali.
Ma, soprattutto, ha sbattuto la porta un gigante mondiale come Veolia. Il nome è nuovo, ma Veolia non è altro che l´ex Vivendi, a sua volta ex Compagnie Générale des Eaux. Dalla gestione delle acque è passata recentemente all´industria dei rifiuti, arrivando rapidamente in prima fila. Veolia è, oggi, l´azienda numero 2 al mondo per la gestione dei rifiuti, con un giro d´affari di 6,6 miliardi di euro nel 2005. Tratta, ogni anno, 53 milioni di tonnellate di spazzatura, per conto di quasi mezzo milione di clienti, grazie a oltre 80 mila dipendenti. In 35 paesi. Fra i quali ci sono Germania, Australia, Nuova Zelanda, Francia. Ma Veolia non tratta solo l´immondizia delle graziose villette di Wellington e Sydney o dei megaquartieri di edilizia popolare di Parigi o Berlino. Veolia lo fa anche nel pieno del Quarto Mondo, nelle megalopoli-baraccopoli dell´India, del Brasile, della Colombia, dell´Egitto. Accetta ogni giorno la sfida di San Paolo, del Cairo, dell´inferno urbano di Calcutta. Ha appena deciso di poter affrontare anche le difficoltà dell´Africa equatoriale, sbarcando in Camerun, a Douala e Yaoundé. E´ a Napoli che ha gettato la spugna: troppo difficile.
Troppo difficile, perché? I francesi hanno avuto la cortesia di spiegarlo. Non per motivi tecnici. E neanche economici. Perché mancano le condizioni politiche, hanno scritto. In buona sostanza, non ritengono affidabili le garanzie che forniscono politici e istituzioni. Il governo in crisi, certo, ma anche gli organi locali. E´ l´atto d´accusa più bruciante perché pone al centro della crisi dell´immondizia gli uomini, prima che le circostanze. Ma è difficile dare torto ai dirigenti di Veolia. Ieri, mentre il termovalorizzatore di Acerra ripiombava nel limbo delle imprese impossibili (chi c´è, dove non osa inoltrarsi Veolia?), la classe politica napoletana si mobilitava per un consiglio comunale che deve abbozzare un piano per la raccolta differenziata dei rifiuti. Tutti i protagonisti erano impegnati a rimpallarsi le responsabilità.

Paradossalmente, quando guardiamo crescere le montagne di spazzatura di Napoli, ne vediamo la parte migliore. L´ultima. Quella appena arrivata. Lì sotto, c´è ancora il primo sacchetto, fermo dal 29 dicembre. Sepolto da un mese, fra milioni di altri sacchetti, tutti potenzialmente una bomba biologica. Presto – soprattutto visti i tempi della crisi della spazzatura napoletana – arriverà il caldo. E, allora, l´emergenza può deflagrare.


Usa, ultima stretta sulla sicurezza
impronte di dieci dita alla frontiera
Via da ieri alla nuova procedura negli scali maggiori del Paese. E arriva anche il check out: i controlli verranno ripetuti all'uscita.
Mario Calabresi su
la Repubblica

NEW YORK - "Ten Fingerprints", la schedatura digitale dell'impronta di tutte e dieci le dita: è la nuova frontiera della sicurezza americana. Da ieri all'aeroporto di Chicago, da domani al Kennedy di New York, entro la fine dell'anno ad ogni ingresso negli Stati Uniti ogni cittadino straniero dai 14 ai 79 anni dovrà permettere l'archiviazione dei dati di tutti i suoi polpastrelli.

Finora si premevano soltanto i due indici su uno scanner che rilevava l'impronta digitale e la archiviava, dopo averla confrontata con i dati delle memorie dell'Fbi e del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. Da oggi, i dati biometrici di chi arriva in America verranno schedati nel database Ident, che già contiene 90 milioni di impronte e cresce al ritmo di 20 milioni ogni dodici mesi, e ci resteranno per 76 anni.

Robert A. Mocny, direttore dello "Us-visit program", l'organismo che gestisce la raccolta dei dati personali e registra l'entrata e l'uscita dagli Usa di ogni straniero, ci spiega che verrà rispettata la privacy ma poi racconta che le informazioni verranno condivise con l'Fbi, il Dipartimento di Stato, quello della Giustizia, il Pentagono, le polizie locali, la Guardia costiera, la Cia e tutte le agenzie di intelligence.

Perché dieci dita, non bastavano i due indici come in passato? Mocny parte a raffica: "Efficienza e sicurezza: queste nuove impronte digitali ci permettono di prevenire meglio l'uso di documenti falsi, proteggere i visitatori dal furto d'identità e fermare criminali e terroristi. Ora capita che i computer non siano in grado di distinguere due impronte simili e allora si passa alla comparazione fatta ad occhio da un agente, procedura che arriva a prendere mezz'ora. Con le dieci dita non si può più sbagliare".

L'altra novità allo studio per il 2008 è il check-out: il controllo all'uscita dal Paese. Oggi basta consegnare il cartoncino di ingresso alla linea aerea, ma questo non garantisce di archiviare con certezza la data e di controllare chi resta più a lungo del consentito, così si sta studiando di ripetere l'intera procedura di controllo anche a chi sta ripartendo, con conseguenti nuove code.



  31 gennaio 2008