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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 28-29 gennaio 2008


Perché Obama è la mia speranza
Come accadde negli anni Sessanta, oggi è il momento che sia una nuova generazione di giovani a prendere in mano le redini del paese e a dare una sferzata alla vecchia politica
Ted Kennedy su
la Repubblica

IO AVVERTO un cambiamento nell´aria. Tutte le volte che nel corso dell´anno appena trascorso mi è stato chiesto a chi avrei dato il mio appoggio alle primarie dei Democratici, la mia risposta è stata sempre la stessa: «Darò il mio appoggio al candidato che mi ispira, che ispira tutti noi, che può risollevare la nostra visione, fare appello alle nostre speranze, rinnovare la nostra fede in un principio: i giorni migliori del nostro Paese devono ancora arrivare». Adesso ho trovato quel candidato. Io credo che esista un candidato con doti straordinarie di leadership e carattere, che sono all´altezza delle straordinarie richieste di questo preciso momento storico.
Egli comprende quella che Martin Luther King Jr definì la "fiera urgenza del momento". Sarà un presidente che rifiuterà di lasciarsi intrappolare nei modelli del passato. È un leader che vede la situazione mondiale con chiarezza, senza cinismo. È un combattente, che si appassiona alla causa nella quale crede, senza demonizzare quanti hanno un´opinione diversa.

Conosciamo la storia di Barack Obama. Conosciamo il coraggio di cui ha dato prova quando così tanti sono rimasti in silenzio o si sono limitati a adeguarsi. Sin dall´inizio egli si è opposto alla guerra in Iraq. Non permettete a nessuno di mettere in dubbio questa verità.
Adesso, con Barack Obama, abbiamo un leader nazionale che ha dato all´America un tipo completamente nuovo di campagna, una campagna che non riguarda lui soltanto, ma tutti noi. Una campagna che riguarda il Paese che diventeremo, se riusciremo a sollevarci dalla vecchia politica che ci tiene divisi in gruppi distinti e che ci contrappone gli uni agli altri.
Ricordo molto bene un´epoca come questa. Erano gli anni Sessanta e io arrivai in Senato all´età di 30 anni. Avevamo un presidente che sapeva ispirare la nazione, specialmente i giovani, a cercare una nuova frontiera. Quei giovani da lui ispirati marciavano, organizzavano sit-in, protestavano contro la guerra del Vietnam e servivano con onore in quella guerra pur essendo loro contrari. Si resero conto che quando chiesero che cosa avrebbero potuto fare per il loro Paese, potevano cambiare il mondo.

Furono i giovani a lanciare il primo Giorno della Terra, e a lanciare un primo forte avvertimento per proteggere l´ambiente. Furono i giovani a farsi promotori della causa dei diritti civili e dell´eguaglianza per le donne. Furono i giovani a unirsi ai Corpi di Pace e a mostrare al mondo il volto americano della speranza. Durante le celebrazioni per il quinto anniversario dei Corpi di Pace ricordo di aver chiesto a uno di quei giovani perché si fossero tutti presentati volontari e non dimenticherò mai la sua risposta: «Questa è stata la prima volta in cui qualcuno ci ha chiesto di fare qualcosa per il nostro Paese».
Oggi siamo qui e si ripresenta quella stessa situazione. Io oggi avverto quello stesso senso di aspirazione, quella stessa frenesia di procedere, di andare oltre, di portare oltre l´America. Lo avverto non soltanto nei giovani, ma in tutto il nostro popolo. E in Barack Obama avverto non soltanto il coraggio, ma anche la possibilità di speranza per l´America.

Con Barack Obama chiuderemo una volta per tutte il capitolo della vecchia politica degli scontri di razza contro razza, di genere contro genere, di gruppo etnico contro gruppo etnico, di "normali" contro gay. Con Barack Obama chiuderemo la porta una volta per tutte alla vecchia economia che ha annientato i poveri e lasciato la middle classe più povera e meno sicura. Egli offre una strategia di benessere, così che l´America possa ancora una volta essere prima nel mondo per i migliori standard di qualità della vita. Con Barack Obama noi spezzeremo la vecchia impasse e finalmente faremo dell´assistenza sanitaria in America quello che dovrebbe davvero essere, un diritto fondamentale di tutti, non soltanto un costoso privilegio di pochi. Faremo degli Stati Uniti il leader incontrastato e non il grande intralcio nella lotta contro il riscaldamento globale. Infine, con Barack Obama, porremo fine alla guerra in Iraq, una guerra contro la quale egli si è sempre schierato, che è costata la vita di migliaia di nostri figli e nostre figlie, una guerra che l´America non avrebbe mai dovuto combattere.

È già esistito un altro periodo nel quale un giovane politico si è candidato alla presidenza sfidando l´America a valicare una Nuova frontiera.

E così è oggi per Barack Obama. Egli ha acceso una fiammella di speranza nella "fiera urgenza del momento". Io credo che un´ondata di cambiamento si stia spostando attraverso l´America. Se non gireremo la testa, se oseremo mantenere la rotta verso i lidi dove alberga la speranza, insieme supereremo le divisioni del passato e troveremo il luogo nel quale costruire l´America del futuro.
E´ giunta l´ora di una nuova generazione di leader. È giunto il momento di Barack Obama.

(Traduzione di Anna Bissanti)


Staino sull'Unità Staino sull'Unità Staino sull'Unità
la crisi secondo Staino

La crisi di governo una notizia tre volte cattiva
Jean-Marie Colombani su
La Stampa

Com'è possibile? Come si può, nel mezzo di una gravissima crisi finanziaria internazionale, di cui nessuno sa ancora dire con certezza se è appena cominciata, né quali saranno le conseguenze per l'Europa, come ci si può privare del lavoro di un governo competente, che ha preso decisioni coraggiose e che era guidato da una personalità di cui tutta l'Europa conosce la saggezza, la probità e la tenacia?

Certo, sapevamo tutti che la coalizione di centro-sinistra, vittoriosa meno di due anni fa, era fragile, troppo fragile. A nessuno era sfuggita la manifesta ostilità del Vaticano a un governo che avrebbe voluto modernizzare, in senso più laico, la legislazione italiana: e il governo cade per la defezione di un piccolo partito cattolico. Né si poteva ignorare lo choc provocato nell'opinione pubblica italiana dalla scoperta che alcuni dei fondamentali dell'economia nazionale sono ormai peggiori di quelli della Spagna; o dal trauma causato dall'inverosimile crisi della spazzatura di Napoli: tutte questioni logicamente destinate ad alimentare il risentimento di quella stessa opinione pubblica.

Ciò non toglie che per la seconda volta nella storia recente Romano Prodi aveva incominciato a rimettere in ordine i conti dell'economia italiana, succedendo questa volta a un periodo particolarmente lassista, quello di Silvio Berlusconi.

L'uscita di scena di Prodi è dunque tre volte una cattiva notizia. Innanzitutto per l'Europa: la prima cosa che fece dopo aver vinto le elezioni fu di proclamare il «ritorno» in Europa dell'Italia, senza la quale non esisterebbe l'Unione Europea; l'Italia aveva dunque ripreso il proprio posto dopo l'allineamento di Berlusconi sulle posizioni del suo amico Bush, nella stagione del peggior governo americano. Dove sarà domani l'Italia, mentre la Ue ne ha disperatamente bisogno per essere rilanciata?

È una cattiva notizia per le sinistre europee: la sintesi tentata da Romano Prodi tra una sinistra riformista e una sinistra estrema alla resa dei conti è fallita; come sempre gli estremisti hanno giocato contro l'interesse dei loro elettori nel nome di posizioni che rappresentano promesse di regressione.


La caduta di Prodi, infine, è una cattiva notizia per l'Italia che aveva recuperato la sua immagine e ora si ritrova prigioniera dei cliché negativi sulla sua vita politica, così difficile da interpretare da scoraggiare anche chi è dotato della migliore volontà. Esempio: il caso Mastella, nessuno dovrebbe dubitare che l'ex Guardasigilli sia una persona realmente onesta. Allora, perché Mastella? Sarebbe molto importante sapere perché e attraverso chi un missile armato per distruggerlo è stato lanciato contro di lui. Risultato: coloro che hanno mirato hanno anche affondato Prodi, e con lui una certa idea dell'Italia.


I guasti sono molti
Valentino Parlato su
il Manifesto del 26 gennaio

A Prodi si può rimproverare altro, certo non di appartenere alla razza italica dei furbetti. Era il premier d'una maggioranza nella quale ha creduto, non era disposto a cercarne un'altra - questo infatti sarebbe stato domandare o accettare un reincarico senza passare dal voto del Senato. Il suo progetto è caduto, è caduto come progetto politico. Il tentativo di Fassino di dire che non c'è stata, nella perdita della maggioranza, nessuna causa politica ma solo un nodo tecnico, di regole elettorali, ha dato la misura di quanto un dirigente dell'ex Pci sia lontano dalla percezione del paese, e dello stesso parlamento. È stato facile a Fini, e dal lato opposto a Barenghi, obiettargli che la sua maggioranza si è formata contro Berlusconi ma è stata incapace di reggere a un progetto comune.
Non che il governo di centrosinistra non abbia fatto diverse cose, e anche buone, come la caccia all'evasione fiscale, ma nulla che potesse toccare l'asse della società ereditata dal caf e dal Cavaliere. Qualche passo in politica estera, non si è inoltrato fino al ripudio di quella guerra che la disastrosa amministrazione Bush ha reso semplicemente di buon senso.
Non si è osato metter mano al conflitto di interessi, per cui potremmo ritrovarci Berlusconi forte come prima delle ultime elezioni che lo hanno di misura battuto. Neppure si è fatta una legge elettorale che permettesse di liquidare l'attuale, definita perfino dal suo autore, Calderoli, una porcheria. E in termini di crescita e di redistribuzione sociale, nel paese dove le inuguaglianze sono diventate le peggio dell'Europa occidentale, ai lavoratori e ai pensionati - per non parlare dei marginali - sono state mollate solo briciole, con un pauroso allargarsi dell'impoverimento effettivo.
Questo punto, centrale, era iscritto nella maggioranza di Prodi, che non è stata messa in causa, per senso di responsabilità, dal sottrarsi dei rappresentanti dei ceti più deboli, ma per opera della destra di Mastella e di Dini, decisi a puntare su maggioranze diverse. Costoro non intendono cedere in nulla che somigli a una redistribuzione del reddito e a una diminuzione del privilegio che si possa definire modestamente riformista. Ma questo è un limite anche dell'ideologia di Prodi e della sua visione dell'Europa, analoga a quella dei Barroso, Almunia e Solana, e che ha a fondamento la competitività, che anche il Pd ha introiettato. Competitività vuol dire, nel mondo attuale, gareggiare non nell'eccellenza del prodotto, ma nella diminuzione del costo del lavoro - inseguendo su questo terreno la Cina e l'India. E stringere la borsa sulla spesa sociale.



Bankitalia: fermi dal 2000 i redditi dei dipendenti
su
Il Sole 24 Ore

Sono fermi dal 2000 i redditi delle famiglie con il capofamiglia lavoratore dipendente. Lo sostiene la Banca d'Italia nel supplemento al Bollettino statistico sui bilanci delle famiglie italiane nel 2006. «Il miglior andamento delle famiglie con capofamiglia dipendente fra il 2004 e il 2006 - afferma l'istituto centrale guidato da Mario Draghi - compensa soltanto in parte la riduzione osservata fra il 2000 e il 2004: per il periodo 2000-2006 il reddito di queste famiglie in termini reali è infatti rimasto sostanzialmente stabile (0,3%) rispetto a una crescita del 13,1% delle famiglie con capofamiglia autonomo».

«Il 20% delle famiglie - sottolinea ancora Palazzo Koch - ha un reddito annuale inferiore ai 15.334 euro (circa 1.278 euro al mese), mentre metà delle famiglie ha percepito un reddito non superiore ai 26.062 euro. Il 10% delle famiglie più agiate, invece, ha un reddito superiore ai 55.712 euro».


Debiti in aumento, 60% in mutui
Tra il 2004 e il 2006 il numero delle famiglie italiane indebitate è cresciuto dal 24,6 al 26%. Si tratta, segnala Bankitalia nell'indagine sui bilanci delle famiglie italiane, di famiglie del Centro-Nord, di giovane età, con titolo di studio più elevato e con capofamiglia lavoratore indipendente. I mutui costituiscono il 60% del totale dell'indebitamento mentre quelli per acquisto di beni di consumo solamente il 10% del totale. Secondo Palazzo Koch l'indebitamento delle famiglie italiane «seppure in crescita negli ultimi anni è tuttora contenuto nel confronto internazionale. L'incremento nel periodo più recente è stato influenzato, tra l'altro, dal basso livello dei tassi di interesse e dallo sviluppo dell'industria finanziaria, che ha reso più ampia e flessibile l'offerta di prodotti per le famiglie, per esempio per il credito al consumo o per l'acquisto di attività reali».



Un Paese dell'Ottocento
Bruno Ugolini su
l'Unità

Una fotografia in bianco e nero quella scattata dalla Banca d'Italia. Come i ritratti d'altri tempi, frutto di tecnologie poco avanzate. Così vediamo da una parte famiglie che arrancano. Una su quattro è indebitata, una su due deve cavarsela con meno di 26.000 euro all'anno. Questo è il nero. Poi c'è il bianco: esiste un ristretto gruppo di italiani, il dieci per cento, che, tra case e titoli finanziari possiede il 45% della ricchezza di tutti gli italiani. È l'elite di quelli che ce l'hanno fatta. La vera “Casta”. Il vertice di una piramide che si regge su una massa sterminata. Sembra un ritratto ottocentesco.

Un ritratto che fa rabbrividire. Soprattutto pensando che queste stesse famiglie, quelle dei 26 mila euro all'anno, magari avevano coltivato di recente una speranza. Il governo di Romano Prodi, stava per affrontare una piattaforma dei sindacati che parlava appunto di redditi, fisco, prezzi, tariffe. Forse era la volta buona, anche se in ritardo. Per ridare dignità a tanti dopo aver cominciato a risanare i conti del Paese. Era l'inizio di un'inversione di rotta. È stata bloccata, spenta.

Le cifre sopra riportate sono ancora più eloquenti se si considera la fonte. Non provengono da uno dei tanti istituti di ricerca magari accusati di scarsa credibilità. La fonte è la Banca d'Italia, una specie di riconosciuto massimo tribunale del sapere economico. Che ha pronunciato, con le sue cifre asettiche, una requisitoria. Ma chi sono i responsabili di questa Italia così iniquamente diseguale? Perché i redditi delle famiglie dei lavoratori (non di altre categorie sociali) sono cresciuti in sei anni, dal 2000 al 2006, dello 0,96%? Una cifra infima.

Per dare una risposta compiuta bisognerebbe rifare il cammino di questi anni tra governi scialacquoni che abbassavano certo le tasse di quel 10 per cento al vertice della piramide, ma per poi non tenere sotto freno i conti pubblici. Fino all'ultima esperienza governativa che al giusto rigore su quei conti, ha accompagnato una seria e fruttuosa lotta agli evasori fiscali ma ha avuto dubbi e titubanze nell'affrontare il doveroso capitolo della tassazione delle rendite finanziarie (sempre quelle del 10 per cento). Un tabù intoccabile.

Ed ora? Ora ci penserà la pimpante coalizione di Berlusconi, Mastella, Fini, e quant'altri? È anche di fronte a questi dati sociali assordanti che bisogna riflettere. La “crisi” è anche questa. Non si può, così, non sperare nei tentativi, in primo luogo quello del Capo dello Stato, di rendere meno pesanti non solo le vicende di oggi ma anche quelle di domani. Per impedire che si prosegua nel ricorso a impianti elettorali che producono governi poco produttivi per questa Italia. E soprattutto per quelle famiglie in attesa descritte dal rapporto della Banca d'Italia.


Un Paese sempre più disuguale
Tito Boeri su
La Stampa

Se c'è ancora qualcuno nella nostra vetusta e autoreferenziale classe dirigente che si propone di capire il Paese, farà bene a studiare con attenzione i dati Bankitalia sui redditi e la ricchezza della famiglie italiane, di cui ieri abbiamo ricevuto l'ultima puntata. Assieme ai dati Istat pubblicati due settimane fa ci spiegano il perché del disagio diffuso, delle percezioni di impoverimento, di molte famiglie italiane.

I redditi degli italiani, soprattutto quelli dei lavoratori dipendenti, sono rimasti al palo dall'inizio del nuovo millennio. I governi che si sono da allora succeduti non sono riusciti né a far ripartire il Paese, né ad abbassare le tasse. Per questo, il reddito disponibile delle famiglie non è aumentato. C'è stata soltanto una ridistribuzione del reddito: dal lavoro dipendente al lavoro autonomo nel periodo in cui c'erano condoni di tutti i tipi e di più; parzialmente in senso contrario, dal lavoro autonomo al lavoro dipendente, nel periodo 2004-2006. Il saldo da inizio 2000 è, comunque, favorevole al lavoro autonomo, i cui redditi sono cresciuti in termini reali del 13,1 per cento rispetto allo 0,3 per cento dei lavoratori dipendenti. Nessuno, proprio nessuno, sembra invece aver pensato ai giovani e alle famiglie numerose, con figli. Tra i giovani è aumentata la povertà (salita dal 18 al 19 per cento in sei anni, tra le famiglie con capofamiglia con meno di 30 anni) proprio mentre diminuiva per tutte le altre fasce di età. La povertà tra i giovani sarebbe oggi ancora più alta se queste famiglie facessero più figli: lo si vede comparando la dinamica dei redditi pro capite e dei redditi equivalenti (corretti per la dimensione del nucleo famigliare).

I giovani sono più poveri non perché rinunciano a lavorare: i cosiddetti «bamboccioni», gli under 30 che vivono ancora con i loro genitori, sono diminuiti. Il fatto è che i giovani, per uscire di casa, devono porsi in condizioni di crescente fragilità finanziaria. In un Paese che concentra ricchezza nel patrimonio immobiliare e in cui i redditi da lavoro, soprattutto dei giovani, non crescono, ci vogliono oggi più di 12 anni di salario per comprarsi una casa (ce ne volevano 8 solo 12 anni fa). Non rimane perciò che indebitarsi versando poi (come avviene per una famiglia media con capofamiglia con meno di 40 anni) un quinto del proprio reddito per pagare le rate del mutuo.

C'è una ragione in più allora per andare al voto con una nuova legge elettorale: bisogna permettere subito ai 16enni di votare. Sarebbe uno shock salutare, un'iniezione di realtà. Vorrebbe dire avere un milione e mezzo di votanti in più, potenzialmente decisivi per l'esito delle elezioni. I partiti sarebbero, almeno per una tornata elettorale, obbligati a pensare di più a loro.

Nel frattempo le forze sociali possono dare il buon esempio, legando più strettamente il salario alla produttività. Permetterà ai giovani di vedere crescere più rapidamente il proprio reddito mentre fanno crescere quello di tutti. Per riformare la contrattazione salariale non c'è bisogno di un governo. Possono farlo sindacato e organizzazioni di categoria domani, in piena crisi. Basta volerlo.


Le mani della 'ndrangheta sulla sanità
Diciotto arresti eccellenti in Calabria. Smantellato il «sistema» di Mimmo Crea, uomo della Nuova Dc
Enrico Fierro su
l'Unità

Ha cambiato partiti, schieramenti, maggioranze e politici dei riferimento. Lo ha eletto il centrodestra, lo hanno corteggiato uomini del centrosinistra come Sergio D'Antoni e Franco Marini. È stato in lista alle scorse regionali calabresi con Agazio Loiero, ma prima era stato assessore con la destra. Ora è stato accolto nelle braccia della Nuova Dc di Gianfranco Rotondi.

La sua speranza? Tornare nelle stanze dei bottoni della Regione, quando la stella di Berlusconi e soci splenderà di nuovo sull'Italia e la Calabria. È Domenico Crea, Mimmo, impareggiabile prototipo di politico del Sud. Da ieri è in galera con l'accusa pesantissima di essere il punto di riferimento delle cosche di 'ndrangheta della fascia Jonica. Era un uomo a disposizione, insomma, un politico amico degli amici, uno dei tanti nella martoriata Calabria.

Con boss del calibro dei Morabito di Africo, dei Cordì di Locri, degli Zavettieri e dei mammasantissima di Bova Marina, Crea faceva affari. Tutti insieme, mafiosi, politici, alti funzionari della Regione, medici, si spartivano i miliardi della sanità pubblica. Con lui sono finiti in galera il figlio Antonio, direttore sanitario della clinica di famiglia, il direttore amministrativo dell'ospedale di Melito Porto Salvo, un operaio forestale organico ad una cosca mafiosa, un collaboratore di Crea, Iacopino Antonino. E in più il dottor Peppe Pansera, genero di Giuseppe Morabito, boss di Africo detto «Tiradrittu». Li arrestarono nel 2004 in un casolare dell'Aspromonte.

Mafia, politica e sanità. Sullo sfondo un omicidio politico che ha sconvolto la Calabria, quello di Franco Fortugno, medico ed esponente della Margherita. Lo ammazzarono il 16 ottobre del 2005. Alessandro Marcianò e suo figlio Giuseppe sono sotto processo con l'accusa di essere i mandanti. Anche loro compaiono nell'elenco dell'operazione «Onorata sanità». Fortugno, scrivono i pm Colamonici e Andrigo, «era un ostacolo» per gli affari di Crea e dei suoi accoliti. «Per questo andava eliminato, rimosso». Fortugno era un politico fuori dai giochi affaristico-mafiosi, un personaggio scomodo, era stato eletto soffiando il posto di consigliere regionale a Mimmo Crea.

La concezione della politica di Crea, invece, è diversa. Ecco la sua graduatoria del valore degli assessorati. «La sanità è prima, l'agricoltura e forestazione seconda, le attività produttive terza; in ordine di budget. sette mila miliardi... con la sanità. Agricoltura e forestazione assieme ci sono 4500 miliardi l'anno da gestire... perché la delega è tua, quindi tu sei responsabile di tutto, dalla programmazione alla gestione. Ogni assessorato hai almeno 5, 6 settori da sviluppare, uno se lo prende uno e un altro, sempre sugli indirizzi che do io... qualcuno segue questa linea quell'altro segue quell'altra, l'altro segue quell'altra (...) sono stato chiaro? oppure parlo arabo io?». Insomma, si va in Consiglio regionale non per quei quattro soldi (10mila euro al mese), ma per fare affari grossi. «Ma no con uno stipendio, che cazzo te ne fotte dello stipendio! (...) cioè ma quando hai me cretino tu che puoi fare? ti prendi i 10 mila euro di consigliere? e che cazzo sono?».

E come poteva averne l'uomo che secondo i magistrati dell'Antimafia reggina, in Calabria ha creato un vero e proprio «sistema». Antonio è suo figlio, è medico, dirige Villa Anya, la clinica di famiglia. «Noi dobbiamo partire ora a fare politica, a farci le nostre mangiate, le nostre nuove amicizie», dice dopo la mancata elezione del padre sconfitto per una manciata di voti proprio da Francesco Fortugno. «Che se uno lo sapeva prendeva cento milioni - dice al telefono con un amico - e se li comprava».

Il controllo delle stanze della regione dove si distribuiscono i miliardi della sanità è l'assillo della famiglia Crea. Peppino Biamonte, alto dirigente dell'assessorato regionale, risponde sempre «agli ordini», quando l'onorevole lo chiama. Crea: «Peppino, io sono qua con Nicola Adamo» (ds, all'epoca vicepresidente della giunta Loiero, ndr). Biamonte: «Stiamo lavorando sulla programmazione 2005-2006, vedi tu come è meglio». Poi Biamonte si mostra allarmato per la candidatura della vedova Fortugno alla Camera. Crea lo rassicura.

L'onorevole poteva tutto. I boss lo sostenevano. La sua villa Anya, una residenza per anziani, riceve l'accreditamento da parte della Regione e del servizio sanitario nazionale, subito dopo l'omicidio Fortugno. Dagli assessorati di Catanzaro gli stanziano 500 mila euro con un gioco delle tre carte. È il solito dottor Biamonte a fare il miracolo: firma una nota con la quale dirotta la somma dalla spesa farmaceutica alla clinica dei Crea.

Falsi, truffe aggravate, omissioni di soccorso e morti sospette a Villa Anya. La «clinica degli orrori», la definisce il procuratore Scuderi in una conferenza stampa. I pazienti morivano in clinica ma la morte veniva certificata in ospedale. Molti malati non venivano curati adeguatamente. Il direttore sanitario, figlio di Crea, spesso era fuori: dettava le cure alle infermiere. «Questa - dice di una anziana paziente una assistente - la facciamo morire noi».


LAVORO E CRIMINALITA'
Mercati neri e regole deboli
Pietro Ichino sul
Corriere della Sera

In piazzale di Porta Genova, nel cuore di Milano, ormai da tempo ogni sabato si attiva un mercato di indumenti usati illegale: decine di poveri venditori irregolari, per lo più immigrati, stendono la loro mercanzia di seconda mano per terra, intralciando il passaggio di pedoni e veicoli. Ma è un mercato socialmente utile; qui centinaia di compratori altrettanto poveri trovano di che vestirsi e proteggersi dal freddo a prezzi stracciati: i soli che essi possano permettersi. Quanto ai vigili urbani, quando passano di lì e non sono intenti in fitte chiacchiere tra loro, essi sono costretti da un singolare torcicollo a guardare dall'altra parte.
La scelta, dunque, è di lasciar vivere questo mercato delle pulci. Ma, allora, perché non dettare pragmaticamente regole coerenti con questa scelta, imponendo i soli limiti — fiscali, di sicurezza e di viabilità — che quell' economia povera può effettivamente sopportare?

Anche il mercato del lavoro irregolare prospera da decenni nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno. Alla periferia di Napoli, per esempio, «le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. (..) Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. (..) Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da 500 a 900 euro. (..) Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono neppure i lavoratori (..). Non c'è contratto, non c'è burocrazia... » (da Gomorra, di Roberto Saviano). Qui le regole le detta e le fa rispettare la Camorra.
Se nel nostro Mezzogiorno il lavoro nero è una realtà radicata e onnipervasiva (si parla di un 25% dell'economia italiana!), non è per la difficoltà di stanarlo: nella maggior parte dei casi chiudere quelle aziende sarebbe un'operazione di polizia facile come chiudere il mercato delle pulci. E qui non si tratta di indumenti usati, ma di lavoro umano: abbandonarlo al degrado di un mercato senza regole non è solo sciatteria, è inciviltà gravissima.
Il fatto è che siamo tutti convinti, pur senza ammetterlo, che l'economia meridionale oggi non è in grado di reggere gli standard negoziati a Roma: imporli col rigore dovuto, qui, significherebbe cancellare centinaia di migliaia di posti di lavoro, sia pur di lavoro nero. Ma, allora, invece che litigare a Roma per trovare uno standard minimo che vada bene per le zone più forti dell'economia nazionale e per quelle più deboli, perché non consentire che nelle prime si contrattino minimi più alti e nelle seconde più bassi, tenendo conto non solo di un costo della vita inferiore nel Sud rispetto al Centro-Nord, ma anche e soprattutto della possibilità di imporre davvero il rispetto rigoroso delle regole negoziate? Sarà sempre meglio che affidare — come facciamo ora — centinaia di migliaia di lavoratori al governo della criminalità organizzata.


La grande beffa del gas fantasma
"Fino al 15% pagato e non consumato"
Ecco la perizia sui contatori alterati. Le membrane dei misuratori hanno perso elasticità. Ma non sono state sostituite. L´accusa dei pm: truffa. Coivolto il gruppo Eni, Aem, Arcalgas. Ricavo illecito per mezzo milione di metri cubi.
Walter Galbiati Emilio Randacio su
la Repubblica

MILANO - Vecchi e malconci. Ma tanto vecchi e tanto malconci da distorcere i dati che registrano. Ovviamente a danno dei consumatori. Sono apparsi così alcuni contatori del gas installati nelle case degli italiani al perito che per conto della procura di Milano ha dovuto metterli alla prova. Un campione piccolo, ma tuttavia significativo da poter trarre conclusioni su scala nazionale. Ed è emerso che le bollette di milioni di famiglie, negli ultimi anni, sarebbero salite vertiginosamente non solo per colpa del caro petrolio, ma anche per una truffa fatta e finita. Un rincaro "illecito" che in media si aggirerebbe intorno al 10%, ma che si spinge fino a picchi del 15%. La stima è di 500 milioni di metri cubi di gas pagati, ma mai erogati.
Il documento dei consulenti è stato depositato ieri mattina all´interno di un inchiesta condotta dai pubblici ministeri Sandro Raimondi e Letizia Mannella, che riguarda alcuni nomi di spicco dell´industria energetica nazionale.

«Dall´esame dei valori dell´errore riscontrati nei misuratori - si legge nella perizia da ieri a disposizione degli indagati - sottoposti a collaudo/verifica metrologica si evidenzia che: i misuratori con membrane naturali denunciano una deriva positiva di oltre il 6% medio con punte del 15% e i misuratori con membrane sintetiche mantengono valori di errore nei limiti tollerabili».
Per capire i numeri è necessario imprimersi nella memoria la conclusione della perizia: «Tutti i misuratori del campione, costruiti con membrane di materiale non sintetico, conteggiano al cliente finale un volume di gas maggiore di quello effettivamente erogato e le differenze in taluni casi sono di entità rilevante». Il motivo? Le membrane naturali nel tempo hanno perso la loro elasticità, «impedendo al misuratore di conteggiare l´effettivo volume ciclico.
Il problema diventa poi numerico, perché stando a una stima effettuata dai procuratori Mannella e Raimondi, i contatori in Italia con le membrane naturali, sono quantificati in circa cinque milioni.
La perizia ha preso a campione 55 contatori per uso domestico. Un numero esiguo, certo, ma, sostiene l´accusa, ben rappresentativo di quella che è la realtà su tutto il territorio. Alcuni non potevano essere nemmeno analizzati. Dei 42 passati in rassegna, tutti quelli con membrana naturale, ovvero una trentina, hanno manifestato margini di errore superiori al consentito, raggiungendo il picco del 15,2% di gas non erogato rispetto al pagato. Se le stime del perito della procura di Milano fossero veritiere ed estendibili, le reti di fornitura del gas, somministrerebbero mezzo miliardo di metri cubi di carburante in meno all´anno rispetto a quello che si farebbe pagare. Cifre spaventose, e, comunque, oggetto dell´indagine. Ma che potrebbero risultare anche per difetto, visto che la perizia non ha potuto includere misuratori ancora più datati, risalenti addirittura agli Anni 50/60, dei veri oggetti da collezione ancora in funzione e per lo più collocati all´interno delle abitazioni.

Che qualcosa non torni lo si deduce anche dalla circolare dell´Italgas, datata 14 dicembre scorso, a inchiesta ormai avviata da tempo. Si informa gli utenti del «piano di sostituzione dei contatori volumetrici». L´Italgas ha previsto di rinnovare quegli strumenti «aventi una età di fabbricazione maggiore ai 25 anni alla data del 31 dicembre 2006». In totale, il piano prevede la sostituzione, già iniziata, di 180mila contatori all´anno per 5 anni. Quindi, solo per la competenza di Italgas, sarebbero 900mila quelli ritenuti vecchi, che per l´accusa sarebbero proprio quelli soggetti a una erogazione irregolare ai danni dei clienti.



  29 gennaio 2008