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sulla stampa
a cura di G.C. - 26 gennaio 2008


Così muore il centrosinistra
Ezio Mauro su
la Repubblica

Nemmeno due anni dopo il voto che ha sconfitto Berlusconi e la sua destra, Romano Prodi deve lasciare Palazzo Chigi e uscire di scena, con il suo governo che si arrende infine al Senato dove Dini e Mastella gli votano contro, dopo una settimana d'agonia. È lo strano - e ingiusto - destino di un uomo politico che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader.

Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica - il centrosinistra - che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana.

Ciò che è finito davvero, infatti, è l'idea di un'ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l'intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un'ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani.

Quell'ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile.

I risultati positivi di un governo che ha rovesciato il proverbio, razzolando bene mentre continuava a predicare male, non sono riusciti a fare massa, a orientare un'opinione pubblica ostile per paura delle tasse, spaventata dalle risse interne alla maggioranza, disorientata dalla mancanza di un disegno comune capace di indicare una prospettiva, un paesaggio collettivo, una ragione pubblica per ritrovare il senso di comunità, muoversi insieme, condividere un percorso politico.

Anche le cose migliori che il governo ha fatto, sono state spezzettate, spolpate e azzannate dal famelico gioco d'interdizione dei partiti, incapaci di far coalizione, di sentirsi maggioranza, di indicare un'Italia diversa dopo i cinque anni berlusconiani: ai cittadini, le politiche di centrosinistra sono arrivate ogni volta svalutate, incerte, contraddittorie e soprattutto depotenziate, come se la rissa interna - che è il risultato di una mancanza di cultura comune - avesse succhiato ogni linfa.

Fuori dal recinto tortuoso del governo, la destra non ha fatto molto per riconquistarsi il diritto di governare. Le sue contraddizioni sono tutte aperte, e la crisi della sinistra regala a Berlusconi una leadership interna che i suoi alleati ancora ieri contestavano. Ma la destra, questo è il paradosso al ribasso del 2008, è in qualche modo sintonica e addirittura interprete del sentimento italiano dominante, che è insieme di protesta e di esclusione, forse di secessione individuale dallo Stato, probabilmente di delusione repubblicana, certamente di solitudine civica. Nella grande disconnessione da ogni discorso pubblico, che è la cifra nazionale di questa fase, il nuovo populismo berlusconiano può trovare terreno propizio, perché salta tutte le mediazioni, dà agli individui l'impressione di essere cercati dalla politica e non per una rappresentanza, ma per una sintonia separata con la leadership, una vibrazione, un'adesione, ad uno ad uno.

Intorno si è mossa e si muove la gerarchia cattolica, che ormai lascia un'impronta visibile non nel discorso pubblico dov'è la benvenuta, ma sul terreno politico, istituzionale e addirittura parlamentare, dove in una democrazia occidentale dovrebbe valere solo la legge dello Stato e la regola di maggioranza, che è la forma di decisione della democrazia. Un'impronta che sempre più, purtroppo, è quella di un Dio italiano fino ad oggi sconosciuto, che non si preoccupa di parlare all'intero Paese ma conta le sue pecore ad ogni occasione interpretando il confronto come prova di forza - dunque come atto politico - , le rinchiude nel recinto della precettistica e se deve marchiarle, lo fa sul fianco destro.

Un contesto nel quale poteva reggere soltanto una politica in grado di esprimere una cultura moderna, cosciente di sé, risolta, capace di nascere a sinistra e parlare all'intero Paese. Tutto questo è mancato, per ragioni evidenti. La vittoria mutilata del 2006 ha messo subito il governo sulla difensiva, preoccupato di munirsi all'interno, col risultato di una dilatazione abnorme di ministri e sottosegretari. Ma i partiti, mentre si munivano l'uno contro l'altro, si disconnettevano dal Paese. Nel loro mondo chiuso, hanno camminato a passo di veti, minacce e ricatti, indebolendo la figura dello stesso Presidente del Consiglio, costretto a mediare più che a indirizzare.

Oggi che Mastella ha firmato un contratto con il Cavaliere e Dini ha onorato la cambiale natalizia, risulta evidente che Prodi salta perché è saltato quell'equilibrio che univa i moderati alle due sinistre, e come tale poteva rappresentare la maggioranza dell'Italia contemporanea. Tuttavia, senza il trasformismo (non nuovo: sia Dini che Mastella sono ritornati infine a casa) Prodi non sarebbe caduto. Barcollando, il governo avrebbe ancora potuto andare avanti, e questa è la ragione che ha spinto il premier ad andare al Senato, per mettere in piena luce sia la doppia defezione da destra e verso destra, sia l'assurdità di una legge elettorale che dà allo stesso governo la vittoria alla Camera e la sconfitta al Senato.

Da qui partirà il presidente Napolitano con le consultazioni, nella sua ricerca di consolidare un equilibrio politico e istituzionale che ritrovi un baricentro al sistema e al Paese. Il Capo dello Stato dovrà dunque tentare, col suo buonsenso repubblicano, di correggere queste legge elettorale prima di riportare il Paese al voto. La strada è quella di un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato Marini, formato da poche personalità scelte fuori dai partiti, sostenuto dalle forze di buona volontà per giungere al risultato che serve al Paese.

Riformare la legge elettorale, e se fosse possibile, riformare anche Camera e Senato, cambiando i regolamenti, riducendo il numero dei parlamentari, correggendo il bicameralismo perfetto. Un governo non a termine, ma di scopo.

Che può durare poco, se i partiti sono sinceri nell'impegno e responsabili nelle scelte, col Capo dello Stato garante del percorso e dell'approdo.
Berlusconi è contrario a questa soluzione perché vuole votare al più presto, con i rifiuti per strada a Napoli (altra prova tragica d'impotenza del centrosinistra, locale e nazionale), con piazza San Pietro ancora calda di bandiere papiste, con il volto di Prodi da esibire in campagna elettorale come un avversario già battuto, in più in grado di imbrigliare l'avversario vero, che è da oggi Walter Veltroni.


Al voto con nuove regole
Giulio Anselmi su
La Stampa

Romano Prodi è caduto dopo tante mezze crisi superate a fatica, al 617° giorno di Palazzo Chigi, per implosione della mediocre coalizione che l'aveva sostenuto, in un quadro di trattative sottobanco, insulti, volgarità e sospetti dai quali ha cercato di prendere le distanze. È caduto da combattente, con dignità e fermezza, dimostrandosi, al pari del suo avversario-coetaneo nell'altro polo, Silvio Berlusconi, il miglior campione della sua parte, capace di una visione del Paese né mediocre né chiusa al futuro.

Ma è caduto e raramente, se non nella letteratura e nelle narrazioni trasfigurate dalla Storia, la sconfitta porta con sé la grandezza. Certo, non nella politica italiana, dove gli ultimi giorni sono stati caratterizzati da racconti di ogni genere di scambio e nessuno è andato esente dai peggiori sospetti fino alla sceneggiata volgare fatta di corna, sputi e insulti avvenuta ieri pomeriggio al Senato: ennesima dimostrazione del livello di parlamentari che si ammantano del primato della Politica per poter continuare a nominare bidelli e primari.

Nelle ore in cui l'amarezza degli sconfitti si mescola alle scene di giubilo di chi voleva a tutti i costi "Prodi a casa" - e la complessità dei nuovi scenari non divide nettamente, tra destra e sinistra, entusiasmo e costernazione - dobbiamo constatare che non assistiamo a una normale caduta di governo, ma a una crisi di sistema: col retaggio di un futuro avvelenato dalle vendette innescate dalla tenace resistenza prodiana. I fatti della politica, come dell'economia, sono frutto in parte della realtà, in parte della sua percezione. È inutile addentrarsi in questo complesso esplosivo per comprendere che, dietro la voglia di elezioni e di cambiamento di gran parte dell'opinione pubblica, c'è un filo conduttore fatto di aspettative deluse, discredito, desiderio che i membri della nomenklatura vadano via.

Quello di Prodi non è stato certo il peggior governo del dopoguerra, anche se i bilanci fatti dall'ultimo premier sono frutto di un'elevata autostima e delle comprensibili esigenze della propaganda piuttosto che di analisi realistiche. Il ministero ha commesso errori clamorosi, come l'indulto, e ha esitato su importanti temi civili, ma ha meriti reali sul fronte dell'economia, dove ha avviato la strategia delle liberalizzazioni e ha migliorato i conti ereditati dal centro-destra, grazie soprattutto alla leva del fisco, ottenendo apprezzamenti dall'Unione europea e dal Fmi.

Giorno dopo giorno il professore bolognese ha dovuto misurarsi col peccato originale del suo governo, l'esiguità e l'eterogeneità della maggioranza: incapace o impossibilitato a imporre un disegno unitario ha zigzagato tra gli interessi inconciliabili dei suoi alleati centristi e rifondaroli. Finché ha avuto la sfortuna di imbattersi nella tempesta della "Casta", l'esplosione della più violenta ondata di antipolitica della recente storia italiana che ha colpito tutti i partiti ma con violenza particolare, ovviamente, chi stava al timone. Intanto, l'urgenza delle riforme e la nascita del Partito democratico, si traducevano in un ulteriore indebolimento della compagine governativa, offrendo a un'opinione pubblica esasperata solo astruserie di costituzionalisti e le contraddizioni messe in campo, magari contro la sua stessa volontà, dal premier ombra Veltroni.

Con un Paese convinto di trovarsi di fronte a una classe politica incapace di gestire la cosa pubblica, e non soltanto a un governo che ha fallito, il compito del Capo dello Stato appare estremamente difficile: stretto com'è tra la preoccupazione di non riproporre esecutivi instabili e l'urgenza di vararne comunque uno. (Anche se pochi sembrano preoccuparsene, gli effetti della recessione americana, la frenata dell'economia italiana col conseguente minor gettito fiscale hanno già sfaldato la legge finanziaria appena approvata). È evidente che andare ad elezioni subito, con l'attuale pessima legge elettorale, solletica Berlusconi, convinto a ragione che l'enorme impopolarità di Prodi giochi a suo vantaggio. Ma è altrettanto chiaro che le urne, anche nella probabile ipotesi di vittoria del centro-destra, rischiano di riproporre problemi di governabilità simili a quelli che hanno reso grama e instabile la vita di Prodi. Per di più non ci vuole gran memoria per ricordare la scarsa considerazione interna e internazionale in cui era tenuto il governo del Cavaliere: che senso ha riproporre pari pari una situazione che, a sua volta, ha dato così magri risultati?



L'arena del Senato
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

C'è è chi insulta, chi sputa, chi sviene, chi urla, chi avvampa, chi sbanda, C' è chi mena: se Romano Prodi voleva sbattere la porta mostrando agli italiani come un Parlamento possa trasformarsi in un rissoso bordello in cui strillano cesso e checca e merda, ce l'ha fatta. Se invece sperava sul serio di portare (politicamente) a casa la pelle, gli è andata perfino peggio di quanto temesse. E sotto le macerie del suo governo, o se volete delle sue macerie personali, rischia ora di restare l'intera sinistra. Non ha voluto sentire ragioni, il Professore. Non i consigli di Giorgio Napolitano, che dal Quirinale gli aveva detto che forse non era il caso di sfidare il mondo intero sull'alternativa secca "o con me o contro di me".
Non gli ultimi avvertimenti, quasi accorati, di chi come Domenico Fisichella lo implorava: per favore, non costringermi a votarti contro. Non le invocazioni dei compagni di viaggio, preoccupatissimi all'idea di una sorta di ordalia parlamentare dopo la quale sarebbe stato difficilissimo tentare ricuciture capaci di evitare un'immediata corsa alle urne con l'Unione in pezzi, Walter Veltroni scardinato dal piedistallo sul quale era stato issato dalle (per quanto contestate) primarie e questa legge elettorale. Non le parole sferzanti di avversari come Francesco D'Onofrio: "Lei ha fatto un discorso livido questa sera, livido contro parti della sua maggioranza, livido contro quest'Aula". Niente da fare. Voleva cadere così, in Parlamento. Con la conta. Ed è caduto. "C'è qualcosa di magico, nella caduta", disse un giorno Giuliano Ferrara. E forse l'ormai ex presidente del consiglio è convinto davvero che un giorno, chissà, anche questa sua scelta verrà rivista col senno di poi come una solenne prova di fedeltà alle istituzioni. Di dignità. Di ossequio alle regole. Fino all'ultimo. Ma il "modo" in cui è andata la giornata di ieri, i toni, le parole, i sudori, le beffe ("Lei, Presidente, prenderà tutte le ecoballe della Campania su di sè e con esse andrà a casa") hanno offerto l'impressione di una cosa diversa. Come se il Professore non fosse uscito solo battuto, cosa messa nel conto. Ma fosse stato sottoposto a una specie di "luxtratio simplex et tecnilocolorata". La "lezione" a base di pittura sulla faccia e sui capelli e sui vestiti, che gli studenti più anziani come lui infliggevano alle matricole in quegli anni Cinquanta in cui studiava alla Cattolica di Milano dove era stato avviato dal professore di italiano al Liceo che si chiamava Ermanno Dossetti, il fratello di Giuseppe.
C'è chi dice tra i suoi amici, come Angelo Rovati, che no, quello di ieri non è stato un atto di superbia intellettuale e politico da parte di chi ha dato mostra di essere talora po' ganassa ("E-si-go!", "Parlo solo io!", "Ci metto un po' a decidere, ma poi vinco: ho sempre vinto") e si era convinto di essere l'unico collante capace di tenere insieme i cattolici e i trotzskisti, gli anticlericali e i focolarini, i gay esuberanti e le cattoliche penitenziali col cilicio ma piuttosto l'ultimo gesto di "amore per le istituzioni ". C'è chi invece, come Roberto Castelli, arriva a paragonare l'orgogliosa rivendicazione dei meriti del governo battuto ("Mi rendo conto che il paragone per alcuni versi è ardito, perché allora eravamo in presenza di un'enorme tragedia e oggi alla più classica delle commedie all'italiana") al discorso di Mussolini al Lirico nel dicembre 1944: "Quando disse: "Qualunque cosa accada, il seme è destinato a germogliare" oppure "Il mio lavoro sta producendo ogni giorno frutti e sono certo che ne darà in futuro"". Certo è che il passo d'addio di quello che è stato per una dozzina di anni il punto di riferimento di una metà degli italiani, da quel giorno del '95 in cui Massimo D'Alema si alzò dalla terza fila del Teatro Umberto per incoronarlo ("Lei è una persona seria e noi abbiamo deciso di conferirle la nostra forza "), è stato occasione per scattare istantanee indimenticabili. Che hanno mostrato come il Parlamento sia sul serio lo specchio del Paese. Nel bene e nel male. Ecco la piccola vanità intellettuale del professore Fisichella, che ammette certo di essere stato candidato dalla Margherita e di essere perciò grato a Rutelli ma aggiunge piccato "mi permetto di ricordare che non ero e non sono un tizio qualunque cui viene regalato un seggio parlamentare". Ecco il tormento comunista di Franco Turigliatto, che spiega che proprio non può, lui, votare per un governo come questo dopo che "la Sinistra ha ingoiato tutto senza riuscire ad ottenere nulla" al punto che "la crisi si materializza nella forma più politicista espressa dalla rottura dell'Udeur".
È stravolto, il trotzkista piemontese. E ancora più stravolto sarà al momento del voto, quando il suo "no" verrà accolto da urla di gioia e di approvazione dai banchi di tutti quelli che lui non sopporta. Applausi beffardi. Che sa gli verranno rimproverati al ritorno a Torino, da dove il capogruppo regionale dei comunisti italiani gli ha già fatto avere via Ansa il benvenuto: "Turigliatto: il miglior amico di Confindustria, chiesa e americani. Presto tornerà nella sua Torino e potrà fare solo danni minimali alla classe lavoratrice". Ecco gli slanci retorici del neo-democristiano Mauro Cutrufo che, forse per mostrarsi degno della laurea (taroccata) che sbandiera honoris causa alla "University of Berkley" (da non confondere con la vera Berkeley: tre "e") spiega a Prodi: "Ammiriamo la sua caparbietà e la volontà di una parlamentarizzazione della crisi, tuttavia, nel concreto e per il Paese, ha consentito solamente che si potesse mettere in scena una plateale morte del cigno: come il cigno, orgoglioso, sicuro dei propri mezzi e del proprio potere, ha provato strenuamente quanto inutilmente a dibattersi, ma le fauci della volpe che si nascondeva proprio tra le fila della sua maggioranza... ". E come dimenticare l'intervento di Francesco Nitto Palma? Timoroso che i colleghi abbiano scordato che un tempo fu magistrato, il senatore azzurro sversa sentenze latine una dietro l'altra. Meglio: parte col francese (""Après moi, le déluge!", "Dopo di me, il diluvio!", che mi auguro per lei la storiografia assegni a Luigi XV invece che a madame Pompadour "), poi si sfoga: "Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur", "obtorto collo", "Acta est fabula ", "Acta est tragedia"... E la rifondarola Rina Gagliardi? Dopo avere implicitamente chiesto scusa al Professore di averlo fatto cadere dieci anni fa riconoscendo le buone ragioni di chi allora non era d'accordo ("il futuro si prospetta, ahimè, molto peggiore del pur non splendido presente") la senatrice comunista non trova di meglio che affidarsi, in qualche modo, al buon Dio.
E "sperare nel miracolo che quest'Aula stasera dia la fiducia a questo Governo". Il meglio però, arriva quando parla Nuccio Cusumano. Siciliano di Sciacca, figlio come Pierluigi Bersani di un benzinaio, è un parlamentare di lungo corso, giacché entrò in Senato nel 1992, quando apparteneva alla Dc di Salvo Lima, ma è vistosamente emozionatissimo. Sbanda, si accartoccia, riprende fiato, va in affanno, si arrabatta in analisi sulla "complessiva ripartenza rispetto ad un quadro sfilacciato ed appesantito vistosamente dalle permanenti e intense iniziative dell'opposizione" e finalmente, dopo essersi lagnato di quei maligni che hanno confidato ai giornali che lui starebbe sul punto di piantare Mastella per restare fedele al governo a causa di un piacerino fatto a Filippo Bellanca, il suo segretario tuttofare, finalmente si decide: "Scelgo in solitudine, scelgo con la mia libertà, scelgo con la mia coerenza, senza prigionie politiche, ma con l'esaltante prigionia delle mie idee, della mia probità, scelgo per il Paese, scelgo per la fiducia a Romano Prodi". Non l'avesse mai detto! Dai banchi di An, elegantemente agghindato con un maglione rosso buttato con studiata nonchalance sulle spalle della giacca come il suo grande amico Franco Zeffirelli butta le sciarpe e i foulard, salta su Nino Strano. Che urla: "Cesso! Sei un cesso! Cesso!". E poi "Merda! Sei una merda! Merda!". Franco Marini tenta disperatamente di calmare gli animi sbattendo la capanella: "Colleghi senatori! Colleghi senatori!" L'assemblea è un inferno. "Checca!", strilla Strano, "Checca! Checca! Sei una checca squallida!". In quel momento scatta Tommaso Barbato, il capogruppo Udeur che si fionda sul collega ribelle urlandogli: "Vergogna! Vergogna! ". C'è chi giurerà: "Gli ha sputato. Uno sputo alla Totti". Sputo tentato o sputo consumato? "Consumato, consumato!", conferma Gerardo D'Ambrosio: "Consumato e aggravato". Cusumano sbianca, si piega su un fianco, si accascia... "Sta male!", urla qualcuno. "Fate largo, sono un medico", si offre un vicino senatore.
E via così, tra urla belluine.

A proposito: "traditore" chi? Eh già, negli applausi e nei fischi finali c'è infatti una piccola contraddizione. Fischi e schiamazzi e insulti a Cusumano. Boati di entusiasmo per Lamberto Dini e Franco Turigliatto e Clemente Mastella e Domenico Fisichella che votano contro il governo nel cui nome erano stati eletti. Bizzarrie della storia. L'esatto contrario di quanto accadde dieci anni fa. Quando lo stesso Mastella e quelli come lui che avevano deciso di spostarsi a sinistra per far nascere il governo D'Alema, furono investiti da un uragano: "Ma come! Contro il popolo che li ha eletti! Contro chi li ha votati!". Il più sobrio fu Gianfranco Fini: "Siete dei puttani". Il più bellicoso Gianfranco Micciché: "Saltimbanchi, truffatori, massoni, boiardi, vermi!" Un'incoerenza? Boh, dettagli... "Prodi, accattate sta mortadella!", grida felice Nino Strano mangiandosi una bella fetta di roseo salume. E ammicca: "Io a Cusumano non volevo mica offenderlo chiamandolo checca. Sono quarant'anni che danno della checca a me... L'offesa era "checca squallida". Squallida...".


La CEI: “I vescovi non fanno politica…”
Marco Politi su
la Repubblica

CITTÀ DEL VATICANO - "La Cei non c´entra nulla con la caduta del governo" proclama il presidente della Cei Angelo Bagnasco, rintuzzando i sospetti di alcuni esponenti del centrosinistra. "I vescovi non si occupano di politica - soggiunge - ma di valori. E i valori non hanno partito".
Alla Chiesa, traspare invece dalle pagine di Avvenire, piacerebbe un "governo di scopo" per gestire una "transizione virtuosa e provvisoria". E intanto l´Osservatore Romano porta in prima pagina la crisi italiana, puntando anch´esso l´attenzione sull´ipotesi di un "governo tecnico" per riscrivere la legge elettorale. In questo senso rilancia la proposta del senatore forzista (ex dc) Giuseppe Pisanu secondo cui si può ancora riformare la legge, utilizzando la "bozza Bianco".
E tuttavia, per la prima volta dal dopoguerra il Vaticano affronta una grave crisi del sistema italiano senza una strategia chiara. Nel palazzo apostolico si sconta la presenza di un pontefice che per sua formazione e convinzione non è portato per la politica, che non ha né il gusto politico di Pio XII né il fiuto di Wojtyla né la pazienza diplomatica di Paolo VI né l´intuito di Giovanni XXIII. "Scrive!", scrive i suoi libri, i suoi discorsi, è troppo teologo e predicatore, commentano le vecchie volpi della Segreteria di Stato riferendosi a Benedetto XVI.
La fine della lunga reggenza del cardinale Camillo Ruini, non più presidente della Cei, sta causando un vuoto di strategia di cui nell´ambiente ecclesiastico si cominciano a sentire i segni. "La fede deve avere uno spessore sociale", è stato uno dei temi maggiormente discussi al recente Consiglio permanente della Cei.
È la linea propugnata dal patriarca di Venezia Scola, dal cardinale Caffarra di Bologna e anche del cardinale Ruini, che ha ricevuto l´incarico di continuare a occuparsi del Progetto culturale. Tradotto in moneta politica, significa modellare la legislazione italiana lungo i paletti indicati dalla relazione Bagnasco in tema di famiglia, coppie di fatto, revisione della legge sull´aborto, questione omosessuale oltre al veto sul testamento biologico.
Ma questo obiettivo - fanno notare alcuni prelati - richiedeva una paziente destrutturazione del centrosinistra e un graduale convergere del Pd di Veltroni e dell´Udc di Casini, entrambi interessati al varo di una legge elettorale che ridimensioni le minoranze estreme dei due poli e - per quanto interessa alla Santa Sede - che impedisca ai "rossi" di pesare sul neonato Partito democratico.
Invece di un´operazione svolta con gradualità dietro le quinte, gli alti comandi ecclesiastici si sono invischiati in una linea zigzagante. Veltroni è stato esposto all´attacco papale sul "degrado" di Roma, Amato (uno dei leader più attenti ai rapporti con la Santa Sede e il mondo cattolico) è stato colpito come ministro dell´Interno dall´inopinato attacco di Bagnasco sul caso Sapienza. Il segretario di Stato Bertone non aveva letto il discorso del pontefice agli amministratori del Lazio, ma aveva visionato la relazione del presidente della Cei con i suoi durissimi richiami sulle leggi che si possono o non possono fare. Senza che l´uno né l´altro fossero inquadrati in una strategia precisa.
In questa situazione, notano i prelati più "democristiani", la mossa di Mastella ha mandato a pezzi anche la lenta gestazione della Cosa Bianca - l´area pensata per attrarre un arco di forze da Pezzotta a Montezemolo - perché rischia di riconsegnare la leadership del centrodestra a Berlusconi. Che in Vaticano, dove i vertici hanno sempre avuto in antipatia Prodi e Bertinotti, non suscita a sua volta grandi entusiasmi.



Il governo pronto a rimuovere Cuffaro
Fiorenza Sarzanini sul
Corriere della Sera

ROMA - Il governo ha avviato la procedura per la sospensione di Salvatore Cuffaro da presidente della Sicilia. Ma già questa mattina il governatore potrebbe annunciare le dimissioni. Il premier Romano Prodi avrebbe dovuto firmare il provvedimento ieri sera, ma poi si è deciso di ottenere un via libera — sia pur informale — anche dal Quirinale.
Perché il rischio forte è che la questione alimenti lo scontro politico, influendo in maniera determinante sulle consultazioni del capo dello Stato e dunque su possibili accordi tra gli opposti schieramenti. Mentre nei palazzi di Roma si decideva di prendere tempo, Cuffaro convocava a sorpresa l'Assemblea regionale. Una telefonata poco prima di mezzanotte a Gianfranco Miccichè: "Devo fare delle comunicazioni urgenti". L'appuntamento è fissato per mezzogiorno. E negli ambienti politici dell'isola sono pronti a giurare che sarà il momento dell'abbandono. Un passo indietro che avverrà proprio nel momento in cui la sinistra radicale e le sigle sindacali manifesteranno a Palermo per chiedere a Cuffaro di andarsene. La scelta del governo comunque è fatta: il presidente dell'Assemblea regionale condannato a 5 anni per favoreggiamento di uno o più mafiosi, dovrà lasciare la poltrona. L'intenzione del premier era di chiudere subito la partita, ma poi ha concordato con Napolitano sulla necessità di esaminare nei dettagli il caso per evitare strumentalizzazioni.
Ieri mattina, in apertura del Consiglio dei ministri, Prodi affronta la vicenda spiegando di ritenere "normale che si proceda alla destituzione, così come prevede la legge" e di essere "in attesa dei pareri dei giuristi ". L'unica incognita riguarda la possibilità di emettere una delibera o invece limitarsi a una semplice "presa d'atto" della relazione inviata due giorni fa dal commissario di Stato Alberto Di Pace. A lui la procura di Palermo aveva trasmesso il dispositivo della sentenza e gli atti necessari all'avvio dell'iter della sospensione. Sul tavolo del premier c'è la lettera di Antonio Di Pietro che lo aveva sollecitato a intervenire ritenendolo un adempimento automatico. A sostegno di questa tesi, c'è anche una sentenza della Corte Costituzionale secondo cui la sospensione immediata è un atto che rientra nell'ordinaria amministrazione per la quale Prodi — sfiduciato dal Senato — è tuttora in carica.

Verso le 17 il fascicolo arriva al Viminale per il visto. "Dovremmo farcela in serata", dicono a Palazzo Chigi. Ma dopo che Romano Prodi ha informato il presidente Giorgio Napolitano, si è scelto di rallentare i tempi. Perché le consultazioni sono appena cominciate e perché è chiaro a tutti che il provvedimento certamente influirà sulle scelte dell'Udc (il partito del governatore) e di Silvio Berlusconi che dopo la sentenza aveva invitato Cuffaro "a restare al suo posto per continuare il lavoro ".


Alitalia, torna il “vento del Nord”
Redazione de
La Stampa

MILANO. Sull'Alitalia, o meglio sulle rotte che abbandonerebbero Malpensa dopo la cessione a Air France, torna a farsi sentire la voce degli imprenditori settentrionali. Andiamo con ordine.

In Borsa, dopo un inizio fiacco sull'onda della crisi di Governo, Alitalia è tornata a salire quando Air France ha confermato il suo impegno a proseguire le trattative (+2,04%). A ricordare, però, che il progetto AirOne-Intesa San Paolo "è sempre lì" è l'amministratore delegato della banca, Corrado Passera a margine dei lavori del World Economic Forum di Davos. "La nostra posizione è molto chiara - ha detto - abbiamo presentato un progetto con AirOne che riteniamo molto positivo. Il governo ha fatto una scelta diversa ma il nostro progetto è sempre lì e spero che possa in qualche modo andare avanti".

A rimescolare in qualche modo le carte, arriva poi la dichiarazione di Marco Tronchetti Provera, disponibile ad investire come imprenditore in una nuova compagnia aerea del Nord che subentri agli spazi lasciati vuoti a Malpensa dalla compagnia di bandiera. "Incominciamo a vedere l'ipotesi che si può sviluppare un rilancio dei sistemi aeroportuali, e gli imprenditori di fronte a progetti seri sono sempre disposti ad investire", ha detto Tronchetti Provera che oggi ha partecipato ad un pranzo di lavoro tra il presidente della Regione Lombardia e alcuni esponenti della comunità economica locale.

Sulla stessa linea il vice presidente di Confindustria Alberto Bombassei, che appoggia la proposta di Marco Tronchetti Provera di investire in progetti validi per il salvataggio di Alitalia. Perplessità e preoccupazione sono invece espresse dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni: "Io ho l'impressione che vogliano accelerare la vendita e per questo sto agendo in maniera molto forte con i sindacati, con gli imprenditori e altre iniziative ci saranno la settimana prossima".

A mettere un pò d'ordine ha provato in serata il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi: "Credo che la crisi di Governo - ha ribadito - non debba interrompere il processo di vendita di Alitalia, dato che i margini di sopravvivenza autonoma della compagnia sono molto stretti. Ciò detto non è vero come sostiene oggi AirFrance che la loro offerta è l'unica consistente - ha aggiunto Bianchi - dato che quella riformulata dal gruppo AirOne-Banca Intesa non è mai stata valutata nella sua consistenza".


Il caso “Sapienza”
Lettera aperta al Presidente della Repubblica
Paolo Flores D'Arcais su
Liberazione

Caro Presidente,
tempo fa, dovendo scriverti per invitarti ad una iniziativa di MicroMega, chiesi tramite il tuo addetto stampa se dovevo continuare ad usare il "tu" della consuetudine precedente la tua elezione, o se era più consono che usassi il "lei", per rispetto alla carica istituzionale. Poiché, tramite il tuo addetto stampa, mi facesti sapere che preferivi che continuassi a scriverti con il "tu", è in questo modo che mi rivolgo a te in questa lettera aperta, tanto più che, essendo una lettera critica, mi sembrerebbe ipocrisia inzuccherare la critica con la deferenza del "lei".
Il mio dissenso, ma si tratta piuttosto di stupore e di amarezza, riguarda la lettera di scuse che in qualità di Presidente, dunque di rappresentante dell'unità della nazione, hai inviato al Sommo Pontefice per l'intolleranza di cui sarebbe stato vittima. E' verissimo che di tale intolleranza, di una azione che avrebbe addirittura impedito al Papa di parlare nell'aula magna della Sapienza, anzi perfino di muoversi liberamente nella sua città, hanno vociato e scritto tutti i media, spesso con toni parossistici.
Ma è altrettanto vero che di tali azioni non c'è traccia alcuna nei fatti. La modesta verità dei fatti è che il magnifico rettore (senza consultare preventivamente il senato accademico, ma mettendolo di fronte al fatto compiuto, come riconosciuto dallo stesso ex-portavoce della Santa Sede Navarro-Vals in un articolo su Repubblica) ha invitato il Papa come ospite unico in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico (a cui partecipano in nome della Repubblica italiana il ministro dell'università e il sindaco di Roma), e che, avutane notizia dalla agenzia Apcom il professor Marcello Cini (già dallo scorso novembre) e alcune decine di suoi colleghi (più di recente) hanno espresso per lettera al rettore un loro civilissimo dissenso.
Quanto agli studenti, nell'approssimarsi della visita alcuni di loro hanno espresso l'intenzione di manifestare in modo assolutamente pacifico un analogo dissenso, nella forma di ironici happening.
Il rettore Guarini ha comunque rinnovato al Papa l'invito, e tanto il Presidente del Consiglio Romano Prodi quanto il ministro degli Interni Giuliano Amato hanno esplicitamente escluso che si profilasse il benché minimo problema di ordine pubblico (malgrado la campagna allarmistica montata dal quotidiano dei vescovi italiani, "L'Avvenire", rispetto a cui le dichiarazioni di Prodi e Amato suonavano esplicita smentita). Nulla, insomma, impediva a Joseph Ratzinger di recarsi alla Sapienza e pronunciare nell'aula magna la sua allocuzione.
Di pronunciare, sia detto en passant e per amore di verità, il suo monologo, visto che nessun altro ospite contraddittore o "discussant" era previsto, e un monologo resta a tutt'oggi nella lingua italiana l'opposto di un dialogo, checchè ne abbia mentito l'unanime coro mediatico-politico (che di rifiuto laicista del dialogo continua a parlare), a meno di non ritenere che tale opposizione, presente ancora in tutti i dizionari in uso nelle scuole, sia il frutto avvelenato del già stigmatizzato complotto laicista.
Tutto dunque lasciava prevedere che la giornata si sarebbe svolta così: mentre Benedetto XVI pronunciava il suo monologo nell'aula magna, tra il plauso deferente dei presenti (e in primo luogo del ministro Mussi e del sindaco Veltroni), ad alcune centinaia di metri di distanza alcuni professori di fisica avrebbero tenuto un dibattito sui rapporti tra scienza e fede esprimendo opinioni decisamente diverse da quelle del regnante Pontefice, e ad altrettanta debita distanza qualche centinaio di studenti avrebbe innalzato cartelli di protesta e maschere ironiche. Ironia che può piacere o infastidire, esattamente come le vignette contro il profeta Maometto, ma che costituisce irrinunciabile conquista liberale.
Dove sta, in tutto ciò, l'intolleranza? E addirittura la prevaricazione con cui si sarebbe messa al Papa la mordacchia (secondo l'happening inscenato in aula magna dagli studenti di Comunione e liberazione)?
A me sembra che intolleranza - vera e anzi inaudita - sarebbe stato vietare ad un gruppo di docenti di discutere in termini sgraditi ai dogmi di Santa Romana Chiesa, e ad un gruppo di studenti di manifestare pacificamente le loro opinioni, ancorché in forme satiricamente irridenti. Se anzi di tali divieti si fosse solo fatto accenno da parte di qualche autorità, credo che un numero altissimo di cittadini si sarebbe sentito in dovere di rivolgersi a te quale custode della Costituzione, con toni di angosciata preoccupazione per libertà fondamentali messe così platealmente a repentaglio. Ma, per fortuna (della nostra democrazia), nessun accenno del genere è stato fatto.
Il Sommo Pontefice non era di fronte ad alcun impedimento, dunque. Ha scelto di non partecipare perché evidentemente non tollerava che, pur avendo garanzia di poter pronunciare quale ospite unico il suo monologo in aula magna, nel resto della città universitaria fossero consentite voci di dissenso, anziché risuonare un plauso unanime.
Non è, questa, una mia malevola interpretazione, visto che sono proprio gli ambienti vaticani ad aver riferito che il Papa preferiva rinunciare a recarsi in visita presso una "famiglia divisa" (cioè il mondo accademico e studentesco della Universitas studiorum, la cui quintessenza istituzionale è però proprio il pluralismo delle opinioni). Ma pretendere quale conditio sine qua non per la propria partecipazione un plauso unanime non mi sembra indice di propensione al dialogo bensì, piuttosto, di vocazione totalitaria.
Non vedo dunque per quale ragione tu abbia ritenuto indispensabile, a nome di tutta la nazione di cui rappresenti l'unità, porgere al Papa quelle solenni scuse. Che ovviamente, data la tua autorità, hanno fatto il giro del mondo. Se c'è qualcuno che aveva diritto a delle scuse, semmai, è il gruppo di illustri docenti, tutti nomi di riconosciuta statura internazionale nel mondo scientifico, e che tengono alto il prestigio italiano nel mondo, a contrappeso dell'immagine di "mondezza" e politica corrotta ormai prevalente all'estero per quanto riguarda il nostro paese. Questi studiosi sono stati infatti accusati di fatti mai avvenuti, e insolentiti con tutte le ingiurie possibili ("cretini" è stato il termine più gentile usato dai maestri di tolleranza che si sono scagliati contro il diritto di critica di questi studiosi).
Né si può passare sotto silenzio il contesto in cui il monologo di Benedetto XVI si sarebbe svolto, contesto caratterizzato da due aggressive campagne scatenate dalle sue gerarchie cattoliche. Trascuriamo pure la prima, cioè i rinnovati e sistematici attacchi al cuore della scienza contemporanea, l'evoluzionismo darwiniano (bollato di "scientificità non provata" da un recente volume ratzingeriano uscito in Germania), benché il rifiuto della scienza non sia cosa irrilevante per chi dovrebbe aprire l'anno accademico della più importante università del paese.
Infinitamente più grave mi sembra la seconda, la qualifica di assassine scagliata dal Papa e dalle sue gerarchie, in un crescendo di veemenza e fanatismo, contro le donne che dolorosamente abbiano scelto di abortire. Questo sì dovrebbe risultare intollerabile. Se un gruppo di scienziati accusasse Papa Ratzinger, o solo anche il cardinal Ruini, il cardinal Bertone, il cardinal Bagnasco, di essere degli assassini, altro che lettere di scuse! E perché mai, invece, ciascuno di loro può consentirsi di calunniare come assassina, nel silenzio complice dei media e delle istituzioni, ogni donna che abbia deciso di utilizzare una legge dello Stato confermata da un referendum popolare? Se vogliono rivolgersi alle donne del loro gregge ricordando che l'aborto, anche un giorno dopo il concepimento, è un peccato mortale, e che quindi andranno all'inferno, facciano pure, proprio in base a quel "libera Chiesa in libero Stato" che il Risorgimento liberale e moderato di Cavour ci ha lasciato in eredità. Ma diffamare come assassine cittadine italiane che nessun reato hanno commesso è una enormità che non può essere passata sotto silenzio, e non sono certo il solo ad essermi domandato con amarezza perché, in quanto custode dell'unità della nazione e dunque anche delle sue radici risorgimentali, tu non abbia fatto risuonare la protesta dello Stato repubblicano.

Ecco perché spero che tu voglia prestare attenzione anche all'angosciata preoccupazione di quei segmenti laici (o laicisti, come preferisce la polemica corrente) del paese, non so se maggioritari o minoritari (ma la democrazia liberale, a cui ci hai più volte richiamato, è garanzia di parola e ascolto anche per il dissenso più sparuto, fino al singolo dissidente), che ormai vengono emarginati o addirittura cancellati dalla televisione, cioè dallo strumento dominante dell'informazione, e il cui diritto alla libertà d'opinione viene di conseguenza vanificato, mentre ogni tesi oscurantista può dilagare e spadroneggiare.
Con stima, con speranza, con affetto, credimi,
tuo Paolo Flores d'Arcais.


Bettino statista levantino
Marco Travaglio su
l'Espresso

E' un bel gesto quello del cognatissimo Paolo Pillitteri, che a 8 anni dalla morte di Bettino Craxi dedica un libro all'uomo che lo trasformò nel sindaco di Milano. Ed è comprensibile che la figlia Stefania e il figlioccio Luca Iosi si prodighino per raccontarlo in una fiction: essendo entrambi titolari di società di produzione tv, con buone entrature in Rai e in Mediaset, non difettano dei mezzi necessari. Si comprende un po' meno la processione di politici e commentatori di ogni colore intorno alla memoria del defunto e presunto 'statista' per esaltare la 'modernità' del suo 'riformismo'. In un paese serio, a chiudere la questione basterebbero le tre sentenze definitive emesse dalla Cassazione (due condanne a un totale di 10 anni per le tangenti Eni-Sai e Metropolitana milanese; una prescrizione per le mazzette dalla berlusconiana All Iberian). O i 40 miliardi di lire giacenti nel '93 sui suoi tre conti svizzeri personali, gestiti non dai tesorieri del Psi, ma dall'ex compagno di scuola Giorgio Tradati e poi dall'ex barista Maurizio Raggio, e destinati agli "interessi economici anzitutto propri di Craxi" (sentenza All Iberian). Ma, dicono i nostalgici, "Craxi non può essere ridotto ai suoi guai giudiziari". Infatti ci sono pure quelli politici.
Economia: sotto il governo Craxi (1983-87) il debito pubblico balza da 400 mila a 1 milione di miliardi di lire e il rapporto debito-Pil dal 70 al 92 per cento.
Lotta al terrorismo: dopo aver caldeggiato, per fortuna invano, la trattativa tra Stato e Br durante il sequestro Moro, nel 1985 Craxi sottrae al blitz americano di Sigonella i terroristi palestinesi che hanno appena sequestrato la nave Achille Lauro e assassinato un turista ebreo disabile; si impegna a farli processare in Italia, poi fa caricare il loro capo Abu Abbas su un aereo dei servizi e lo spedisce in Iraq, gradito omaggio a Saddam Hussein.
Politica estera: ancor più filoarabo e levantino dei democristiani, Craxi appoggia acriticamente l'Olp, ben lontana dalla svolta moderata, paragonando Arafat a Mazzini; spalleggia e foraggia il dittatore sanguinario somalo Siad Barre;

Politica istituzionale: è il primo a picconare la Costituzione in vista della 'grande riforma' presidenzialista e ad attaccare le procure, che vorrebbe assoggettare al governo. Politica industriale: sponsor delle partecipazioni statali come grande macchina succhiasoldi e nemico di ogni privatizzazione, prima con i decreti Berlusconi e poi con la Mammì consacra il monopolio televisivo incostituzionale dell'amico Silvio, che fra l'altro paga bene e cash.
Frequentazioni: dopo aver insultato Norberto Bobbio ("ha perso il senno") ed espulso galantuomini come Bassanini, Codignola, Enriquez Agnoletti, Leon e Veltri, il satrapo garofanato si circonda di faccendieri come Larini, Troielli, Giallombardo, Mach di Palmstein, Parretti, Fiorini, Chiesa e Cardella, per non parlare dei suoi legami con Gelli e Calvi e del suo consulente giuridico Renato Squillante. Oltre a decine di 'nani e ballerine', Craxi riesce a candidare al Parlamento Gerry Scotti e Massimo Boldi. Se sarà realistica, insomma, la fiction si annuncia avvincente.


  26 gennaio 2008