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sulla stampa
a cura di G.C. - 24 gennaio 2008


Quando Romano giurava di farcela
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

"Fine de'a gita". Gli ultimi ed esausti respiri del governo Prodi, con quel malinconico applausino nell'aula deserta alla lettura dell'inutile fiducia ottenuta alla Camera, fanno venire in mente al diessino Gianni Cuperlo uno striscione allo stadio di Treviso all'epilogo dell'unica avventura in A chiusa con 23 sconfitte: "Fine de'a gita". Mai si era visto, in realtà, un gruppo di "gitanti" così rissoso. Fin dall'inizio. Da quella interminabile notte in cui, stremato dalla delusione per la "vittoria mutilata", quella vittoria che i sondaggi per mesi avevano dato come larghissima ed ora si rivelava sottile come carta velina, il Professore era apparso per dire: "Le elezioni le abbiamo vinte. Di un soffio, ma vinte". Al diavolo i dubbi e le offerte berlusconiane di una grande coalizione: "Posso governare cinque anni. La legge me lo permette". E via così. Con le citazioni di Bush che perfino al momento di decidere la guerra in Iraq (pur contando su un certo consenso trasversale) aveva al Senato un solo voto in più dei democratici e quelle di Churchill e Adenauer e "tanti altri che avevano un solo voto di maggioranza". E guai a ricordare che qui da noi la situazione era diversa perché dalle altre parti non capita che una coalizione sia costretta a contare sulla salute di sette senatori a vita: "Come va, caro, quel dolorino al nervo sciatico? ". Lui tirava dritto. Facendo coraggio a se stesso per far coraggio agli altri. Certo di durare? "È una squadra, la nostra, coesa e omogenea, dureremo cinque anni".
Proprio sicuro? "C'è l'impegno di tutti affinché questa coalizione vada avanti nei prossimi cinque anni. La coalizione è questa. Non cambia. Dura l'intera legislatura". E le risse interne? "Ogni motore va collaudato, vi assicuro che fra poco si sentirà armonia, come a sentire una Ducati o una Ferrari. Una Feraaaaari! ". E l'incapacità di decidere? "I ministri non possono esprimere opinioni, debbono esternare le decisioni, le conseguenze e le implementazioni ". E il rischio quotidiano di una caduta? Al che, lui allargava le mani come un Cristo Pantocratore per abbracciare nella benedizione tutti gli elettori delle circoscrizioni estere: "Abbiamo avuto l'incarico di governare dagli elettori di cinque continenti. Quindi governeremo". Il giorno dopo la vittoria uscì di casa a Bologna, per la sgroppatina quotidiana sotto i portici con una tuta azzurra attillatissima con scritto "Italia" sulla schiena e sprizzava il buonumore di chi era convinto che l'impresa più difficile, vincere le elezioni, fosse stata compiuta: il resto, bene o male, sarebbe stato meno complicato. Del resto, aveva già spiegato a Giampaolo Pansa come vedeva il futuro: "A me non piace mediare. Voglio governare. Ogni volta che si riunirà il Consiglio dei ministri, non si discuterà, ma si deciderà". Sì, ciao. Una tensione dopo l'altra. Tutti i giorni. Sulla scelta di confermare la decisione berlusconiana di concedere agli americani l'aeroporto "Dal Molin", con Massimo D'Alema che diceva che "una retromarcia sarebbe stata letta come un atto ostile" e Manuela Palermi, capogruppo dei comunisti italiani in Senato, che tuonava: "Il governo deve dire no".

Una via crucis. Nella prima stazione si contempla... Nella seconda... Per venti mesi, in mezzo ai flutti, agli scossoni, agli uragani, alle grandinate, Prodi non ha perso occasione per sottolineare d'esser il perno di tutto. Ironico: "Berlusconi dice che domani cadiamo? Lo dice tutti i giorni...". Tranquillo: "Sono sereeeeno. Fermo e sereeeeno". Sicuro: "Il nostro è un governo seeerio e coeso, coeso e seeerio!". Le bufere sui costi della politica? "Mo quello è un tema che ho inventato io! Entro giugno vareremo un disegno di legge!". Perplessità sull'obesità di un esecutivo di 102 persone? "Abbiamo dovuto cedere qualcosa... Ma nei punti chiave ho deciso io: Amato agli interni, Padoa Schioppa all' economia, D'Alema agli esteri... Squadra buonissima!".
E Mastella alla Giustizia? Rispondeva ficcandoti il dito indice nelle costole per rafforzare il concetto: "Io dico che Mastell a s a r à una s o r p r e s a . Una sor-pre-sa!". "Ma c'è o ci fa?", si chiedevano i corrispondenti esteri che non capivano fino a che punto questo suo marmoreo ottimismo fosse un modo per caricare gli amici e irridere agli avversari o se ci credesse davvero. Il massimo lo diede quando l'inviato del tedesco Die Zeit gli chiese: "La nostra signora Merkel fa già fatica a guidare una coalizione di due soli partner. Ci spieghi come farà a tenerne insieme nove ". E lui: "All'interno dei vostri due partiti di coalizione esistono quaranta diverse correnti, non solo nove! I tedeschi, mi perdoni la franchezza, hanno impiegato molto più tempo a stringere il patto di coalizione rispetto a noi. Ci hanno messo due mesi! In un mese io ho fatto eleggere i presidenti delle due Camere, un presidente della Repubblica, formato il governo e superato il voto di fiducia. Siamo italiani, ma mi sembra che da voi il tutto proceda con molta più fatica. Noi abbiamo solo più folklore, Rifondazione Comunista, i Comunisti Italiani...".
Mai una concessione a chi gli ricordava come il suo governo fosse sempre sull'orlo della crisi. Anzi, un giorno con Gianni Riotta si permise una battuta che gli sarebbe stata rinfacciata: "Ci sono stati quattro casi di coscienza sull'Afghanistan, è vero. Ma siamo ancora qui, mi pare. Avessimo vinto le elezioni con più agio sarebbe stato più facile ma così è più thrilling, c'è più avventura. Vuole la verità? È più sexy!". Dieci anni fa, nel 1998, andò uguale: sorrise dell'ipotesi di andarsene fin quasi all'ultimo. Sempre ottimista a costo d'apparire giulivo: "Non è ancora l'epoca delle vacche grasse ma la stiamo preparando!", "Abbiamo l'attivo primario più alto del mondo!", "Ho il fiato corto? Durerò vent'anni! ", "Problemi? Sono come quel personaggio del Carosello, "Ercolinosempreinpiedi". Solo che lui dondolava e io no". Anche ieri sera, mentre dai banchi del governo si avviava verso l'uscita, assicurava agli amici che lui non dondolava: "Andiamo fino in fondo". Anche molti dei suoi però, ieri sera, hanno spento la luce sospirando sullo slogan ulivista della campagna vincente di due anni fa e un millennio fa: "Domani è un altro giorno".


Il Professore a Stalingrado
Lucia Annunziata su
La Stampa

A chi si meraviglia dell'ostinazione, della forza con cui Prodi si batte per la sua legislatura, suggeriamo di riandare con la mente a una delle decisive battaglie della Seconda Guerra Mondiale. In queste ore, in effetti, il premier prepara la sua personale Stalingrado: accerchiato e inferiore di numero, vincerà se riuscirà ad aggirare e chiudere i nemici in un sacco. Il lato paradossale della situazione è che, se perde, non ci sarà nulla di eroico nella sconfitta.

Sarà solo una mesta, ma stavolta definitiva, riedizione della sua uscita di scena nel 1998, magari con Veltroni sospettato, invece di D'Alema, di complotto.

Mi scuso con i lettori per aver scomodato l'enormità di Stalingrado per una più modesta vicenda italiana, ma l'eccesso serve bene a spiegare lo spirito del Premier, e la peculiarità di questa crisi che solo formalmente si può chiamare di governo. La vera posta in gioco fra Palazzo Chigi e il Parlamento non è infatti oggi soltanto la sopravvivenza dell'esecutivo, ma il bastone della futura leadership del Paese. La crisi non nasce dallo scontro destra-sinistra; è piuttosto il frutto avvelenato della lotta interna a entrambe le coalizioni. Una sorta di collasso pubblico, una forma di resa dei conti, più forte dentro il centro-sinistra, più controllata dentro il centro-destra, che scoppia invece che nelle stanze chiuse delle sedi di partito fra i banchi parlamentari e sulle teste dei cittadini.

Il segno di questo percorso è il punto di origine stesso dell'attuale scossa: la nascita del Pd. L'evento prima di costruire, distrugge. Nel centro destra, per effetto indiretto, suggerisce a Silvio Berlusconi, come sempre attento politico, che il vecchio ordine è logoro, che il cambiamento è necessario se la sua coalizione non vuole sembrare un museo delle cere. È il momento del "predellino", dell'annuncio impetuoso della fondazione di un nuovo partito, che provoca un tormentato periodo di rotture, distinzioni, e rivalità che spappolano la vecchia Cdl. Dentro il centro sinistra il Pd innesca lo stesso esatto processo: lo scioglimento dei partiti è in questo caso programmatico, ma non per questo meno devastante. Nuova organizzazione, nuovi gruppi dirigenti, e la vecchia classe politica dell'Unione - da Prodi a D'Alema, a Rutelli, ai sindaci, ai Popolari - nel giro di poche ore si ritrova in balia del cambiamento stesso, senza luogo e, soprattutto, al momento, senza ruolo.

In poche settimane l'Italia politica, già scossa dalle critiche alla "Casta", si avviluppa nel disfarsi contemporaneo delle due vecchie coalizioni intorno a cui aveva ruotato la pur faticosa vita dell'imperfettamente bipolare Seconda Repubblica; e l'avvio, a destra come a sinistra, di una serrata competizione per il ricambio della leadership nazionale. Chi è il nuovo, cosa è il nuovo, chi guiderà i processi, e su quale identità: sono questi i temi su cui la nostra vita pubblica si è bloccata. Nel centro-destra la competizione passa per il voto cattolico e/o moderato; nel centro-sinistra la tensione prende la forma di una paralisi decisionale del governo. È un passaggio che ricorderemo probabilmente come storico, ma senza molta nostalgia: è una fase forse necessaria del cambiamento, ma somiglia molto a un collasso. La deriva formalistica in cui cade la discussione sulle riforme elettorali è la perfetta rappresentazione di un cambio tanto desiderato quanto impossibile.

La crisi odierna nasce così, da un'implosione del governo, e la sua soluzione è infinitamente più complicata e più imprevedibile, proprio perché non può far leva su una mobilitazione comune di natura affettiva o ideologica, antifascismo, antiberlusconismo essendo armi spuntate rispetto alla radice tutta interna della rottura. La caduta o no del governo Prodi, in questa situazione, non equivale dunque solo a elezioni per un nuovo esecutivo, ma al costruirsi di uno scenario completamente diverso per il prossimo futuro. Al di là delle dichiarazioni di oggi, e persino delle stesse volontà dei vari protagonisti. Così, ad esempio, nel centro-sinistra, elezioni oggi significherebbero la discesa in campo di Walter Veltroni, con un partito tutto nuovo e a lui legato, con la voglia di "correre da solo" e nelle mani il diritto-dovere di decidere con l'attuale legge i prossimi parlamentari. Insomma una notevole sminuizione di ruolo di tutti gli attuali potenti e potentati, nonché la ratifica definitiva della leadership del sindaco di Roma. Nel centro-destra, come si vede già ora dalla pace scoppiata nelle sue file, le elezioni anticipate sgombrano il campo alla riconferma della leadership di Berlusconi. Un game over per molti, forse per troppi.

Il problema per il Paese non è semplice: se vogliamo un rinnovamento della classe politica, realisticamente dobbiamo sapere che il costo del suo collasso, della sua decadenza e della sua (eventuale) reinvenzione, dobbiamo pagarlo anche noi. Non ci sono scorciatoie.


La prova della verità
Antonio Padellaro su
l'Unità

Può darsi che al Senato Prodi non ce la farà, come pronosticano molti scettici anche nell'Unione. E anche se la spuntasse per uno o due voti, osservano, che futuro potrebbe mai avere un governo con una maggioranza così striminzita? La destra si scaglia poi contro il ricorso ai senatori a vita come se il loro giudizio valesse di meno, ma a leggere la Costituzione così non è. Eppure bisognerebbe dare atto al premier di avere scelto, andando in Parlamento, la via più lineare, trasparente e rispettosa dei cittadini elettori. I quali, a sinistra come a destra, si meritano tutta la verità su questa crisi nata chissà perché e che rischia di portare l'Italia chissà dove. Mastella potrà finalmente spiegare cosa lo ha spinto, una mattina, a buttare tutto per aria passando dalla maggioranza all'opposizione. Capiremo meglio quanto in questa storia c'entri Berlusconi e quanto il cardinal Bagnasco che già fa campagna elettorale per conto di Dio. O forse il leader di Ceppaloni mollando Prodi ha semplicemente sbagliato tutto, condannando se stesso e l'Udeur alla marginalità politica come gli va dicendo il suo maestro Giulio Andreotti. Anche la destra sarà costretta a dire ciò che è e ciò che vuole. Fini preannuncia il suo ritorno nell'ovile berlusconiano e dopo le roboanti accuse al cavaliere di qualche settimana fa, ci sarà da ridere. E ascolteremo Casini per capire se davvero l'Udc, anche sotto la minaccia elettorale, tornerà o non tornerà ad essere una succursale di Forza Italia. Vedremo il Partito democratico affrontare la prova più dura da quando è nato. E se malgrado tutti gli sforzi il governo non dovesse farcela, Prodi e Veltroni dovranno continuare a fare gioco di squadra mettendo da parte attriti e incomprensioni. Scegliendo ciò che è meglio ma cercando di evitare le elezioni anticipate. L'unica soluzione che il centrosinistra non può davvero augurarsi.


Salari, tasse e Alitalia in alto mare
Roberto Mania su
la Repubblica

ROMA - "Questo è il momento meno adatto per fermare l'azione in corso", dice il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a Bruxelles dove incassa la conferma che la Ue non ha più motivo per sanzionare il nostro deficit. Siamo rientrati nei parametri, ma la crisi di governo - se arriverà - spazzerà via, invece, più d'uno dei progetti del governo per rilanciare l'economia e attenuare gli effetti a cascata della recessione americana. Anche se Fitch, una delle agenzie internazionali di rating ha detto che per ora non cambia nulla nel giudizio sull'Italia.

Comunque resterà nel cassetto il piano di Prodi per i salari più bassi (quelli fino a 40 mila euro l'anno) ed è difficile che decolli (senza gli sgravi fiscali e gli interventi di politica dei redditi) anche il confronto tra le parti sociali per riformare il modello di contrattazione.

Le nuove liberalizzazioni di Bersani e di Lanzillotta, già colpite da più d'un cecchino in Parlamento, sono destinate a rimanere al palo. Il rinnovo dei contratti del pubblico impiego (3,5 milioni gli interessati) entrerà in zona rischio e in Borsa ieri è scattato l'allarme Alitalia: i titoli sono stati sospesi per eccesso di ribasso in apertura della seduta e hanno chiuso a -1,31% sul timore che la caduta del governo possa compromettere il negoziato per la vendita ad Air France. I francesi andranno avanti con il presidente Maurizio Prato che ha il pieno mandato a chiudere entro marzo. "Non vedo alcuna turbativa. Non cambia nulla. Stanno discutendo e trattando", ha detto il ministro dello Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani. L'alternativa è netta: "O fanno l'accordo o si portano i libri in tribunale", parole del vice ministro dell'Economia Vincenzo Visco.


Prodi punta ancora (lo ha ripetuto a Montecitorio) sulla riduzione delle tasse a favore dei redditi da lavoro dipendente. In corso c'è anche un tentativo di accelerare il confronto ("lavoreremo fino all'ultimo minuto", ha dichiarato il titolare del Lavoro, Cesare Damiano) dopo l'ultimatum dei sindacati che hanno proclamato lo sciopero generale per il 15 febbraio. La fine del governo Prodi bloccherà tutto. E complicherà anche il negoziato tra sindacati e Confindustria sul modello contrattuale. Perché se è vero che si tratta di materia di competenza delle parti sociali, è anche vero che il governo (non solo perché datore di lavoro degli statali) avrebbe potuto mettere sul tavolo gli sgravi fiscali per incentivare la contrattazione aziendale legata alla produttività.

C'è poi la delicatissima partita delle nomine ai vertici delle aziende partecipate dallo Stato (200 e passa miliardi di capitalizzazione con imprese del calibro di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Poste e Tirrenia) che scadono in primavera. Senza dimenticare il progetto di fusione tra gli enti previdenziali per dar vita a Grande-Inps, che dovrebbe servire anche a garantire il passaggio dallo scalone Maroni agli scalini di Damiano. In tutto circa 600 poltrone.


Riforme, traguardo perduto
Francesco Ramella su
La Stampa

Siamo a un passo da un traguardo che può essere storico per il Paese, si tratta solo di superare le divisioni, e di fare l'ultimo miglio". Così Walter Veltroni, poche settimane fa, in un'intervista indicava il punto critico a cui era giunto il percorso delle riforme istituzionali. Un pacchetto integrato di misure in grado di cambiare il volto e il funzionamento del nostro sistema politico, rendendolo più efficace e più accettabile agli occhi dei cittadini. Favorendo l'aggregazione dei partiti e allo stesso tempo ridando funzionalità al processo decisionale: con la modifica della legge elettorale, il rafforzamento dei poteri del primo ministro, l'attribuzione della funzione legislativa ad una sola camera, la riduzione del numero dei parlamentari. Veltroni sembrava crederci sul serio: "In un anno possiamo cambiare radicalmente il futuro del Paese. È un'occasione che non possiamo lasciarci sfuggire. Il Paese non ce lo perdonerebbe. (...) Bisogna fare “l'ultimo miglio", e noi lavoreremo per raggiugerlo". Alla luce di quanto sta accadendo, quella metafora è risultata particolarmente infelice. Fatale per il governo e forse per le riforme. Come è noto, infatti, l'ultimo miglio è il soprannome dato in diverse prigioni americane al corridoio che unisce le celle dei condannati a morte dalla stanza dell'esecuzione.

Di sicuro quell'immagine che intendeva stimolare la coesione delle forze politiche, incitandole a fare l'ultimo sforzo per raggiungere un accordo, non ha portato bene al governo Prodi. Quale che sia l'esito della crisi, quest'ultimo di fatto è un "dead man walking" (un uomo morto che cammina). Condannato dalla progressiva dissoluzione della sua maggioranza politica. Nel discorso pronunciato alla Camera, il presidente del Consiglio ha giustamente richiamato i buoni risultati conseguiti dal suo governo sul fronte del bilancio statale. E tuttavia ben altre erano le ambizioni del centro-sinistra tornando alla guida del Paese. Riavviare lo sviluppo, ridurre le disuguaglianze, ridare coesione al Paese. In una parola, rilanciare la modernizzazione interrotta dell'Italia. Per varie ragioni, non tutte dovute solo alla sfortuna e all'esiguità della maggioranza al Senato, ma anche alle continue divisioni politiche che lo hanno tormentato fin dalla prima finanziaria, questo governo non è (più) in grado di tenere fede al compito che si era dato. Non solo per la mancanza di una maggioranza politica. Ma soprattutto perché ha perso la fiducia dei cittadini.

Ma la metafora dell'"ultimo miglio" rischia di risultare fatale anche per le riforme istituzionali. Che, pur tra mille scetticismi e delusioni del passato, sembrano ancora una volta una possibile ancora di salvezza. Condizione necessaria, seppure non sufficiente, per uscire da questo orribile inverno della Repubblica. Le riforme, fino a ieri ritenute necessarie da tutti i maggiori partiti, rischiano invece di venire affossate da un eventuale ricorso alle urne. Chiesto a gran voce dal centro-destra.

Perché la crisi ha ricompattato la Casa delle Libertà, che pure era stata dichiarata morta da tutti i suoi leader. Oggi invece intendono riproporla, quanto prima, agli elettori. Ma occorre ricordare che nella scorsa legislatura questi stessi partiti - che pure godevano di un'ampia maggioranza parlamentare - in fatto di divisioni, di conflitti laceranti, di paralisi decisionali, non sono stati certo da meno del centro-sinistra. Tanto da portare alle dimissioni di Berlusconi nel 2005.

Anche per questo non suona rassicurante il "bagno elettorale" richiesto da molti.



De Rita: "Destino segnato già prima del voto"
Paolo Conti sul
Corriere della Sera

ROMA — "La crisi del governo Prodi? Cominciò in campagna elettorale. Sa quando ho sospettato che la faccenda non avrebbe retto fino alla fine della legislatura?" Giuseppe De Rita presidia la sua scrivania al Censis da dove ha partorito la definizione dell'Italia-mucillagine, idealmente ripresa dal cardinal Bagnasco. La "faccenda", naturalmente, è il governo Prodi. Quando lo ha sospettato, professore? "Negli ultimi giorni della campagna elettorale, quando i giornali registrarono un calo dell'8% dei consensi. E perché Prodi li aveva persi? Solo perché balbettava, non sapeva presentarsi bene in tv?" Sembra di capire di no... "Certo che no. Li aveva persi perché non esisteva uno straccio di programma. Perché non poteva promettere nulla. C'era solo da tener su il nuovo corpaccione dell'Unione. C'era cioè da allearsi con Bertinotti a tutti i costi pur di battere Berlusconi. Ecco, l'errore di fondo. Stare insieme solo in nome dell'antiberlusconismo ".
Il ricordo di una cena privata, un mese prima delle urne. "Incontrai esponenti importanti dei Ds e della Margherita ". Chi? "No, niente nomi. Chiesi: perché tornate su Prodi, che forse non è in grandissima forma? Mi risposero: perché porta in dote Bertinotti. Solo così battiamo Berlusconi ".
De Rita riprende fiato: "L'errore fu lì. Incanalarsi verso l'affermazione elettorale senza offrire una vera sostanza, un programma condiviso. Lo si è capito guardando la tv, nei giorni dopo la vittoria. Un programma inventato "dopo" che tutti potevano tirare dalla propria parte senza essere smentiti. "Il mio programma è il risanamento del debito, il rigore". Oppure "il mio programma è la ridistribuzione del reddito, far piangere chi non ha pianto finora". Che vittoria, poi: parliamo di 25 mila voti...".

Ecco un ardito parallelo con Craxi. Che c'entra l'ex segretario del Psi con Prodi? "C'entra, c'entra. Prodi, in questo identico a Berlusconi, ha commesso un altro errore. Ha accettato la personalizzazione, la verticalizzazione, quindi la mediatizzazione e anche la finanziarizzazione del potere. Ovvero il decisionismo". Pensa alle volte in cui Prodi in tv ha detto Io resisto, Io vado avanti. "Già, per esempio. Con questo metodo è finito il parallelismo governo- popolo. Fino al 1992 il governo progettava, spiegava, il popolo capiva e alla fine accettava. Così c'è..." Un uomo solo al comando? "Esatto. Un uomo solo al comando. L'unico ad aver tentato una strada diversa fu il primo governo Amato. Poi, niente. Ecco perché il Censis descrive il corpaccione Italia ridotto a mucillagine per il 75%. Perché c'è una società lasciata a se stessa. Una società sfilacciata proprio perché abbandonata. Coriandoli, dice Bagnasco. Infatti io ho parlato di ritagli di umanità. Possono volare o affondare, ma certo non fanno struttura ".
Viene in mente la faccenda del declino. De Rita quasi insorge: "Qui c'è un altro equivoco. Non bisognava parlare di declino, perché il 25% che manda avanti il Paese se la cava bene. Occorreva prendere l'Italia e discutere di degrado, di coriandolizzazione ed egoismo, di ragazzi ipnotizzati da Internet e dalla tv. Magari di redditi bassi". Sta pensando al tesoretto, De Rita? Il professore ha quasi una smorfia di disgusto: "Un'altra faccenda gestita non si sa come. Ma è possibile pensare che dare qualche decina di euro in più per tre mesi ai più poveri potrebbe mai risolvere il problema degli squilibri sociali? Eh no, signori, non ci siamo proprio. Sarebbe stato più serio metterli nel deficit".
Quante volte ha pensato che Prodi sarebbe naufragato? "Tutti i giorni. E insieme mai davvero. Perché l'uomo è tenace, pronto a prendere botte a destra e a sinistra, pervicace. E anche, lo dico, molto onesto". Come finirà? "Non lo so. Prodi sa che molti dell'Unione, se cadono oggi, non rivedranno il potere per altri trent'anni. E chissà che la prospettiva di questo massacro politico...".


Sentenza di civiltà
Umberto Veronesi su
la Repubblica

La sentenza del Tar del Lazio sulla diagnosi pre-impianto fa pensare come, alla situazione di inadeguatezza legislativa del nostro Paese sui grandi temi etici, rimediano le coraggiose decisioni dei giudici, che richiamano i valori originari della nostra Costituzione, in difesa dei diritti fondamentali dei cittadini e in risposta ai loro nuovi valori.
A ben riflettere è successo più di una volta, ultimamente. Lo scorso 16 ottobre, la Corte di Cassazione ha riaperto il caso di Eluana Englaro (la ragazza in stato vegetativo da 15 anni, per la quale il padre chiede di poter sospendere i trattamenti che la tengono in una vita artificiale) richiamandosi all´articolo 32 della Costituzione, che tratta del diritto alla salute e all´articolo 13, che riguarda la libertà personale di tutti i cittadini. La sentenza del Tribunale di Cagliari che il 24 settembre dello scorso anno ha legittimato la diagnosi pre-impianto richiesta da una donna portatrice di talassemia, è stata motivata dal fatto che il diritto alla salute della futura madre e quello dell´informazione per tutelarla, garantita dalla Costituzione, prevalgono sul divieto della legge 40.
Complimenti ai magistrati che ancora dimostrano di spingersi nel terreno della difesa delle idee, là dove il Parlamento non arriva neppure a muoversi. Anche dietro questa ultima sentenza c´è una decisione di grande civiltà. I giudici hanno capito che la diagnosi pre-impianto è una straordinaria opportunità a favore della vita, che nasce per permettere a un uomo e una donna, minacciati da una malattia genetica, di poter aver un figlio sano. Già oggi sono 30.000 i bambini che nascono con malformazioni genetiche e il numero è destinato ad aumentare per le nuove caratteristiche della maternità.
Le donne tendono ad avere il primo figlio in età avanzata, quando il rischio di malformazioni aumenta. Dobbiamo poi tenere conto che l´aver figli diventa più difficile in generale, per il calo della fertilità del maschio, che ha meno spermatozoi, e le mutate abitudini di vita della donna. Questo significa che il ricorso alla fecondazione assistita diventerà sempre più ampio e la legge 40, era nata proprio per facilitare le coppie che, sempre più numerose, si trovano ad affrontare il percorso non facile dei bimbi in provetta. In particolare la diagnosi pre-impianto è la via più intelligente per non chiudere la via della procreazione a chi ha difetti genetici. O, ciò che è ancora peggio, per non condannarlo alla decisione dell´aborto terapeutico nel caso la malattia venga scoperta nel feto durante la gravidanza. Una scelta psicologicamente drammatica, oltre che fisicamente traumatica per la donna.
La diagnosi pre-impianto permette la scelta, tra gli embrioni prodotti in vitro, di quello che non porta il seme della malattia, per impiantarlo. Che vuol dire la certezza di un figlio sano e che nulla ha a che vedere con l´eugenetica. Anzi, pare persino una crudeltà vietarla. Anche Renato Dulbecco ha ammonito che nei casi di portatori di malattie genetiche il concepimento naturale può essere una condanna a morte, se nell´embrione sono presenti tare ereditarie. Si può, per ragioni ideologiche, non applicare una conoscenza scientifica che aiuta la vita e il diritto a procrearla? Con la loro sentenza i giudici del Tar sembrano aver risposto di no e con questa risposta ci allineano agli altri Paesi europei, dove la diagnosi pre-impianto è routine. In Gran Bretagna è addirittura consigliata per le donne che hanno una gravidanza dopo i 40 anni. C´è da sperare, come sembra, che questa sentenza smuova davvero le acque per una revisione della costituzionalità delle linee guida della legge 40, per evitare la penosa migrazione delle coppie in cerca di figli, verso i Paesi dove la legislazione è adeguata.

Una migrazione che penalizza le coppie meno abbienti e relega l´Italia a un ruolo di Paese civilmente arretrato.


L'ombrello della FED sotto l'uragano
Vittorio Zucconi su
la Repubblica

È l´America che ha fatto piovere sulle Borse del mondo, ed è l´America che apre l´ombrello. La tempesta finanziaria provocata dal collasso dei mutui immobiliari spazzatura non diventa per ora uragano grazie all´intervento di emergenza della Federal Reserve americana, della santa dei disperati che, mentre il governo e il Parlamento cercano improbabili "stimoli" e "pacchetti" come qualsiasi governo europeo si muove a sorpresa e con decisione.
Cerca di rimediare, con la politica del credito facile e un taglio dello 0,75 per cento al costo del danaro non più visto da 25 anni, al disastro che essa stessa non aveva saputo prevenire e Wall Street evita l´alluvione. Risale dall´abisso dei 500 punti lasciati a terra in apertura e chiude con una perdita contenuta. Piove ancora, ma l´ombrello della Fed ha risparmiato un bagno mondiale. Per ora.
Il giorno del grande panico era cominciato di notte, nel buio dell´alba di martedì a Washington, ed era cominciato con una litigata furiosa. Dopo il lunedì del massacro borsistico in Europa e in Asia, vissuto da un´America impotente, con le mani legate dalla festa di Martin Luther King, mentre i primi dati delle "futures", dei prezzi all´apertura di Wall Street indicavano un crollo del 5, punti mai visto dal lunedì nero del 1987, il presidente e i governatori regionali della Federal Reserve si chiudevano nella sala della "Commissione Mercati" a Washington per limitare l´effetto boomerang dall´Europa.
Soltanto uno fra loro, il governatore per la regione di St. Louis, William Poole, si opponeva. "Troppo, troppo tardi e troppo pericoloso per l´inflazione", recalcitrava, e tra lui e il nuovo Presidente Benjamin Shalom Bernanke alla sua prima crisi importante, il braccio di ferro durava fino alle 6 e 30 del mattino. Mentre le lancette del pendolo che adorna la sala della riunione nel massiccio tempio della Fed in stile "Beaux Arts" costruito da un architetto francese, battevano i secondi verso l´apertura alle 9 e 30, il dissidente si è arreso e Bernanke l´ha spuntata. Prima ancora che l´America dei "commuters", avesse acceso le tv del mattino, la Fed, la sentinella dei mercati e del dollaro voluta da Woodrow Wilson nel 1913, aveva tagliato il costo dei fondi che le banche private si prestano fra di loro utilizzando i depositi presso la stessa Fed di 75 punti base, lo 0,75%, un colpo di accetta mai visto da 20 anni.
E faceva capire che alla riunione prevista in calendario fra pochi giorni, un altro taglio di almeno 50 punti, di un mezzo per cento, sarebbe stato fatto sul tasso di sconto, il vero costo di quel danaro che influenza direttamente i consumatori e i debitori. "Ci sono segnali che la situazione potrebbe determinare un deterioramento nel tasso di crescita", brontolavano i cardinali del dollaro a fine riunione, con una di quelle frasi fumogene che tradotte significano quello che tutti, meno il Bush che ancora ieri ha parlato di un´economia "inerentemente forte" mentre prometteva di salvarla, ormai sanno: che l´America è entrata da mesi in un avvitamento economico del quale nessuno conosce il fondo.
Sotto lo sguardo terrorizzato dei quasi 80 milioni di americani che hanno risparmi, investimenti, sogni, rette per i college e soprattutto pensioni in Borsa, Wall Street purgava la tensione accumulata nel lunedì festivo mentre Londra, Parigi, Francoforte, Milano e poi Giappone, Cina e India, le fragili potenze commerciali che dipendendo dai consumatori americani per gonfiarsi, scaricando nei primi 30 minuti più del 4 per cento del valore del listino per poi faticosamente arrampicarsi a quote meno terrorizzanti.
Dunque ancora una volta, come riuscì a fare nel 1987 e poi dopo l´11 settembre, è stata l´America, e la rapidità con la quale le sue autorità monetarie indipendenti hanno saputo intervenire a limitare i danni. Sono sempre gli Stati Uniti, nonostante la crescita di altri soggetti economici in Asia ed Europa, a essere insieme l´alluvione e la diga, la causa e la soluzione dell´economia globale. Infatti è stato sufficiente che Bernanke, la Fed e i suoi recalcitranti membri come Poole intervenissero sul costo dei prestiti interbancari perché immediatamente le Borse europee fermassero il collasso.
È stato la teatralità della mossa a fare la differenza, per oggi. E a dire che gli Stati Uniti sono di fatto, e lo saranno per tutto il 2008, governati non da un Presidente in agonia o da un Parlamento in orgasmo elettorale, ma dalla Federal Reserve, da Bernanke e dai dodici governatori delle banche regionali che formano il sistema della Fed.

Wall Street non è annegata e le Borse del mondo hanno rifiatato. Ad aiutare un poco c´è il prezzo del petrolio, che è sceso, in un sintomo eloquente di recessione alle porte e dunque di minore domanda, al di sotto dei 90 dollari. Una riduzione del 10% dall´annunciatissimo tetto di 100, che invano gli automobilisti attenderanno di vedere tradotto alle pompe di benzina. Ma fino a quando non si vedrà con chiarezza quanto costerà il collasso del mercato dei mutui a rischio, i "sub prime", e i fiori di latta, i cartelli "in vendita" continueranno a sbocciare nei giardini delle case senza che nessuno li raccolga (l´inventario dell´invenduto è il più alto dal 1970) la Fed sarà costretta a spingere al ribasso sia i fondi federali che il costo del danaro, sapendo che abbassare i tassi non è il toccasana, come non è l´ombrello a far tornare il sole. Nel Giappone degli Anni 90, dopo lo scoppio del pallone immobiliare a Tokyo, i costi del danaro scesero praticamente a zero, senza far ripartire l´economia. "La Fed" commentava Larry Kudlow, uno degli economisti più brutali "oggi è nella condizione di chi cerca di spingere in avanti una stringa da scarpa".


  24 gennaio 2008