prima pagina pagina precedente



sulla stampa
a cura di G.C. - 22 gennaio 2008


Il Paese dell'anomalia
Massimo Giannini su
la Repubblica

Nell'esausta democrazia italiana, malata di opposti estremismi e di mutui immobilismi, è difficile anche morire. Tra grandi montagne di rifiuti materiali e piccole vendette personali, le ultime ore di vita del governo di Romano Prodi sono un tormento politico e un calvario mediatico. Nulla è normale, lineare, fisiologico, nell'irrisolta e mai realmente compiuta Seconda Repubblica.

In qualunque altro Paese dell'Europa moderna una maggioranza cade in Parlamento, per una rottura politica che gli elettori capiscono, e di cui comprendono le ragioni. Solo in Italia il leader di un piccolo partito può annunciare la fine di una maggioranza politica in una conferenza stampa, e poi nel solito salotto di Porta a porta. Senza prima spiegare alle Camere le sue motivazioni, e senza rendere conto all'opinione pubblica delle sue decisioni.

La "rupture" di Clemente Mastella è il gesto irresponsabile di un ministro Guardasigilli che, colpito da una pesante e non del tutto convincente inchiesta della magistratura, ha trasformato se stesso in un martire, mai abbastanza "protetto" dai suoi stessi alleati. E fingendo di immolare se stesso sull'altare della persecuzione giudiziaria, ha finito per sacrificare il governo sull'altare della convenienza politica. Forse l'ha fatto per evitare comunque le forche caudine del referendum, come lasciano pensare le mosse dell'Udeur successive al via libera della Consulta ai quesiti. O forse l'ha fatto perché ha già in tasca un accordo con Berlusconi, come lascia sospettare la sua pretesa, del tutto irrituale, di ottenere "la crisi di governo e le elezioni anticipate".

Sta di fatto che questo, probabilmente, è l'atto finale con il quale si compie il destino di Prodi, e si avvera l'ormai celebre profezia di Fausto Bertinotti, che aveva paragonato il premier al Cardarelli di Flaiano, "il più grande poeta morente". È anche, verosimilmente, il rito di passaggio che finirà per riportare gli italiani alle urne, con tre anni di anticipo sulla regolare scadenza della legislatura. Ma neanche quest'ultimo strappo, al momento, è ancora sufficiente a trasformare una crisi virtuale, che purtroppo dura ormai da qualche mese, in una vera e propria crisi formale. C'è modo e modo di morire. E se proprio gli tocca, Prodi vuol morire a modo suo. In un modo che lasci il segno, non solo sulla sua immagine personale di questi giorni, ma anche e soprattutto sull'anomala transizione italiana di questi anni.

Per questo la sua strategia, messa a punto nella notte insieme ai colleghi ministri e ai leader del centrosinistra, prevede una serie di tappe che non appaiono del tutto scontate, e che potrebbero riservare persino ulteriori sorprese.

Prodi oggi non andrà a dimettersi nelle mani del Capo dello Stato, come gli chiede in coro il centrodestra ricompattato dall'eutanasia del centrosinistra. Si presenterà invece alla Camera, per il dibattito sulla giustizia, o facendosi approvare un ordine del giorno, o chiedendo esplicitamente la fiducia. La otterrà, perché nonostante tutto il Pd e la sinistra radicale non hanno alcuna intenzione di staccare la spina, e perché a Montecitorio il governo ha i numeri anche senza l'Udeur.

A quel punto, forte di questo imprimatur di un ramo del Parlamento, affronterà le forche caudine del Senato. E a Palazzo Madama, se nel frattempo non fosse riuscito un tentativo estremo di far rientrare Mastella, o quanto meno di convincere i dubbiosi del suo partito a recedere dal proposito di uscire dalla maggioranza, il premier potrà anche cadere. Ma nella caduta, marcherà a fuoco l'intollerabile anomalia del sistema politico-istituzionale: un voto disgiunto tra la Camera che dà la fiducia e il Senato che la nega, ultimo frutto avvelenato di una legge elettorale scellerata (il "porcellum"). E così segnalerà una volta di più l'urgenza di non interrompere il cammino del governo, perché anche ad esso è collegato il cammino delle riforme istituzionali ed elettorali necessarie a superare quell'anomalia di sistema.

Visto nell'ottica degli "addetti ai lavori", in questo percorso tortuoso c'è un elemento di valutazione che anche il presidente della Repubblica, quando sarà chiamato a decidere il da farsi, non potrà trascurare del tutto. Ma non si può negare che, visto invece in nell'ottica della gente comune, questo può sembrare un inutile, disperato bizantinismo del Palazzo romano.

Si può capire che Walter Veltroni, e con lui lo stato maggiore del Pd, faccia di tutto per sostenere il tentativo del governo. Ha vissuto con crescente disagio il dovere morale di intestarsene i problemi, dallo scandalo dei rifiuti a Napoli allo stesso caso Mastella. Ha dovuto procedere, con andatura a tratti schizofrenica, su un doppio binario: la condivisione forzata (esprimendo solidarietà politicamente "costose" perché altamente impopolari, per esempio a Bassolino e a Pecoraro-Scanio) e la vocazione maggioritaria (sostenendo costantemente la sfida ai "nanetti" dell'Unione sulla libertà del Pd di presentarsi da solo qualunque sia il sistema elettorale, che ha finito per far saltare i nervi all'Udeur).

Proprio oggi, nonostante tutto, Veltroni non può permettersi il lusso di scaricare Prodi, senza pagare a sua volta il prezzo di una co-gestione dei suoi insuccessi più recenti: dall'azione di governo allo stesso esito, purtroppo improduttivo, del dialogo sulla riforma elettorale.

Questo tema chiama in causa l'altro protagonista di questa fase cruciale. Non si capisce perché mai Silvio Berlusconi dovrebbe fermarsi, ormai a meno di un metro dal traguardo che insegue da un anno e mezzo di spallate fallite. Il Cavaliere ha tutto l'interesse a sbarrare la strada non solo alla sopravvivenza di Prodi, il che è fin troppo ovvio, ma anche a qualunque altra ipotesi che non contempli le elezioni anticipate. Governo tecnico-istituzionale compreso. Conoscendo il soggetto, già pareva difficile individuare la sua convenienza a fare un accordo con Veltroni sul "Vassallum" o sulla bozza Bianco, che avrebbe allungato la vita a un Prodi solido al governo.

Figuriamoci dove può essere il suo vantaggio ad assecondare l'operazione proprio adesso, appoggiando un tentativo ulteriore di un Marini o di chissà chi altro, con un Prodi ormai "morente" a Palazzo Chigi. Il richiamo della foresta, per il Cavaliere, è a questo punto troppo forte. E Fini e Casini, in queste condizioni-capestro, non possono resistergli senza dare ai rispettivi elettorati l'impressione di voler azzardare chissà quale inciucio.

Per questo, alla fine, l'epilogo di questa crisi saranno le elezioni anticipate.



L'ultima chance del premier
Massimo Franco sul
Corriere della Sera

La domanda è se ha archiviato il centrosinistra o preso atto che era già finito. Perché fino a "prima", nel senso di prima dell'inchiesta giudiziaria sull'Udeur e prima delle dimissioni da ministro della Giustizia, Clemente Mastella è apparso una sorta di pretoriano di Romano Prodi. Per questo, nella sua accelerazione di ieri c'è un salto che solo i prossimi giorni potranno spiegare. In teoria, dopo l'annuncio che il suo partito esce dalla maggioranza, si è aperta una crisi virtuale. Rimane da capire se il suo obiettivo è davvero quello delle elezioni, oppure un altro governo.
Soprattutto, bisogna vedere se Prodi getterà la spugna: prospettiva tutt'altro che scontata. Mastella tenta di zittire quanti diffidano della sua perentorietà; e aspettano di assistere all'epilogo. Qualcuno è andato a spulciare i casi nei quali un premier dato per politicamente morto alla fine è sopravvissuto a se stesso. Suona magari vagamente blasfemo citare gli otto governi di Alcide De Gasperi dal 10 dicembre del 1945 al 28 luglio del 1953. Ma ci sono altri casi. Ad esempio, i due governi presieduti da Giovanni Spadolini dal 28 giugno del 1981 al 13 novembre del 1982.

Era un'altra Italia. E l'ipotesi che Prodi possa riemergere indenne da uno scarto così violento ieri suonava inverosimile. Eppure quel decennio convulso alla fine del secolo scorso anticipava la crisi del sistema: come quella odierna, sebbene con protagonisti diversi per statura e storia. Il cardinale Angelo Bagnasco ha parlato di un Paese ridotto in "coriandoli": un eufemismo solo apparente, che dà il senso dello spappolamento. A guardar bene, il gesto politico dell'Udeur lo riflette e insieme lo moltiplica: fino a far nascere sospetti fra chi a sinistra tende a vedere complotti vaticani contro l'Unione. In realtà, Mastella non provoca ma rivela la lacerazione del centrosinistra.
E per paradosso, difende Prodi e accusa Walter Veltroni, il segretario del Pd. Per il primo ci sono parole generose: anche se palazzo Chigi ammette che da due giorni non riusciva a parlare con l'ex ministro. Eppure, la determinazione del premier a non dimettersi fino a un voto di sfiducia continua ad apparire feroce. Il suo piano lucidamente disperato è di presentarsi oggi in Parlamento, sfidando ciò che resta dell'Unione. L'estrema scommessa è di convincere gli alleati che dopo di lui arriverebbe il diluvio elettorale berlusconiano.
Sarà l'ultimo tentativo di magìa del Professore, di fronte ad un pubblico ormai, più che scettico, nervosamente disincantato.


La globalizzazione della carta straccia
Alfredo Recanatesi su
l'Unità

L'intera economia mondiale è stata infettata da quei rifiuti tossici che le banche soprattutto americane hanno diffuso su scala globale. Si tratta di quei titoli cosiddetti derivati che consistono in obbligazioni che rappresentano mutui per l'acquisto di case privi di adeguate garanzie sia perché concessi anche a chi non possiede un reddito per poterli rimborsare, sia perché, con la caduta dei prezzi degli immobili, il valore di mercato di quelle case non copre più l'importo che è stato erogato.
Insomma, carta straccia o giù di lì, una truffa che è stata possibile realizzare su scala così macroscopica in un Paese dove l'attività bancaria e finanziaria è tuttora ideologicamente affrancata dai controlli ai quali è invece sottoposta in Europa.
L'infezione si sta rivelando più forte del previsto perché non si conosce né l'ammontare di questi titoli in circolazione, né chi li abbia sottoscritti. Ne è derivata una crisi di fiducia sulla reale situazione economica e patrimoniale delle grandi banche. Diffidando le une delle altre, queste hanno fortemente ridotto la propensione a prestarsi reciprocamente denaro. La conseguenza è che, malgrado le robuste iniezioni di liquidità effettuate fin dall'estate scorsa da tutte le banche centrali, il costo del denaro, soprattutto a breve termine, è fortemente salito. Poiché in tutto il mondo economicamente più evoluto la globalizzazione ha penalizzato i redditi da lavoro, e poiché di conseguenza nella grande massa dei consumatori è cresciuta la quota di quanti sono costretti ad indebitarsi, un aumento del costo del credito si traduce in una contrazione dei consumi. Negli Stati Uniti, dove è altissima la quota di persone che, usando le carte di credito, fanno a debito anche per la spesa quotidiana, la frenata della domanda interna sta mettendo in crisi l'intera economia. Insensibile alla pronta reazione di Bush, che nel tentativo di scongiurare un così acuto peggioramento della situazione economica proprio nell'anno delle elezioni presidenziali ha annunciato un piano di riduzioni fiscali, la maggioranza degli economisti vede ormai un futuro prossimo di recessione. A parte gli eccessi di ieri, la tendenza ribassista che tutte le borse stanno registrando da tre mesi a questa parte è il segno di una infezione che dalla finanza si va estendendo all'economia reale. Anche se le banche italiane non si sono fatte coinvolgere dalle sirene di questa finanza tanto innovativa quanto corsara, le conseguenze della crisi americana stanno investendo anche la nostra economia. La Banca d'Italia ha già tagliato le stime di crescita per quest'anno ad un misero 1%, e non è detto che altre revisioni al ribasso si rendano necessarie. Comunque, la stagione della crescita, che già si è rivelata debole con un aumento del Pil che l'anno passato non ha raggiunto neppure il 2%, ora si rivela anche breve, praticamente già esaurita. I problemi che ne derivano sono di due ordini tra loro correlati. C'è in primo luogo una emergenza salari che con una economia in frenata sarà ancora più difficile affrontare. Il contratto dei metalmeccanici, per quanto soddisfacente nelle circostanze date, non è tale da cambiare la vita, così come non può cambiarla una riduzione del prelievo fiscale su stipendi e salari. Perché si possa risalire qualche posizione nelle classifiche del reddito pro capite e, soprattutto, nel livello dei salari occorre uscire dalla logica redistributiva. Questa può essere seguita in presenza di qualche emergenza sociale, più che economica. Ma per avviare la questione verso una soluzione strutturale appare sempre più necessario che il sistema produttivo torni a generare reddito. Le politiche di aumento della produttività e della competitività imperniate sul contenimento dei salari e sulla flessibilità del lavoro seguite all'accordo del 1993 non hanno funzionato se è vero, com'è vero, che oggi l'economia italiana è in condizioni relative peggiori di quelle di allora. Non hanno funzionato perché la difesa dei profitti, che pure hanno consentito, non si è tradotta in una ripresa di investimenti volti a convertire un sistema produttivo strutturato su mercati segmentati e cambio della moneta utilizzabile ai fini della competitività, in uno in grado di sostenere una competizione globale e un cambio fisso e, per di più, molto forte. Non avendo funzionato quelle politiche, il rallentamento dell'economia mondiale coglie l'economia italiana in una condizione di persistente debolezza strutturale. E di nuovo tutto si fa più difficile.



L'esito positivo di riti arcaici
Massimo Riva su
la Repubblica

In un paese nel quale la questione salariale è una talpa esplosiva, che sta scavando sotto la crosta della pace sociale, la chiusura del contratto dei metalmeccanici è una notizia non buona ma ottima. Lasciare incancrenire questa vertenza sarebbe stato come versare benzina sul fuoco di un disagio economico che oggi colpisce un numero sempre maggiore di famiglie e comincia a lambire seriamente anche il tenore di vita di quello che un tempo era l´invidiatissimo (dal basso) ceto medio.
Resta vivo, viceversa, il rammarico di dover constatare una volta di più che, con un poco di migliore buona volontà e lungimiranza, questo risultato avrebbe potuto essere raggiunto senza dover pagare il tributo di sette lunghi mesi di duro conflitto fra le parti con oltre cinquanta ore di scioperi. Sotto questo profilo non ha torto di sicuro il presidente di Confindustria quando parla di "negoziati arcaici" con trasparente riferimento – par di capire – a quella liturgia barocca delle vertenze contrattuali in cui ciascuna delle due parti si sente in dovere di cercare credibilità e legittimazione nel proprio campo ostentando la faccia feroce e lasciando così trascorrere troppo tempo invano.
Appartiene a questa vetusta liturgia anche la necessità di arrivare a concludere l´accordo in sede ministeriale. Ora sia i sindacalisti sia gli imprenditori sono concordi nel rendere grazie al ministro del Lavoro per la sua risolutiva opera di mediazione.
Ma questo doveroso inchino serve soltanto a far risaltare meglio l´incapacità dell´una e dell´altra parte in causa a cercare e trovare autonomamente la soluzione della vertenza. Un´impotenza che lascia trasparire una rinuncia alle responsabilità del proprio ruolo e un inconscio desiderio di apparire soggetti passivi di un "deus ex machina" anziché come artefici in prima persona dell´accordo finale.
È opportuno non sottovalutare questo vizio di forma della vicenda perché sarebbe un guaio davvero serio se la più complessa e generale questione dei salari venisse affrontata con questo spirito di rinvio a un´autorità superiore. Certo che in materia il governo può, anzi deve, fare molto. Un alleggerimento delle tasse sui livelli di reddito più bassi – per esempio, il taglio dal 23 al 20 per cento della prima aliquota dell´Irpef – si offre come la strada maestra. Ma a due, imprescindibili, condizioni.
La prima è che questa operazione avvenga se e quando lo stato dei conti pubblici potrà garantirne adeguata copertura finanziaria: chi chiede al ministro Padoa-Schioppa di spendere oggi i soldi che forse incasserà domani fa soltanto della demagogia di basso conio.
La seconda è che gli sgravi d´imposta non possono diventare il comodo punto d´appoggio per risolvere le tensioni fra imprese e sindacati sui temi del lavoro straordinario, della contrattazione aziendale, della produttività: la segmentazione fiscale delle buste paga può dare vantaggi estemporanei, ma è un insulto al principio basilare secondo cui ciascuno paga in rapporto al suo reddito.

Nel momento in cui Confindustria pone la giusta esigenza che l´obiettivo di salari più decorosi sia raggiunto anche attraverso significativi recuperi di produttività, tocca al sindacato porre con non minore forza la questione della sicurezza sui posti di lavoro che è parte integrante del tema produttività. È stato un grave errore da parte delle Confederazioni il rifiuto di un confronto a tutto campo su questo nodo. Forse ci si è illusi che questo fosse un modo per contrastare lo sfruttamento del lavoratore, come si dice in vecchio sindacalese. Il risultato – sotto gli occhi di tutti – è che le imprese, non potendo ottenere più prodotto per ora lavorata, hanno concentrato i loro risparmi nel taglio dei costi della sicurezza.
Guai, anche in questo caso, a pensare che tutto si possa risolvere con interventi del governo. Si possono e si sono anche fatte leggi più severe. Si possono e si sono anche moltiplicate le ispezioni d´autorità. Ma soltanto una vigile presenza del sindacato può tenere sotto controllo le effettive condizioni di vita e di lavoro quotidiane in una qualunque fabbrica. Chi si ostina a tenersi lontano da una trattativa sul tema della produttività – cioè dei modi e dei tempi dell´organizzazione del lavoro – non solo non aiuta a sciogliere il nodo dei bassi salari, ma finisce per tollerare quella forma più odiosa di sfruttamento del lavoratore che nasce dalla carenza di misure di sicurezza.
Nel giorno in cui è naturale rallegrarsi per la positiva conclusione di una grande vertenza sindacale, non va dimenticato che la talpa del malcontento salariale e del lavoro pericoloso continua nella sua opera di scavo sotto le fondamenta della coesione sociale.


Cei: “L'Italia è un paese sfilacciato”
Marco Tosattti su
La Stampa

ROMA. Il cardinale Bagnasco parla di legge 194, famiglia, politica, legalità e dello stato del paese. “Da parte della Chiesa non esiste alcuna 'intenzionalità bellica'” nei confronti della legge sull'aborto: l'ha detto nella sua prolusione al Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana il Presidente, il cardinale Angelo Bagnasco.

“Dobbiamo continuare a dire che la vita è dono, e che non è nella disponibilità di alcuno manometterla o soffocarla – ha proseguito il porporato -. E dobbiamo ad un tempo ricordare che l'amore umano è sempre associato a una responsabilità che si esprime anche quando lo si intende come gioco distratto e leggero”. Bagnasco ha definito “benefica” la discussione che si è aperta, e ha ringraziato “chi per primo, da parte laica, ha dato evidenza pubblica alla contraddizione tra la moratoria che c'è e quella che fatichiamo tanto a riconoscere”, cioè Ferrara.

I vescovi chiedono una verifica su ciò che la 194 “intitolata alla 'tutela della maternità' ha prodotto e ciò che invece non si è attivato di quanto prevede, soprattutto in termini di prevenzione e di aiuto alle donne, e dunque alle famiglie”. Suggeriscono che si tenga conto “delle nuove conoscenze” dal momento che i progressi della scienza e della medicina fanno sì che “oltre le 22 settimane di gestazione c'è già qualche possibilità di sopravvivenza”. In concreto, suggeriscono che “i fondi previsti dalla legge 194, all'art. 3, magari accresciuti da apporti delle Regioni, siano dati in dotazione trasparente ai consultori e ai centri – comunque si chiamino – di aiuto alla vita, giacché l'esperienza insegna che già pochi mezzi forniti per un primo intervento sono talora sufficienti per dare ascolto alle donne, aiutarle a riconoscere la propria forza, a non sentirsi così sole in una comunità che non può continuare a considerare la maternità un lusso privato e l'aborto una forma di risposta sociale”.

Molto ampia la prolusione di Bagnasco. Ha negato che la Chiesa abbia un “disegno egemonico”, ma ha detto che una cosa è cercare di migliorare o comunque limitare i danni di una legge cattiva, altro è “acconsentire, in partenza, che leggi intrinsecamente inique vengano iscritte in un ordinamento”. E' il “caso Binetti”; e in questo campo non possono esistere, dice Bagnasco, “vincoli esterni di mandato, in quanto la coscienza è ambito interno, anzi intrinseco, alla persona, e dunque obiettivamente non sindacabile. Il voto di coscienza, in realtà, è una risorsa a esclusivo servizio della politica buona, e dunque – all'occorrenza – può e deve diventare una scelta trasversale rispetto agli schieramenti, e invocabile in ogni legislatura”. Sulla famiglia ha citato la Caritas, che denuncia un aumento della povertà. “Avere tre figli da crescere comporta un rischio di povertà pari al 27,8%, valore che nel Sud sale al 42,7%”, si legge nel rapporto pubblicato nell'ottobre scorso.

Di fatto – sottolineava in conclusione la stessa Caritas – l'Italia incoraggia le famiglie a non fare figli”.

Sempre sulla famiglia: “La Chiesa, ad esempio, dice sì alla famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Per questo si oppone alla regolamentazione per legge delle coppie di fatto, o all'introduzione di registri che surrogano lo stato civile. Non la muove il moralismo, o peggio il desiderio di infliggere pesi inutili o di frapporre ostacoli gratuiti. Al contrario, abbiamo a cuore davvero il futuro e il benessere di tutti. Conferendo diritti e privilegi alle persone conviventi, apparentemente non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, ma si sottrae di fatto ai diritti e ai privilegi dei coniugi il motivo che è alla loro radice, ossia l'istituto matrimoniale che nessuno – a questo punto - può avere l'interesse a rendere inutile o pleonastico, o a offuscare con iniziative, quali il divorzio breve, che avrebbero la forza di incidere sulla mentalità e il costume, inducendo atteggiamenti di deresponsabilizzazione…La struttura della famiglia non è paragonabile ad un'invenzione stagionale, e questo almeno per due motivi. Il primo, è relativo alla indubitabile complementarietà tra i due sessi; il secondo, riguarda il bisogno che i figli hanno, e per lunghi anni, di entrambe le figure genitoriali, quanto meno per il loro equilibrio psichico e affettivo”.

Un'ultima nota, sul problema delle discriminazioni: “La Chiesa, mentre fermamente si oppone alle discriminazioni sociali poste in essere a motivo dell'orientamento sessuale, dice anche la propria contrarietà all'equiparazione tra tendenze sessuali e differenze di sesso, razza ed età. C'è un gradino qualitativo che distanzia le prime dalle seconde, e non è interesse di alcuno misconoscere la realtà che appartiene alla struttura dell'essere umano in quanto tale. Come non scorgere nelle teorie che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona, quasi che queste siano una mera convenzione pseudo-culturale, un'accentuazione oggettivamente autolesionistica, un deprezzamento alla fin fine della stessa corporeità che si vorrebbe unilateralmente esaltare? Facile obiettare che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in queste questioni: diciamo anche noi, con Benedetto XVI (nel Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2006), forse che la persona non ci deve interessare? Come facciamo a non curarci del destino e della felicità di coloro al cui servizio siamo mandati?”. Di molti altri argomenti – legalità, il “caso” Sapienza, l'enciclica “Spe Salvi” ha parlato Bagnasco; e dello stato del paese, “che profondamente amiamo, (e) si presenta sempre più sfilacciato, frammentato al punto da apparire ridotto addirittura “a coriandoli”, avvertono gli esperti”.


Tabacci: “UDC, basta autoassoluzioni”
Fabio Martini su
La Stampa

ROMA. Col compiacimento di chi si sente un libero pensatore, Bruno Tabacci scandisce parole grosse, che pochi altri politici possono permettersi: "Confesso che le brutte vicende di questi giorni - i rifiuti campani, la vicenda Mastella, la condanna a Cuffaro - mi hanno messo in una condizione di grande prostrazione. Nella vicenda politica oramai c'è soltanto la violenza delle diverse bande in campo. Comincio a provare disgusto per quel che siamo diventati: l'etica pubblica si disperde, siamo diventati campioni del conflitto di interesse, che esalta il nostro personale contro quello generale". Allievo di Albertino Marcora, già presidente democristiano della Regione Lombardia negli anni della Prima Repubblica, indagato e assolto durante Tangentopoli, da anni Bruno Tabacci vive con indipendenza di giudizio la militanza nell'Udc e nel centrodestra.

Il leader del suo partito, Pier Ferdinando Casini, ha tirato un sospiro di sollievo perché il Governatore di Sicilia Totò Cuffaro non è mafioso e dunque può restare al suo posto dopo una condanna a 5 anni. Lei condivide?
"Non sono d'accordo con la sottovalutazione fatta da Casini. La mia solidarietà umana a Cuffaro è fuori discussione, ma nella mia coscienza emerge un dissenso politico per l'indifferenza con la quale si valutano le sentenze giudiziarie. Qui non stiamo parlando di un divieto di sosta".

Quale il messaggio che viene fuori dalla vicenda?
"Quello della furbizia. Non si può ridurre tutto ad uno scontro tra poteri, nel quale oltretutto non emerge un'autorevolezza della politica, capace di indicare la strada di un rinnovamento anche alla magistratura. Una politica che si erge invece a difesa della casta".


Con questo atteggiamento minimalista, non si alimenta il qualunquismo?
"Esattamente. Così si fa crescere l'antipolitica, non ci si può assolvere da soli in un sistema democratico fondato sulla divisione dei poteri. D'altra parte il giustizialismo e la risposta della piazza all'ebbrezza del sangue e alla decapitazione delle classi dirigenti, lo conosciamo già. Solo una politica alta e credibile può spingere la magistratura a recuperare appieno il senso dello Stato".

Lo spaccato offerto dall'inchiesta Mastella non racconta una politica impicciona sino a diventare soffocante?
"Emerge un quadro nel quale è difficile distinguere tra reato e costume tra fatti penalmente rilevanti e abitudini consolidate. Si staglia la crisi di una politica arrogante che giustifica ogni corporazione e furbizia, il prevalere dell'accaparramento personale sull'etica pubblica. Non sono più le raccomandazioni di Remo Gaspari. La sanità non è per il malato, ma per chi vi opera: la politica vuole controllare la sanità per controllare i bisogni dei cittadini nella debolezza della loro salute e condizionarne le scelte".

Nel Mezzogiorno l'etica pubblica fatica da decenni, ma al Nord la politica è davvero così disinteressata?
"Anche al Nord accadono certe cose e nella stessa Lombardia non è che i Formigoni ci vadano leggeri".


Mastella che si è dimesso è meglio di Cuffaro?
"Dopo il suo intervento alla Camera, ho stretto la mano a Mastella e gli ho detto: “Dai subito dimissioni irrevocabili”. Lui mi ha risposto: “Prodi sta...”. E io: “Se pensi di utilizzare l'interesse di Prodi a galleggiare, non arrivi a stasera”. Se pensava di restare, non lo ha fatto e ha dato il segno di come ci si deve comportare in questi casi".


Bernardini il "ribelle": provocazione dal Pontefice
Paolo Conti sul
Corriere della Sera

ROMA — "Una provocazione, questa di Benedetto XVI, travestita da captatio benevolentiae di fronte a una esibizione di forza muscolare organizzata da Camillo Ruini". Casa del professor Carlo Bernardini, ex docente di metodi matematici al dipartimento di Fisica della facoltà di Scienze de "La Sapienza", di cui è stato preside, direttore della rivista "Sapere", ex senatore indipendente del Pci nel 1976. E primo firmatario ("per motivi alfabetici… ") della lettera indirizzata al rettore Guarini per chiedere di annullare "l'incongruo evento" del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico. La miccia della bomba "La Sapienza"-Benedetto XVI.

Il Pontefice nel dopo- Angelus parla della mancata visita. "Ratzinger sa benissimo che questa mattinata avrà una rilevanza politica enorme. Nel Pd, c'è da scommetterci, le Binetti si moltiplicheranno". Compare monsignor Rino Fisichella che parla di mancato confronto, di ricerca della verità: "Per loro c'è una sola verità".
E punta l'indice verso l'alto. "Noi parliamo di plausibilità. Mai di verità assoluta". Fisichella accenna alla facoltà di Fisica: "Eh, caro rettore della Lateranense… Fisica è un dipartimento, la facoltà è Scienze. Dovrebbe saperlo ". Poi, nella trasmissione "A sua immagine ", Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio e docente di storia contemporanea, ricorda che Benedetto XVI è "collega professore". Bernardini non si tiene: "Collega di chi? Non abbiamo cattedre di teologia, per buoni motivi. Che parlino per l'università San Pio V". Ma non è pentito di aver contribuito ad avviare un meccanismo così gigantesco? "Assolutamente no. La presenza di un capo religioso all'inaugurazione dell'università per me resta impropria. Un capo religioso, come si vede, trascina una immensa struttura organizzativa. Quando mai noi non credenti potremo organizzare qualcosa del genere? Non abbiamo un Angelus né un capo spirituale. E per fortuna". Nemmeno imbarazzato dal ruolo che ha avuto? "Un po' sì. Penso che tutta questa gente a San Pietro avrebbe potuto dedicare la domenica di sole a una passeggiata in bicicletta. E invece… ". Invece, professore, avete fatto infuriare Veltroni e Mussi. "I loro discorsi all'università mi hanno deluso molto. Non ho condiviso nulla di quanto hanno detto. Disgraziatamente in Italia l'elettorato cattolico Su resta numeroso. E capisco che un politico scenda a compromessi per non allontanarsi da chi ha mille motivi per non condividere la politica della destra". Non pensa che anche a destra ci siano buoni cattolici? "Ma basta guardarli in faccia. Dell'Utri, La Russa, Gasparri che chiede la cacciata dall'università dei firmatari della lettera, sono cristiani? Roba da far ridere i polli. E che dire di quel mistificatore di Pier Ferdinando Casini".
Perché mistificatore? "Penso al suo curriculum matrimoniale. E dico che non ha nulla a che vedere con i precetti della Chiesa. Non dovrei essere io a dirlo. Però è in piazza". Meglio la posizione di Rosy Bindi e di Arturo Parisi, che non sono andati a San Pietro? "Certo. Non aumentano questa inutile confusione mediatica". La diretta finisce, il professore va a pranzo: "E dire che Cristo era un bel tipo di sessantottino. Gli hanno creato intorno tutto quest'apparato di potere. Chissà che direbbe".


Gli strali di carta impotenti nella sanità
Mario Pirani su
la Repubblica

Cascano le braccia. Questo ceto politico – di sinistra, di destra e di centro – si rivela ogni giorno più irriformabile. Gli uomini di buona volontà e di retto sentire che in esso non mancano, anche se in misura assai ridotta, hanno però a disposizione solo parole, strali di carta che sfiorano senza ferire la scorza dura del sistema.
Il meccanismo sopravvive ad ogni impatto, ad ogni scandalo, ad ogni denuncia. Come i robot dei film di fantascienza gli arti passati a fil di spada ricrescono quasi all´istante. Il terreno di coltura della degenerazione sta, infatti, nella struttura del potere mai bonificato su cui i vari ceppi virali proliferano e si riproducono. Tanto per cambiare torno a parlare dell´inquinamento della sanità, ma come fare altrimenti? Persino l´indecente vicenda Cuffaro per cui tutti plaudono (compreso l´onesto Casini), quasi il reo avesse ricevuto una medaglia e non una condanna a cinque anni per la sua complicità con il boss della sanità privata siciliana. Risaliamo la Penisola e prendiamo il caso Mastella. Ebbene, è forse probabile che l´ex Guardasigilli non sia incorso in alcun illecito penale ma si sia solo applicato a quella ordinaria malversazione, derivante in tutta Italia dall´insano rapporto tra Sanità e potere politico. Del resto, mi ricordo che, quando denunciai i mercimoni nelle Asl campane, Mastella disse che trovava impropria la mia campagna, poiché la politica aveva tutto il diritto di mettere le mani nella gestione della Sanità, posta sotto il controllo democratico dei suoi rappresentanti. Sono convinto che ci crede davvero. La scena del resto si ripete ovunque anche se cambiano talvolta alcuni degli attori.
Non vorrei, infatti, che la cattiva stampa cui incorre oggi la Campania, ci spingesse a credere che la degenerazione sia solo meridionale. Non è così: il fenomeno è incurabile perché diffuso su scala nazionale e perché coinvolge tutti i partiti. A Milano, ad esempio, il meccanismo è oleato, non puzza di mondezza ma la presa lottizzatoria è ancor più implacabile Con la fine del 2007 scadevano i mandati dei direttori generali e puntualmente all´inizio del 2008 il presidente Formigoni, con il supporto del potente regista della Sanità lombarda, Giancarlo Abelli, personaggio di stretta obbedienza berlusconiana, hanno perfezionato la spartizione: 25 poltrone a Fi,12 alla Lega, 8 ad An, 2 all´Udc. Per sovraprezzo hanno imposto ai nuovi direttori generali di non procedere alle nomine spettanti loro per legge dei diretti collaboratori tecnici (i direttori sanitari e di direttori amministrativi) ma di limitarsi a fornire una larga rosa di nomi idonei, così da procedere a una spartizione di secondo livello. Seguirà poi quella di terzo livello (primari, ecc.). In Piemonte la scena non cambia.
"La Stampa" in una inchiesta ricorda lo scalpore nel 2002 (centro destra) quando il superdirettore delle Molinette finì in galera per tangenti e per le troppe influenze politiche nelle nomine ospedaliere; oggi (col centro sinistra) è partita la corsa per la copertura di 150 posti vacanti di primari, capi dipartimento, responsabili di strutture semplici. "È chiaro che dirò la mia nella scelta del primario dell´ospedale di zona!", ha dichiarato, per tutti, chiedendo l´anonimato, un consigliere regionale in vena di sincerità. A Roma poi la Regione deve tagliare spietatamente servizi e letti per rientrare nel gravosissimo debito ereditato, compresi gli 85 milioni truffati da lady Asl e dai suoi complici politici (direttori generali, assessori e persino un sottosegretario) di diverso colore.

Di fronte a tutto questo il presidente della Regione, Piero Marrazzo, è sbottato: "La buona politica deve fare un passo indietro. Dobbiamo inventarci in fretta un metodo che garantisca nel modo più assoluto il merito e la professionalità: una selezione per concorso o istituendo una autorità terza indipendente". Lode alle sue buone intenzioni. Le avevano già ribadite sia Sirchia, ministro di Berlusconi, sia la Turco, ministra di Prodi, ma hanno dovuto fare marcia indietro. Con le frecce di carta non si vince questa guerra.


Questi giorni di ordinaria follia
Giuseppe Tamburrano su
l'Unità

Che succederà ancora? È questa la domanda che ci facciamo. E non riguarda le forze politiche, poiché non sono esse protagoniste della nostra vita pubblica.
Questa - la società politica - non è guidata da progetti, decisioni e iniziative dei partiti, in una sana, fisiologica dialettica democratica, ma da eventi che sono in grande parte il risultato di un "impazzimento" del sistema.
Diventa perciò difficile per il singolo prendere posizioni coerenti con la sua appartenenza ideale e politica.
A "Porta a porta" del 16 gennaio Mannheimer ha mostrato un sondaggio dal quale risulta che il 93% dei cittadini non ha fiducia nei politici: il 7% che ha fiducia non copre nemmeno la fascia di cittadini che vivono per la e di politica! Se aggiungiamo i dati dell'Istat i quali dicono che metà delle famiglie italiane vive con meno di 1.900 euro al mese e il 15% non arriva a fine mese; e se estrapoliamo il reddito dei ricchi che concorre a fare la media, in cifre assolute quel reddito si abbassa ulteriormente: ovviamente esso è molto più basso al Sud che al Nord. Sommate il rifiuto popolare della Casta e dei suoi privilegi e quel 93% di cittadini che non hanno fiducia nella politica, ecco una miscela esplosiva.
Da quattordici anni la "monnezza" si accumula nelle vie di Napoli e delle città campane: 14 anni! Eppure si sono nominati Commissari straordinari e si sono profuse, dilapidate somme enormi!
E ancora: il rettore della Sapienza aveva qualche motivo serio per invitare il Papa non a tenere una conferenza-dibattito all'Università, ma ad inaugurare l'anno accademico, una cerimonia ufficiale? E senza assicurarsi dell'adesione della grande maggioranza del corpo docente? E così un papa invadente, una Gerarchia che detta legge alla politica, e che compare in televisione in modo ossessivo è “passata” per una chiesa imbavagliata!
E poi il caso Mastella. Una rete clientelare, una pratica di scambio, una lottizzazione ramificata, una logica esasperata di clan con conseguenti pressioni sugli enti pubblici. "Politica degenerata" ha detto il vicepresidente del Csm Mancino: sì, una generalizzata prassi antica, consolidata nella storia della nostra Repubblica: "Così fan tutti" hanno titolato tanti giornali, come ha osservato il bravo giornalista della rassegna stampa di Radio radicale. Forse quella del clan Mastella era particolarmente aggressiva. Ma non è - almeno stando alle notizie di stampa - comunque materia di reato, di concussione, associazione a delinquere, falso ecc. Ed è incredibile che alle imputazioni sia seguita una raffica di arresti, in carcere e a domicilio. Mentre il “concusso” più importante, Bassolino, dichiara: "tutto regolare". Ma è anche incredibile che Mastella abbia ricevuto l'applauso di tutta la Camera, diffuse solidarietà, baci, abbracci e il trionfo in terra di Benevento. E sia corteggiato da Prodi e da Berlusconi. Prodi lo aspetta con ansia, sperando che il Tribunale del riesame stracci al più presto tutte le accuse. Con la lentezza della giustizia italiana? In tal caso Mastella celebrerebbe il suo trionfo in una Ceppaloni dalle Alpi al Lilibeo.

E che succederà nel Governo? Lo scenario si è complicato con la decisione della Corte costituzionale; dunque il referendum si terrà. Avrà successo? Due sono le ipotesi. La prima, avanzata dal nostro direttore a "Porta a porta", è che fallirà perché non sarà conseguito il quorum, come ormai accade da anni. Certo, poiché il 93% degli italiani non ha la fiducia nei partiti non si vede perché debbano andare numerosi a votare: non c'è più il clima dei primi anni '90 quando gli italiani sperarono che con i referendum del 1991 e del 1993 avrebbero rinnovato il sistema politico.
Ma è sostenibile anche la tesi opposta e cioè che come e più di allora la gente, una valanga di elettori, approfitterà del voto per brandire la scheda come una clava contro i partiti. E i vari Segni, Di Pietro, Grillo, ecc. non mancheranno di versare olio sul fuoco. Una cosa è da escludere: che possano vincere i “no”. Come è escluso ormai che il Parlamento possa approvare una nuova legge elettorale prima del referendum.
Il caso Mastella, lo scontro tra lui e Di Pietro, le “bizze” di Dini, la spada di Damocle sulla testa di Pecoraro Scanio, l'esigua maggioranza al Senato, i problemi sociali acutizzati dallo scontro di classe - specie nel settore metalmeccanico - sono (e l'elenco non è completo) tante buche nel cammino di Prodi che vuole pure andare “più veloce”. La crisi del suo governo non è esclusa. Vi è una scuola di pensiero, anche nel centro-sinistra, che ovviamente si esprime “pissi, pissi- bau, bau”, che ritiene più conveniente votare con questa legge elettorale che con quella che uscirà dal referendum.
Pensiamo ai partiti minori: con la legge attuale possono entrare in una coalizione senza rinunciare alle loro insegne, come è accaduto nel 2006 (e a pensarci a molti si rizzano i capelli sul cranio!); con la legge del referendum invece possono solo avere dei posti nella lista di uno dei partiti più grandi, cioè sparire, specie se saranno adottate norme che impediscono loro di rinascere in Parlamento dopo il voto.
Resisteranno alla tentazione di far cadere il governo il quale quasi sicuramente dovrà comunque dimettersi dopo il referendum?



  22 gennaio 2008