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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 18-19 gennaio 2008


La legge sono loro
editoriale di Antonio Padellaro su
l'Unità

Condannato da un tribunale della Repubblica a cinque anni per favoreggiamento, il presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro comunica esultante: non mi dimetto. Uomo di parola, Totò lo aveva detto prima che senza l'aggravante di aver favorito Cosa Nostra sarebbe rimasto al suo posto. L'asticella l'ha fissata lui, e adesso non sente ragioni. Almeno un amico degli amici si è giovato di una sua soffiata su certe microspie messe dagli investigatori. Con il risultato di vanificare intercettazione e indagini. Negli Stati Uniti per molto meno ti sbattono in galera e buttano la chiave. Qui da noi ti dedicano una fiaccolata.

A quanto si è capito, secondo i giudici, favorire un mafioso non significa favorire la mafia. Siamo o no la patria del diritto? La condanna resta comunque grave, una macchia pesante per un uomo politico che dovrebbe difendere la propria immagine di onestà sopra ogni altra cosa. Non certo per “vasa vasa”, abituato a baciare sulle guance tanta di quella gente, ovviamente senza mai chiedergli la fedina penale. Lo abbiamo visto, raggiante, raccogliere il meritato successo a palazzo di giustizia. Dicono che nelle chiese palermitane i suoi fedeli abbiano pregato per l'assoluzione, e se anche il miracolo non c'è stato a Totò va benone lo stesso. Alleluja. Tra sconti di pena e indulto di quei cinque anni ne resterà ben poco. E quanto all'interdizione dei pubblici uffici, scatta a sentenza definitiva. Totò sorride e vasa e vasa. Immacolato è.

È un arroganza che lascia senza parole, ma scandalizzarsi serve poco. I tanti Cuffaro disseminati nel nostro bel paese della legge se ne fottono allegramente perché “loro” si considerano la legge. E quanto alle sentenze, dipende dal punto di vista. Infatti, Cuffaro festeggia la condanna che considera un'assoluzione e subito si crea una festosa processione di solidarietà guidata da Pierferdinando Casini. Il quale dimentico di aver ricoperto il ruolo di terza carica dello Stato, con una certa dignità, si congratula e approva con questo stravagante sillogismo: Totò non è colluso e quindi è giusto che resti presidente. Con questa logica potevano anche dargli dieci anni o venti e il leader Udc avrebbe ugualmente stappato lo spumante. Bravo Totò sei tutti loro, ma occhio alla prossima soffiata...

In questo venerdì di ordinaria giustizia spicca pure il rinvio a giudizio di Berlusconi chiesto dalla Procura di Napoli per corruzione. La storia è quella della famosa telefonata al prono Saccà con le aspiranti attrici tv “segnalate” in cambio di favori. Qui la tecnica è collaudatissima. Se Totò minimizza, Silvio s'indigna. E giù insulti contro il partito delle procure che i bravi berluscones rincarano in pieno delirio mistico accusando i magistrati di barbarie e altre nefandezze. Poi i due si congratulano vicendevolmente solidarizzando con Mastella. Il quale da Ceppaloni nel pieno rispetto dell'autonomia della magistratura definisce una «macchietta» il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che lo ha inquisito con moglie e parenti.

Vendetta tremenda vendetta: il leader dell'Udeur pretende da tutta la maggioranza un voto di solidarietà, altrimenti addio governo. Probabilmente lo avrà. Alla fine l'unico, vero colpevole della giornata sarà il pm di Catanzaro De Magistris. Duramente sanzionato dal Csm viene trasferito da Catanzaro e non sarà più pm. Così impara a indagare sui politici.

P.S. L'altra sera in tv il sondaggista Renato Mannheimer calcolava in 7 su 100 gli italiani che nutrono ancora fiducia nella politica. Coraggio, lo zero è vicino.


Così fan tutti
Sanità e tessere
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

«A AA.Cercasi radiologo targato Ds». «AAA. Cercasi pediatra vicino An». «AAA. Cercasi neurochirurgo convintamente Udc».
Dovrebbero avere l'onestà di pubblicare annunci così, i partiti: sarebbero più trasparenti. Perché questo emerge dalle intercettazioni della «Mastella Dynasty»: la conferma che la politica ha allungato le mani sulla sanità.
Padiglione per padiglione, reparto per reparto, corsia per corsia.
A donna Alessandrina, che oltre a preparare cicatielli con ragù di tracchiole si diletta di spartizione di poltrone, sarebbero servite «due cortesie: una in Neurochirurgia e una in Cardiologia». Il marito invece, a sentire lo sfogo telefonico del consuocero Carlo Camilleri, si sarebbe arrabbiato assai per «l'incarico di primario a ginecologia al fratello di Mino Izzo... Ma ti pare... Proprio il fratello di uno di Forza Italia che è di Benevento ed è contro di me... Ma non teniamo un altro ginecologo a cui dare questo incarico?». Vi chiederete: che se ne fa Clemente d'un ginecologo «suo»?

Vale per il Sud, vale per il Nord. Per le regioni d'un colore o di un altro.
Nella Vibo Valentia in mano al centrosinistra ardono le polemiche sulla decisione di distribuire 40 primariati (di cui 38 a compaesani vibonesi: evviva l'apertura alle intelligenze mondiali), 85 «primariati junior» e 153 bollini d' «alta specializzazione»

Nel Veneto divampano quelle sull'«arroganza» (parola del capogruppo leghista in Regione Franco Manzato) di Giancarlo Galan. Il quale è messo in croce da un paio di settimane dai suoi stessi alleati del centro-destra per le nomine dei direttori generali nelle Asl. «Poltrone per la Lega, una.
Per An, zero. Per l'Udc, zero. Per i fedelissimi del presidente, tutte le altre», ha riassunto un giornale non sinistrorso come Libero. «Un sistema feudale», secondo Raffaele Zanon, di An. In pratica, accusa Stefano Biasioli, il segretario della Cimo, la più antica delle sigle sindacali dei medici ospedalieri, additata come vicina ai moderati, «Galan ha nominato 23 fedelissimi su 24 direttori.

Ma non diverse sono le accuse, a parti rovesciate, contro la gestione delle Asl «unioniste» toscane, umbre, emiliano-romagnole, «solo che lì il "partito" è così forte che se ne stanno tutti quieti e zitti», rincara Biasioli. Per non dire dei veleni intorno alla distribuzione di cariche nella sanità campana, cuore delle inchieste di oggi.
O degli scontri interni alla destra per l'accaparramento dei posti in Sicilia, dove su tutti svetta l'Udc di Totò Cuffaro. Il quale non casualmente è un medico in una terra in cui i medici (compresi quelli legati alla mafia come lo storico «padrino» Michele Navarra o più recentemente Giuseppe Guttadauro) hanno sempre pesato tantissimo.
Quanto questo peso sia attuale si è visto, del resto, alle ultime comunali di Messina. Quando tra i candidati c'erano almeno 111 medici. In buona parte ospedalieri. Tra i quali, in particolare, una ventina del «Papardo», la più importante struttura peloritana: il primario di oculistica e quello del laboratorio analisi, il primario di medicina e quello di neurologia, il primario di pneumologia e quelli di chirurgia vascolare, cardiologia, rianimazione. Quasi tutti schierati con An. E indovinate a che partito apparteneva il direttore generale? Esatto: An.

«Li hanno militarizzati tutti», accusò indignato Nunzio Romeo, il candidato del Mpa. Peccato che lui stesso fosse medico e presidente dell'Ordine dei Medici e guidasse a nome del medico Raffaele Lombardo una lista con 41 medici.
Pietro Marrazzo, il governatore del Lazio, dice che basta, per quanto lo riguarda è ora di finirla: «Se vogliamo marcare una svolta di sistema io ci sto.
Sono qui. Disposto a rinunciare già domani mattina alla facoltà di nominare i direttori generali». Ma quanti colleghi lo seguirebbero? E cosa direbbero i partiti che sostengono la sua giunta all'idea di rinunciare alla possibilità di incidere su un settore chiave come questo?

Capita nella «rossa» Liguria, dove lo scandalo è scoppiato con lo sfogo del presidente della Società ligure di chirurgia Edoardo Berti Riboli: «Nel nostro ambiente si procede soltanto grazie al partito. Fra destra o sinistra non faccio differenze. Hanno la stessa voracità, solo che la sinistra è molto più strutturata». Capita nell'«azzurra» Lombardia dove la stessa Padania scatenò due anni fa una campagna contro «lo strapotere di Comunione e Liberazione negli ospedali regionali».
Arrivando a pubblicare un elenco di «primari ciellini» e un'indimenticabile lettera di Raffaele Pugliese. Lettera in cui il primario del Niguarda ricordava ai «suoi» pazienti quanto fosse fantastica la sanità lombarda. Quindi? «Mi permetto di suggerirLe di sostenere la rielezione dell'attuale presidente della giunta regionale Roberto Formigoni».
E torniamo al tema: alcuni saranno bravi, altri geniali, altri straordinari. Ma perché dovremmo affidare la nostra pelle a un medico scelto per la tessera?
E se il «mio» chirurgo fosse un fedelissimo trombone?


Così fan tutti
Lucia Annunziata su
La Stampa

Per il bene di Sandra e Clemente, ma ancora di più delle istituzioni (sarebbe davvero uno scandalo di proporzioni enormi un processo nei confronti di un ministro della Giustizia), siamo fra coloro che sperano che le accuse di queste ore si sciolgano al sole di una verifica. Ma mentre il governo e il premier attendono questo giudizio (che può venire solo dalla legge), sia chiaro che la difesa di Mastella davanti ai cittadini non può essere basata sull'idea che non ha fatto altro che «far politica».

È questa infatti più o meno la voce dal sen fuggita dal Parlamento già ieri, e ripresa da molti commenti. Il profilo del caso, così come esce da queste prime intercettazioni, si dice, non sembra avere un gran peso «penale» in quanto manca «il passaggio di denaro» o «la presenza di potenziali intermediazioni di affari», volgarmente dette tangenti. In effetti, si ripete, Mastella e l'Udeur non facevano altro che trattare incarichi pubblici, applicare in maniera magari un po' drastica, e con frasi troppo colorite (confermo: è vero che in Campania quando si dice «quello per noi è morto», significa che ha chiuso con te) gli accordi dentro la sua coalizione. E chi non fa questo? Mastella e l'Udeur insomma, non facevano altro che «far politica».

Ma che questa sia o no la politica, è esattamente il dilemma e il problema intorno a cui la classe dirigente si sta giocando la sua stessa esistenza. È proprio vero infatti che nella realtà Mastella non ha fatto nulla che non facciano proprio tutti. Tanto per non andar lontano, le nomine di cui si discute con tale passione nelle telefonate politiche dell'Udeur sono in buona parte quelle della Sanità, le maledette nomine Asl, cui negli ultimi anni hanno legato il proprio nome i peggiori scandali del Paese, a destra e a sinistra. È nel giro delle nomine Asl e degli Ospedali che ha origine in Calabria prima un omicidio, quello di Fortugno, e poi un'immensa faida dentro un pezzo della Margherita.

A Genova il governatore della Regione, Burlando, Ds, è stato di recente quasi travolto dalla denuncia di medici genovesi contro l'eccesso di ingerenza dei politici nelle nomine dei medici. Scandali anche per il centro destra nella Sanità del Lazio; enorme macchina di potere la Sanità della Lombardia. L'influenza sulla spartizione del pubblico e dei suoi servizi è in Italia da tempo la radice e la ragione di un enorme cambiamento del fare politico. I partiti sono imprigionati in coalizioni obbligate, gli eletti sono scelti dai partiti, e il potere sulla macchina pubblica è la misura dell'influenza politica nel suo complesso.

Perché allora giudicare Mastella così duramente, si dice? In fondo il suo agire è solo parte di un trend, di un modo di essere, i suoi sono insomma non più che una serie di peccati veniali. Questa è la convinzione che ha fatto scattare l'applauso bipartisan del Parlamento; e questo è in gioco nella partita che la politica pensa di avere aperta con la giustizia. Senza mascherarlo neanche troppo, la politica sostiene infatti che una cosa sono le infrazioni vere e proprie (interessi legati ai soldi, corruzioni private etc), altro è l'esercizio dell'influenza politica e delle trattative politiche. Ma se questa distinzione passa, passa un'intera visione della società. Si parla, ad esempio, tanto di camorra in questi giorni. Ma cos'è la camorra se non l'idea che gruppi privati possano piegare le regole del gioco grazie alla forza? Cos'è la camorra, la malavita, la corruzione vera, se non la ricerca di una zona franca che permetta ai legami familiari, di gruppo, di sangue, o di convinzione ideologica, di contare più delle regole comuni della società? Con ciò non vogliamo dire che la politica è diventata camorrista, o malavitosa. Ma se è vero che la criminalità è innanzitutto una cultura, tanto per richiamarci all'eterno Sciascia, la politica non può non vedere l'affermarsi di una cultura pubblica che si nutre di alibi, scuse e scorciatoie come sostituto della legalità.


Papa e università
Marcello Cini: Giusta protesta
a cura di Francesco Piccioni su
il Manifesto

«Quello che mi indigna un po', francamente, è questa pressoché unanime valanga che si sta rovesciando - oltre che su di me - sui firmatari dell'appello, sugli studenti che hanno reagito da studenti, in un unico blocco di violenti, intolleranti che hanno impedito al papa di venire alla Sapienza a parlare. Io rispondo per quanto mi riguarda, perché la mia è stata un'iniziativa personale - con una lettera scritta il 14 novembre su il manifesto - in cui mi rivolgevo al mio lettore.
E lo criticavo anche aspramente perché vedevo nell'invito a inaugurare l'anno accademico della Sapienza (di questo si trattava, anche se prima come lectio magistralis, poi camuffata all'italiana con un intervento nello stesso giorno, comunque)».
Il giorno dopo il «gran rifiuto», Marcello Cini è amareggiato. Ma non contrito. Contesta il modo in cui quasi tutti i media hanno costruito il mancato evento e le ragioni sue e dei firmatari della lettera al rettore della Sapienza. «La sostanza era l'invito al papa a inaugurare l'anno accademico. A questa proposta io ho reagito, e reagirei ancora oggi, per due ragioni. La prima è di tipo formale, ma essenziale. L'inaugurazione dell'anno accademico è un atto pubblico, forse il più importante, che riafferma la natura e la funzione dell'università come istituzione di crescita della conoscenza, di formazione della cultura al più alto livello, di uno stato laico, democratico, moderno, sui principi della Rivoluzione francese, dell'illuminismo e della modernità. Un atto importante - un rito se si vuole - che riafferma il modo in cui è organizzato questo processo di crescita e trasmissione della conoscenza alle giovani generazioni. Invitare al centro di questo rito laico un'autorità come il papa è di fatto una contraddizione in termini, non può che generare conflitto. Il papa è a capo di un'istituzione come la Chiesa cattolica, fondata su pricipi totalmente diversi - come il carattere gerarchico-autoritario, detentore di una verità assoluta proveniente direttamente da dio, quindi dalla trascendenza. Si fonda perciò su criteri di verità, metodologici e epistemologici, completamente diversi. È questo contesto che non si vuol capire. Ossia la coesistenza e il conflitto tra due istituzioni di natura diversa e fondate su principi in antitesi fra loro».
Un conflitto istituzionale che non implica affatto «censura», ma rispetto della diversità degli ambiti. «Ciò non vuol dire che il papa, come professor Ratzinger, non sia un professore universitario, un intellettuale fine, colto, ecc. Ma la confusione tra queste due figure che coesistono entro la stessa persona, ha permesso di generare - per esempio in occasione dell'invito a Ratisbona - un'interpretazione del suo discorso come una presa di posizione contro l'Islam, con tutte le polemiche che ne sono seguite».
Luogo e occasione, insomma, con parecchie riserve su come è stata realizzata l'idea della visita papale. «Non sarebbe successo nulla se il rettore e il Vaticano avessero semplicemente spostato la visita in un'altra data. Anche altri papi l'hanno fatto, esponendo il proprio punto di vista. Nei contenuti sarebbe stato poi approvato, obiettato, contestato, ecc».
Molte distinzioni «istituzionali» sembrano svanire nel dimenticatoio...
«Tutto questo si colloca in un contesto in cui questo papato - in particolare nel nostro paese - sta perseguendo una politica concreta tesa a sgretolare sempre di più la separazione tra Stato e Chiesa, tra repubblica italiana e clero. Questo ha creato una situazione in cui una presa di posizione legittima - un professore che si rivolge pubblicamente al proprio rettore - e fondata sulla separazione delle sfere di competenza, viene classificata, bollata e demonizzata come un'intolleranza da parte mia, dei miei colleghi e degli studenti. L'intolleranza quotidiana è quella che arriva dalle telefonate del cardinal Bertone ai deputati italiani di stretta osservanza cattolica perché non votino certe leggi».
Sembra una scena da favola di Esopo (la volpe che accusa l'agnello)...



Il colpo di frusta
Crisi italiana e referendum
Angelo Panebianco sul
Corriere della Sera

L' immagine di sé che l'Italia sta dando al mondo in queste prime settimane del 2008 è disperante. Nel giro di pochi giorni, senza nemmeno tirare il fiato fra un evento e l'altro, abbiamo offerto all'opinione pubblica internazionale tre spettacoli tremendi: quello dell'immondizia napoletana, quello di un'antica e gloriosa Università a tal punto in balia del ricatto di minoranze intolleranti da lasciare fuori dalla porta il Papa, e quello di un Guardasigilli che si dimette perché indagato da una procura della Repubblica. Che altro ne può ricavare un osservatore esterno se non l'ulteriore conferma dell'idea, già ampiamente diffusa all'estero, che l'Italia sia un Paese alla deriva, in via di disfacimento? E l'immagine internazionale (che pure conta tantissimo) non è l'unica cosa di cui preoccuparsi. Pesano altrettanto l'insofferenza e la sfiducia dell'opinione pubblica italiana, la diffusa convinzione che nessuno fra i tanti problemi che ci assillano verrà risolto da una democrazia impotente nella quale il volume delle chiacchiere e l'intensità delle risse (soprattutto dentro la maggioranza di governo) sono inversamente proporzionali alla capacità di decidere e di amministrare.
In questo quadro fosco l'unica buona notizia è il via libera della Corte costituzionale ai referendum elettorali. In altre occasioni della storia repubblicana le consultazioni referendarie ne hanno influenzato potentemente la vicenda. Nella nostra democrazia acefala e indecisionista il referendum non è mai stato solo un mezzo per risolvere problemi specifici. È stato, spesso, anche un canale per dare sfogo a una diffusa insofferenza che avrebbe altrimenti potuto prendere strade diverse e pericolose.
Nei primi anni Novanta, fu proprio un referendum sulla legge elettorale che consentì di afferrare per i capelli, di salvare in extremis, una democrazia allo sbando, che affondava nel marasma, mentre la sua vecchia, storica, classe politica veniva spazzata via dalle inchieste giudiziarie.
Anche questa volta, stiamo per affidare le nostre residue possibilità di toglierci dal pantano a un referendum. Nelle speciali circostanze italiane uno strumento di per sé esile, spesso sproporzionato per difetto di fronte al peso e alla grandezza dei problemi, assume di nuovo un ruolo decisivo.



La prova tazzina
Pietro Garibaldi su
La Stampa

Secondo un'indagine pubblicata ieri dall'Istat una famiglia su due viveva nel 2005 in Italia con un reddito di poco inferiore ai 1900 euro al mese.

Anche se le difficoltà esistono e non si possono ignorare, dobbiamo subito evidenziare che le rilevazioni campionarie dell'Istat non tengono conto dell'evasione fiscale. Gli italiani, oltre a essere campioni del mondo di calcio, sono purtroppo campioni di evasione fiscale.

L'evasione è certamente superiore tra i lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti, ed è quindi probabile che il reddito medio dei lavoratori autonomi sia superiore a quello dei lavoratori dipendenti di ben più del 10 per cento indicato dall'indagine Istat.

Il dato che più colpisce riguarda però la differenza Nord-Sud. Una famiglia di 4 persone nel Nord del Paese percepisce un reddito mensile di 3600 euro. Lo stessa famiglia nel Mezzogiorno percepisce invece un reddito pari a 2400 euro al mese. Una differenza superiore al 30 per cento. La questione meridionale sembra quindi più viva che mai, mentre nel dibattito di politica economica si parla decisamente poco di Mezzogiorno. Per interpretare l'enorme differenziale Nord-Sud dobbiamo però tenere conto di alcuni importanti fattori. Il primo riguarda il differenziale nel costo della vita tra il Nord e il Sud. Purtroppo l'Istat non pubblica statistiche relative al livello dei prezzi medi in diverse zone del Paese. Non possiamo quindi sapere con esattezza quanto un dato paniere di beni costi a una famiglia che vive nel Nord o nel Sud. Un gruppo di ricercatori della Fondazione De Benedetti ha recentemente utilizzato il prezzo della tazzina di caffè come indicatore grezzo per guardare alle differenze nei prezzi tra Nord e Sud. Di fronte a un costo medio in Italia di 70 centesimi, una tazzina di caffè a Milano costa in media 82 centesimi mentre a Reggio Calabria costa 62 centesimi, con una differenza intorno al 30 per cento. Questo non significa che i 2400 euro nel Mezzogiorno hanno lo stesso potere d'acquisto dei 3600 euro nel Nord, ma rimane il fatto che i prezzi nel Mezzogiorno sono certamente inferiori a quelli italiani.

La seconda differenza tra Nord e Sud riguarda proprio l'economia sommersa e l'evasione fiscale. Le stime sull'occupazione sommersa dello stesso Istat indicano un tasso di irregolarità che raggiunge il 30 per cento nel Mezzogiorno, mentre si ferma intorno al 10 per cento nel Nord.

La difficoltà del ceto medio è comunque evidente, ed è un fenomeno che ha colpito in modo massiccio tutte le economie occidentali. La globalizzazione rappresenta infatti una grande opportunità per gli individui con elevata istruzione, come sembra confermato dai dati di ieri. La globalizzazione è anche una grande opportunità per molti degli individui poveri che vivono nei paesi emergenti. Per convincersene basta pensare ai benefici che la globalizzazione ha prodotto per il ceto medio cinese. Ma in Italia, come in molti paesi industrializzati, il ceto medio è in vera difficoltà. Le politiche di apertura e di riforma, di cui il nostro paese ha un bisogno incredibile, dovranno sempre sforzarsi di ricordare le difficoltà oggettive del ceto medio. Nell'ultima Finanziaria, invece di improvvisare una modesta riduzione dell'Ici sulla prima casa, bene avrebbe fatto il governo a occuparsi con maggior attenzione delle famiglie che pagano l'affitto. Per le difficoltà del ceto medio si deve e si può fare di più.


Condannato ma contento
Attilio Bolzoni su
la Repubblica

PALERMO - Si fa il segno della croce quando il giudice di Palermo legge la sua condanna. E piange, piange per la felicità Totò Cuffaro, il governatore. Nonostante la severa sentenza. Nonostante la reclusione a cinque anni.
Nonostante quel marchio di favoreggiatore che gli resterà addosso per sempre. In Sicilia c´è un confine che segna l´esistenza pubblica e privata dei suoi abitanti: mafia o non mafia, tutto il resto sembra contare niente. Spiate agli amici indagati. Tariffari sanitari concordati nei retrobottega. Talpe a servizio. Nell´Italia di oggi conta poco e Totò si sente comunque vincitore.
Ed esulta per la sua condanna.
«Resto governatore», sussurra asciugandosi le lacrime che gli intorbidano le lenti e poi scivolano lentamente sulle guance. «Resto», dice ancora quando il Tribunale lo assolve ma solo per quel reato: avere aiutato consapevolmente Cosa Nostra, tutta Cosa Nostra. «Resto», risponde a Silvio Berlusconi che gli telefona di sera e gli dice «che gli vuole bene». «Resto», ripete un´altra volta alzando gli occhi al cielo e rivolgendosi idealmente a quel milionetrecentomila di siciliani che l´hanno fatto diventare il padrone dell´isola. Quelli che sino alla fine hanno pregato per lui. Nelle chiese. Nelle loro case. Nei luoghi di lavoro. «Li abbraccio tutti e da domani mattina li incontrerò ancora tutti, uno per uno», fa sapere ai microfoni dei reporter fissando un po´ stonato dall´emozione le telecamere e i faretti che lo abbagliano e le tante facce che lo circondano. «Li abbraccio tutti, i miei avvocati sono stati come fratelli, i miei amici come fratelli..», bisbiglia mentre gli amici-fratelli più vicini lo strattonano, lo baciano, coprono di tenerezze questo loro capopopolo che senza la condanna per mafia potrà ancora prenderli per mano e farli sopravvivere nel ventre di una Sicilia che sembra non cambiare mai.

Condannato ma sempre Presidente. Condannato ma salvo nell´onore. Li ha favoriti due o tre mafiosi ma probabilmente non sapeva che erano mafiosi. Li ha sostenuti due o tre mafiosi ma voleva favorire solo due o tre amici. E´ l´essenza della sentenza per l´imputato Cuffaro detto Totò o anche «vasa vasa» per quella sua passione a baciare tutti, è un articolo del codice (il 7, quello dell´aggravante nel favoreggiamento mafioso) che per lui fa la differenza fra rimanere e andarsene, fra considerarsi «degno» o «indegno» di guidare il governo della Sicilia.
Erano due giorni che Palermo si era fermata su quel maledetto articolo 7 del codice di procedura penale, che aspettava tutta con fiato sospeso. «Ancora niente?», chiedeva verso mezzogiorno il libraio dei vecchi e ricercati volumi di mafia fuori dalla sua bottega fra il quartiere del Capo e le scalinate del Tribunale. «Ancora niente?», chiedeva l´oste della trattoria lì accanto. Ancora niente?, si chiedevano da mercoledì mattina migliaia si palermitani e decine di migliaia di siciliani quando i giudici erano entrati in camera di consiglio.
Favoreggiamento semplice. Favoreggiamento con l`articolo 7.
Favoreggiamento per tutta Cosa Nostra o solo per un singolo mafioso. C´è o manca la prova del suo collegamento con quei «galantuomini»? Una città intera, un´isola intera in una trepida vigilia di paura.
Era l´isola del tesoro che poteva venire travolta da uno tsunami giudiziario, dai contraccolpi della condanna al governatore acclamato con quel milione trecentomila voti e con almeno trecentomila siciliani che da lui ogni giorno di ogni mese dell´anno traggono un vantaggio diretto o indiretto, di status o di prebende, di incarichi o di denaro.
Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei fedelissimi, quella «ristretta» cerchia di colonnelli e capitani e marescialli che Totò negli ultimi sei anni e sei mesi - da quando è diventato per la prima volta governatore nel 2001 - ha piazzato dappertutto? I suoi 5 deputati nazionali, i suoi 3 senatori, i suoi 18 parlamentari regionali, gli 80 sindaci eletti in Sicilia e i 97 assessori e i 288 consiglieri comunali che uno per uno lui ha scelto per rappresentare in suo nome e per suo conto gli abitanti dell´isola da Trapani e dalle isole Egadi fino a Capo Passero?
Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei 300 mila siciliani che sono intimamente (ed economicamente) legati a Totò? Manager. Consulenti e burocrati. Precari, avvocati, medici, presidenti di casse rurali e istituti zootecnici, di consorzi di bonifica e cliniche private, di agenzie rifiuti e di trasporti, di casse edili, di case del vino e dell´olivo, del mandarino e del cappero?
Agricoltura. Sanità. Trasporti. Programmazione. Turismo. Agenzia per l´impiego. Tutto nelle sue mani. Le lacrime di Totò sono state le lacrime di tre quarti della Sicilia nei giorni prima. Se condannavano lui per avere favorito la mafia, li condannavano tutti. I trecentomila dell´ «indotto» della politica di Cuffaro, quel milionetrecentomila di elettori che lo venerano come lui venera le sue Madonne appese sulle pareti di casa. Piaccia o non piaccia, giudici o non giudici, questa è ancora la Sicilia del 2008.



Il piano Bush per l'economia Usa:
rimborsi fiscali ai cittadini e sgravi alle aziende
su
Il Sole 24 Ore

Un pacchetto di incentivi per l'economia che sia efficiente, semplice e temporaneo. È quanto desidera il presidente americano George W. Bush, che oggi presenterà il suo piano di rilancio dell'economia Usa. Parlando con i leader del Congresso, il presidente americano non ha insistito sul suo desiderio di rendere permanenti i tagli fiscali che sono stati approvati nel 2001 e nel 2003, in quanto la proposta verrebbe ostacolata sicuramente da molti esponenti democratici. Il presidente ha detto in definitiva di essere a favore di rimborsi fiscali per i cittadini e di sgravi sulle tasse per le aziende. Il Wall Street Journal ha riportato indiscrezioni che hanno sottolineato come il perno del pacchetto di incentivi all'economia su cui sta lavorando Bush è rappresentato da rimborsi fiscali ai cittadini americani fino a un valore di 500 dollari, da spedire direttamente a casa sotto forma di assegni, e cambiamenti nella normativa fiscale che consentano alle aziende di dedurre dall'importo imponibile una porzione considerevole di investimenti in attrezzature.

Il presidente Bush aveva parlato di economia fino a pochi giorni prima di partire in Medio Oriente. Lo scorso 7 gennaio, aveva battuto il tasto su quello che ritiene essere un fattore cruciale per garantire la solidità dell'economia degli Stati Uniti: la necessità di mantenere basso il livello delle tasse. «Nei momenti di incertezza economica, le tasse devono rimanere basse», ha detto il presidente americano, ripetendo che la crescita dell'economia non deve essere data per scontata e che in effetti il rallentamento del mercato immobiliare sta provocando aggiustamenti dolorosi nei mercati finanziari.



  19 gennaio 2008