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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 16-17 gennaio 2008


Non possumus
apertura de
il Manifesto

Papa Benedetto XVI rinuncia alla discussa visita all'università La Sapienza di Roma. Ufficialmente per «motivi di immagine» visto il rischio di contestazioni. Per il Viminale la «sicurezza era garantita». Esultano i no pope, che ieri hanno occupato il rettorato e confermano le manifestazioni per la ricerca e contro il pacchetto sicurezza. Ma piovono accuse bipartisan contro docenti e studenti. Prodi: un clima inaccettabile. Berlusconi: Italia umiliata


Un´idea malata
editoriale di Ezio Mauro su
la Repubblica

Sarà un giorno che ricorderemo negli anni, il giorno in cui il Papa non parlò all´Università italiana per la contestazione dei professori e la ribellione degli studenti. Una data spartiacque per i rapporti tra chi crede e chi non crede, tra la fede e la laicità, persino tra lo Stato e la Chiesa. Fino a ieri, questo era un Paese tollerante, dove la forte impronta religiosa, culturale, sociale e politica del cattolicesimo coesisteva con opinioni, pratiche, culture e fedi diverse, garantite dall´autonomia dello Stato repubblicano, secondo la regola della Costituzione. Qualcosa si è rotto, drammaticamente, sotto gli occhi del mondo. Il Papa deve correggere la sua agenda e cambiare i suoi programmi, per non affrontare la contestazione annunciata di un´Università che lo aveva invitato con il rettore e il senato accademico, ma lo rifiutava con una parte importante di docenti e studenti. Il risultato è un cortocircuito culturale e politico d´impatto mondiale, che si può riassumere in poche parole: il Papa, che è anche vescovo di Roma, non può parlare all´Università della sua città, in questa Italia mediocre del 2008.
Questo risultato, che sa di censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, è inaccettabile per un Paese democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee e della loro espressione. È tanto più inaccettabile che avvenga in un´Università, anzi nella più importante Università pubblica d´Italia, il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere, un luogo che di per sé non deve avere barriere né pregiudizi, visto che non predica la Verità ma la scienza e la conoscenza. È come se la Sapienza rinunciasse alla sua missione e ai suoi doveri, chiudendosi in un rifiuto che è insieme un gesto di intolleranza e di paura.
A mio parere il giorno d´inaugurazione dell´anno accademico non era la data più propria per invitare Benedetto XVI a tenere la sua lectio magistralis; e il rettore si corresse, perché quella lezione non suonasse come un programma e un indirizzo per l´anno dell´Ateneo. Ma è ridicolo chiamare in causa la scienza, come se potesse risultare coartata, offesa o limitata dalle parole del Pontefice, che è anche uno dei grandi intellettuali europei della nostra epoca. Ed è improprio e pretestuoso nascondersi dietro a Galileo, come se i torti antichi della Chiesa nel confronto e nello scontro con la scienza si dovessero pagare oggi, proprio sulla porta d´ingresso della Sapienza, senza tener conto del cammino fatto in tanti anni, e delle parole ancora recenti di Papa Wojtyla.

L´impressione è appunto quella di un cortocircuito, dove il gesto ha prevalso sul pensiero, una malintesa idea di autonomia si è stravolta in divieto, la libertà della scienza ha cozzato malamente contro la libertà di parola e la laicità si è ridotta ad una cupa caricatura di se stessa, preoccupandosi di limitare e restringere il perimetro dell´espressione invece di ampliarlo, garantendolo per tutti. È chiaro che l´Università di Stato di un Paese democratico non può rifarsi al pensiero religioso come fonte primaria e costitutiva del suo sistema culturale ed educativo, e nessuno lo ha chiesto o minacciato. Ma è altrettanto evidente – o dovrebbe esserlo per tutti – che l´Università non è e non deve essere un luogo chiuso alla circolazione delle idee, delle esperienze e delle testimonianze, e non può diventare espressione di un pensiero che pensa solo se stesso, rifiutando persone, idee, contributi e confronti.
L´unica spiegazione di questa prevalenza dell´irrazionale in una delle sedi proprie della ragione è la confusione italiana di oggi. E dentro questa confusione, l´uso improprio che si fa del confronto tra fede e laicità, e tra credenti e non credenti. Uno dei tratti distintivi dell´epoca è il ritorno della religione nel pensiero pubblico, da cui l´avevamo in qualche modo creduta fuori, per consunzione da un lato, e dall´altro per il raggrumarsi di un civismo post-ideologico attorno a capisaldi diversi da quelli della fede. Questo ritorno è un dato che contraddistingue tutto l´Occidente. In Italia la parola della Chiesa, così innervata nella tradizione, non ha mai smesso di farsi sentire. Ma non c´è alcun dubbio che da quasi un decennio la Cei ha acquistato un protagonismo e una reattività che hanno fatto della Chiesa un prim´attore in tutte le vicende pubbliche: una Chiesa che è insieme parte (perché così dicono i numeri) e Verità assoluta, pulpito e piazza, autorità e gruppo di pressione e chiede di determinare come mai nel passato della Repubblica i comportamenti parlamentari delle personalità politiche cattoliche, pretendendo pubblica obbedienza al magistero.
Vorrei essere chiaro: la Chiesa ha il diritto (che per il Concilio Vaticano II è un dovere) di testimoniare la sua dottrina su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato. Ma queste prese di posizione sono destinate alla coscienza dei credenti e a chi riconosce alla Chiesa un´autorità con cui confrontarsi, mentre le scelte politiche spettano ai laici, credenti e non credenti. Nella Chiesa si fa invece strada la convinzione secondo cui i non credenti non riescono a dare da soli un senso morale all´esistenza, perché solo la promessa riconosciuta dell´eternità dà un senso alla vita terrena. Ne deriva una riduzione di dignità dell´interlocutore laico, quasi una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, una sorta di obbligazione religiosa a fondamento delle leggi e delle scelte di un libero Stato.
La reazione a questa nuova "potestas" che vorrebbe coinvolgere nel cattivo relativismo la democrazia, perché si basa sulla libertà di coscienza di tutti i cittadini, e vede ogni fede come un valore relativo a chi la professa, viene sempre più da un laicismo di maniera, un compiacimento per l´ateismo come contraddittoria religione della modernità, un risentito anticlericalismo, che credevamo confinato alla stagione adolescenziale della nostra Repubblica. Sopra questa nuova rissosa incomunicabilità ostile, manca il tetto condiviso di una Repubblica serenamente laica, cosciente dei valori della tradizione e delle religioni, capace di difendere la sua autonomia e la sua libertà garantendo la libertà di tutti.
I partiti hanno una responsabilità primaria. La destra, incapace di formulare una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l´ha mai avuta, prende a prestito dal deposito di tradizione della Chiesa la parte scelta della precettistica, cercando così di procurare un´architrave ad un pensiero inesistente: col risultato di un´alleanza del tutto impropria tra la fede ultraterrena e una prassi politica ultramondana, paganeggiante e vagamente idolatra, alla ricerca entrambe della forza perduta. Per la sinistra, è ancora peggio. Non avendo coscienza di sé e della propria identità, incapace di difendere le ragioni che dal pensiero e dall´esperienza rinnovati potrebbero tranquillamente derivare, chiede soltanto – in ordine sparso di conversione, o almeno di gregarietà – di poter occupare uno strapuntino dentro il senso comune dominante, anche se è senso comune altrui: così, in un angolo, con la garanzia di non infastidire con il turbamento di un pensiero vagamente autonomo, per una volta netto, pronunciato in nome di una sinistra finalmente moderna, laica, europea e occidentale.

È il brutto panorama di un Paese in cui si cede troppo spesso alla tentazione sacrilega, come la chiamava Andreatta, di coinvolgere Dio nelle proprie scelte. Ma se questo è il quadro, ed è preoccupante, perché banalizzarlo nella caricatura dello scontro culturale della Sapienza, che si rivolge necessariamente nel contrario: una censura ad un Papa, nel nome malinteso di una laicità che invece dovrebbe ribellarsi ad ogni intolleranza, soprattutto nei confronti di fedi e credo religiosi? Non c´è alcun dubbio. Nell´Italia d´argilla del 2008, non è nel nome di un´idea forte che si è pensato di vietare al Papa la Sapienza, ma di un´idea malata. Una malattia che ha già fatto due vittime: la libertà di espressione, naturalmente, e la laicità: che già non godeva di buona salute, in questo sfortunato Paese.


Ingerenze
Jena su
La Stampa

Questa continua ingerenza dei giudici nel campo della politica è ormai intollerabile.
Ma chi si credono di essere, il Papa?


Istituzioni avvelenate
Massimo Giannini su
la Repubblica

Quasi come l´Antigone di Sofocle, che nella cultura giuridica universale rimane il modello più alto e ineguagliato della "resistenza al potere", un paradosso estremo vuole che oggi sia addirittura Sandra Mastella ad incarnare il nuovo simbolo di un´altra "resistenza", quella del potere politico al potere giudiziario. Il terremoto che ieri ha travolto lei, il marito ministro e l´Udeur, non è una splendida tragedia greca, ma un bruttissimo dramma italiano.
Un dramma che annienta la trama già lacerata del tessuto repubblicano. Avvelena il campo già intossicato della dialettica istituzionale. E rischia di travolgere, insieme alle persone e agli organi che rappresentano, anche il governo.
L´inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere è in pieno corso. Le carte e i materiali d´indagine andranno dunque letti, capiti e approfonditi. Per l´ennesima volta, come già accaduto per l´inchiesta della procura di Potenza "Why not" e come ormai accade per la quasi totalità delle inchieste che riguardino i politici, il castello accusatorio riposa sulle intercettazioni telefoniche.

Per le toghe non è un periodo felice. Le vicende incrociate della Forleo e di De Magistris, se da un lato hanno ridato fuoco alle polveri del conflitto con i politici, dall´altro lato hanno suscitato più di una perplessità, sulle modalità di gestione dell´azione penale. A maggior ragione, da parte della Procura campana che indaga sui Mastella e sull´Udeur, sarebbe stata necessaria qualche accortezza elementare, a garanzia della onorabilità degli indagati e della credibilità dell´indagine. Nel metodo, ancora una volta un soggetto colpito da una misura restrittiva della propria libertà personale ha dovuto apprendere il fatto dalla tv, a scandalo ormai già clamorosamente scoppiato, piuttosto che dalla regolare notifica personale della Procura.

Nel merito, si capirà meglio nei prossimi giorni. Ma certo, un ministro indagato per concussione e falso, sua moglie agli arresti domiciliari per tentata concussione, e un´altra ventina tra assessori regionali e sindaci dell´Udeur colpiti da provvedimenti restrittivi, di cui 4 addirittura in carcere, dovrebbero lasciar pensare a una rete pervasiva e capillare, di corruttela e di malaffare, che azzera un partito e fa vacillare il governo, mettendo a rischio la presenza nella maggioranza dei suoi 3 senatori. Una vera e propria Tangentopoli campana, intestata al ministro della Giustizia in veste di "collettore" di mazzette e di illeciti. Ebbene, ad una sommaria analisi delle ordinanze emesse dalla procura, si fa fatica a individuare questa "rete pervasiva" di malaffare. E soprattutto, quello che a prima vista non si vede è il denaro. Si vede la solita spartizione di poltrone di sottogoverno, che è propria delle lottizzazioni partitiche, nazionali e locali. L´inchiesta riguarda essenzialmente un gran giro di nomine nel settore sanitario, a partire dalle Asl, per le quali Mastella e i suoi esercitavano pressioni, ma di natura essenzialmente politica. Allo stato attuale, non si vedono scambi di soldi. Non si vedono appalti sui quali lucrare la percentuale.
Senza nessuna intenzione assolutoria, che sarebbe del tutto prematura ed impropria quanto un´opposta pretesa accusatoria, queste sono le prime impressioni. E se saranno confermate dai fatti, non si può non vedere una palese sproporzione tra le misure cautelari richieste per Sandra Mastella, ad esempio, e la sua effettiva "pericolosità sociale".

Mastella ha fatto un gesto di grande responsabilità istituzionale, a rassegnare subito le dimissioni da ministro, che Prodi avrebbe forse fatto meglio ad accettare. Ma nel suo intervento alla Camera le ha condite con un sovraccarico di aggressività quasi ideologica che non fa onore al suo gesto. Parlare di «caccia all´uomo», di «muro di brutalità», di giudici come di «frange estremiste» per le quali il Guardasigilli sarebbe un «nemico da abbattere»: ecco tutta questa afflizione martiriologica è parsa sopra le righe, per un ministro che, al contrario del suo predecessore leghista, non ha certo messo a ferro e fuoco la magistratura.
Questo, purtroppo, è stato un drappo rosso agitato davanti agli scranni di un Parlamento che, delegittimato nel Paese, non aspettava altro. Se si può capire ed anche condividere sul piano umano, l´applauso scrosciante che ha accompagnato l´intervento del Guardasigilli ha un significato politico allarmante. Forse per la prima volta, è stato un applauso sinceramente bipartisan, che ha visto il centrodestra spellarsi le mani più del centrosinistra. E dove tutti gli interventi, da quello di Fini a quello di Bondi, hanno azzardato un solo implicito tentativo, quello che fu già di Bettino Craxi ai tempi di Mani pulite (noi non ci faremo processare da queste toghe) e hanno puntato a un solo esplicito obiettivo (sovvertire i ruoli, e mettere alla sbarra la magistratura). Persino il moderato Casini ha parlato di «giustizia a orologeria», e ha invocato la solita «emergenza democratica». Quasi come se la "Casta", tutta intera, si ritrovasse finalmente unita, non per fare le riforme, ma per tutelare se stessa da un´altra "Casta", e contro un altro potere dello Stato.

Diciamo la verità. Un´emergenza democratica c´è davvero. Ma è molto più vasta di quella che vede il leader dell´Udc. Riguarda l´affidabilità delle nostre istituzioni. Tutte le istituzioni, perché l´una non è meglio dell´altra. E nessuna è esente da responsabilità, se lo spirito repubblicano ci appare oggi così tristemente e pericolosamente dissolto.


Conto alla rovescia
Gianfranco Pasquino su
l'Unità

Nonostante le critiche a eventuali compromessi, ancora una volta la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili quesiti referendari che riguardano le leggi elettorali italiane.

Criticata, anche dal suo interno, per una incerta giurisprudenza in materia referendaria, specificamente elettorale, la Corte ha mandato un messaggio chiaro, vedremo poi come verrà motivato: i tre quesiti sottoposti dal Comitato Guzzetta-Segni non vanno contro nessun principio costituzionale. Semmai, sono proprio alcuni cardini del vigente Porcellum che avrebbero dovuto essere preventivamente sottoposti ad un controllo di costituzionalità. Adesso, i partiti a vocazione maggioritaria possono rallegrarsi. Infatti, il premio in seggi che alla Camera consentirà il conseguimento di una comoda maggioranza più che assoluta verrà attribuito al più grande dei partiti a prescindere dalla percentuale di voti ottenuti che, comunque, non sarà infima. Già sappiamo che, anche nella peggiore delle circostanze, oggi sia il Partito Democratico sia il Popolo delle Libertà dovrebbero essere al di sopra del 30 per cento dei voti. Non sarebbero molto distanti dalle percentuali elettorali che, in alcuni paesi dove si vota con il sistema maggioritario semplice (ovvero nei cui collegi si vince il seggio anche con la maggioranza relativa), vengono superate non di molto dal partito che guadagna la maggioranza assoluta dei seggi.

Certamente, i partiti piccoli hanno molto di che lamentarsi. Se stanno al disotto del 4 per cento rischiano di sparire del tutto. Comunque, hanno perso quasi interamente il loro potere di ricatto nei confronti dei partiti grandi. In un certo senso è giusto così; ovvero è meglio così. Da un lato, ne potrebbe conseguire una positiva spinta all'accorpamento dei piccoli partiti in special modo se non sono fra loro troppo palesemente eterogenei. La riduzione della frammentazione significherà anche probabile contenimento della conflittualità nel governo. Dall'altro lato, però, è ipotizzabile che né il Partito Democratico né il Popolo della Libertà intendano agire senza rete, vale a dire che entrambi, in una misura che è difficile da definire, tenteranno di trovare (temo che il termine giusto sia “imbarcare”) il maggior numero possibile di alleati: effetto grande ammucchiata che svuoterebbe il senso e l'obiettivo del quesito referendario.

A bocce ferme, sia Veltroni sia Berlusconi, se trovassero l'accordo su una buona formula elettorale, dispongono di uno strumento molto incisivo di persuasione nei confronti dei loro potenziali alleati ponendo l'alternativa secca fra la riforma da loro concordata oppure l'esito referendario. Nella pratica, però, il gioco è molto più complesso tanto nella fase di avvicinamento al referendum quanto al momento del voto referendario e nella presa d'atto delle sue conseguenze. Qualcuno dei piccoli potrebbe decidere che, non volendo lasciarsi “suicidare” dal referendum, preferisce fare cadere il governo. Ma, a questo punto, il guardiano della Costituzione, ovvero il Presidente della Repubblica, imporrebbe comunque al Parlamento di approvare una legge elettorale prima di tornare alle urne.

Dopo il referendum, nel quale la vittoria dei “sì” mi pare assolutamente prevedibile, toccherebbe comunque al Parlamento il compito delicato di tradurre (non tradire) in maniera decente l'esito dei quesiti in norme. Ma i partiti grandi avrebbero maggiori capacità di “persuasione”, soprattutto se sapessero accompagnarla a qualche scelta tecnica facilmente comprensibile e ad una visione complessiva del sistema politico desiderabile. Troppe variabili m'inducono a ritenere che l'ammissione dei quesiti da sola non è ancora sufficiente ad imporre un'unica precisa scelta, che si tratti della riforma, della crisi di governo, dello stallo. Quello che sappiamo di sicuro è che, per tornare all'iconografia referendaria, la pistola del referendum non è più sul tavolo. Adesso è carica, è sollevata ed è puntata. Tuttavia, non è chiaro da chi e contro di chi è puntata e chi abbia l'ardire e il potere di premere il grilletto. In assenza di un, al momento imprevedibile, scatto di leadership, le circostanze e le contingenze della politica partitica sembrano ancora in grado di occupare la scena fino all'inizio dell'estate.


Berlusconi: «Il Vassallum meglio della bozza Bianco».
Fini: «An non lo voterà»
su
Il Sole 24 Ore

«E' meglio il referendum che questa bozza Bianco. Per me il referendum è uno sbocco necessitato». Lo ha detto il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, conversando con i giornalisti alla Camera.
Il cavaliere boccia il testo depositato al Senato perché, dice, «la bozza Bianco è esattamente il contrario dell'idea da cui eravamo partiti, e cioè dotare il paese di una legge elettorale che garantisse a due grandi partiti di non essere ricattati dalle piccole formazioni». Il referendum, aggiunge, è ora «uno sbocco necessitato che porta comunque al miglioramento» del sistema di voto.
«Io mi appello a Walter Veltroni - ha continuato Berlusconi - torniamo ai princìpi su cui eravamo d'accordo. Se le cose cambiano sulla base di quella che viene definita la bozza Vassallum, noi siamo felicissimi di discutere. La bozza Bianco - ha aggiunto Berlusconi - è ancora più proporzionale del tedesco. Se la volontà è quella di ritornare ai principi del Vassallum saremmo felici di continuare il dialogo perché questo Paese ha bisogno del dialogo per uscire dalla crisi. Io non credo che il Pd, anche contro i suoi stessi interessi, potrebbe accettare una legge come quella prevista dalla nuova formula della bozza Bianco».

Lo stop di Fini. «Berlusconi sa che se si torna al Vassallum, noi non siamo disposti a votarlo. E quindi torniamo allo scenario di ieri: la legge elettorale che porta a una divisione nell'ambito del centrodestra che comporta la fine del centrodestra». Così il leader di An, Gianfranco Fini, commenta con i giornalisti in transatlantico alla Camera, l'appello di Silvio Berlusconi rivolto a Walter Veltroni per tornare al Vassallum.

Il testo della proposta di riforma Bianco


"Troppi scandali con i fondi europei meglio restituirli che sprecarli"
Il pericolo dei soldi a fondo perduto.
Bersani: mai più finanziamenti alle imprese, solo detrazioni
Antonello Caporale su
la Repubblica

I soldi fanno bene o fanno male? «I soldi possono far bene, possono far niente e possono far male», dice Pierluigi Bersani. Negli ultimi anni al Sud i soldi (troppi soldi?) hanno creato molti problemi. Più problemi che soluzioni, più emergenze che sviluppo, più delinquenza che legalità. Cinquanta miliardi di fondi straordinari, per metà europei, negli scorsi sei anni sono corsi via come un fiume in piena. Spesi ma già persi. Fuggiti dalle tasche di Bruxelles, bruciati in migliaia di progetti senza capo né coda.
Nei prossimi sei anni la cifra salirà a cento miliardi. Raddoppierà. Come il rischio che ancora una volta si comporrà il treno dei desideri, gettoni d´oro smistati per pacchetti di clientele invece che per bisogni certi da soddisfare. L´uomo che è chiamato - pro tempore - a firmare decreti, assegni, provvidenze è Bersani. Tocca a lui, ministro per lo Sviluppo Economico, rispondere alla moltitudine che avanza pretese. Tocca a lui prendersi il rischio di dire, come però ora dice: «Piuttosto che vederli sperperati li rimando indietro. Meglio non spenderli che impegnarli male».
C´è un guaio in più, paradossale ma attualissimo, e l´opportunità, derivata dalla vergogna della gestione campana dei rifiuti, di stilare un prontuario della buona pratica, pochi punti ma chiari e fermi: «Metto tutto in un fondo. Da lì, solo da lì si prende. Ma per prendere io chiedo una condizione: finanzio il progetto solo se tu mi dimostri che è così indispensabile al punto da realizzarlo con i soldi tuoi, da farti i debiti pur di vederlo attuato». Si riducono le categorie del bisogno: finanziare l´essenziale, il primario. Strade e scuole o asili, acqua e inceneritori. Non la vertigine da lusso che ha accecato tutti. E poi, secondo punto: «Azzero i finanziamenti all´impresa. Non voglio più sentire parlare di sussidi. Esiste un´equazione indiscutibile: l´imprenditore sta bene se la condizione sociale in cui si sviluppa la sua intrapresa è accettabile, degna. Quindi occhio al "capitale sociale", ai luoghi, alla qualità della vita delle città, ai servizi essenziali e quelli tecnologici, per esempio alla rete di banda larga nei più piccoli centri. L´imprenditore in quanto tale non riceverà più un euro. Capovolgo il meccanismo: tutto quel che investirà per il benessere dell´azienda gli verrà poi detratto dal fisco». Detrazione d´imposta: per avere devi dare. «Non voglio sentir parlare più della legge 488. Basta, la chiudo. Solo chi merita adesso verrà ricompensato. Ricompensa significa che c´è un prima - l´investimento - e c´è un dopo, appunto la detrazione dall´imposta. Bella e gonfia di soldi, mica spiccioli. Ma successiva al rischio corso, allo sforzo fatto, alla serietà dimostrata».
I soldi, tanti soldi, sono un pericolo: «Generalmente i soldi imbolsiscono, per esperienza dico che rischiano di portare grasso ai muscoli. Con la pancia piena non si corre, si passeggia. I soldi producono spesso un altro guaio: trasformano la politica in pura intermediazione finanziaria, l´impresa in un´assemblea questuante, i cittadini in clientes senza parola.



  17 gennaio 2008