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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 14-15 gennaio 2008


Vertice sulla legge elettorale, l'Unione non trova l'accordo
sommari de
l'Unità

Fumata nera dal vertice del centrosinistra sulla legge elettorale. I partiti minori (Verdi, Udeur, Psi e Pdci) si sono schierati contro la cosiddetta Bozza Bianco. Intanto, Berlusconi dopo l'ultimatum di domenica, ci ripensa: «Non c'entra niente con la riforma Gentiloni». Prodi: fra due ore cambierà idea.


la "Roba" del cavaliere
Edmondo Berselli su
la Repubblica

C´È sempre un momento in cui un negoziato rivela l´oggetto autentico della trattativa, fuori dalle cortesie di maniera, dalle ipocrisie e dalle opportunità tattiche.
Ieri il gioco degli inchini sulla legge elettorale è stato brutalmente spezzato da Silvio Berlusconi, il quale con poche semplici parole al telefono rivolte al suo "popolo" riunito a Roccaraso ha definito la legge Gentiloni sul sistema televisivo una «operazione criminale», sostenendo che non si possono fare accordi con forze politiche che portino avanti progetti simili.
Per molti versi il discorso di Roccaraso rappresenta l´automatismo nervoso che afferra Berlusconi ogni volta che si tratta della "roba". Cioè della sua "roba". Ma non si tratta solo di una reazione della politica «commerciale», come l´hanno subito definita a sinistra, scattata con tempestività dopo le dichiarazioni di Romano Prodi, che pochi giorni fa ha riconfermato la legge sul conflitto d´interessi come uno degli obiettivi programmatici prioritari per il governo di centrosinistra.
Con il suo ultimatum telefonico, Berlusconi ha chiarito che la trattativa sulla legge elettorale, ossia quella specie di rivoluzione stilistica che ha condotto finalmente gli schieramenti a parlarsi, non è un pranzo di gala.

Neanche per sogno: il monopolista Berlusconi, quando decide che è giunto il momento di parlare chiaro, non ha esitazioni: parla chiaro. Dice ai suoi sostenitori, e manda a dire con fragore a Walter Veltroni, che l´accordo con il signor Berlusconi è un accordo totale, senza scarti e senza residui. E che dunque comprende anche un´intesa silenziosa, un mutuo e muto consenso, sulla totalità dei contenuti: la televisione, la Gentiloni, il conflitto d´interessi.
Naturalmente Veltroni non può accettare queste condizioni. Oltretutto è cosciente che le trattative con Berlusconi sono intrinsecamente a rischio, perché quando vede minacciato il proprio interesse politico, giudiziario o patrimoniale il fondatore di Forza Italia non ci mette nulla a far saltare tutto. La storia della seconda Repubblica è costellata di compromessi «alti e nobili» e di progetti come quelli della Bicamerale, finiti nella spazzatura della storia per decisione sovrana del Cavaliere.
Dunque Veltroni deve riconsiderare il contesto della trattativa. Aveva individuato pragmaticamente un modello d´azione, a due piani, che si profilava fruttuoso. Al primo livello lui personalmente organizzava, con notevole duttilità, la tessitura di un accordo sulla legge elettorale (e se possibile su alcune modificazioni costituzionali); mentre al secondo livello, protetto dall´accordo in progress sulla formula elettorale, il governo poteva proseguire la propria azione senza scadenze o ipoteche temporali immediate.
È possibile che, di ritorno dalle Antille, Berlusconi si sia infastidito per i contatti che Veltroni ha strutturato con i partiti minori delle coalizioni, a cominciare da Udc e An. Innanzitutto la sua psicologia politica e personale non gli consente di farsi espropriare la titolarità del negoziato dagli (ex) alleati. Ma c´è anche un altro aspetto fastidioso: in queste ultime settimane, il governo Prodi ha ripreso iniziativa e presenza sulla scena pubblica. Ha mostrato conti pubblici di nuovo in ordine, ha ricevuto apprezzamenti da agenzie di rating come Standard&Poor´s (risultato «notevole») e dal commissario europeo Almunia («migliore delle aspettative e benvenuto»); nella crisi napoletana ha manifestato un certo piglio e una buona rapidità di decisione; la «nuova concertazione» con i sindacati e le imprese per restituire reddito ai lavoratori sembra promettente.
Non è questa la scena che Berlusconi si aspettava. La sua prima strategia, a cui aveva rinunciato a malincuore, consisteva nelle spallate contro Prodi, per costringere il governo alla resa e ottenere quanto prima il ritorno alle urne, nella convinzione di poter facilmente riconquistare il potere. Costretto invece a trattare, essendo consapevole che il Quirinale non era e non è favorevole a un nuovo confronto elettorale con le regole farlocche del "Porcellum", ha cercato di impostare il faccia a faccia con Veltroni secondo i suoi voleri e le sue aspettative.
Voleri e aspettative che erano più o meno i seguenti. Il negoziato doveva essere breve, in modo da poter andare rapidamente alle elezioni, contando di vincere facilmente grazie alla crisi di consenso del governo. Il modello individuato era di matrice proporzionale, costruito in modo da favorire una partita quasi esclusiva fra il Popolo delle libertà e il Partito democratico (anche rinunciando agli alleati, come a un certo punto Berlusconi ha offerto a Veltroni: la razionalizzazione bipartitica del sistema politico si sarebbe costruita su base personale, con un patto implicito fra i due leader principali).
È bastato il volgere di pochi giorni e questo schema berlusconiano si è molto sfilacciato. Veltroni tratta con tutti i partiti, esamina alternative, non si fa ossessionare dal tempo. E intanto, sotto l´ombrello del negoziato veltroniano, il governo Prodi ha ripreso margini di tenuta e di operatività. Per Berlusconi tutto questo genera inquietudine e insofferenza. Lui aveva bisogno di un accordo di ferro, in cui i due leader si garantissero a vicenda, e in cui il realismo politico mettesse la sordina ad argomenti come la legge Gentiloni e le norme sul conflitto d´interessi.



Il gioco degli inganni
Pietro Spataro su
l'Unità

Qualcuno dirà che era prevedibile, qualcun altro che proprio non se l'aspettava. Noi pensiamo che il ricatto di ieri confermi come Berlusconi sia un costante elemento di distorsione del sistema. Basta ricordare la Bicamerale (che fece saltare con un altro ricatto: o risolvete i miei problemi giudiziari o niente) per misurare, dopo dieci anni, il suo grado di inaffidabilità.

Il nuovo aut aut del Cavaliere (via la Gentiloni o niente dialogo) è molto insidioso: ha l'obiettivo di disarticolare l'Unione e il Pd. Mettere in contrasto il percorso riformatore di Veltroni e il programma di governo di Prodi è un gioco incendiario che può avere esiti disastrosi per il centrosinistra.

La reazione, stavolta, è stata univoca. Hanno detto tutti no, a cominciare da Veltroni attraverso una nota di Franceschini. Bene. L'uomo di Arcore deve sapere che non può esserci alcun ricatto accettabile, né oggi né mai. Il governo deve poter fare le sue leggi (la Gentiloni sulle tv, certo, ma anche il conflitto di interessi) in assoluta libertà.

Il colpo di teatro di ieri (stemperato come al solito in modo rocambolesco da Bonaiuti) rilancia però una vecchia domandina: ci si può fidare dell'uomo delle giravolte? Ammettiamolo: lo spazio del confronto si è oggettivamente ridotto, l'impresa di Veltroni diventa un po' più complicata. Tentare si deve ancora, certo. E tentare si deve con gli interlocutori che ci sono, non dimenticando che Berlusconi rappresenta un quarto dell'elettorato. Pensiamo però che una cosa debba essere chiara: la riforma elettorale è indispensabile, ma non può essere fatta a ogni costo. Se il risultato deve essere un guazzabuglio o una melma, allora è meglio il referendum. Provocherà qualche problema, ma ci risparmierà una nuova stagione dei veleni e degli inganni. Ma questo, ne siamo sicuri, Veltroni lo sa molto bene.


Intolleranza e laicità
editoriale di Giulio Anselmi su
La Stampa

Lasciamo parlare il Papa alla Sapienza e ascoltiamo con civile rispetto quello che dirà, liberi, subito dopo, di approvare o criticare le sue affermazioni: l'invito ad andare gli è stato rivolto, nella piena osservanza delle regole, dal rettore e dal senato accademico dell'ateneo romano; Joseph Ratzinger ha tutti i titoli per intervenire in una cattedrale della cultura, come hanno fatto del resto alcuni suoi predecessori, e al pari di altre eminenti personalità. Recenti incidenti, come quelli avvenuti a Ratisbona e in Vaticano, renderanno del resto particolarmente cauti i ghost-writers della Santa Sede e lo stesso Pontefice.

Il caso che ha scatenato qualche decina di professori e un certo numero di studenti contro la visita papale ha tutta l'aria di rappresentare uno di quegli episodi tipicamente italiani che vengono cavalcati con furore ideologico e animo goliardico, al riparo di qualche motivazione strumentale (questa volta è la persecuzione ai danni di Galileo e l'abiura alle sue convinzioni cui lo scienziato fu a suo tempo costretto). Grandi polveroni, senza vera importanza. Tutt'altro rilievo ebbe la visita di Giovanni Paolo II alla Camera dei deputati, che il Papa polacco utilizzò per chiedere al Parlamento italiano di varare un provvedimento di clemenza in favore dei carcerati.

Ma allora, forse per il carisma di Wojtyla che nessuno ardiva criticare nella fase finale del suo pontificato, forse per il diverso clima politico, furono pochissime e flebili le voci di contestazione per quella che invece aveva il sapore di un'ingerenza. La verità è che nel nostro Paese assistiamo a una crescente invadenza della Chiesa, accentuatasi durante la lunga presidenza della conferenza episcopale da parte del cardinale Ruini. La Repubblica italiana, come hanno rilevato studiosi illustri, da Arturo Carlo Jemolo a Gian Enrico Rusconi, deve fare conti sempre più complicati con l'enorme rilevanza della Chiesa-istituzione e della sua immagine pubblica, in gran parte monopolizzata dalla figura e dal ruolo del Pontefice. La strategia della Chiesa investe gran parte delle sue energie sulla società civile, che si sforza di guidare. E ciò dilata e porta a un livello insostenibile di tensione l'antica questione della laicità dello Stato.

La complessità di questi problemi - che la posizione del Papa come vescovo di Roma moltiplica in infiniti equivoci - aiuta a capire perché il nostro Paese riesca con fatica a difendere l'equilibrio che si era espresso nella lunga stagione democristiana della Prima repubblica, imperniata sulla pratica conciliante di uno Stato sostanzialmente imparziale in cui nessuno poteva pretendere di imporre agli altri le proprie convinzioni. Chi si afferma laico oggi dovrebbe riflettere sulle ragioni di questo arretramento e, magari, impegnarsi a contrastarle. Senza immaginare laicità militanti alla francese, ma cercando di realizzare condizioni favorevoli alla convivenza. Chi si accontenta di imbrattare la facoltà di Fisica della Sapienza con cartelli in cui si annuncia la «settimana anticlericale» non è un laico. E nemmeno un tardo epigono del laicismo ottocentesco. Ma solo un intollerante pericoloso.


La grande balla delle ecoballe
Giovanni Valentini su
la Repubblica

È GIÀ singolare che una forza politica rappresentata in Parlamento, nelle amministrazioni locali e perfino nel governo nazionale, decida di acquistare una pagina pubblicitaria su un giornale non per diffondere le sue idee o raccogliere voti, ma per difendersi dalle accuse che le vengono rivolte. Lo hanno fatto l´altro ieri i Verdi con un "avviso a pagamento" su Repubblica, per chiarire quali sono le loro "colpe" sull´emergenza rifiuti o meglio quelle che – come si legge nel testo – "in modo disonesto e strumentale, molti cercano di scaricare" su di loro.
È un´autodifesa che merita di essere presa in considerazione, almeno da parte di chi vuole capire – al di là delle strumentalizzazioni politiche e mediatiche – chi sono i veri colpevoli di questo disastro ambientale e civile, a cominciare dalle imprese appaltatrici guidate dall´Impregilo che l´hanno determinato.
Premesso che "da 14 anni la legge attribuisce al Commissario straordinario tutte le competenze e i poteri per l´emergenza rifiuti in Campania", i Verdi riassumono in otto punti quello che hanno fatto nel frattempo: 1) hanno chiesto più volte di sciogliere una "struttura commissariale inefficace e inadeguata" che fra l´altro ha sperperato due miliardi di euro dei contribuenti; 2) hanno contrastato il "fallimentare" Piano di smaltimento dei rifiuti che ha prodotto cinque milioni di ecoballe; 3) hanno denunciato costantemente il giro del malaffare camorristico e le infiltrazioni delle ecomafie nel traffico dei rifiuti; 4) hanno proposto un moderno modello di gestione dei rifiuti, in linea con le Direttive europee; 5) hanno contributo ad avviare la raccolta differenziata in oltre 150 Comuni della Campania; 6) hanno sostenuto la realizzazione dell´unica discarica controllata e funzionante nella regione, quella di Serre; 7) hanno ottenuto la possibilità di commissariare i Comuni che non effettueranno la raccolta differenziata; 8) e infine, hanno contribuito a fermare il meccanismo perverso del cosiddetto CIP6, oltre 30 miliardi di euro sottratti alle energie rinnovabili e destinati ad alcune potenti lobby industriali.

Il partito del Sole che ride farebbe bene, piuttosto, a riflettere sulla propria immagine, sulla propria credibilità e capacità di comunicazione, per verificare se in qualche caso non ha peccato di estremismo o di massimalismo, compromettendo l´efficacia delle sue iniziative.
Quali sono, allora, i nomi dei veri colpevoli? Lo stesso leader dei Verdi, il ministro dell´Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, nell´intervista rilasciata mercoledì scorso al nostro giornale, ne ha fatto esplicitamente uno: quello di Cesare Romiti. E ha richiamato il "disgraziato appalto alla Fibe del gruppo Impregilo", la società di costruzioni e ingegneria di cui Romiti ha mantenuto il controllo dopo l´uscita dalla Fiat fino al 2005 e la presidenza fino al 2006, che ha prodotto 5 milioni di tonnellate di ecoballe.
Il nome di Cesare Romiti non figura per la verità nella richiesta di rinvio a giudizio depositata dalla Procura di Napoli per il processo che avrebbe dovuto aprirsi proprio oggi e che è stato rinviato per lo sciopero degli avvocati. Ma in compenso ci sono quelli dei suoi due figli, Pier Giorgio e Paolo, rispettivamente nella qualità di amministratore delegato di Impregilo e di direttore commerciale di Fisia Italimpianti controllata dallo stesso gruppo. Insieme ad altre 26 persone, tra cui spicca l´ex governatore della Campania Antonio Bassolino, sono imputati "in concorso tra loro e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso" di vari reati come frode, truffa, inadempimento dei contratti d´appalto, stoccaggio illegale di rifiuti e abuso d´ufficio.
Nelle 45 pagine del provvedimento, emesso dopo un´indagine durata cinque anni, c´è la ricostruzione precisa – data per data, cifra per cifra – del "puzzle" che ha originato l´emergenza in Campania da dieci anni a questa parte. E sebbene molti reati rischino di cadere in prescrizione, questo sarà comunque il primo processo sui rifiuti contro le imprese e i rappresentanti della Pubblica amministrazione, nel quale anche il Wwf si costituirà parte civile.

A dare il via al grande scandalo della spazzatura è un´ordinanza commissariale del 12 giugno 1998, con cui furono indette le gare d´appalto per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti. A seguito dell´aggiudicazione all´Impregilo e alle aziende controllate, i contratti vengono stipulati il 7 giugno 2000 e il 5 settembre 2001. Prevedono l´obbligo di costruire sette impianti di produzione di cdr (combustibile derivato da rifiuti); di edificare due termovalorizzatori e di gestirli secondo le prescrizioni della normativa di settore.
Ebbene, in base all´accusa della Procura napoletana, gli imputati hanno presentato progetti difformi dagli atti di gara o hanno realizzato impianti difformi dai progetti approvati, in violazione degli obblighi contrattuali. L´Impregilo dei fratelli Romiti e le altre società del gruppo hanno prodotto cdr di qualità diversa da quella concordata, con un potere calorifico inferiore e un´umidità superiore al 25%, ma soprattutto con valori di piombo, cromo, arsenico e cloro ben oltre i limiti previsti. Il compost non risultava idoneo a essere utilizzato per recuperi ambientali. In numerose circostanze le ditte appaltatrici "hanno rifiutato o fortemente ritardato il conferimento dei rifiuti solidi urbani con i camion delle aziende di raccolta", costringendo così il Commissario straordinario e i sindaci a disporre l´imballaggio della spazzatura e il trasporto in altre regioni italiane o all´estero. Spesso sia i trasporti sia la gestione delle discariche sono stati subappaltati, con il rischio di alimentare le infiltrazioni camorristiche. E infine, la grande balla delle ecoballe: in attesa di realizzare i termovalorizzatori, non è stato effettuato il recupero energetico dalle balle di cdr.
Quanto al Commissario Antonio Bassolino, al vicecommissario Raffaele Vanoli e al subcommissario Giulio Facchi, la loro colpa in sostanza è quella di non aver impedito che tutto ciò accadesse nell´esercizio delle loro funzioni. Nel provvedimento della magistratura, si cita un fitto elenco di ordinanze con cui gli amministratori pubblici hanno consentito la violazione degli obblighi contrattuali e la pratica dei subappalti. O comunque, non le hanno contestate e denunciate.
È per tutte queste ragioni che Raffaele Raimondi, presidente emerito della Corte di Cassazione, in qualità di magistrato e di presidente del Comitato giuridico per la difesa dell´Ambiente, ha presentato recentemente un ricorso contro l´Impregilo alla Corte europea per disastro ambientale. L´accusa, com´è già accaduto nei casi di Marghera e di Severo, è di aver attentato alla salute dei cittadini. E il reato in questione è ancora più grave di quelli contestati dalla Procura di Napoli, tanto da superare anche i rischi di prescrizione e i termini di indulto.


Le scelte anti apartheid
Pietro Ichino sul
Corriere della Sera

Il regime di vero e proprio apartheid che condanna tanti giovani bravissimi, soprattutto ma non soltanto nelle amministrazioni pubbliche, a penare per molti anni prima di riuscire a conquistare un posto stabile è l'altra faccia del regime di inamovibilità di cui oggi beneficiano i lavoratori «di ruolo ». Più questi sono inamovibili, più è difficile, talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e protetto per quelli che stanno ancora fuori della «cittadella».
È quello che gli economisti chiamano «mercato del lavoro duale». Di fronte al quale si può proporre l'abolizione di tutte le forme di lavoro flessibile e low cost, in particolare le abusatissime collaborazioni continuative autonome, per costringere le imprese a garantire a tutti i nuovi assunti, con un modello unico di contratto di lavoro, l'inamovibilità di cui oggi gode soltanto metà della forza-lavoro italiana. È, sostanzialmente, la proposta della Cgil, condivisa dalla sinistra radicale. È il ritorno al diritto degli Anni 70 auspicato dal sociologo del lavoro Luciano Gallino nel suo ultimo libro «contro la flessibilità ». Ed è un po' quanto il governo sta tentando di fare nel settore pubblico con le norme della Finanziaria che prevedono la stabilizzazione dei precari attuali e danno un giro di vite contro nuovi contratti a termine e collaborazioni «atipiche» in questo settore. Ma quando pure fossero resi inamovibili tutti gli attuali precari e si potesse assumere solo personale di fatto inamovibile, che cosa ne sarebbe delle future leve di giovani? Ci siamo dimenticati che nella seconda metà degli Anni 70, quando c'era solo l'alternativa secca tra il lavoro ultraprotetto e la disoccupazione o il lavoro nero, furono proprio Cgil, Cisl e Uil, per bocca dei Trentin, dei Crea e dei Benvenuto, a chiedere l'istituzione del contratto di formazione e lavoro (cioè di un contratto che oggi verrebbe qualificato come «precario») per facilitare l'accesso al lavoro regolare dei giovani?
Nel settore privato, invece, il ministro del lavoro Damiano e il presidente della Commissione Lavoro della Camera Tiziano Treu dichiarano di voler seguire una linea d'azione diametralmente opposta. Su flessibilità e precarietà «non servono altre leggi», ha sostenuto Treu sul Corriere del 2 gennaio: occorre soltanto «modulare meglio le tutele dei vari tipi di lavoro... Per il resto propongo una moratoria legislativa ». In altre parole: non si cambia una virgola del vecchio diritto del lavoro, salvo estendere qualche brandello di tutela ai cosiddetti «lavoratori atipici ». È l'idea, risalente alla fine degli Anni 90, dello «Statuto dei lavori»; ed è la stessa, a ben vedere, cui si rifà anche il programma del Popolo della Libertà, esposto dall'ex sottosegretario al lavoro Maurizio Sacconi sul Corriere del 31 dicembre.
Se nell'assise di febbraio sulla politica del lavoro il Pd farà propria questa linea, ciò significherà di fatto - al di là degli slogan - che il nuovo partito di Veltroni rinuncia a combattere il dualismo feroce del nostro mercato del lavoro: esso si batterà soltanto per spostare qualche precario tra i protetti e per dare qualche modesto contentino ai molti condannati a restar fuori.
Se si vuole davvero combattere efficacemente l'apartheid, e al tempo stesso non si vuole che il mercato del lavoro torni a essere inaccessibile alle nuove leve come era divenuto alla fine degli anni '70, la strada è una sola. Occorre, sì, un tipo unico di contratto per tutti i lavoratori dipendenti; ma disciplinato in modo che siano garantite la necessaria fluidità nella fase di accesso al lavoro dei giovani e una ragionevole flessibilità nella fase centrale della vita lavorativa, secondo i migliori standard internazionali; e che tutti ne portino il peso in ugual misura.
La riforma potrebbe, per esempio, consistere in questo: per tutte le nuove assunzioni che avverranno d'ora in poi si sostituisce l'attuale «giungla dei contratti» con un solo contratto a tempo indeterminato, che prevede un periodo di prova di sei mesi oppure otto, come ora in Francia - con un forte sgravio contributivo sotto i 26 anni.
Dopo il periodo di prova, l'articolo 18 dello Statuto si applica soltanto per il controllo dei licenziamenti disciplinari e contro quelli discriminatori o di rappresaglia. Per i licenziamenti dettati da esigenze aziendali è invece soltanto il costo del provvedimento a proteggere il lavoratore e a penalizzare l'impresa che ne faccia abuso: chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente diritto a un congruo indennizzo, crescente con l'anzianità di servizio in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della vita lavorativa; e ha diritto a un'assicurazione contro la disoccupazione disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a carico dell'impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti.
Certo, una scelta di questo genere comporta il problema di infrangere quello che un altro sociologo del lavoro molto vicino alla Cgil, Aris Accornero, ha chiamato «l'ultimo tabù»: l'articolo 18, nella cui difesa a oltranza la sinistra è parsa negli anni passati volersi bruciare i ponti alle spalle. Ed è facilmente prevedibile il fuoco di sbarramento che tornerà a essere scatenato. Ma il Pd, se deciderà di imboccare questa strada, potrà avvalersi di un argomento fortissimo: gli basterà ricordare la disperante inconcludenza di tutto quanto la sinistra è andata proponendo e praticando da dieci anni in qua nella sua lotta contro il lavoro precario.
Se si rifiuta la strategia della progressiva redistribuzione delle tutele, ci si condanna all'alternativa che ha paralizzato la politica del lavoro della sinistra in questo ultimo decennio: o il ritorno indietro al diritto del lavoro degli anni '70, che significa condannare le nuove leve a una difficoltà enorme per entrare nel tessuto produttivo regolare; oppure i pannicelli caldi dello «Statuto dei lavori», cioè la rinuncia a combattere il dualismo del mercato. La realtà è che la scelta più incisiva ed efficace rispetto all'obiettivo, quindi più «di sinistra», è proprio quella che passa per la riforma dell'articolo 18.


Assenze da malattia pubblico batte privato per quattro a uno
Perse ogni anno 125 milioni di giornate. La stragrande maggioranza dei certificati non superano la settimana. Ichino: ripristinare la franchigia sui primi tre giorni, distribuendo il risparmio a tutti
Mario Reggio su
la Repubblica

ROMA - Più di 125 milioni di giornate di lavoro perse per malattia. Quasi equamente distribuite tra dipendenti pubblici e lavoratori assunti da aziende private. Con una grande differenza: quelli pubblici sono 3 milioni e seicentomila, contro quasi 15 milioni di dipendenti privati. Poco più di 4 giorni di malattia per i privati nel 2006, 18 in media l´anno per quelli pubblici nel 2005. E la stragrande maggioranza dei certificati medici non superano la settimana.
Negli ultimi mesi la polemica sulle "malattie di comodo" è stata alimentata da numerosi fatti di cronaca. Tra questi l´insegnante che spediva i certificati da un´amena località del centro America. La docente è stata licenziata. L´ultimo caso risale a pochi giorni fa: la donna giudice che era in malattia per seri problemi alla schiena e scoperta mentre partecipava ad una regata velica.
Il dibattito su come fare per ridurre i certificati "compiacenti" si riaccende. «Credo sia giunto il momento di iniziare una sperimentazione, anche solo a livello aziendale, - suggerisce il giuslavorista Pietro Ichino - ripristinando almeno in parte la franchigia sui primi tre giorni di malattia, distribuendo i soldi risparmiati a tutti i lavoratori. Nel mio libro "A cosa serve il sindacato", dimostro dati alla mano che ci guadagnerebbero tutti, salvo gli assenteisti. In Inghilterra da quando è stato introdotto questo procedimento l´assenteismo si è dimezzato». Polemica la reazione di Michele Gentile, coordinatore della Funzione Pubblica Cgil: «Nel contratto nazionale dei dipendenti statali c´è una voce che si chiama "indennità di amministrazione", legata alle presenze. Ogni giorno di assenza equivale ad una decurtazione dell´indennità. Quindi il meccanismo già esiste. Poche settimane fa il ministro della Funzione Pubblica ha firmato una direttiva che sollecita ad intensificare le visite fiscali - prosegue Gentile - il sindacato non vuol proteggere chi commette abusi e la falsa malattia è un abuso che attiene la dimensione penale. Anche il "tormentone" del dipendente pubblico assenteista deve finire. I dati della Ragioneria generale dello Stato parlano chiaro: dal 2003 al 2006 le assenze sono in calo costante. Nell´ultima rilevazione la Ragioneria ha sezionato i dati e la media dei giorni di malattia è scesa a 10 e mezzo l´anno per dipendente».



Ospedale di Vibo: tutti primari
I numeri choc della struttura nota per la malasanità: all'Asl oltre 1.900 dipendenti.
Nell'ultimo anno tre morti sospette. Alcuni reparti sono stati chiusi. Le denunce dei dipendenti e le segnalazioni dei carabinieri.
Gian Antonio Stella su
Corriere della Sera

Amate il brivido? Venite a farvi ricoverare a Vibo Valentia.
Dove c'è perfino un chirurgo che s'è fatto esentare dalla sala operatoria perché ha un debole per il vino ma è stato premiato lo stesso con l'«alta specializzazione». Concessa, dalla generosa Asl vibonese, alla bellezza di 153 medici. Oltre ai primariati di serie A, a quelli di serie B, alle direzioni varie...
La più alta densità planetaria di luminari. La storia dell'ultimo anno, in realtà, dice qualcosa di diverso. Basti ricordare il caso di Federica Monteleone, la sedicenne morta dopo un blackout elettrico mentre era sotto i ferri per una banale appendicectomia. O quello di Eva Ruscio, l'altra ragazzina deceduta un mese fa dopo il ricovero per un ascesso alle tonsille. O ancora quello di Orazio Maccarone, il vecchio morto il giorno di Santo Stefano dopo quattro ore al pronto soccorso, ore che il figlio Michele ricorda per la difficoltà di parlare con certi medici dall'approccio «superficiale e strafottente». Insomma: un ospedale inaccettabile in un Paese civile. Sgarrupato. Sporco. Come buona parte delle strutture sanitarie calabresi.

E sono gli stessi medici (meglio: una parte dei medici) a denunciarlo. Come Michele Soriano, il primario di ortopedia che a metà ottobre mandò una lettera al presidente regionale: «L'ospedale è in coma». Colpa degli organici gonfiati. Dei direttori generali «addomesticati» via via «inviati da Catanzaro a sbarcare il lunario». Dei sindacati medici «lontani anni luce dalla gente che lavora ». Parole dure quanto quelle del direttore sanitario Pietro Schirripa, vicino al vescovo di Locri Giancarlo Bregantini: «Abbiamo almeno 400 esuberi nel settore amministrativo ». O ancora del neurologo Domenico Consoli: «Purtroppo la classe medica vibonese, con le debite eccezioni, non è libera. È debitrice verso gli elargitori di prebende di carriera».
Il governatore Agazio Loiero ha promesso «piazza pulita». Le autorità hanno chiuso un po' di reparti a rischio. Il comando regionale dei Carabinieri è stato allertato per 98 «documenti di rilevante interesse» e informato di 132 contestazioni disciplinari contro singoli dipendenti e ditte appaltatrici.

Un panorama da incubo. Tanto più che il «nuovo ospedale» era già stato promesso da un ventennio. Di più: gli allora responsabili della Asl, Michelangelo Lupoi e Rodolfo Gianani, assicurarono nel 1999 al vostro cronista che di ospedali nuovi ne avevano in mente due: uno a Nicotera (a 40 chilometri di tornanti dall'autostrada) per farne «un "Gaslini" del Sud ed evitare i viaggi della speranza al Nord» e uno appunto a Vibo per un totale di cento miliardi di lire: «Anche noi come a Padova abbiamo previsto di metterci un anno e mezzo a costruirlo!», spiegava l'uno. «Un anno e mezzo!», gli faceva eco l'altro. Un decennio dopo, non è stata ancora posata la prima pietra. E non sono stati ancora chiuse le decrepite strutture ospedaliere di Vibo e Nicotera più quelle (un po' di ricoveri, un po' di day hospital, un po' di ambulatori) di Soriano, Tropea, Serra San Bruno e Pizzo Calabro. Dove svetta immortale l'opera incompiuta più incompiuta del pianeta: un ospedale iniziato nel '49 (l'anno del debutto a teatro del Quartetto Cetra) e mai aperto nonostante i premurosi amministratori avessero già comprato centinaia di scarpe per le infermiere da assumere. Scarpe col tacco alto, da spogliarellista. Sono ancora tutte lì, quelle sei strutture ospedaliere. Esattamente come 10 anni fa: sei per una provincia di 170 mila abitanti.

Cosa è successo, nel tempo? Che come in altri casi (si pensi ai 3.769 dirigenti ministeriali tutti benedetti con la valutazione «ottimo») i premi sono stati spartiti e distribuiti a pioggia. Per dare qualche soddisfazione. Per garantire un ritocco agli stipendi. Per consolare i depressi. Fatto sta che (anche per colpa del «caos valutativo», denuncia Stefano Biasioli, segretario nazionale della Cimo, il sindacato dei medici schematicamente considerato a destra che recentemente se l'è presa anche con le nomine dei direttori generali «amici» fatte da Giancarlo Galan) è successo un po' ovunque. Dalla Lombardia alla Sicilia. Al Sud, però, in forme abnormi.
Prendiamo appunto l'Asl di Vibo Valentia, dove secondo l'avvocato Giuseppe Pasquino, c'è nel mondo sanitario «un carrierismo sfrenato, sostenuto da politica e massoneria, che porta ai vertici più alti gente spesso incapace». Sapete quanti sono i dipendenti? Oltre 1.900. Dei quali 386 medici (115 in ospedale, gli altri «fuori sul territorio»), 680 infermieri e tecnici (220 in ospedale, gli altri «fuori»), 140 ausiliari (16 in ospedale, gli altri «fuori»), 650 impiegati amministrativi e tecnici, dei quali solo 10 (dieci!) in ospedale. Il tutto per un totale di 200 letti e 191 ricoveri medi giornalieri. «Non è una Asl, è uno spezzatino — sorride Carlo Lusenti, segretario nazionale dell'Anaao —. Noi a Reggio Emilia, con lo stesso numero di persone, mandiamo avanti una struttura col quadruplo di letti, servizi d'avanguardia e professionisti di livello internazionale ». Anche a Vibo, sulla carta. I numeri dell'Asl sono sfolgoranti: 40 primari, 85 dirigenti di strutture semplici e 153 medici ad «alta specializzazione ». Compresi molti che, allo stesso tempo, non possono esercitare perché hanno il certificato di inidoneità. Al dipartimento materno infantile ad esempio, tra medici e infermieri, sono circa la metà: il 45%. Ma che te ne fai di un ostetrico che non può assistere ai parti?


  15 gennaio 2008