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sulla stampa
a cura di G.C. - 12 gennaio 2008


Tesoretto e riforme destini incrociati
Massimo Giannini su
la Repubblica

La verifica di governo è un castello dei destini incrociati, quelli del Professore e del Cavaliere. Ed è costruito su due carte decisive, i salari e le riforme. Nei prossimi quindici giorni si gioca il futuro di una legislatura appesa al solito conflitto gramsciano tra l´ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. L´ottimismo della volontà dice che sull´economia Prodi ha una carta vera da spendere, per ricompattare gli eletti e riconquistare gli elettori. La questione salariale è un´emergenza oggettiva degli italiani, non un´urgenza soggettiva dei "comunisti".
Parlano i dati di Eurostat, più che gli ululati di Rifondazione: la retribuzione media oraria, a parità di potere d´acquisto, è di 11 euro in Italia, cioè tra i 30 e il 40% in meno rispetto a Francia, Germania e Regno Unito. Quasi 10 milioni di lavoratori aspettano i rinnovi contrattuali. L´inflazione è al 2,6%, ai massimi dal 2003. In queste condizioni, non c´è speranza di far ripartire la domanda interna, sostenere i consumi e dunque rilanciare la crescita.
La road map messa a punto dal premier per alimentare i redditi è logica e giusta. Agli alleati scontenti della sinistra radicale offre sgravi fiscali sulle categorie fino a 40 mila euro, coperti da un virtuoso recupero di evasione fiscale e da un doveroso riallineamento della tassazione sulle rendite. Alle parti sociali altrettanto scontente offre un patto per lo sviluppo, che ruota intorno allo scambio salari-produttività. Tra le due offerte, la prima è più dirimente sul piano politico: sconta il vincolo delle risorse, che giustamente Padoa-Schioppa non intende violare prima di avere un quadro contabile certo con la Trimestrale di cassa di marzo. Con un deficit ai minimi dal ´99, ma con un Pil che quest´anno potrebbe crescere meno del previsto, immaginare fin da ora una riforma strutturale della curva dell´Irpef, più che un raggio di luce, è un salto nel buio. Più sensato è un intervento congiunturale, modellato sulla "dote fiscale" che integra le buste paga e incrocia detrazioni e assegni familiari.

La seconda offerta è più convincente sul piano economico: sollecita l´etica delle responsabilità, e chiama imprese e sindacati alla riscrittura di un modello contrattuale bifasico fermo da oltre dieci anni. Con una contrattazione di secondo livello che ormai coinvolge una quota sempre più bassa di aziende, detassare i futuri incrementi di produttività (misurati in termini di crescita del valore aggiunto) sarebbe il modo più efficace per rimpinguare i salari dei lavoratori, rilanciare la competitività delle imprese e non squilibrare il bilancio pubblico.
Su Lavoce.info Tito Boeri ha calcolato che se una riforma contrattuale del genere fosse stata introdotta nel 1996, oggi avremmo una spesa pubblica e una pressione fiscale più basse di circa 6 punti di Pil. Non è mai troppo tardi. L´accoglienza positiva tributata alle proposte di Prodi da Confindustria da una parte, Cgil-Cisl-Uil dall´altra, fa ben sperare. Come ha detto due giorni fa Sarkozy nella sua conferenza stampa all´Eliseo, citando il filosofo Edgar Morin, nei momenti di grandi rivoluzioni economiche e tecnologiche un grande Paese deve saper esprimere una "politica di civiltà", ricostruendo le sue fondamenta sociali. Prodi non vola così alto. Ma in fondo, a Montezemolo ed Epifani, come a Bertinotti e Dini, chiede la stessa cosa. Con una maggioranza politica senza alternative, e con un tesoretto da 8 miliardi da spendere, può riuscire a convincerli.
Il pessimismo della ragione dice invece che sulle riforme Prodi non ha più assi nella manica da giocare. Sulla bozza Bianco è un improvviso fiorire di entusiasmi. Le grandi aperture incrociate di Veltroni e Casini sembrano aprire scenari virtuosi. Superato l´equivoco "presidenzialista" di Franceschini, il Pd sembra rimettere insieme i suoi cocci, placa le ansie anti-referendarie del Prc anche se non rassicura i nanetti. Sommersa dall´onda neo-populista del Cavaliere, la Cdl resta a bagno, sembra riportare dentro le mura Casini anche se non ferma le inquietudini referendarie di Fini.
Nell´insieme, tutto sembrerebbe congiurare a favore di un accordo. Compreso il quasi certo via libera della Consulta ai quesiti. Al Paese serve una riforma condivisa: speriamo che il confuso sistema elettorale "misto" costruito sulla bozza Bianco salvi almeno uno straccio di bipolarismo in questo Paese. Ma sul sentiero della trattativa resta un´altra incognita, gigantesca: si chiama Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ha accettato di sedersi al tavolo delle riforme con Veltroni su due presupposti per lui irrinunciabili: il tracollo della maggioranza dell´Unione e una data certa per le elezioni.
Ora, tornato dalla sontuosa vacanza nei caldi mari di Antigua, si ritrova con un governo che ha buone chance di chiudere positivamente la verifica sui salari, e con un clima di apparente concordia sulla riforma elettorale che esclude dall´orizzonte il voto anticipato. È partito per le vacanze ai Tropici con un Prodi "poeta morente", secondo l´ormai leggendaria metafora bertinottiana, e adesso si ritrova un Prodi più vivo e battagliero che mai, intento a ricementare miracolosamente la sua maggioranza e pronto a blindare il suo network di potere con una tornata vertiginosa di nomine (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, una settantina di enti previdenziali, nuova Rai).
Perché il Cavaliere dovrebbe dire sì a tutto questo? Ha scoperto nel tepore di President Bay uno "spirito costituente" che nessuno gli aveva mai conosciuto? Ha improvvisamente maturato la convinzione che, una volta tanto, gli interessi del Paese vengono prima dei suoi? Sarebbe una notizia veramente magnifica, che tutti saluteremmo con sincero entusiasmo. Ma almeno fino a prova contraria, sembra davvero troppo bella per essere vera.


La fregola da tesoretto
Dario Di Vico sul
Corriere della Sera

Spendere è una formula magica che aiuta i governi a recuperare popolarità in ogni caso? Se guardiamo alla recente esperienza del governo Prodi la risposta è no. A fine dicembre la fiducia degli italiani nei suoi confronti era ai minimi nonostante l'esecutivo avesse stanziato, in rapida successione, risorse per il bonus incapienti, per aumentare le pensioni basse, per puntellare il comparto delle infrastrutture e, infine, avesse deliberato gli attesissimi sgravi dell'Ici che da soli costano 2-3 miliardi l'anno. In definitiva, pur avendo fatto uscire dai cordoni della borsa l'equivalente di quasi un punto di Pil, Romano Prodi non ha, almeno finora, riguadagnato il consenso degli italiani. Errare è umano, insistere un po' meno. Eppure il dibattito che si è aperto dentro la coalizione di governo sul taglio delle tasse sui salari ha preso una vecchia piega. La tesi che va per la maggiore sostiene che investendo una decina di miliardi per ridare potere d'acquisto ai lavoratori dipendenti il governo se ne gioverebbe in termini: a) di consenso; b) di stabilità politica. Fortunatamente il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa non la pensa così. Teme la fregola da tesoretto, la tentazione dalla parte delle forze politiche di distribuire al proprio elettorato i proventi dell'extra-gettito fiscale. Ma al di là delle considerazioni di ordine politologico sul nesso tra spesa e consenso (l'immondizia di Napoli da sola è capace di annullare gli effetti non di uno ma di cinque tesoretti), non c'è da essere ottimisti sul futuro dell'economia mondiale. Le autorità monetarie americane parlano esplicitamente di un Paese in recessione e gli economisti che vanno per la maggiore oltreoceano sono per buona parte catalogabili nel filone catastrofista. L'esperienza dimostra che una recessione negli Usa trasmette i suoi effetti sull'Europa in men che non si dica.
È vero che il rapporto deficit-Pil è sceso al 2% e proprio ieri da Standard & Poor's è arrivato all'Italia un attestato del risanamento dei conti pubblici ma con la prospettiva di un lungo ciclo economico avverso le probabilità di tornare in piena emergenza sono alte. Un brusco rallentamento della crescita mondiale avrebbe effetti negativi anche sulle entrate fiscali: i tesoretti di Vincenzo Visco sono maturati in gran parte sul lato delle imprese (nei primi 10 mesi del 2007 il gettito derivante dall'imposta sui profitti aziendali è cresciuto del 35,4% rispetto al medesimo periodo del 2006) e di fronte a una congiuntura negativa il miracolo non si ripeterebbe. Stando così le cose la cautela è d'obbligo e aspettare i risultati della Trimestrale di cassa o i dati di giugno sulle entrate fiscali prima di prendere impegni, appare una scelta giudiziosa.
Sia chiaro, è giusto porsi l'obiettivo di ridurre il prelievo fiscale sui salari e sugli stipendi ma la strada virtuosa per centrare un obiettivo così ambizioso passa attraverso la riduzione della spesa pubblica.



Il conclave dei 38
Sergio Rizzo sul
Corriere della Sera

ROMA — Mai dire che un vertice di maggioranza è inutile. Mai dirlo, nemmeno se, come ieri, intorno al tavolo della sala verde di Palazzo Chigi ci sono 38 persone pronte a parlare di tutto.
Tranne che, se non marginalmente ed evitando accuratamente di scendere nei particolari, dell'argomento del quale si dovrebbe parlare. Capita così che il fumantino (a dispetto delle sue placide sembianze) capogruppo dei Verdi Angelo Bonelli affronti il premier Romano Prodi ancora prima di sedersi: "Presidente, mi pare singolare che il ministro Di Pietro affermi che deve valutare come si regolerà con la mozione di sfiducia dell'opposizione sul ministro Pecoraro Scanio". Ma subito si corregge: "Anzi, lo ritengo inquietante. Guardi qua". E mette sotto il naso di un Prodi vagamente imbarazzato una pagina del blog del leader dell'Italia dei Valori dove Di Pietro, proprio lui, incenerisce gli inceneritori. Giusto un anno prima di scagliarsi contro chi non li avrebbe voluti.

Pannella e il Senato
Con questa premessa, si comincia. Prodi si siede: "Ci siamo tutti? Vedo che ci sono i colleghi ministri, gli esponenti della maggioranza. E vedo.... vedo pure i portavoce... ". Sono in sei o sette, che se fossero furbi si squaglierebbero subito. Dal fondo del tavolo, così lungo che se ci fosse la nebbia dell'altroieri a Roma le sagome si scorgerebbero appena, si leva la voce del socialista Enrico Boselli: "Veltroni è in ritardo. Non sarebbe il caso di aspettarlo?". Non è il caso, secondo Marco Pannella, che tira subito fuori il rospo: "Presidente, qui c'è il solito problema di legalità delle Camere, la questione dei nostri senatori regolarmente eletti ancora non è risolta ". Prodi tenta di ammansirlo: "La materia è degna di attenzione, ma è competenza del parlamento, nella fattispecie del Senato.... ". Ma il leader radicale insiste: "Presidente...". Allora ci prova Alberto Manzione a chiudere la questione: "In ogni caso si deve risolvere il 21 gennaio". A quel punto Prodi capisce che la riunione rischia di prendere una piega imprevista e lancia un'occhiata gelida al gruppetto di persone accalcate dall'altra parte del tavolo, dietro la file delle persone sedute: "Adesso cominciamo. Ma pregherei i portavoce di lasciare la sala".

Dini contro le province
Comincia il rifondarolo Franco Giordano, che non aspetta di meglio che essere ascoltato. Si è preparato bene. Ha solo sbagliato un passaggio: la sorpresa se l'è bruciata il giorno prima. Perciò, quando evoca nientemeno che il presidente francese Nicolas Sarkozy, c'è chi giura di scorgere Clemente Mastella che alza gli occhi al cielo. Sarà vero o è un'illusione ottica? "Qui c'è l'emergenza prezzi e salari. Prendiamo esempio da quello che ha fatto quando Sarkozy era ministro, nel 2004. Bisogna convincere le imprese a contenere i prezzi: diversamente il governo provveda per via amministrativa". Questa volta c'è chi giura che sia Lamberto Dini a scuotere la testa. Giordano è un ruscello in piena: "Si deva mandare un segnale preciso al Paese, alle classi più deboli. Dopo il risanamento, è arrivato il tempo della redistribuzione". Ma Rifondazione non aveva sempre criticato la linea dei due tempi? Chi ci capisce è bravo.
Laconicamente, Oliviero Diliberto informa tutti che a lui le parole interessano poco e aspetta "di vedere i fatti". E Fabio Mussi spiega che "c'è un profondo disagio sociale soprattutto fra chi ha un lavoro precario" ma dopo aver invocato la redistribuzione dice che è pure necessario rilanciare la competitività. Come? Ma "con l'innovazione e la ricerca", ovviamente. A quel punto ci si aspetta la bordata di Dini, e anche in questo caso c'è chi giura di aver visto qualcuno, dalla parte opposta a Prodi, tapparsi le orecchie. Anche lui invece si limita a piantare la propria bandierina: "Non si può risolvere tutto con interventi fiscali. Qui va compressa la spesa corrente. E poi, le Province, che cosa aspettiamo ad abolirle?"
Padoa-Schioppa e i 5 anni
Nel frattempo è arrivato Walter Veltroni. E quando prende la parola non vola una mosca. Il suo parere è che "bisogna lanciare un messaggio chiaro sui salari" ma anche "sullo sviluppo". Soprattutto, "dare segnali di unità e comunicare bene". Manco fosse facile. Concedendo infine soddisfazione a chi da Veltroni aspettava solo questo, dichiara: "Per quanto riguarda la legge elettorale vorrei trovare condivisioni nella maggioranza, ma so che è difficile. In ogni caso sono impegnato a trovare una soluzione per evitare il referendum". I Verdi lo guardano in cagnesco. Mastella non è da meno.
Tommaso Padoa-Schioppa s'incarica di tornare all'ordine del giorno per rispondere a chi, come Giordano, pretende ora dal governo il cambio di passo. "Siamo qui da appena venti mesi: è un terzo del tempo che la legislatura ci concede. Se resteremo cinque anni potremo cambiare il volto del Paese, arriveremo al pareggio di bilancio, avremo le risorse per fare molte cose. Non c'è bisogno di nessuna svolta, ma soltanto di continuare su questa strada ", dice.
Francesco Rutelli ha taciuto per tutto il vertice. Massimo D'Alema invece parla: "La questione dei bassi salari è molto importante, ma altrettanto lo è quella della competitività e dell'innovazione. La contrapposizione fra imprese e mondo del lavoro è sbagliata. Anche per questo l'azione di governo dev'essere rilanciata, e nei confronti di tutto il Paese. Occorre identificare due, tre, pochi interventi chiari e percepibili dalla gente. Soprattutto, l'azione del governo deve restare separata dal destino della legge elettorale, che è materia soltanto del Parlamento". E potrebbe anche limitarsi a questo. Ma per essere ancora più chiaro spezza un'altra lancia in favore di Prodi: "Nel centrosinistra sono rappresentate istanze diverse, ma siamo riusciti a trovare una sintesi. Se questa sintesi cade, cadono le ragioni stesse della maggioranza. Ma credo che queste non siano venute meno. Perciò la coalizione va rafforzata".



Legge elettorale, la stretta di Veltroni
Sommario de
La Stampa

ROMA. "Abbiamo bisogno di creare un nuovo clima per una democrazia bipolare dell'alternanza, con un sistema elettorale che sarà probabilmente un sistema di transizione, di passaggio verso un assetto compiuto". Lo ha detto il leader del Pd Walter Veltroni parlando nel modenese ai sostenitori del nascente partito democratico durante un pranzo di autofinanziamento. Veltroni ha aggiunto che "è il sistema che in questo momento, nelle condizioni date, è possibile fare. Siamo a un passo dal farlo - ha continuato - ci vuole solo un pò di buona volontà".

L'obiettivo di Walter: schieramenti responsabili
Veltroni si è detto inoltre convinto che serve "massima differenza programmatica e valoriale, ma massima capacità di convergenze nella scrittura delle regole per le istituzioni democratiche". "Io spero di poter contribuire - ha concluso - alla creazione di un Paese nel quale ci sono schieramenti politici alternativi che sono e che rimangono alternativi, e al tempo stesso però che assumano su di sè il senso di responsabilità".

Si riparte dalla "bozza Bianco"
La prossima settimana potrebbe essere decisiva per le sorti della riforma dal momento che la commissione Affari Costituzionali del Senato dovrebbe adottare la bozza Bianco e mercoledì 16 la Consulta si riunirà in camera di consiglio per decidere sull'ammissibilità dei quesiti referendari.


Bertinotti: "E' l'ottimismo della disperazione"
Intanto, da più parti, da destra come da sinistra, si sollecita a fare in fretta. Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, dall'America Latina dice: "Non è difficile prevedere come si comporterà la Corte costituzionale il 16 gennaio ed è per questo che credo nella possibilità che si faccia una nuova legge elettorale, sia pure con l'ottimismo della disperazione. Nessuno può permettersi di non capire che senza una riforma varata al più presto in Italia saranno le istituzioni ad avvitarsi". Senza la riforma, secondo Bertinotti, "si aprirebbe una crisi politica e istituzionale che travolgerebbe tutti".

Casini: il cammino è aperto
Anche secondo Pier Ferdinando Casini (Udc) "la legge elettorale è bene farla al più presto" e le possibilità di raggiungere il risultato ci sarebbero: "La riforma elettorale mi sembra che stia marciando, con qualche difficoltà, ma il cammino è comunque aperto. Diceva Mao "La strada è a zig-zag e il futuro è luminoso". Non so se questo è il caso, ma certamente mi sembra che si siano accorciate di molto le distanze e abbiamo qualche speranza che possa andare in porto".

Di Pietro: stop alla proliferazione dei partiti
Antonio Di Pietro (Idv) dice di essere "contro la proliferazione dei partiti, sono così tanti che le riunioni di maggioranza sembrano riunioni di condominio..." e per questo sul referendum sottolinea: "Noi lo sosteniamo. Puntiamo dritti verso il referendum".

Berlusconi: Walter tenga duro
"La vera partita Veltroni la gioca ora...". Silvio Berlusconi, ricevendo le telefonate degli esponenti azzurri ansiosi di testimoniare la propria vicinanza dopo le minacce ricevute, si è soffermato anche sulla legge elettorale. L'ex premier ha ribadito che fino a martedì, giorno in cui si saprà se la bozza Bianco farà strada o si insabbierà subito, non vuole pronunciarsi sulla possibilità o meno di arrivare ad un'intesa. Anzi, il voto in Commissione Affari costituzionali del Senato - questa la linea indicata agli azzurri - in ogni caso ci dovrà essere dopo il pronunciamento della Corte sui quesiti referendari. "Spero che prevalga lo spirito riformista ma l'esito è tutt'altro che scontato", dice ai suoi.


Il Pd e la laicità
Piergiorgio Odifreddi su
la Repubblica

Caro direttore, diciamoci la verità: nei loro dibattiti i filosofi e i politici si comportano spesso come i marinai di una volta, che quando incontravano una balena le gettavano una botte vuota affinché, divertendocisi, essa evitasse di far violenza alla nave. Lo stratagemma fu usato scherzosamente da Jonathan Swift nella Storia di una botte, ma ora sembra essere stato riesumato seriamente dagli estensori del Manifesto dei Valori del Partito Democratico, che hanno gettato in mare una poetica e astratta discussione sulla laicità per evitare di affrontare il tema dei più prosaici e concreti rapporti fra Stato e Chiesa. Seguiamoli dunque su questo terreno, o su queste acque, senza dimenticare però che si sta parlando al sacrestano o alla perpetua affinché il prete intenda.
Per iniziare, prenderei le mosse dall´articolo di Giancarlo Bosetti "Ma laicità e ateismo pari non sono" su la Repubblica del 7 gennaio, che rispondeva al mio "Il Pd, la laicità e la vergogna" del 30 dicembre. Come già annuncia il titolo, Bosetti sostiene che "laicità e ateismo non sono affatto la stessa cosa", e ci mancherebbe che su questo non fossimo d´accordo! Se non altro perché, altrimenti, tanto varrebbe usare una sola parola invece che due.
Lui però pensa che io non condivida, e il suo equivoco nasce dalla mia affermazione che "laicità e ateismo costituiscono una sorta di nudità teologica". Ora, il fatto che le abbia accostate non significa che io non sappia distinguere in teoria, e non distingua in pratica, le due posizioni: tanto per essere precisi, per me ateismo significa non credere nel trascendente, cioè non avere una fede religiosa, e laicismo non mescolare il trascendente col contingente, e più specificamente la fede con la politica.
Naturalmente, si può avere una pratica religiosa senza avere una fede trascendente: l´esempio più tipico di "religione atea" è il buddismo, come il Dalai Lama ripete continuamente nei suoi libri e nei suoi discorsi, e ha ribadito pubblicamente, non più tardi del 16 dicembre scorso, in una sua conferenza a Torino. Altrettanto naturalmente, si può avere una fede trascendente senza permettere che essa interferisca con le proprie azioni contingenti: in fondo, la prima riguarda l´aldilà e le seconde l´aldiqua, e l´uno e l´altro possono benissimo essere tenuti separati, visto che lo sono.
Di cosa stiamo parlando, allora? Del fatto che quando da noi si dice religione, si intende il cattolicesimo: cioè, una fede in un dio trascendente incarnato e in una rivelazione mediata da una Chiesa. Dunque, una religione che per sua stessa natura non può essere non solo atea, ma neppure laica: e non può proprio perché la dottrina dell´incarnazione immette il trascendente nel contingente, e rende difficile separare i due ambiti dell´aldilà e dell´aldiqua, che diventano poi inseparabili quando la Chiesa stessa si configura come uno Stato a se stante. Il problema è dunque filosofico o teologico, prima e più ancora che politico: una sorta di contraddizione originale interna che rende sicuramente difficile, e forse impossibile, a un cattolico l´essere veramente laico.
Ma proprio per questo, la politica italiana deve tutelarsi dalle naturali tentazioni all´ingerenza dei cattolici individuali da un lato, e delle gerarchie ecclesiastiche dall´altro, sapendo già in anticipo che la natura della loro fede tenderà inevitabilmente a sconfinare dall´ambito religioso e teologico per invadere terreni che sono propriamente sociali e politici. Anzi, che tenderà a farlo con tanta più convinzione e forza, quanto più è forte e salda la fede: come nel caso dei cattolici che definiamo teodem, ma che se fossero islamici chiameremmo semplicemente fondamentalisti o taliban. L´ultima delle ingerenze ecclesiastiche, e più in generale religiose, in questioni sociali e politiche è la faccenda della moratoria sull´aborto proposta, in ordine di esternazione, dal cardinal Camillo Ruini, dal giornalista Giuliano Ferrara e dal papa Benedetto XVI. La seconda persona di questa improbabile trinità ha tirato in ballo pure me, chiamandomi "estremista dell´ateismo di Stato e difensore peloso di Bacone", nel suo editoriale "Fate l´amore, non l´aborto" su Panorama del 4 gennaio, benché io non abbia mai espresso pubblicamente alcuna posizione al riguardo. Colgo dunque l´occasione per farlo adesso, e per dire apertamente che l´intera faccenda suona estremamente pretestuosa, vista appunto con gli occhi di un laico.
Anzitutto, perché si potrebbe facilmente ribattere a Ferrara che sarebbe meglio dire "fate l´amore col preservativo o la pillola, e non farete l´aborto": cosa alla quale si oppongono invece con ostinazione Ruini e Benedetto XVI, reiterando le disposizioni dell´enciclica Humanae Vitae che Paolo VI promulgò nel 1968, benché solo quattro (!) dei settantacinque membri della commissione di studio istituita da Giovanni XXIII, e da lui stesso confermata, avessero dato parere negativo agli anticoncezionali. Oggi, poi, con il flagello dell´Aids, chiunque istighi a non usare il preservativo nelle nazioni da esso infestate è difficilmente credibile in qualunque sua "difesa della vita dal concepimento alla morte".
Altrettanto facilmente si potrebbe ribattere a Ferrara che il motto suo e della sua parte politica è in realtà "fate la guerra, non l´aborto". E poiché la guerra è da sempre la maggiore responsabile delle morti procurate dall´uomo all´uomo, non è credibile chiunque sia contrario all´aborto ma favorevole ad essa: come coloro che, e non solo da destra, in questi anni hanno plaudito ai nostri interventi in Jugoslavia nel 1999, Afghanistan nel 2001 e Iraq nel 2003. Non parliamo poi di quelli che accettano la pena di morte: direttamente, come i fondamentalisti cristiani degli Stati Uniti, a partire dal presidente Bush, o indirettamente, nella forma della legittima difesa individuale o nazionale, come facciamo quasi tutti in Occidente.
Tutto questo per dire che un conto è il rispettabilissimo rifiuto buddista della violenza in tutte le sue manifestazioni, coniugato a una rispettabilissima difesa della sua vita in tutte le sue forme: da quelle attuali, umane e animali, a quelle potenziali. Un altro conto è invece il sospettosissimo rifiuto cattolico dell´aborto, unito alla sospettosissima accettazione, più o meno condizionale e selettiva, della legittima difesa e addirittura della pena di morte, come fa espressamente il nuovo Compendio del Catechismo agli articoli 467 e 469 (tra parentesi, il Vaticano ha abolito ufficialmente la pena di morte soltanto nel 1969).
E discussioni analoghe si potrebbero fare per tutti gli argomenti che stanno a cuore alla Chiesa, dal ruolo della famiglia tradizionale alla distribuzione delle risorse economiche: argomenti sui quali il papa non ha avuto pudore a strigliare, oggi stesso in Vaticano, gli amministratori della città e della provincia di Roma, e della regione Lazio. Ecco, se il Manifesto dei Valori del Partito Democratico, invece di ribadire nella sua ultima bozza "la rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni", proclamasse che i politici, in quanto tali, non devono inginocchiarsi di fronte al papa, né letteralmente né metaforicamente, farebbe qualcosa di meritorio non solo per la laicità, ma anche per l´indipendenza del nostro paese.



Guerre di religione
Federico Geremicca su
La Stampa

Di fronte a una delle commissioni della Camera Bassa, la vicepremier del governo di Madrid, signora Fernández de la Vega, ha espresso ieri le valutazioni dell'esecutivo intorno al "family day" che vide in piazza a Madrid, il 30 dicembre scorso, circa un milione di persone. Un discorso vibrante, molto polemico nei confronti dei vescovi spagnoli, che le agenzie di stampa non si sono fatte sfuggire: "La società spagnola non è disposta a tornare ai tempi in cui una morale unica era imposta a tutto il Paese - ha tuonato la vicepremier - né ha bisogno di tutele morali. Né tantomeno ne ha bisogno il governo, che non le accetta". E ancora: "Non è tollerabile che venga a mancare il rispetto dovuto al governo e al Parlamento... In più, senza dire la verità!".

Questa è la temperatura - per dir così - cui può giungere il confronto tra il governo spagnolo e la Cee, nei momenti di crisi. Sì, il governo di Zapatero: tanto apprezzato da certo centrodestra nostrano per aver "sorpassato" l'Italia in economia (vero o falso che sia) dimostrando - a loro dire - la pochezza dell'esecutivo di Romano Prodi. Quell'apprezzabile governo, dunque, quando è necessario difende l'autonomia del proprio agire con i toni utilizzati dal suo vicepremier. Leggendo la sintesi dell'intervento della signora Fernández de la Vega non si può fare a meno di interrogarsi su che tipo di "crociata" sarebbe stata armata qui da noi se Massimo D'Alema o Francesco Rutelli avessero replicato così alle severe critiche vaticane nei confronti di leggi dello Stato. O se Walter Veltroni avesse utilizzato toni simili a quelli del governo spagnolo per rispondere all'allarme lanciato ieri da papa Benedetto XVI circa lo stato in cui versa la città.

Il sindaco di Roma ha risposto al Pontefice in modo rispettoso, provando a ricordare quel che ha fatto per Roma (e il giudizio sarà dato dai cittadini) e magari riflettendo sul perché, quest'anno, il discorso rivolto da Benedetto XVI agli amministratori del Lazio, e a lui in particolare, sia stato segnato da toni così esplicitamente critici: a differenza di quel che avvenne l'anno scorso. Oggi Veltroni non è solo sindaco di Roma, ma anche leader del Pd e - presumibilmente - futuro candidato premier dell'attuale maggioranza. Questa novità ha determinato il fatto che il discorso del Papa sia stato abbondantemente utilizzato dai partiti d'opposizione per attaccare sia il Veltroni sindaco che il Veltroni leader del Pd. Benedetto XVI, naturalmente, non può difendersi dall'uso strumentale che viene fatto delle sue parole: ma non immaginare che questo possa accadere significa non aver capito di che pasta è fatta la politica del Paese nel quale vive da un quarto di secolo.

E infatti ieri si è sentito un po' di tutto. Per esempio, la richiesta del centrodestra romano di riunire il Consiglio comunale per discutere del discorso del Papa, e magari sull'onda chiedere le dimissioni di Veltroni; oppure la tagliente replica di Fausto Bertinotti, presidente della Camera e terza carica dello Stato: "Il Pontefice, se parla di Roma, lo fa da abitante: in questo senso va ascoltato come qualsiasi abitante di Roma". Uno qualsiasi, insomma: né più né meno. È del tutto evidente che se questa - da un lato e dall'altro - è l'accoglienza che viene riservata ai discorsi del Papa, dello spirito pastorale e del messaggio evangelico cui tendono resta poco o nulla. Ciò che importa è se Benedetto XVI sollecita interventi a favore delle famiglie (tutti a dire: critica Prodi!) o se punta l'indice contro l'edonismo e il ruolo diseducativo di certa tv (tutti a replicare: ce l'ha col mondo di Berlusconi).

La fase politica che il Paese attraversa è confusa come mai. Le prossime elezioni (quando arriveranno) saranno una resa dei conti dai toni immaginabili fin da ora e non c'è argomento sul quale sinistra e destra siano d'accordo. Ci manca solo dividere ulteriormente il Paese in una insensata guerra di religione.



  12 gennaio 2008