prima pagina pagina precedente



sulla stampa
a cura di G.C. - 10 gennaio 2008


Addio seconda Repubblica
Pierluigi Battista sul
Corriere della Sera

Sepolte sotto una montagna di rifiuti, giacciono le spoglie della Seconda Repubblica. Il sogno infranto del "grande cambiamento " lascia le sue scorie nella discarica della vergogna. Marciscono le promesse e i sogni fioriti quindici anni fa. E si chiude nel peggiore dei modi la chimera di un fantastico "nuovo Rinascimento ": non solo la sigla magniloquente di un esperimento che ha trovato in Antonio Bassolino il suo profeta, ma la presunzione fatale di un ciclo politico che avrebbe dovuto archiviare per sempre i fantasmi di un Medioevo chiamato Prima Repubblica. Tutto seppellito nel caos e nelle fiamme della jacquerie napoletana, mentre l'Italia della Seconda Repubblica prende la forma dei cumuli di spazzatura che le tv di tutto il mondo trasmettono come simbolo umiliante del nostro Paese. Altro che Rinascimento italiano.

Persino le date parlano di un fallimento. È comprensibile che Bassolino non voglia arrendersi all'idea feroce di passare come il capro espiatorio del disastro di questi giorni. Ma è proprio nella sua figura che si compendia la vicenda delle speranze e delle disillusioni nate nella Seconda Repubblica. Nell'autunno del '93 (esattamente quindici anni fa, appunto) la sua elezione al ruolo di primo cittadino di Napoli venne salutata come un nuovo inizio di salvezza nazionale. Nacque la stagione dei sindaci direttamente eletti dal popolo. Si inaugurò l'era dell'ammirazione per il "partito dei sindaci", capaci di scavalcare le oligarchie obsolete del passato grazie a un caldo rapporto personale e carismatico con gli elettori. Per completare il grande cambiamento annunciato dal crollo dell'ancien régime, Mario Segni coniò l'immagine suggestiva del "sindaco d'Italia", risolutore illuminato dei problemi italiani, figura che incarnasse la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rinnovate e depurate dalle miserie di un passato coralmente ripudiato. Bassolino era il "nuovo " sindaco per eccellenza, il riscatto dalle infamie di una Napoli che la vecchia politica aveva consegnato alle rapaci mani sulla città denunciate da Francesco Rosi, all'epidemia di colera del '73, al malaffare della ricostruzione post terremoto.

Ecco perché l'immondizia che soffoca Napoli appare come un crudele contrappasso destinato a travolgere nella desolazione e nell'indignazione l'immagine del suo Sindaco per antonomasia. Era il "nuovo" della Seconda Repubblica e il fetore dei sacchi di monnezza ne ha distrutto l'incanto. Ha ragione Raffaele La Capria: le piramidi di rifiuti stavano raggiungendo la cima del Vesuvio e intanto la Seconda Repubblica si contemplava come Narciso nel suo presuntuoso nuovismo tutto immagine, tutto comunicazione, tutto pubbliche relazioni e autopromozione.

Ma Napoli è solo la versione macroscopica di un caso italiano senza redenzione. Quindici anni in cui sono nate Bicamerali per le riforme, si sono vagheggiate senza requie assemblee costituenti, si sono invocati confronti costruttivi tra gli schieramenti, ma che ancora non sono stati sufficienti per trovare un minimo accordo su una legge elettorale decente e condivisa.

Quindici anni che non sono bastati a smaltire l'ebbrezza della "rivoluzione giudiziaria " che travolse nel disonore la Prima Repubblica, sperando senza confessarselo che i giudici potessero completare il lavoro a danno del nemico politico: salvo accorgersi troppo tardivamente che a Napoli la magistratura nulla sa dello scandalo della spazzatura che oscura il Vesuvio ma in compenso si prodiga alacremente per sciogliere il mistero delle vallette raccomandate. Quindici anni vissuti nell'ossessione di Berlusconi, convinti che con la sua eventuale uscita di scena i problemi si sarebbero dissolti, che la spazzatura si sarebbe smaterializzata, che la buona amministrazione avrebbe trionfato in virtù di una supposta superiorità morale. Quindici anni a maledire i vecchi partiti, i rimasugli che ne restavano, gli apparati impegnati ad arrestare il luminoso avanzamento del "nuovo ", del puro, dell'incorrotto e dell'incorruttibile.

Si spalanca una voragine tra le promesse e le realizzazioni, tra i propositi e i risultati. Ma questa non sarebbe una novità. È nuova invece, e sconvolgente, la rivelazione della spaventosa vacuità di quel discorso ideologico. Un'ideologia, una retorica, un lessico che hanno sostituito la realtà, trascinando nell'autocompiaciuto rigetto del passato ogni esame serio dei mali che avevano messo la pietra tombale sulla Prima Repubblica. Hanno degradato la politica all'arte dell'apparire e del proclamare, rinviando sine die ogni soluzione credibile. È più di una delusione: è la scoperta di un bluff durato quindici anni. Anche nei primi anni del dopoguerra democratico presero forma potenti correnti di delusione, di scoramento, persino di rimpianto nostalgico per l'Italia del vecchio regime. Ma la Repubblica democratica tenne, perché poggiava su qualcosa di solido e conservava ancora il senso di una missione comune, malgrado la Guerra fredda e la spaccatura dei blocchi contrapposti. Oggi invece, sotto la spazzatura il nulla.



I piccoli partiti e l´antipolitica
Massimo l. Salvadori su
la Repubblica

Sovente ad alzare più alta e con maggiore ostentazione la bandiera degli interessi generali e dei diritti universali sono coloro che nella realtà perseguono pervicacemente la difesa dei propri interessi particolari. Intendo riferirmi ora propriamente alla posizione dei piccoli e piccolissimi partiti che arretrano con orrore e furore di fronte alla prospettiva che venga approvata una legge elettorale la quale introduca una sostanziosa soglia di sbarramento. Questi partitini manifestano, appunto, orrore per il colpo che verrebbe inferto al diritto inconculcabile delle minoranze di essere comunque rappresentate in Parlamento e furore di fronte alla prospettiva di dover mollare la salda presa che impropriamente esercitano sui destini dell´intero sistema politico.
Neppure mi inoltro nell´analisi di questa o quella proposta di riforma elettorale e della loro bontà o non bontà, che lascio agli esperti. Vorrei invece spendere qualche considerazione sui rapporti tra valori dei sistemi democratici e regole atte a consentire quei processi decisionali efficaci senza i quali nessuna società è in grado di funzionare accettabilmente ovvero non è dato assicurare ad essa quelle leggi che spetta alla maggioranza parlamentare elaborare e varare in maniera sufficientemente rapida e coerente. In una società pluralistica convivono due esigenze egualmente essenziali: l´una è quella – che si colloca a livello della società civile e della società politica di base – della libertà degli individui e dei soggetti collettivi di esprimere le proprie opinioni e di organizzarsi per promuoverle; l´altra è quella – che si colloca a livello delle istituzioni rappresentative, del governo e degli organi dello Stato – della costituzione di un potere capace, sulla base del voto e del consenso della maggioranza, di esercitare le funzioni necessarie a far agire lo Stato. Quando le due esigenze non trovano un accettabile equilibrio e il potere della maggioranza espressa in Parlamento e nel governo ne risulta indebolito e al limite paralizzato – poiché la maggioranza numerica non coincide con la maggioranza politica e perciò continuamente sottopone quest´ultima ad usura, la rende troppo incoerente e la mina –, allora si determina un turbamento che dà inevitabilmente uno spazio di manovra e una forza abnormi ai piccoli partiti in quanto detentori di una paralizzante "rendita di posizione", indebolisce sia le istituzioni rappresentative sia il governo, ne semina il discredito, diffonde il germe dell´antipolitica. E´ esattamente quanto avviene nel nostro paese, nel quale è all´ordine del giorno una palese "crisi di autorità" che è alla base di una cronica debolezza di decisione che troppo spesso sfocia nella rinuncia alla decisione stessa. E´ in questo quadro che si crea un ideale terreno di cultura per l´affermazione e la difesa ad oltranza di tutti i soggetti dotati di "rendite di posizione", siano essi, nella società civile, corporazioni di vario tipo (tassisti, autotrasportatori, ecc.) o, nelle istituzioni parlamentari, partitini i quali condividono "un potere di ricatto" che consente loro vuoi di sconvolgere periodicamente la vita dell´intero paese vuoi di minacciare la caduta del governo allo scopo supremo di far valere fino ad imporle le proprie posizioni particolari.
In uno Stato dotato di libere istituzioni tutte le minoranze hanno certo l´incontestabile diritto di promuovere i loro punti di vista senza che le maggioranze le privino di voce e di possibilità di movimento. Ma in questo stesso Stato esse non hanno il diritto, in base ad un indebito stravolgimento di ruoli, di prendere per il collo le maggioranze. Quel che così avviene è che chi ha una ridotta e persino minima base di consenso acquista esso il potere di decidere le sorti della maggioranza. Qui si determina una vera e propria perversione: la rendita di posizione dà luogo ad un potere di veto e a una capacità di condizionamento che paralizza la maggioranza, privandola della possibilità di assumere ed esercitare le responsabilità che le spettano.
I partitini dicono: una soglia di sbarramento per l´accesso al Parlamento che non sia minima (ma una soglia minima a cosa serve?) priva quest´ultimo della rappresentanza di tutte le tendenze che esistono nel paese. Due sono le obiezioni a questo argomento. La prima è che il processo elettorale è finalizzato, specie in un sistema parlamentare come il nostro, sì a rappresentare le opinioni politiche, ma anche a costituire "maggioranze decisionali", poiché quando diventano assemblaggi incoerenti e conflittuali, le maggioranze si svuotano cadendo troppo spesso nella paralisi. Chi rappresenta troppo poco ha il compito di controllare Parlamento e governo, di criticarne l´operato, di lottare per accrescere il proprio consenso nella società e di mettersi così in grado di entrare in Parlamento ed eventualmente anche nel governo. I partitini dicono: non consentirci di agire nella sfera parlamentare significa fare violenza alla libertà politica. Allora ecco la seconda obiezione, suggerita dai dati di fatto. In Gran Bretagna, in Spagna, in Francia, in Germania esistono diversi sistemi elettorali, che però hanno in comune di impedire la costituzione delle rendite di posizione e dei poteri di veto che invece posseggono in Italia i piccoli partiti.

I partitini sostengono di essere vitali e autentici rappresentanti di culture politiche radicate nel territorio e nella coscienza popolare. Ma, quale che sia la ricchezza delle culture politiche, devono esse davvero generare un corpo di rettile capace di dividersi e moltiplicarsi in altre decine e decine di corpi, come avviene da noi? Sono così tante, venti, trenta, quaranta, le culture politiche di cui ha bisogno un paese? Chi può crederlo e farlo credere seriamente? E quindi una legge elettorale che ponga fine al nostro scempio partitico è non soltanto una necessità ma anche un dovere nazionale.


'A nuttata che non passa
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

'A nuttata che non passa "Da quanti anni non viene qui un sindaco, un assessore? Da quanti anni non si lavano, queste vie? Da quanti anni non si spazzano? Tutto il letame delle bestie e delle persone e delle case, tutto è qui e nessuno ce lo toglie". Non sono parole di un teppista ribelle napoletano ai microfoni delle tivù ma di Matilde Serao, la scrittrice che Carducci salutava come "la più forte prosatrice d'Italia". Parole di 120 anni fa.
Ed è questo che, oltre ai fetori nauseabondi che salgono dai cassonetti, toglie il fiato a tantissimi napoletani sgomenti: possibile che "'a nuttata" non debba passare mai? Possibile che tanta intelligenza, tanta cultura, tanta bellezza, tanta buona volontà spese con generosità nei decenni da un mucchio di cittadini, imprenditori, artigiani, politici, intellettuali per restituire dignità, decoro e onore alla loro città, debbano essere annientate da questo incubo della 'munnezza? Quanto tempo ci vorrà, ancora, per tornare a rimuovere tutti quei maledetti stereotipi che sono stati rianimati? Certo, anche in questo caso non mancano le responsabilità di settentrionali che a lungo hanno usato le discariche della camorra per buttarci i loro veleni. Ed è insopportabile il tono di certi razzisti nostrani. Ma stavolta no, anche i più accorati difensori del buon nome partenopeo sanno che non possono prendersela come Edoardo Scarfoglio solo con certi "imbecilli e scellerati fratelli del Nord pronti ad accodarsi ad ogni mascalzone che getta bava e fango contro di noi". Né come Carlo Alianello con la piemontesizzazione che fece ricadere "sul Napoletano il sonno grave, carico di tanti secoli, il sonno di Aligi".
Né coi cronisti critici come quando Domenico Rea sbuffò su Giorgio Bocca: "Ho scritto venti libri su Napoli, migliaia di articoli, sono napoletano da 5.000 anni: resto sempre molto sorpreso quando arriva un giornalista dal Nord che in pochi giorni o in pochi mesi pretende di scoprire quel che io non ho visto in 72 anni". No, stavolta l'incubo è riconoscere nelle cronache di oggi quelle, immutabili, di ieri. Come appunto quelle della Serao: "Case crollanti, vicoli ciechi, ricovero di ogni sporcizia: tutto è restato come era, talmente sporco da fare schifo, senza mai uno spazzino che vi appaia, senza mai una guardia che ci faccia capolino. (...) Un intrico quasi verminoso di vicoletti e vicolucci, nerastri, ove mai la luce meridiana discende, ove mai il sole penetra. Ove per terra la mota è accumulata da anni, ove le immondizie sono a grandi mucchi, in ogni angolo, ove tutto è oscuro e lubrico".
Un passato che non passa mai. Una melma nel quale hanno intinto il pennino decine di viaggiatori, scrittori, polemisti. Ammassando via via, in buona o in mala fede, cataste di stereotipi ardue da rimuovere quanto le cataste di immondizia. Come i sospiri sul letto di morte del Cavour: "Nous sommes tous Italiens; mais il ya encore les Napolitains...". O lo scetticismo di Roberto D'Azeglio, senatore del regno e fratello del più famoso Massimo: "C' est un cadavre qu'on nous colle", è un cadavere che ci incollano addosso. O la sconfortata diagnosi della commissione parlamentare sulla miseria condotta da Stefano Jacini che, a proposito di tante abitazioni del Napoletano, scriveva di "nauseabonda sozzura" Montesquieu, che nel 1729 già irrideva alla giustizia partenopea ("Non c'è un Palazzo di Giustizia in cui il chiasso dei litiganti e loro accoliti superi quello dei Tribunali di Napoli. Lì si vede la Lite calzata e vestita. I soli scrivani formano un piccolo esercito, schierato in battaglia") raccontava di un popolo "ridotto all'estrema miseria" e di "50 o 60 mila uomini, chiamati Lazzi" così poveri da vivere di ortaggi e da lasciarsi "facilmente sobillare". "Gli uomini più miserabili della terra", li chiamava. Spiegando: "Si può ben dire che la plebe napoletana è molto più plebe delle altre". Per non dire di tanti altri stranieri intrisi di pregiudizi.
Come l'inglese William Hazlitt che, in aggiunta alle descrizioni di sporcizia, letame e pidocchi, spiegava nel 1825 che "il bandito napoletano" è naturaliter criminale: "Toglie la vita alla sua vittima con scarso rimorso, poiché (di vita) ne ha a sufficienza in se stesso, anzi, da vendere. Il suo polso continua a battere tiepido e vigoroso; mentre il sangue di un più mite nativo del freddo Nord raggela alla vista del cadavere irrigidito".

O come Charles Dickens, nella lettera all'amico Forster: "Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l'ingrasso dei pidocchi; goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri!". O ancora come Mark Twain: "La gente è sudicia nelle abitudini quotidiane e ciò rende sporche le strade e produce viste e odori sgradevoli. Non vi è popolazione che odi il colera quanto i napoletani. Ma hanno le loro buone ragioni. Il colera di solito sconfigge il napoletano, perché, voi capite, prima che il medico possa scavare nel sudiciume e raggiungere il male, l'uomo è morto". Giudizi sferzanti, feroci, razzisti. Dispensati allora, da quei viaggiatori, anche su tante altre città italiane. Basti ricordare le cose terribili che Dickens scrisse su Livorno ("ricettacolo di malandrini"), Piacenza ("I suoi abitanti sono imbroglioni e devoti, come dappertutto in Italia") o Ferrara, bollata come "torva". Altri tempi. Ma è questo il punto, che angoscia tutti i napoletani che amano davvero la loro città: quando passerà, anche a Napoli, 'a nuttata?


Per un nuovo civismo
Appello su
l'Unità

Si discute molto di laicità, diritti civili e temi "eticamente sensibili". Lo si fa sui giornali, con saggi, nelle istituzioni, nei partiti. Lo fanno le religioni. Lo fa la Chiesa cattolica. E ovviamente la politica. "Dico", "Cus", testamento biologico, fecondazione assistita, interruzione volontaria della gravidanza, rispetto dell'orientamento sessuale e lotta all'omofobia, il grande capitolo della convivenza: da mesi sono alcuni temi del confronto politico e pubblico. Per molte ragioni è una discussione inevitabile. Quegli argomenti, infatti, alludono a domande di "senso" fondamentali per la democrazia e per l'autonomia della politica.
Per classi dirigenti che sentano l'onere di contribuire a una nuova etica pubblica. Questa discussione ovviamente accompagna, e per certi versi scandisce, la nascita del Partito Democratico. Ne interroga scelte e cultura politica. Pensiamo sia una riflessione strategica per l'avvenire del progetto.
E però scorgiamo una sovrapposizione di concetti che ci preoccupa. Il punto è che si scambia di frequente la richiesta di legittimi diritti civili per tematiche etiche. L'effetto è che l'estensione arbitraria, o comunque non sufficientemente argomentata, della sfera eticamente sensibile rende più confusa la discussione e la ricerca di un approdo condiviso anche dentro il centrosinistra.
A questa difficoltà se ne somma una seconda legata al processo costituente del Partito Democratico. La riassumiamo così. Quale dev'essere, o può ragionevolmente diventare, l'equilibrio tra il pluralismo delle posizioni interne al nuovo partito e la scelta dei principi costitutivi che definiscono oggi la cultura politica delle Democratiche e dei Democratici? Su questo piano manifestiamo la nostra inquietudine.
Guardiamo ad esempio con qualche timore a posizioni, certamente minoritarie nel Pd e nella società italiana, che restituiscono all'omosessualità una patente di malattia da curare, concetto abbandonato da tutte le democrazie occidentali anche in seguito alla chiara affermazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.
Più in generale viviamo come un limite la difficoltà del nuovo partito di elaborare sul terreno della cittadinanza, dei diritti e delle responsabilità del singolo, una chiave indispensabile della propria identità.
Il che non equivale all'imposizione di un unico punto di vista su questioni complesse, ma esige appunto un chiarimento sul significato di termini decisivi per il vocabolario e l'azione del Pd, e dunque per la sua idea di progresso e modernità. Ne indichiamo alcuni. I diritti umani e civili. Il valore della persona, la sua libertà e responsabilità. L'autonomia femminile. L'indipendenza e il principio di precauzione della scienza, l'autonomia dei pazienti nella scelta delle terapie come indicato dalla Costituzione. La cittadinanza piena e il contrasto a ogni forma di discriminazione, sia essa di origine etnica, di genere, di appartenenza religiosa o culturale, di orientamento sessuale.
Crediamo che questi temi siano determinanti per la crescita civile ed economica dell'Italia e sentiamo il dovere di alimentare questa discussione nel processo costituente del nuovo partito. Intendiamo farlo nel rispetto delle regole che il nuovo statuto definirà. Decideremo insieme se si tratterà di un forum, di un associazione o di altro. Ma è comunque sulla base di un'esigenza di confronto, approfondimento e chiarezza che abbiamo deciso di promuovere un primo seminario su questi temi e sul percorso da avviare nelle prossime settimane.

Barbara Pollastrini, Salvatore Veca, Miriam Mafai, Albertina Soliani, Sergio Staino, Alessandra Kustermann, Gianni Cuperlo, Bianca Beccalli, Carmen Leccardi, Furio Colombo, Ignazio Marino, Carlo Feltrinelli, Andrea Benedino, Valerio Zanone, Stefano Ceccanti, Fabrizio Onida, e altre firme


Dini: “Prodi ha tempo fino ad aprile”
Fabio Martini su
La Stampa

ROMA. Aveva annunciato che gennaio sarebbe stato il mese del giudizio universale, aveva solennemente scandito nell'aula del Senato che col nuovo anno sarebbe servito "non soltanto un nuovo governo ma anche una nuova maggioranza", ma all'ottavo giorno del mese, Lamberto Dini ha rinviato tutto ad aprile. In un'intervista ad "Economy" l'ex presidente del Consiglio, ora presidente della Commissione Esteri del Senato ha spiegato la novità: "Ci sembra giusto attendere aprile anche alla luce della risposta positiva, anche se di massima che il premier ci ha dato sui nostri sette punti. Il governo non potrebbe seriamente impegnarsi su nulla senza prima sapere, con i dati della Relazione trimestrale di cassa sulla finanza pubblica, quante risorse avrà da ripartire". E solo a quel punto Dini farà sapere se "rinnovare la fiducia al governo". L'effetto dell'annuncio diniano, soprattutto per chi aveva dato credito alla possibilità di un strappo definitivo, è politicamente rilevante: da ieri il governo Prodi ha di nuovo una maggioranza al Senato.

Certo, la stessa risicatissima maggioranza di due voti sulla quale il governo "campa" dall'inizio della legislatura. Ma sempre Dini si è reso protagonista di un altro evento con potenzialità interessanti per la maggioranza: l'incontro con la delegazione radicale guidata da Marco Pannella e della quale faceva significativamente parte anche un ministro del governo Prodi come Emma Bonino. Alla fine di un incontro tra entità tra loro diversissime come i neonati liberaldemocratici del tecnocrate cattolico Lamberto Dini e i radicali guidati da un outsider di lungo corso come Marco Pannella è stato diffuso un comunicato congiunto. In un lessico un po' politichese, si sostiene che è stata verificata "una profonda unità di analisi e di obiettivi, in particolare per ciò che riguarda l'urgenza di assicurare le riforme liberalizzatrici e la drastica riduzione della spesa pubblica".

In realtà tra i radicali e Dini è stata studiata la possibilità di un'alleanza a tempo che salvaguardi i reciproci interessi, tra l'altra con la nascita di un nuovo gruppo parlamentare al Senato. Tutto nasce da un'iniziativa dei radicali, tanto è vero che l'incontro con Dini era stato annunciato da Marco Pannella nella sua consueta chiacchierata domenicale col direttore di Radio Radicale Massimo Bordin. I radicali hanno chiesto l'appoggio di Dini in vista della imminente battaglia parlamentare su otto seggi contestati al Senato. Da 18 mesi la Rosa nel Pugno (Sdi più Radicali) contesta l'interpretazione della legge elettorale e sostiene una diversa lettura che, nel caso ottenesse il consenso dell'aula, imporrebbe un turn-over di senatori in base al quale la maggioranza finirebbe per ritrovarsi tre seggi in più, uno dei quali sarebbe assegnato proprio a Marco Pannella.

Certo, nulla è scontato, anche perché la Giunta per le elezioni - convocata il 21 gennaio dal presidente Domenico Nania di An - finora ha rinviato con studiata lentezza ogni decisione. Ma se Dini e i suoi due senatori (Natale D'Amico e Giuseppe Scalera) appoggiassero le istanze dei radicali e degli altri partiti ricorrenti e se l'Unione correggesse l'atteggiamento sinora tenuto, Romano Prodi potrebbe guadagnare un insperato margine di sicurezza. E Dini e Pannella? Il turn-over invocato dalla Rosa nel Pugno consentirebbe l'ingresso di senatori socialisti e radicali, che uniti agli amici di Dini (i due liberaldemocratici più Willer Bordon e Roberto Manzione) avvicinerebbe la possibilità di formare un nuovo gruppo parlamentare.



Il senso dei diritti
Milano e gli asili nido
Oreste Pivetta su
l'Unità

Con la grazia che la segna fin dal nome, Letizia Moratti aveva scelto la vigilia di Natale per comunicare quali bambini potessero frequentare le scuole materne e quali dovessero invece tenersene alla larga. Via di qui, brutti mocciosi: la maestrina che siede a Palazzo Marino sogna l'Expo 2015 per i suoi affari e teme che qualche discolo dalla faccia sporca le imbratti i muri e le strade.
Chissà chi le avrà suggerito di applicare la perfida Bossi-Fini al punto da impedire l'iscrizione alle scuole materne dei figli degli immigrati clandestini. Negando banali diritti dell'infanzia e ovvie leggi italiane, secondo le quali i minori stranieri possono frequentare le scuole pubbliche qualunque sia la condizione giuridica delle loro famiglie. Con un tonfo nell'arroganza e nell'insipienza, che potrebbe indurre qualsiasi membro dell'ufficio internazionale delle esposizioni a cancellare la candidatura milanese: per indegnità.
Non sarebbe neppure il caso di prendere in mano leggi e regolamenti.
Son cose che in momenti difficili, di tanto drammatici cambiamenti, di dure condizioni, anche di tante speranze ("grandi speranze", come s'illudeva l'orfanello dickensiano Philip Pirrip detto Pip) dovrebbero risolversi da sé. L'intelligenza e la sensibilità dovrebbero indicare senza fatica la scelta più giusta, che sarebbe anche la scelta più opportuna. Ma evidentemente la signora Moratti non ha nel cuore la politica e neppure il buonsenso: evidentemente il sindaco della città più ricca e potente d'Italia non si rende conto che l'immigrazione trascina con sé infinite storie dolorose e che sarebbe meglio per tutti fare in modo che fossero meno dolorose, per la sua città, per gli immigrati, per i più deboli, per una comunità che vivrebbe meglio se i contrasti fossero meno tenaci, se una certa "integrazione" fosse più vicina, se tutti fin dall'infanzia imparassero a conoscere il nostro paese e a considerarne l'ospitalità, se l'emergenza non fosse l'unica guida.
Che i bambini, di qualsiasi età e di qualsiasi lingua, poveri o ricchi, frequentino una scuola, comincino a imparare la nostra lingua (e pure le nostre leggi), giochino insieme, disegnino sugli stessi banchi, si conoscano, dovrebbe essere un ambito e possibile traguardo. Per evitare i contrasti fino alla lacerazione, alla divisione, per allontanare quell'orrendo fantasma che ogni tanto si materializza e che si chiama razzismo.
Per fortuna molte voci si sono opposte alle circolari del sindaco, per fortuna il ministro Fioroni, al momento giusto ha detto no alla Moratti, ricordando che l'istruzione è un diritto fondamentale dell'uomo e che non garantirlo costituisce una grave lesione della dignità della persona.

Si capisce che è una questione d'umanità, ma che non è solo una questione d'umanità, che è una questione di cuore ed è anche una questione di politica, se si vuole costruire un futuro civile a questo paese. Possibilmente senza più ghetti. Per la nostra pace, per il nostro benessere.
Pazienza se la Lega, per voce di una sua bionda parlamentare, chiama alla rivolta i suoi sindaci contro un governo "per il quale per primi vengono gli immigrati, ancorché clandestini, e poi i cittadini italiani". Non c'è limite al peggio.
A informazione del sindaco (dei suoi concittadini) si dovrebbe aggiungere una recente nota ministeriale (suggeritaci in verità dal sottosegretario in carica, Mariangela Bastico): "In mancanza dei documenti, la scuola iscrive comunque il minore straniero, poiché la posizione di irregolarità non influisce sull'esercizio di un diritto-dovere riconosciuto. Il contenuto delle norme citate nel precedente paragrafo esclude che vi sia un obbligo da parte degli operatori scolastici di denunciare la condizione di soggiorno irregolare degli alunni che stanno frequentando la scuola e, quindi, esercitano un diritto riconosciuto dalla legge".
Proprio così. La nota venne redatta e firmata nel marzo 2006 dall'assessore alle politiche della Scuola del Comune di Milano in carica, Maria Moioli, quando era direttore generale del ministro Letizia Moratti. È una disposizione contenuta nelle "linee" per l'accoglienza e l'integrazione degli alunni stranieri. Accoglienza e integrazione: dovrebbero valere ancora, anche di fronte a qualche intruglio politico inventato per rimanere in sella.


Sarkò, il signore degli anelli
Stefania Miretti su
La Stampa

Carla Bruni ieri ha scoperto che il vistoso anello rosa di Christian Dior (serie "Coeur Romantique", oltretutto) ricevuto in dono dal promesso sposo Nicolas Sarkozy è un multiplo. Perfettamente identico (ci si sforza qui di pensar bene) a quello che l'ex prima signora di Francia Cécilia Ciganer-Albéniz sfoggiò lo scorso luglio in una delle ultime apparizioni pubbliche a fianco del Presidente.

Donna fortunata, la Bruni. Gli uomini sono fissati coi multipli, per saperlo non è necessario aver visto "In the cut", istruttivo film di Jane Campion in cui un serial killer adesca le sue vittime offrendo a tutte lo stesso anello di fidanzamento, basta essere un po' in confidenza con un gioielliere; ma non sempre si tratta di brillanti: le più si sono limitate a scoprire di avere in comune con le ex di lui un nomignolo (dai più ordinari "topo" e "stellina" fino a vezzeggiativi assai ricercati, logico se poi uno li ricicla), una canzone ("la nostra canzone"), un luogo ("il nostro rifugio segreto"). Gli uomini sono fissati coi multipli, e quelli con poco tempo libero, tipo i premier, di più.

Si racconta che Silvio Berlusconi regalasse la stessa collana di perle nere alle simpatizzanti in visita ad Arcore, si sa per certo che le parlamentari azzurre stanno ultimando tutte quante la stessa parure e si maligna che dietro il successo di un concessionario lombardo, premiato come venditore dell'anno, più che l'intraprendenza commerciale ci fosse la praticità del cadeau seriale.

Però. Un conto è trovare una vecchia lettera indirizzata a un "topo" precedente, farsi consolare dalle amiche che ci sono già passate (tutte) e ingoiare il rospo; un conto sono le fotografie scodellate in mondovisione, l'ingrandimento degli anulari sinistri di Carlà e Cécilia ornati dello stesso, e già di suo lievemente imbarazzante, gioiellone a forma di cuore.

Ecco, più che un rospo, qui si tratta d'ingoiare un tir. Con rimorchio, tenendo conto dei precedenti: la sospetta somiglianza tra vecchia e nuova inquilina dell'Eliseo; la scelta di Petra per il primo week-end ad altissima visibilità, purtroppo sulle orme d'una celebrata scappatella di Cécilia; e soprattutto del fatto, questo sì imperdonabile, che "l'anello di fidanzamento" non fosse uno e pazzesco, ma due di valore medio, e complessivamente inferiore alla cifra sborsata da Carla per il Patek Philippe di lui…

E d'accordo che anche l'amore è un multiplo, ma che grezza! Anche senza arrivare a eccessi romantici tipo utilizzi alternativi del pesante "Coeur Romantique", col rischio di arrivare seconda anche nel lancio dell'anello, ce n'è abbastanza perché una ragazza decida di girare sui tacchi. Che nel caso della Bruni, impaperinata da settimane, significa innanzitutto rimetterseli. Peccato che pure questo l'abbia già fatto Cécilia.


Il volto nuovo di lady Clinton
Vittorio Zucconi su
la Repubblica

Manchester (New Hamshire) - Era una sconosciuta, una donna che nessuno di noi aveva mai visto prima, quella che alle 22 e 30 di martedì, indossando una giacca fantasia trapuntata in stile divani da Orient Express, è salita sul palco di un hotel del New Hampshire per annunciare una vittoria nella quale neppure lei, 24 ore prima, osava più credere.

La Hillary Clinton che ha saputo fermare la ascesa dell'idolo dei mass media e dei sondaggi, Barack Hussein Obama, è la farfalla uscita dal bozzolo nel quale il timore di sembrare una donna, l'ansia di apparire più maschio dei maschi, più dura dei duri, più brava dei bravi, l'aveva soffocata. E infatti sono state proprio le donne a premiarla, a votarla in massa e a salvarla da una seconda batosta consecutiva che l'avrebbe trafitta definitivamente.

Il volo della farfalla è la novità che ha cambiato, forse definitivamente, il corso di queste elezioni primarie fra i democratici per scegliere il campione da inviare nella corsa contro chiunque l'altro partito, il repubblicano pescherà nel fritto misto di candidati che si scavalcano, si battono, si azzuffano l'uno con l'altro in una mischia confusa senza favoriti. Ed è stata l'umiliante sconfitta subita nel primo appuntamento la scorsa settimana, lo shock di essersi scoperta Cenerentola dopo essersi giocato la parte della matrigna cattiva, a rompere il bozzolo delle strategie elettorali volute dal "consigliori" in capo, Mark Penn.

Posta di fronte a sondaggi che la vedevano indietro di dieci o più punti percentuali, accolta da folle rade e fiacche mentre i comizi di Obama sembravano un mix di concerti rock e di revival messianici, Hillary ha fatto quello che le donne sanno fare assai meglio dei maschi. E' cambiata.

La supponente direttrice didattica, che respingeva il contatto fisico con il pubblico, che alle pulsioni animali di un elettorato che qui come ovunque finge di voler programmi concreti ma nel fondo vuole essere sedotto, affascinato ed esaltato, la "cocca della maestra" che a ogni domanda rispondeva snocciolando soporiferi rosari di "punti" programmatici, si è metamorfizzata in un essere umano capace di piangere, di comunicare, di mostrarsi vulnerabile. Di volare. Soprattutto di capire, come Barack aveva capito per primo, che questa elezione non riguardava "lei", e la sua palpabile ambizione ma "loro", gli americani nel tempo della grande paura della recessione che ha spazzato via gli spettri del conflitto di civiltà e dei presunti "valori morali", perché mentre la casa ti crolla di valore, la rata di mutuo diventa insostenibile, i conti dell'ospedale ti stroncano e la lettera di licenziamento è nella casella postale, per i matrimoni gay o per la difesa degli embrioni congelati, assai meno ci si turba.

E ha creato la sensazione che gli altri, i maschi, bianchi e neri, Obama ed Edwards, la terza ruotina di questa gara, stessero coalizzandosi contro di lei, per fare gang contro la femminuccia, facendo scattare nell'elettorato femminile, sempre maggioritario, il riflesso della difesa di gruppo, ben descritto dalla protofemminista Gloria Steinem sul New York Times. Nel discorso della vittoria, oltre alla battuta scritta per i titoli di giornali, "vi ho ascoltato e ho trovato la mia voce", il cambiamento più evidente era quello dei pronomi. Non più io, io, io, come finora, ma voi, voi, voi. Una pagina strappata direttamente al paybook, al libro della strategia di Obama.

Proprio a questo, oltre i tatticismi e le artificiosità, serve il calvario delle elezioni primarie, che ora si arrampica verso stati molto diversi, come il Nevada, dominato dai sindacati del personale alberghiero, il Michigan delle ciminiere spente dalla delocalizzazione devastante delle industrie, della Carolina, regno del cristianesimo militante della imprevedibile Florida, ultimo rifugio del "desaparecido" Rudy Giuliani, anche ieri relegato fra i non piazzati Le primarie sono prima di tutto un check up psicofisico dei candidati, un esame politico, ma anche clinico, della loro pasta, per capire come questi uomini e queste donne sapranno reagire alle avversità, agli imprevisti e alle crisi enormi che sicuramente li attendono quando saranno ala Casa Bianca, ben più spaventosi di una sconfitta in una elezione.



  10 gennaio 2008