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sulla stampa
a cura di G.C. - 8 gennaio 2008


Lo scaricabarile
Francesco Ramella su
La Stampa

Di chi è la responsabilità dei rifiuti che produciamo? La risposta non è facile ed immediata come ci si potrebbe aspettare. Neppure in un caso così clamoroso come quello napoletano.

Ciò che impressiona di più è lo scaricabarile a cui stiamo assistendo. Colpisce il "rifiuto" di responsabilità e il deficit di consapevolezza che affiora in questa vicenda. Perché mette in luce una cultura diffusa dell'irresponsabilità che interessa primariamente le istituzioni, ma non risparmia neppure i cittadini.

Gli amministratori del Nord che in questi giorni si sono premurati di fare dell'ironia, dichiarandosi indisponibili ad accollarsi l'immondizia del Sud, non dovrebbero dimenticare quanto è stato svelato dalle inchieste giudiziarie e denunciato da Roberto Saviano. Ovvero il gran numero d'imprese centro-settentrionali coinvolte nello smaltimento illegale, e a basso costo, dei propri rifiuti nelle discariche del Mezzogiorno.

A loro volta gli amministratori meridionali, che attribuiscono lo sfascio alla criminalità organizzata e al mancato sostegno dello Stato, non dovrebbero dimenticare i dati disastrosi sulla "raccolta differenziata" dei rifiuti che li inchiodano alle loro responsabilità. La normativa nazionale poneva come obiettivo il 35% da raggiungere entro il 2006. La finanziaria del 2007 aveva innalzato la quota al 40% indicando come traguardo il 60%, da raggiungere nel 2011. Le regioni del Sud sono sideralmente lontane da questi obiettivi. Secondo il Rapporto rifiuti dell'Apat, infatti, il dato medio nazionale ha toccato il 24% nel 2005. Ma con un evidente squilibrio territoriale: nel Nord si è arrivati al 38%, nel Centro al 19% e nel Sud appena al 9%.

Al di là delle evidenti inefficienze istituzionali, tuttavia, la questione rifiuti assume una valenza più generale. Coinvolge i comportamenti dei cittadini, nella veste di consumatori, e mette in luce un deficit di cultura nazionale sulla questione. Innanzitutto, dipendiamo ancora troppo dal "sistema delle discariche" che invece, secondo la legislazione comunitaria, dovrebbe avere un ruolo residuale nella gestione del ciclo dei rifiuti.

L'Italia non produce una quantità di rifiuti urbani pro-capite superiore a quella degli altri Paesi europei più sviluppati. Nel 2006 ci collocavamo sui 548 kg all'anno per persona, contro una media di 557 kg nell'area euro. Non facciamo neppure troppo male sul fronte della raccolta differenziata. Certo siamo lontani da Germania, Norvegia, Olanda e Svezia che - secondo i dati Ocse - oscillano intorno a tassi di riciclaggio del 44-50%. Ma siamo saldi nel drappello dei "paesi inseguitori".

Ciononostante, nelle discariche finisce circa la metà dell'immondizia delle nostre città (il 52% basandoci sui dati Eurostat). Certo molto meglio del 1995, quando ne interravamo oltre il 90%, ma molto peggio del resto di Eurolandia che ricorre a questo metodo solo per il 31% dei rifiuti, utilizzando invece più di noi, oltre al riciclaggio, anche l'incenerimento (22% di contro al nostro 12%).

Ma il fatto più grave è ancora un altro. È che nell'ultimo decennio in Italia la quota di rifiuti per persona è aumentata del 20%, contro una media europea del 6%. Segno che le politiche di prevenzione non hanno funzionato e che non ha ancora preso piede un'adeguata cultura del "consumo consapevole". Siamo ben lontani dai casi europei più virtuosi, come quello della Germania che oltre alla diffusione della raccolta differenziata ha notevolmente ridotto la sua produzione pro-capite di rifiuti urbani: -12% nell'ultimo decennio.

Tornando all'Italia, tutti colpevoli nessun colpevole? No tutti, diversamente, responsabili. Trasformiamo l'emergenza di Napoli in uno stimolo positivo per l'intero Paese. E per il Mezzogiorno in particolare. La strategia dell'ottimismo di Prodi parta concretamente da Napoli. Associando alla fuoriuscita dall'emergenza un piano di sostenibilità-rifiuti che, utilizzando incentivi e sanzioni finanziarie e fiscali, porti nella capitale partenopea - e nelle altre regioni del Sud - la raccolta differenziata sui livelli degli altri Paesi europei. In tempi ragionevoli.


Il Pd e quel feudo inviolabile
Paolo Macry sul
Corriere della Sera

Di fronte a una città sommersa dai rifiuti, era prevedibile che partisse la caccia alle responsabilità politiche. E che l'attenzione si concentrasse su chi, nell'ultimo quindicennio, ha ricoperto le cariche di sindaco di Napoli, presidente della Campania e commissario per la gestione dei rifiuti.
Di Antonio Bassolino oggi sono in molti a chiedere le dimissioni, dalla grande stampa all'intero centrodestra. Nella consapevolezza che si tratti di un nodo di estrema importanza, pratica e simbolica. E tuttavia rimane una buona metà del quadro politico che, sulle sorti del leader, ha scelto il silenzio. Inutile dire, assordante.
Non ha ritenuto di proferire parola, eccezion fatta per il battitore libero Antonio Di Pietro, l'intero governo. Non il ministro Amato, che pure ha da sbrogliare la matassa di un ordine pubblico diventato, nel Napoletano, pura finzione. Non quel Pecoraro Scanio che per mestiere dovrebbe dannarsi l'anima a fronte di una crisi ambientale ormai degenerata sul piano epidemiologico. Non lo stesso Prodi, il quale dichiara di voler mettere sotto tutela l'ingovernabile Campania (mostrando quanto poco ne ritenga affidabile l'amministrazione) ma evita di pronunciarsi sul punto strategico della sua leadership.
Altrettanto reticenti, d'altronde, sono i capi di quel Partito Democratico a cui pure appartiene il governatore. Rispettosamente nominato, pochi mesi orsono, tra i quarantacinque saggi del comitato promotore. In questi giorni, con le prime pagine della stampa nazionale e internazionale occupate dalla guerra dell'immondizia, Walter Veltroni e Massimo D'Alema hanno continuato ad incrociare le lame sulle ipotesi di riforma elettorale. Ignorando le sorti di un pezzo da novanta del loro Pd.
Il fatto è che, per il centrosinistra, la Campania non è più soltanto un grande serbatoio di voti, la regione che ha portato Prodi a Palazzo Chigi e che promette a Veltroni un robusto appoggio sulla strada del partito senza tessere. È diventata un elemento di grave disturbo, un luogo dove si rischia di perdere faccia e consensi. E l'imbarazzo dei Democratici, già alle prese con un quadro nazionale pieno di insidie, diventa paralisi. Significativamente, nei mesi scorsi, a ipotizzare le dimissioni del governatore della Campania erano state personalità non irregimentate come Sergio Chiamparino e Massimo Cacciari.
Il caso Bassolino, d'altronde, non è che l'ultima conferma di quanto fragile sia diventato, in Italia, il rapporto fra centro e periferia. Nella Prima Repubblica, tra Palazzo Chigi e le amministrazioni regionali e comunali i legami erano intensi: un flusso di decisioni concordate, di pratiche amministrative, di risorse finanziarie. E per quei politici che facevano la spola tra Roma e le periferie, fu usata la categoria antropologica di brokers, mediatori.

Molte cose sono cambiate, dagli anni Novanta. Il centro politico — il governo del Paese — assomiglia sempre più a quei sovrani del Sacro Romano Impero che governavano grandi territori ma con scarsi poteri, mentre le periferie ricordano il sistema dei feudi medievali, indisciplinati, spesso inaffidabili, eppure, per il sovrano, indispensabile serbatoio di uomini armati. Il feudo bassoliniano è stato sempre fedele al centrosinistra e ai governi amici, ma ha giocato a tutto campo sul proprio territorio. Forte delle sue reti politico- amministrative e ricco, grazie ai fondi europei, di grandi risorse economiche. Ripudiarlo, sia pure nella catastrofe, è evidentemente difficile. Ma le reticenze del governo e dell'Unione non fanno altro che segnalare il carattere acefalo e frammentato che sta assumendo, in Italia, la decisione politica.


La Chiesa e gli atei devoti
Gad Lerner su
la Repubblica

Come si innesca una mobilitazione della Chiesa nell´Italia del 2008? È evidente che siamo in presenza di un fatto nuovo, meritevole di una riflessione scevra da intenti polemici.
Il direttore del "Foglio", Giuliano Ferrara, mutuando i codici di mobilitazione e il linguaggio radicale, promuove l´idea di una moratoria sull´aborto, finalizzandola a un raduno mondiale da tenersi a Roma la prossima primavera. La vastità inaspettata delle adesioni cattoliche alla proposta di Ferrara sollecita il cardinale Camillo Ruini a farla propria, integrandola di suo con l´invito a modificare la legge 194. Più cauta, segue la benedizione del presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. "Avvenire" sostiene appassionatamente l´iniziativa, "Famiglia cristiana" pubblica un editoriale di appoggio. Infine manifesta il suo consenso lo stesso Benedetto XVI, pur evitando l´ambiguo sillogismo tra la moratoria sulla pena di morte decisa dall´Onu e la moratoria sull´interruzione di gravidanza proposta dagli antiabortisti.
La dinamica dei fatti esclude che siamo in presenza di una campagna congegnata e pianificata d´intesa con i vertici della Chiesa. Segnala piuttosto un salto di qualità nel rapporto da essa instaurato con il settore dell´intellighenzia che sbrigativamente ci siamo abituati a definire "atei devoti". All´attacco è partito Ferrara, gli altri hanno deciso di seguirlo attribuendogli semmai una funzione provvidenziale: la scissione del fronte laico. L´incrinatura di quello che nella loro semplificazione figura come il "pensiero unico" progressista, imbevuto di permissivismo e subalterno al dominio di una tecnoscienza amorale.
Non importa qui tanto chiedersi se l´inedita sollecitazione da cui ha preso le mosse la campagna antiabortista riveli una forza o una debolezza della Chiesa italiana, anche se a me pare evidente la risposta.
Limitiamoci a constatare: la gerarchia cattolica attribuisce una funzione cruciale, strategica, a personalità non credenti che propugnano i valori normativi della dottrina religiosa su un piano di mera convenienza razionale. Agli "atei devoti" la Chiesa non propone un cammino di conversione. Chiede loro di testimoniare che è possibile uniformarsi alle regole di convivenza da essa prescritte anche senza bisogno di credere.
L´entusiasmo, la gratitudine, l´ammirazione manifestati a Ferrara nelle centinaia di lettere che il "Foglio" sta pubblicando, evidenziano un sentimento di riscossa. Quasi che lo schieramento antiabortista di una frazione di non credenti restituisse a quei cattolici la perduta legittimità mondana. Questa è la sorpresa, questo è il miracolo che attendevano. Nell´accezione di Ruini, un personaggio come Ferrara non va atteso come il figliol prodigo ma semmai riconosciuto quale moderno profeta mediatico.
A questo punto la Chiesa sembra poco interessata al dialogo tra sensibilità diverse. Le quali si fronteggiano sperando, invano, di smascherare l´altrui incoerenza. Quanta compassione dedichiamo ai condannati a morte? Quanta alle vittime civili delle guerre? E alle vittime del terrorismo? E ai morti di Aids o di denutrizione? È sufficiente il nostro scandalo per le morti sul lavoro? O ancora, come obietta Giuliano Amato: gli antiabortisti potranno amare davvero gli embrioni quanto i bambini, restando però distratti nei confronti dei bambini emarginati?
Temo sia proprio sulla fatica della coerenza che non riusciremo a comprenderci. Ne difettiamo tutti, in gradi diversi. Capita che gli uni ne siano tormentati, nella personale responsabilità. Mentre altri denunciano proprio questa umana debolezza come morbo curabile solo da una terapia normativa a carattere religioso.
Così la relazione fra il dire e il fare passa in second´ordine, col declino della coerenza. La svaluta pure questa Chiesa ridotta a minoranza che, per recuperare centralità nella decisione pubblica, gradisce il soccorso degli "atei devoti" e la disponibilità intermittente di politici pronti a figurare clericali senza neanche bisogno d´essere cristiani. Che importa se agiscono per vocazione o per convenienza?

Sarkozy proclama in Laterano le radici cristiane della Francia prima d´involarsi a Luxor con Carla Bruni? Questa è la modernità del potere. Per lui è pronto un seggio nel pantheon dei santi protettori, e pazienza se oltralpe gli aborti non calano a differenza che in Italia.
Non c´è bisogno di giungere all´estremo di Gianni Baget Bozzo, che attribuisce a Berlusconi la funzione di uomo della Provvidenza, salvatore della tradizione cattolica nazionale minacciata dal dossettismo e dal prodismo. Basta ricordare l´assenza del minimo imbarazzo – nei vertici Cei - quando l´opposizione parlamentare alla legge sui Dico fu guidata da politici divorziati e conviventi, scatenati contro una larga parte del cattolicesimo democratico.
Essenziale, nell´impostazione di Ruini, è che le battaglie politico-culturali della Chiesa italiana figurino sempre promosse d´intesa con la nuova frazione laica, dunque motivate sul piano della razionalità anziché sul piano dottrinale. Ecco perché è meglio se gli "atei devoti" non si convertono. Il tempo in cui il cristianesimo andava testimoniato innanzitutto nella condotta di vita è sopravanzato dall´imperativo della nuova alleanza mondana.
Nessuno scandalo, dunque, se è "Il Foglio" a lanciare l´offensiva, rivolgendo a chi dissente l´accusa terribile di acquiescenza con "un fenomeno mostruoso per quantità genocida". L´analogia suggestiva ma fuorviante tra la moratoria sulla pena di morte (che implica un divieto legale ai boia di Stato) e il dramma dell´aborto (che invece richiama scelte individuali sempre ardue fra male minore e male maggiore) ha già prodotto un effetto nefasto. Le donne ne vengono retrocesse, esautorate da primo soggetto titolare di una responsabilità che in ogni caso ricade su di loro. Rischia di venirne travolta la stessa riflessione già da tempo in corso fra i medici e le associazioni di sostegno alla maternità: un confronto pacato, esente da demonizzazioni reciproche, da cui sono scaturiti protocolli ospedalieri condivisi che tutelano il feto con possibilità di vita autonoma.
A dare retta alla fotografia di un´Italia dedita alla pratica disinvolta dell´aborto, protesa nella ricerca del superuomo e nella soppressione dei deboli, parrebbe che l´esercizio di una rigorosa verifica etica sui poteri della tecnoscienza e sui limiti da imporle, sia istanza esclusiva degli antiabortisti. Ma per fortuna ciò è falso.
Rattrista la visione fosca di una società deragliata nella ricerca del piacere sessuale e nell´appagamento dell´io: da contrastare con il senso del peccato e con il codice della famiglia tradizionale. Ma colpisce soprattutto una Chiesa italiana talmente debole nella sua ispirazione evangelica da mettersi al traino di un pensiero settario, rinunciando al dialogo fiducioso con l´insieme del mondo laico. Tutto si tiene: il richiamo alla tradizione; la critica dell´esperienza post-conciliare; la reazione al terrorismo di matrice islamica; la crisi delle vocazioni e della pratica religiosa; il miraggio di una nuova leadership cristiana.



Salari, Prodi investe dieci miliardi
Roberto Giovanninni su
La Stampa

ROMA. Il governo vuole l'accordo, ed è disposto a metterci sopra una decina di miliardi. Ma dovrà trattarsi di un "Grande Accordo di Politica Economica": un "Patto" utile non solo per rilanciare i consumi e l'economia italiana riducendo le tasse e riscrivendo le regole delle relazioni sindacali, ma soprattutto per far tacere le turbolente anime della maggioranza di centrosinistra.

Si comincia oggi alle 16.30, a Palazzo Chigi. Sarà un incontro in "ristretta": i tre segretari generali, Epifani, Bonanni e Angeletti, Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, Cesare Damiano, Enrico Letta. Più tardi, in separata sede, dovrebbe essere "consultata" anche la segretaria dell'Ugl Renata Polverini.

Il primo incontro sarà interlocutorio, ma il clima - lo confermano i contatti formali e informali di ieri - volge al "bello".

Il governo sa che serviranno risorse, e non pochissime: si parla di circa 10 miliardi, comprensivi dei circa 3 miliardi per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Soldi che, a sentire autorevoli fonti di governo, in parte già ci sono; oppure si farà in modo di farli saltare fuori dal bilancio pubblico. Ancora, un aiuto potrebbe arrivare dal quasi inevitabile ritocco della tassazione delle rendite finanziarie. Infine - anche su questo c'è la disponibilità delle confederazioni sindacali - se proprio ci fossero problemi gli interventi sul fisco possono essere varati a tappe, nel corso dell'anno.

Il negoziato non sarà né semplice né "lampo", e c'è da giurare che sarà lo stesso Romano Prodi a scatenare come guastafeste il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa. Per ricordare che il debito pubblico è quello e, che i soldi per finanziare la riduzione delle tasse non si trovano sugli alberi, che sindacati e Confindustria non possono illudersi di fare concertazione e grandi accordi per distribuire generosi aumenti salariali facendo pagare il conto al contribuente-Pantalone.

Quel che preme davvero a Prodi, raccontano i bene informati, non è il "quanto" costerà l'eventuale accordo: è piuttosto "come" l'accordo sarà raggiunto, lo scambio che si chiederà alle parti sociali. Già: perché se la disponibilità dell'Esecutivo a venire incontro a Confindustria e sindacati è davvero ampia, Prodi chiederà apertamente un "Grande Patto": la disponibilità a risolvere con un'intesa questioni sul tavolo da anni, come la riforma della contrattazione per ridurre la conflittualità e collegare meglio salari e produttività e flessibilità, l'apertura dei cordoni della borsa degli aumenti salariali da parte degli industriali. Se tutto funzionerà, alla fine lo "scambio" sarà virtuoso. E se l'intesa sarà "forte" e sostenuta dalle parti sociali, il premier potrà giocare di nuovo nei confronti della sua maggioranza (a destra e sinistra) la carta della difesa dell'accordo già raggiunto, come è avvenuto in dicembre per la riforma del Welfare.

Le confederazioni convocheranno domani le segreterie unitarie e il 18 i direttivi. La lista della spesa dei sindacati è lunga: si va dall'aumento della detrazione per lavoro dipendente (versione massiccia, 2,2 miliardi di euro, versione light 900 milioni) al taglio di un punto dal 38% al 37% dell'aliquota Irpef che grava sui redditi medi (28.000-55.000 euro, 600 milioni); dalla "dote fiscale" per i figli a carico fino a tre anni (una superdetrazione che costerebbe quasi un miliardo) all'alleggerimento della tassazione del Tfr e dei fondi pensione all'ormai noto sgravio fiscale degli aumenti contrattuali erogati nei contratti aziendali (già sono stati stanziati 650 milioni).
Intanto, Palazzo Chigi fa sapere che dopo il primo vertice con i sindacati il 10 gennaio si terrà il vertice tra i leader dei partiti di maggioranza sulle questioni economiche; di legge elettorale, invece, si parlerà dopo il pronunciamento della Consulta sul referendum. La sinistra della coalizione affila le armi preparando una "agenda" su salari, tariffe e precarietà che non mancherà di creare problemi. Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero chiede un aumento di 100 euro al mese a lavoratore (servirebbero 30 miliardi...) e duella con il collega del Lavoro Cesare Damiano su quali sono gli aumenti contrattuali da detassare, quelli nazionali (così Prc) o quelli aziendali (l'idea di Damiano).


Necessità di un leader
Ernesto Galli della Loggia sul
Corriere della Sera

La differenza rispetto all'Italia è stridente. Negli Stati Uniti le primarie rimodellano lo scacchiere politico, danno la carica a Barack Obama proiettandolo tra gli astri del firmamento politico nazionale e più o meno la stessa cosa fanno con il candidato repubblicano Mike Huckabee. Certo, tutto può ancora cambiare con il voto odierno nel New Hampshire. Ma proprio questa è la dimostrazione di cosa significhino e a cosa servano le primarie quando sono una cosa seria: a formare o a distruggere leadership politiche.
In Italia invece i tre milioni e mezzo di voti che consacrarono l'ascesa di Walter Veltroni alla testa del Partito democratico sembrano essersi di fatto già dileguati, privi di effetto. Innanzi tutto per colpa dello stesso Veltroni, che quei voti non ha dato l'impressione di prenderli troppo sul serio. Egli, infatti, se n'è servito essenzialmente per consolidare la propria posizione nel gruppo dirigente del Pd, per dare più forza alle proprie idee nella discussione interna ed esterna, per accrescere la sua statura e le sue ambizioni rispetto agli altri diadochi "democratici". Certo non per affermare la superiorità che nei confronti di questi gli conferiva il suffragio popolare, e dunque per cominciare a concretizzare da subito tale superiorità in un sicuro e visibile ruolo di leadership. Insomma: i tre milioni e mezzo di voti rappresentano qualcosa e contano, ma si direbbe che agli occhi del segretario del Pd le opinioni di D'Alema o di Rosy Bindi contino almeno altrettanto, se non di più.
Un sicuro e visibile ruolo di leadership è quello che non si rivolge alle oligarchie partitiche, che non solidarizza con Bassolino in nome dei vincoli della bottega elettorale campana così ben descritti ieri su queste colonne da Paolo Macry, bensì si rivolge ai cittadini, all'opinione pubblica. E lo fa con proposte ferme e precise (non vaghe e mutevoli tipo "oggi lo dico e domani forse", "penso questo e però anche quello "), sostenendole fino in fondo. Finora però a questo ruolo — di cui è stato espressamente investito da ben tre milioni e mezzo di voti — Veltroni è venuto quasi del tutto meno. Sulla nuova legge elettorale, sull'ordine pubblico, sulla vendita dell'Alitalia, perfino sull'ultima gravissima questione dei rifiuti in Campania, egli al massimo ha buttato là un' idea, un'indicazione generica, ma in generale e il più delle volte non ha detto nulla. E' sembrato restare costantemente invischiato nel vecchio costume dell'inconcludente schermaglia politicista italiana, dominata da un solo principio — non rimanere mai l'ultimo con il cerino acceso — e obbediente a una sola regola: lanciare una proposta di massima e poi mandare avanti i luogotenenti mentre il capo si chiude nel silenzio. L'idea veltroniana del Pd come partito a vocazione maggioritaria così come l'idea della necessità di un accordo con l'opposizione per riscrivere le regole del sistema erano — e continuano a essere — due ottime idee. Ma per affermarsi hanno bisogno di chi abbia il coraggio di battersi per esse, di chi abbia un' ispirazione autentica e una parola alta e forte.



L´ultima trovata liberalizzare i virus
Mario Pirani su
la Repubblica

Quando si biasimano gli eccessi ideologici ci si riferisce in genere all´estrema sinistra, eppur tuttavia di questi tempi prolifera impunemente anche un estremismo pseudo liberale che in nome della sovranità dell´individuo provoca non lievi danni. Tra l´altro non sempre avvertiti in tempo dall´opinione pubblica, poiché il riferimento al "pensiero unico" dominante fa sì che i mass-media si adeguino e plaudano a certe iniziative in realtà aberranti.
L´ultimo esempio ci viene da quei titoli che sbandierano il via alla devolution dei vaccini (quasi si trattasse dei taxi), aperta dalla decisione della Regione Veneto, cui dovrebbero seguire le altre Regioni, di togliere l´obbligo della vaccinazione di massa dei fanciulli contro le più gravi malattie infettive. In questo quadro va dato atto a Repubblica di aver accompagnato la notizia con la severa critica del Prof. Ignazio Marino, presidente della Commissione Sanità al Senato, confortata il giorno seguente dalla lettera del prof. Guglielmo Gargani, noto cattedratico di microbiologia a Firenze. Ambedue hanno confutato la follia di abolire, in nome della libertà individuale, la protezione certa e garantita dallo Stato nei confronti di morbi terribili, primo fra tutti la poliomielite, debellati negli anni recenti proprio grazie al vaccino, ma che potrebbero riprendere qualora fosse "liberalizzata" la prevenzione. Tanto più in un paese come l´Italia a forte immigrazione e, dunque, soggetta a continui contagi potenziali diretti dalle aree più arretrate del mondo.

Aggiungo – dopo questo inciso informativo – ancora due parole sulla abolizione dell´obbligo della vaccinazione, una decisione – leggo sempre sui giornali – che ci permetterebbe di uscire da "un contesto storico ormai superato, in cui lo Stato doveva decidere della salute dei cittadini". In questa affermazione sta, a mio avviso, il fulcro dell´estremismo ideologico pseudo (insisto sul pseudo) liberale: perché allora non abolire il Servizio sanitario nazionale, diminuire le imposte che ci costa e lasciare i cittadini liberi di curarsi o meno, secondo le loro singole possibilità e desideri? Analogo discorso può farsi per la scuola. Perché mantenere quella che, appunto, si chiama scuola dell´obbligo, una invenzione otto-novecentesca, quando per secoli chi aveva un precettore imparava e chi non lo aveva si dava a più consone attività lavorative? Non è un caso che oggi molti attacchino la sanità pubblica e rivendichino sovvenzioni pubbliche per la scuola privata. Tutto si tiene, a partire dalle vaccinazioni liberalizzate.


Le mezze riforme
Gianfranco Pasquino su
l'Unità

La riforma elettorale sta rapidamente diventando il test cruciale del Partito Democratico. A mio parere non è altrettanto importante né delle tematiche etiche né di quelle del lavoro, che sappiamo essere molto controverse, ma, poiché potrebbe condurre a una crisi di governo e alla fine della legislatura, merita, al momento, maggiore attenzione. Non è del tutto inutile ricordare che il punto di partenza, un testo elaborato in via riservata da pochi consiglieri di Veltroni, per quanto molto propagandato, non ha riscosso enorme successo.
Nella Commissione Affari Costituzionali del Senato, poi, si sta già discutendo di un altro testo.
Su un argomento tanto delicato come quello di una legge elettorale che dovrebbe ristrutturare l'intero sistema partitico italiano, era opportuno, forse addirittura indispensabile coinvolgere tutto il partito altrimenti che senso ha chiamarlo “democratico”? Dalle oscure stanze è uscito un testo confuso che ha lanciato un duplice, pericoloso, messaggio: primo, favorire il partito “a vocazione maggioritaria”, ovvero lo stesso Pd, ma anche colui che si autointerpreta come il vero “maggioritario”, cioè il partito di Berlusconi (qualsiasi nome assuma); secondo, ridurre il potere di contrattazione dei partiti minori fino ad annullarlo, se non persino cancellare quei partiti. Sullo sfondo, raramente evocato e quasi mai argomentato rimangono le due motivazioni più importanti per una riforma o una qualsiasi legge elettorale: dare più potere agli elettori (quel potere oggi ridotto dal porcellum ad una crocetta di ratifica delle scelte effettuate dai dirigenti dei partiti), migliorare il funzionamento del sistema politico.
Le reazioni negative di un po' tutti coloro che sarebbero stati colpiti e forse anche annientati dal cosiddetto vassallum erano assolutamente prevedibili e anche molto comprensibili. In nome di che cosa dovrebbero sacrificarsi? Alle reazioni negative degli esperti, invece, si è dato poco spazio e nessuna risposta. Per di più, i sostenitori, talvolta essi stessi fra gli elaboratori del vassallum, hanno aggiunto all'indifferenza e insofferenza alle critiche altrui una serie di raffiche di loro critiche, ingiustificate, ad alcuni modelli esistenti, da tempo utilizzati in altri sistemi politici e il cui rendimento è giudicato un po' dappertutto alquanto positivo (tanto è vero che non esiste in quei sistemi un dibattito sulle riforme elettorali). Qualcuno, ad esempio, continua a dipingere il sistema elettorale tedesco (che, sarà bene ripeterlo, non è affatto misto: metà maggioritario metà proporzionale, ma è tutto proporzionale con sogli di sbarramento al 5 per cento) in maniera preoccupantemente caricaturale come se conducesse inesorabilmente a Grandi Coalizioni consociative. Ecco i dati.
In poco meno di sessant'anni di esistenza della Repubblica Federale Tedesca, si sono verificate due esperienze di Grande Coalizione: 1966-1969 e l'attuale iniziata nel 2005. La competizione è sempre stata bipolare. Il Cancelliere è sempre stato il leader del partito maggiore della coalizione (o espresso da quel partito). Anche oggi sarebbe possibile un'alternativa numerica, ovvero un governo Spd, Verdi e Sinistra, se non fosse che tra Spd e Sinistra (composta anche da scissionisti della Spd) lo iato è forte. L'esempio fatto da Veltroni nell'intervista a Repubblica: il Pd al 32 per cento (ovvero con un guadagno dello 0,7 per cento rispetto al 2006); la Sinistra Arcobaleno al 9 per cento, non porta affatto a fare nessun governo con il centro. Significa soltanto che il centro-sinistra ha perso le elezioni, non per colpa del sistema tedesco, ma per mancanza di voti. Naturalmente, i leader dei partiti italiani potrebbero buttare a mare tutto il buono del sistema tedesco, ma la responsabilità dovrebbe ricadere sulla politica delle alleanze da loro perseguita. Mi pare un omaggio troppo grande al Partito di Casini e Tabacci sostenere che diventerà l'arbitro dell'esito elettorale, a meno non si tema che vi siano già, dentro il Partito Democratico, molti che desiderano una soluzione di governo collocata nei pressi del centro dello schieramento.
Quanto al semipresidenzialismo francese, non basta continuare a dire che sarebbe, accompagnato dal doppio turno elettorale, in via del tutto ipotetica, il sistema migliore e poi perseguire una strada che porta dappertutto (incidentalmente, non è prevedibile dove), ma sicuramente non a Parigi. Da nessuna cocktail a pluralità di ingredienti alla spagnola, alla tedesca, all'italiana, potrà sbucare un qualsiasi doppio turno. Ed è anche meglio non parlare di elezione diretta del Primo Ministro, formula che fuoriesce dai modelli parlamentari di governo e che, utilizzata tre volte in Israele, è stata prontamente e intelligentemente abbandonata.
Insomma, tedesco nella sua interezza, francese nella sua completezza: questi sono modelli esistenti in sistemi politici non troppo dissimili da quello italiano, sistemi dei quali conosciamo pregi, molti, e difetti, pochi e che saremmo in grado di imitare.



Il fascino di Obama e gli errori di Hillary
Alexander Stille su
la Repubblica

Non ci si aspettava molto dal caucus dell´Iowa, un´elezione strana che coinvolge una ridotta minoranza in uno stato piccolo e relativamente atipico, più bianco e più rurale del resto degli USA. Ma la sbalorditiva vittoria di Barack Obama – che ha ottenuto il 38 per cento dei voti, contro il 30 del Senatore John Edwards e il 29 per cento della presunta favorita, Hillary Clinton – è innegabilmente un evento davvero significativo, forse di portata storica.
Pur restando Hillary una formidabile candidata che ancora potrebbe vincere, si possono trarre alcune conclusioni da questo primo successo di Obama.
Obama offre agli americani la possibilità di passare ad un mondo post-razziale. La razza – attraverso secoli di schiavitù e discriminazione – è stata forse il punto debole, la tragedia più profonda della vita americana.
Che un nero riporti una grandissima vittoria in uno stato quasi totalmente bianco è un risultato straordinario. Obama, figlio di un kenyota e di un´americana bianca del Kansas, cresciuto in parte in Indonesia e in parte alle Hawaii , è frutto di un mondo globalizzato e multiculturale in cui le tradizionali categorie del bianco e nero sono venute a confondersi.
Obama è un candidato dal fascino forte e sorprendentemente vasto. Alto, di bell´aspetto, estremamente intelligente, ottimo oratore, riesce ad apparire calmo e imperturbabile pur suscitando profonde emozioni nel pubblico. Possiede un innegabile carisma. Associa ad un curriculum fortemente progressista in politica un tono estremamente misurato e pacato. Ha conquistato con ampio margine il voto dei più giovani, non solo i diciotto-trentenni ma anche i trenta-quarantacinquenni, confermando che l´elettorato sta diventando più tollerante su una gran quantità di temi (l´omosessualità, ad esempio). La sua candidatura ha prodotto sincero entusiasmo tra i più giovani, in genere meno coinvolti nel processo politico. Il caucus di quest´anno in Iowa ha registrato una partecipazione doppia rispetto ai 120.000 votanti del 2004.
Benché il suo programma si collochi all´estremità liberal dell´arco politico Obama ha un tono estremamente moderato e non polemico, senza per questo apparire debole o fiacco. Invece di parlare di bianco e nero parla della necessità di superare l´estrema polarizzazione degli ultimi anni, il divario tra gli stati 'rossi´ (repubblicani) e 'blu´ (democratici).
Ha vinto in parte grazie alla sua abilità di attrarre il voto indipendente, quello dei non iscritti al partito democratico, in genere più conservatore. E´ un aspetto estremamente importante in termini di capacità di vincere le presidenziali, in cui il voto indipendente (circa il venti per cento dell´elettorato) sarà determinante.
Obama esercita un forte fascino tra gli elettori bianchi perché è nero, ma non ha il bagaglio culturale e psicologico dei tradizionali candidati neri – non parla di discriminazione e non esprime il risentimento e la rabbia dei trecento anni di storia degli afro-americani. Né ha l´aria del nero che vuol sembrare bianco nell´aspetto e nel linguaggio. Dà l´idea di sentirsi a proprio agio con l´elettorato bianco, perché così è: dopo tutto è stata la madre bianca a crescerlo. Ma non sembra in fuga dal suo essere nero: ha sposato un´avvocatessa americana nera che è una presenza costante nella sua campagna elettorale. Trasmette la sensazione di star bene con se stesso tanto con i neri che con i bianchi.
Alcuni commentatori hanno scritto che Obama non gode di molta popolarità tra gli elettori neri perché non lo considerano abbastanza 'black´. Fino all´Iowa, era Hillary Clinton la preferita tra gli afro-americani (in gran parte grazie alla popolarità del marito). Ho l´impressione che questa soria del 'non abbastanza nero´ si rivelerà un mito da sfatare. Molti elettori neri, erano restii ad appoggiare Obama per timore di sprecare il loro voto, non attribuendogli realistiche chance di vittoria. Di fronte alla prospettiva di un nero con discrete possibilità di diventare presidente degli Stati Uniti penso che accorreranno in massa alle urne. Le primarie in South Carolina, dove la metà degli elettori sono neri, sarà un importante banco di prova.
Il voto in Iowa ha rivelato una gran fame di cambiamento tra gli elettori. Hillary aveva scelto di sottolineare la sua più lunga esperienza di vita pubblica e la maggior conoscenza dei meccanismi interni di Washington. Ha fatto intensivamente campagna elettorale con il marito ex presidente per porre l´accento su una rassicurante continuità. Bill Clinton ha detto che eleggere Obama è 'un terno al lotto´. Questa strategia si è rivelata controproducente. I votanti democratici in Iowa hanno dato priorità al 'cambiamento´. La giovane età – 46 anni – e il curriculum politico diverso hanno premiato Obama invece di penalizzarlo.
Il fascino di Obama su chi aspira al cambiamento non è solo superficiale, legato all´età. Obama è l´unico candidato che si schierò apertamente contro l´invasione dell´Iraq benché all´epoca, stando ai sondaggi , il 71 per cento degli americani appoggiasse l´intervento militare. Clinton e Edwards fecero la scelta più prudente. Hillary, in questo senso, dà più idea di essere la candidata dello status quo, pronta a negoziare i principi per opportunità politica. Obama, al contrario, sembra una boccata d´aria fresca.
Hillary resta una candidata solida e straordinaria con ancora possibilità di vincere. Ma il voto in Iowa è stato un segnale di ribellione contro l´establishment dei due partiti.



  8 gennaio 2008