prima pagina pagina precedente salva il testo



La settimana sulla stampa
a cura di G.C.

Asini a scuola (e a casa)
Andrea Bajani su
La Stampa

La scuola italiana è rimasta schiacciata sotto le macerie del discredito di istituzioni e famiglia. Gli studenti italiani, riportano le pagelle vergate alla fine del quadrimestre, sono per la maggior parte somari, con debiti formativi trascinati come palle al piede, lacune che sembrano mari, e un generale disinteresse nei confronti di chi sta dietro la cattedra.

Le cronache, le indagini degli psicologi, le tabelle, e i grafici a torta dipingono una gioventù patologica allo sbando, picchiatori voyeuristi nei gabinetti scolastici, compulsivi smanettatori persi nei meandri di Internet o nell'isteria da pollice opponibile della messaggistica cellulare. E appunto somari a scuola, voti bassi e facce da chissenefrega.

E la scuola va giù, si grida al palazzo che crolla, il fumo che viene su quando l'edificio si schianta al suolo, e intorno è tutto un unanime urlare allo scandalo. Come fosse per caso che è saltato in aria, o come fossero gli stessi ragazzi, o soltanto loro, ad avere innescato l'ordigno, ad averlo messo a ticchettare sotto la scuola.

E invece la scuola è venuta giù erosa giorno per giorno da un'idea di istruzione messa all'asta del migliore offerente, percepita come un servizio da negoziare nel rapporto con studenti che da studenti son diventati clienti.

Perché la scuola italiana è franata con i presidi che imbavagliano gli insegnanti nell'esercitare il loro rigore per paura che i clienti se ne vadano alla concorrenza, magari parlando con i giornali, gettando una cattiva luce sull'istituto. La scuola italiana è franata sotto le pressioni dei genitori che arrivano a scuola contestando in cagnesco i voti troppo bassi dei figli, il carico eccessivo di compiti a casa, persino le correzioni delle versioni latine. La scuola italiana è franata con gli sms e le telefonate delle mamme e dei padri italiani in orario scolastico per raccomandare ai figli di andare a mangiare dalla nonna, piuttosto che di comprare il pane prima di tornare a casa.

Mi chiedo, senza che questo deresponsabilizzi in alcun modo i ragazzi, come è possibile che gli studenti riconoscano un qualche ruolo a un'istituzione che da tutti è vissuta quale un qualsiasi servizio superfluo, alla stregua di una compagnia telefonica, una catena di negozi di abbigliamento, una discoteca, o un cinema multisala? Perché la scuola italiana è rimasta schiacciata sotto le macerie di chi ha smesso di crederci, prendendo a picconate sistematiche, con la logica finanziaria dei debiti e dei crediti, delle transazioni formative, delle negoziazioni pedagogiche, la crescita culturale di un Paese che rischia di rimanere bloccato. Perché a vedere quelle pagelle, quel disinteresse, quel disincanto, non si riesce a pensare all'Italia futura, di cui ci si riempie la bocca quando si parla dei giovani. In quelle insufficienze, e in quelle facce si vede tutto il disincanto e il menefreghismo degli adulti.


L´ "intervista impossibile" a Galileo
Piergiorgio Odifreddi su
la Repubblica


"La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l´universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne´ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola".
Messer Galileo, ci scusi se l´interrompiamo per l´intervista che abbiamo concordato. Che cosa stava facendo?
"Stavo rileggendo una pagina del mio Saggiatore. Una delle poche rimaste attuali, visto che in quel libro sostenevo una teoria completamente errata: che le comete, cioè, fossero illusioni ottiche prodotte dalla luce solare sul materiale esalato dalla Terra verso la Luna e oltre, e non corpi reali".
Ma quella pagina vale da sola tutto il libro, e contribuì a far dichiarare a Italo Calvino che lei è stato "il più grande scrittore italiano di tutti i tempi".
"Addirittura? Più di Padre Dante e Messer Ariosto?"
Almeno fra i prosatori. Ma visto che ha citato i poeti, ci dica quale fu il suo rapporto con Dante e Ariosto.
"Su Dante ho tenuto nel 1588 Due lezioni all´Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell´Inferno, nelle quali notavo che, se è stata cosa difficile e mirabile l´aver potuto gli uomini, per lunghe osservazioni, con vigilie continue e per perigliose navigazioni, misurare e determinare gli intervalli dei cieli, le grandezze delle stelle e i siti della terra e dei mari, allora quanto più meravigliosa dobbiamo stimare l´investigazione del sito e della natura dell´Inferno, sepolto nelle viscere della terra, nascosto a tutti i sensi, e da nessuno per nessuna esperienza conosciuto!"
E quali furono i risultati di queste sue investigazioni?
"Che l´Inferno è a guisa di una concava superficie che chiamano conica, il cui vertice è nel centro del mondo e la base verso la superficie della terra. E quanto alla grandezza, è profondo l´Inferno quanto è il semidiametro della terra. E nella sua sboccatura, che è il cerchio attorno a Gerusalemme, è altrettanto per diametro".
Dell´Ariosto, invece, che ci dice?
"Il poema dell´Orlando Furioso era la mia delizia: in ogni discorso recitavo qualcuna delle sue ottave, e mi vestivo in un certo modo di quei concetti per esprimere i miei. Ho scritto una serie di Postille all´Ariosto e di Considerazioni al Tasso, le prime per il gusto di un´amorosa lettura e le seconde per partecipare a una polemica: avevo fatto interporre carte bianche a quelle stampate della mia copia della Gerusalemme Liberata, e nel corso di qualche anno avevo osservato che i motivi che mi facevano anteporre l´Ariosto al Tasso erano molti più in numero e assai più gagliardi".
Se le chiedessi di leggere una sua pagina come testimonianza della sua vena letteraria, su quale cadrebbe la sua scelta?
"Forse queste osservazioni sulla scrittura, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: "Quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e 'ntrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun´altra alterazione che il declinar del tratto dirittissimo, talvolta un pochettino a destra e a sinistra, e il muoversi la punta della penna or più veloce ed or più tarda, ma con minima inegualità"".
Mi ricorda la fine del Barone rampante di Calvino, appunto: vuol provare a leggere pure questa?
"Certo, vediamo: "Questo filo d´inchiostro, come l´ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s´intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito"".

Come vede, lei ha fatto scuola in letteratura, e Calvino aveva buoni motivi per considerarsi il punto d´arrivo di una linea che, partendo dall´Ariosto e passando attraverso lei e Leopardi, arrivava fino a lui. Ma, passando al suo vero lavoro, quale considererebbe il contributo più duraturo da lei dato alla scienza?
"Forse quello che oggi mi sembra voi chiamiate, non a caso, principio di relatività galileiana".
Come lo racconterebbe a un profano?
"Come già feci nella Seconda Giornata dei miei Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, proponendogli di rinserrarsi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coperta di un gran naviglio, e quivi far sì di avere mosche, farfalle e simili animaletti volanti. E anche un gran vaso d´acqua con dentro dei pescetti. E un secchiello sospeso in alto, che a goccia a goccia vada versando dell´acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto in basso. E stando ferma la nave, di osservare diligentemente come quegli animaletti volanti con pari velocità vadano verso tutte le parti della stanza, i pesci nuotino indifferentemente per tutti i versi, le gocce cadenti entrino tutte nel vaso sottoposto. E poi faccia muovere la nave con quanta voglia velocità e noti che, purché il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là, egli non riconoscerà una minima mutazione in tutti gli effetti nominati, né da alcuno di quelli potrà comprendere se la nave cammina o pure sta ferma".
Se prova a leggere questo brano della Relatività di Albert Einstein, si accorgerà di aver fatto scuola anche nella divulgazione scientifica.
"Vediamo: "Supponiamo che un treno molto lungo viaggi sulle rotaie con velocità costante: ogni evento che ha luogo sulla banchina ferroviaria, ha pure luogo in un determinato punto del treno. Domanda: due eventi, per esempio due colpi di fulmine A e B, che sono simultanei rispetto alla banchina ferroviaria, saranno tali anche rispetto al treno? Se il treno è fermo e un osservatore è seduto nel punto medio tra A e B, i raggi di luce emessi dai bagliori dei fulmini lo raggiungono simultaneamente. Tuttavia, se il treno si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A, l´osservatore vedrà il raggio di luce emesso da B prima di vedere quello emesso da A. Perveniamo così all´importante risultato che gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno, e che ogni corpo di riferimento ha il suo proprio tempo particolare".
Cosa ne pensa?
"Mi sembra di vedere, allo stesso tempo, una continuità e una discontinuità col mio lavoro: sembra che la luce non si comporti, rispetto alla mia nave, allo stesso modo degli animaletti volanti, dei pesci e delle gocce cadenti".
Effettivamente, la relatività einsteniana costituí una rivoluzione intellettuale tanto innovatrice, quanto lo fu la sua rispetto alla fisica aristotelica.
"Spero allora che Einstein non abbia dovuto subire gli stessi attacchi dal potere costituito, e non abbia dovuto sopportare le stesse tragiche conseguenze, che toccarono a me".
Ciò che a lei fecero i cattolici, a lui fecero i nazisti: costringendolo, in particolare, a un esilio dal quale non tornò più.
"Dovette pure lui abiurare?"
Non l´avrebbe mai fatto: in questo, era diverso da lei.
"Sono contento per lui: piegarsi a pronunciare certe parole è un´umiliazione dalla quale non si guarisce, e inginocchiarsi di fronte al potere religioso o politico è un tradimento della propria professione".


Mosè e King Kong discutono di Darwin
Enrico Alleva e Daniela Santucci su
l'Unità

Che in Italia il darwinismo sia divenuto, segno dei tempi, materia di conflittualità non è un bel divenire. Anche Giovanni Paolo II, una volta riabilitato Galileo Galilei, si era limitato a una placida e post-sacrale ammirazione per la spiegazione darwiniana del mondo dei viventi: lasciando la spiritualità dell'uomo ai credi personali.
È appena uscito in libreria il bel saggio Preghiera darwiniana del pervicace darwinista piemontese Michele Luzzatto (Cortina editore), editor scientifico per la saggistica scientifica e le Grandi Opere presso la prestigiosa casa editrice Einaudi che già annovera molti testi di biologia evoluzionistica e di storia della scienza.
La preghiera luzzattiana è stata letta in pubblico al Museo di Storia Naturale di Milano, nella festosa cornice del Darwin day milanese, in questo febbraio 2008. Anno particolare proprio perché nel 2009 ricorrerà il secondo centenario della nascita di Carlo Darwin, ma anche (evento non meno importante) compirà 150 anni l'opera darwiniana maggiormente importante proprio perché più "scatologica": fu infatti allora che venne pubblicata Sulla origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l'esistenza, libro che sconvolse il modo di vedere la natura da pare dell'uomo colto: anche se ebbe molti lettori "poco colti", dato che il "compare" di Carlo Darwin - Thomas Henry Huxley, detto il suo mastino - si piazzava in tempi ottocenteschi ritto a concionare agli operai su un carretto all'uscita delle fabbriche britanniche per portare al popolo e al "volgo" la "divulgazione" più diretta della prospettiva analitica darwinista (democrazie intellettuali di altri tempi).
Ormai da alcuni anni il compleanno di Darwin (12 febbraio) è un evento festeggiato in parecchie città italiane. Numerose ormai partecipano le scuole e alcuni recenti attacchi al darwinismo hanno invece sortito l'effetto "anticorpale" di coinvolgere i migliori studiosi italiani dell'evoluzionismo a tenere affollate conferenze proprio in quel giorno originale. Una celebrazione divenuta oramai consueta, e che è augurabile che si allarghi ad altre città e cittadine italiane.
Diamo notizia che il ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni, arguto e diligente direttore, in anni passati, della rivista La Nuova Ecologia (dove il darwinismo evoluzionista veniva coniugato con temi più prettamente ambientalisti) ha comunicato l'emissione, per il 2009, di un francobollo commemorativo per la incipiente celebrazione darwiniana. Ringraziamone la competente Commissione filatelica.
Dicevamo di questa preghiera darwiniana di Luzzatto, che ha commosso il pubblico milanese nella calda e partecipata recitazione di Lella Costa. Un bell'evento, che resta nella storia recente dell'urbe meneghina.
A Milano è il Museo comunale di Storia Naturale la sede che si è prodigata in questi anni nella celebrazione del Darwin day: per ironia della sorte, e per nemesi, è Ilaria Vinassa de Regny, nipote di un celebre geologo ben poco darwinista, a fungere da prorompente madrina di queste attività celebrative.
Il libro di Luzzatto ha un tono precipuamente biblico. Ci leggiamo: "Dove è Dio? Dove è Dio!? Che disegno ha? Che scopo ha? Perché lo ha fatto?" (pag. 24). "A Londra, al ritorno dalla passeggiata allo zoo, Darwin ragiona nervosamente a tavolino. Allora: qui c'è Willy, laggiù i fuegini e ancor più in là Jenny l'orango" (pag. 32). Con uno stile da esperto scrittore teatrale, il biologo Luzzatto, allievo dell'accademico dei Lincei Aldo Fasolo, fa parlare rabbini e darwinisti, Cartesio e Richard Owen, Giacobbe e King Kong. C'è anche la moglie di Darwin, Emma, fideisticamente credente in un Sommo Artefice. Compare anche Mosè.
Nella bella Prefazione del filosofo Giulio Giorello, e che si intitola Il delitto di Charles Darwin, viene citato anche James Joyce: vi si parla dell'imbarazzo consapevole che il darwinismo ha creato nel mondo degli esperti, immediatamente dilagando in una miriade di lettori, fin da subito, l'Origine delle specie fu infatti, per i suoi tempi, un best-seller assoluto, rapidamente tradotto in innumerevoli lingue.

Questo di Luzzatto è un libro utile, da leggere tutto di un fiato, come una sorta di libro di preghiere. Va letto da chi ha fiducia nel darwinismo: ma anche (Crozza ci perdoni) da chi nutre qualche piccolo o grande dubbio sulla potenza analitica del mondo dei viventi che Darwin utilmente propone.
Parla di alcune delle caratteristiche più classiche del darwinismo, ma anche di alcuni difficili corollari: come il problema (pag. 44) della selezione sessuale. Perché mai un pavone dovrebbe infatti cercare di rubare l'appetitosa pavonessa a un altro pavone maschio? Non sono in effetti membri di una medesima specie: dunque esseri che lottano assieme, non in competizione, per la sopravvivenza di tutti i pavoni del pianeta terra? Luzzatto ne fa motivo di riflessione quasi biblica, ma ne fornisce una spiegazione fortemente convincente. E sottilmente darwiniana. La selezione seleziona il migliore pavone, anche fra i confratelli pavoni.
È augurabile che questo saggio, da recitare ad alta voce e tutto di un fiato, venga utilizzato per le incipienti celebrazioni del bicentenario darwiniano. O che possa essere letto nei tanti Darwin day che si terranno in giro per l'Italia nella data fatidica del compleanno darwiniano. Sarà utile complemento alle varie biografie, anche a firma di psicoanalisti e terapeuti che su Darwin hanno speculato negli ultimi due lustri. È anche corredato di una succinta, ma assai ben meditata, bibliografia. Per ulteriori, augurabili, approfondimenti.

Insomma, il 2008 è l'anno della preparazione al successivo, grande "Buon Compleanno, Darwin" che vedrà nel 2009 mostre tematiche e riflessioni filosofiche in giro per il mondo. Epicentro, come fu per il 1982 (ricorrenza della morte del Nostro), sarà la molto darwiniana Cambridge University. Dove i reperti raccolti a bordo del famoso brigantino Beagle sono gelosamente custoditi.
Là, nel luglio del prossimo anno, fastose e festose saranno le celebrazioni, previste con un colossale convegno che già da vari anni i conterranei britannici di Darwin vanno allestendo. Speriamo che l'Italia non sia da meno.


Alla Sapienza i proverbi non hanno più frontiere
Vincenza De Iudicibus su
il Messaggero

il primo libro di proverbi
ROMA (14 marzo) – “A buon intenditor poche parole. Chi semina vento raccoglie tempesta. Cane non mangia cane”. Chi di voi, almeno una volta nella vita, non ha utilizzato un proverbio per spiegare un concetto che altrimenti avrebbe richiesto un maggior impiego di parole, tempo e fatica. Semplice, penserete. Ma riuscireste a spiegare a uno spagnolo che “è meglio un uovo oggi che una gallina domani”, a un francese che “morto un Papa se ne fa un altro”, o a un tedesco che “chi non risica non rosica”? Anche con un'ottima conoscenza delle lingue, tradurre il significato di un proverbio non è facile. Si tratta infatti di formule che presentano costruzioni insolite, con parole arcaiche o create ad hoc, e comunque inscindibili dalla tradizione. Così, se in Italia “il lupo perde il pelo ma non il vizio”, in Inghilterra l'animale si trasforma in “un leopardo che non può modificare le sue macchie”.

Paremiologi alla Sapienza. Per comprendere il senso dell'aforisma nella sua lingua d'origine, la sola tradizione letterale si rivela quindi insufficiente. Ed è proprio qui che entra in gioco la “paremiologia” (dal greco paroimia), ovvero la scienza che studia i proverbi, ma generalmente ogni frase utilizzata per trasmettere una conoscenza basata sull'esperienza. Informazioni accumulate in secoli di storia, che spaziano dalla sociologia alla gastronomia, alla zoologia, alla religione. I maggiori studiosi di questa disciplina si incontrano in questi giorni all'università La Sapienza di Roma, per dare il via al progetto internazionale di classificazione e traduzione in rete dell'Europa dei proverbi.

Un dizionario per tradurre i proverbi. Il progetto “Gnome” (termine che in Retorica significa “sentenza”) nasce da un'iniziativa del Dipartimento di Studi Europei interculturali di Roma ed Enea (Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente), in collaborazione con l'Istituto Cervantes di Roma e il Grupo de Investigación Fraseología y Paremiología di Madrid”. "L'obiettivo – spiega Fernando Martínez de Carnero, professore associato di Lingua Spagnola dell'Università La Sapienza - è quello di creare un database che contenga le maggiori fonti paremiologiche delle principali lingue europee, e sviluppare un software in grado di riconoscere queste frasi in maniera concettuale". Lo studio potrebbe poi svilupparsi con la creazione di un vero e proprio dizionario, capace di fornire le equivalenze dei proverbi nelle diverse lingue europee.

Il web semantico. La sfida è anche quella di risolvere per le unità fraseologiche i problemi del web semantico, la trasformazione del “www” in un ambiente in cui i documenti pubblicati siano associati a informazioni che ne specifichino il contesto di significato. "Quando si parla di proverbi questa operazione diviene complessa - spiega de Carnero – . Una semplice traduzione da una lingua all'altra può rivelarsi fuorviante. Per fare un esempio, il proverbio “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”, in spagnolo si traduce “Más vale pájaro en mano que ciento volando” (meglio un passero in mano che cento che volano). Ma la semplice traduzione letterale non aiuta.


Letteratura, diritto e medicina. Un'esperienza che dalla letteratura si allarga fino a coinvolgere anche gli ambiti del diritto e della medicina. "A livello giuridico siamo in una fase in cui si sta costituendo il diritto comunitario – continua de Carnero – Ed è noto che nella costituzione di ogni legge, sotto ogni diritto nazionale, sono presenti numerosi aforismi. Lo stesso discorso è valido per la storiografia medica, ricca di formule di questo tipo. Traducendole si possono scoprire cose davvero interessanti, come i poteri guaritivi posseduti da particolari sostanze presenti in natura, e molto altro ancora".


Dopo aver formato il database si passerà quindi alla seconda fase del progetto. "Inizieremo ad attivare i tools delle traduzioni – conclude de Carnero –, e avviare la fase di riconoscimento dei proverbi come “parti fisse”. Un percorso che potrebbe durare anche 10 anni".

Per il momento, chiunque fosse interessato a seguire il processo di evoluzione di questi studi, può consultare il sito internet gr-gnome.eu.


La pillola blu dieci anni dopo
Michele Smargiassi su
la Repubblica

"No, io non ne ho ancora avuto bisogno… In futuro vedremo". Questo si chiama ottimismo: Ettore ha 75 anni. Gino invece ne ha tre di meno, ma alla pillolina blu ha già fatto un pensierino: "È da giugno che ci rimugino ma non mi decido". Insomma ci sarà pure qualcuno qui, nel centro anziani Auser di via de´ Cancellieri, che almeno una volta abbia provato il Viagra? Pare di no. Eppure hanno avuto un decennio intero per pensarci; eppure è per loro, gli ultra-60, che è stato inventato; eppure siamo nella città, Pistoia, che sta in vetta alle classifiche di consumo procapite, nel senso che statisticamente ogni maschio over-40 in questi dieci anni ne avrebbe inghiottite circa sette. "Sarà tutto vero ma noi non c´entriamo, è roba per i giovani", dice il decano Ermanno, 86 anni, "noi ci accontentiamo di quel che ci permettono la natura e l´età. Loro no".
Dieci anni di collaudo e sessanta milioni di pillole vendute gli danno ragione. È ormai chiaro che il Viagra non è la pasticca per anziani che vogliono prolungare la propria vita sessuale.
I dati di vendita dicono che sei confezioni di Viagra su dieci in realtà vanno in tasca a uomini sotto i 60 anni. E due su dieci addirittura a under-50. La vera Viagra Generation sembra essere quella tra i 25 e i 34: i più convinti (55%) che il Viagra "migliora le abitudini sessuali".
La storia del Viagra, la seconda pillola della rivoluzione sessuale, il medicinale più noto nel mondo dopo l´Aspirina, è appunto la storia di un successo involontario, di un bersaglio centrato senza mirare, anzi mirando da un´altra parte. La Pfizer, major della farmaceutica mondiale, cercava un principio attivo contro l´angina, provò con il sildenafil citrato, non funzionò, ma c´era quel curiosissimo "effetto collaterale" che le cavie umane, entusiaste, riferivano in massa. Così quella piccola losanga azzurra che la Food and Drug Administration autorizzò il 27 marzo del 1998, si presentò al mondo come la soluzione finale del millenario assillo dell´impotenza, del corpo che smette di rispondere per malattia o per età. Ma anche le virtù puramente medicali non sono state la vera chiave del successo. Tre anziani su quattro rifiutano di usare il Viagra anche se ne hanno bisogno. Di fatto chi ne ha necessità clinica, non lo compra. Tre milioni gli italiani con problemi di disfunzione erettiva, ma solo 200 mila i consumatori abituali di Viagra. "Penetrazione sottodimensionata", commenta con involontaria ironia un´analisi di mercato commissionata recentemente proprio dalla Pfizer.
Ma chi definirebbe un fallimento il Viagra? Guardate nella vostra posta elettronica: centinaia di sconosciuti vogliono vendervelo a tutti i costi. Digitate il nome su Google: avrete milioni di citazioni, dieci volte di più del Prozac. La parola Viagra è nello Zingarelli dal '99, sinonimo di fenomenale eccitazione. Attorno al Viagra si girano film, si scrivono racconti. La sua efficacia deborda, lo rifilano ai cavalli nelle corse clandestine, lo somministrano (inutilmente) al panda cinese dalla libido pigra. In Thailandia è stato usato per comprare voti alle elezioni.
Il Viagra (e i suoi aggressivi cugini come il Cialis, che strappano quote di mercato sempre più consistenti) non è più un medicinale, è un fenomeno sociale. Di più: una metafora. Una nuova mitologia maschile. Diciamolo: è stata la fama usurpata di "pillola del paradiso" ad avere evitato, in questi dieci anni, l´insuccesso commerciale. Il Viagra mantiene anche ciò che non promette: per chi lo usa non è quel che è, ovvero un "condizionatore della risposta erettile", un rimedio alla pigrizia dei corpi cavernosi, che non dà superpoteri, e non funziona se non c´è uno stimolo sessuale esterno. No, è quel che non ha mai detto di essere, ma forse ha lasciato credere: l´afrodisiaco universale infallibile, il carburante tascabile del piacere, il serbatoio pronto uso della virilità, la pozione magica che agisce automaticamente, anche contro la volontà: l´anno scorso una signora di Frosinone, come in una novella boccaccesca, lo sciolse di nascosto nel vino del marito renitente ai doveri coniugali, ma esagerò con le dosi: lo spedì in un letto sì, ma d´ospedale.
L´elisir dei superuomini? Spesso, il placebo degli insicuri. Viagra, medicina del desiderio debole, più che del corpo stanco. "Tanti chiedono alla pillola di dar loro non solo il mezzo, ma anche la voglia di fare l´amore": il dottor Alfredo Trippitelli, urologo all´Ospedale del Ceppo di Pistoia, conosce i suoi pazienti. Sempre più giovani, sempre meno malati. "Dicono: dottore, ho paura di fare cilecca. E io: ma fai pure cilecca, ragazzo mio, andrà meglio la volta dopo, non siamo macchine, non dobbiamo correre dal meccanico ogni volta che non s´accende il motore, se cominci a dopare il sesso ora che non ne hai bisogno, non saprai mai com´è il tuo piacere naturale". Lui, Trippitelli, il Viagra piuttosto lo darebbe gratis agli anziani (in Toscana già accade ma solo per i pazienti di certe operazioni), perché la "formidabile rivoluzione" è fatta per loro, è "la possibilità di vivere serenamente l´intesa sessuale anche a tarda età, ma dieci euro a pillola sono troppi per un pensionato". Il "Viagra della mutua" del resto è stato proposto molte volte, senza esito, a Milano, a Genova, a Varallo Sesia, da politici di ogni colore. Invece lo negherebbe ai ragazzini in stress da performance, "o a certi giovani manager che si sfiancano di lavoro, mangiano male, bevono, fumano, poi però la sera pretendono di essere dei fenomeni… Per questo fast-sex consumista non bisognerebbe prescrivere pillole, comunque a loro le farei pagare carissime".
Ma non abbiamo ancora spiegato lo strano record di Pistoia. "Non ho dati divisi per comune", suggerisce Filippo Bardelli, responsabile del settore farmaci dell´Asl di Pistoia, "ma scommetterei che è Montecatini ad alzare la media…". Montecatini Terme: 21 mila letti nelle case, 14 mila negli alberghi; mecca del benessere del corpo, forse non solo per via dei fanghi. Capitale del sesso dopato? "Non diciamo sciocchezze", s´irrita il sindaco Ettore Severi. Difende giustamente il buon nome della sua cittadina. Ma è anche il farmacista del paese, ed è un professionista onesto: "Purtroppo l´uso ludico del Viagra sopravanza di gran lunga quello medico. La prova? Nella mia farmacia vendiamo soprattutto confezioni da due pillole. Segno di consumo occasionale: un malato cronico di impotenza prenderebbe la scatola da sei".
Due pillole, qualche profilattico e via nella notte. Il lato oscuro del blu.

L´uso abnorme del Viagra preoccupa, a dir poco, i suoi produttori. "La mitologia falsa sul Viagra danneggia il Viagra, se passasse l´idea dell´elisir da super-prestazione avremmo fallito la nostra opera educativa", ammette Giorgio Ghignoni, direttore medico di Pfizer Italia. La quale, bisogna riconoscerlo, non ha mai giocato sull´aura trasgressiva delle sue pillole. Anzi. "Il Viagra non è la pillola dell´adulterio: gli italiani sono più fedeli di dieci anni fa; non è la pillola del sesso sfrenato, gli italiani fanno l´amore in media 6 volte al mese, come negli anni Settanta". Ma non si combatte un mito negativo solo con l´informazione corretta. Serve un mito positivo. Eccolo: Viagra, la pillola delle coccole. "Abbattendo i timori sulla prestazione, favorisce l´intesa sessuale, la tenerezza, l´intimità". Una dolce "vita Viagra". "Ricorda cos´era un´urologia vent´anni fa? Un luogo triste, pieno di libri con foto per stomaci forti. L´impotenza si curava con iniezioni alla base del pene, pensi che attrattiva. Ora le urologie sono i dispensari della serenità di coppia". Il Viagra in questa versione è una pillola educata, perfino morale. Tiene insieme le famiglie. Forse dà perfino una mano contro la crisi della natalità: tempo fa Usa Today provò a calcolare quanti "figli del Viagra" affollassero ormai le scuole americane, e azzardò tre milioni.



Vi spiego perché non siamo più Sud
Erri De Luca su
l'Unità

Erri De Luca
Nel mondo c'è piú sud che nord. Detto cosí è come se uno affermasse che i numeri dispari sono di piú dei numeri pari. Però è un fatto che l'equatore, il largo parallelo equidistante dai poli, non è mai stato discrimine efficace. Il Sud del mondo lo ha scavalcato di slancio, si è spinto oltre il tropico del cancro fino a risalire tutta l'Africa. Per ora si è assestato sulla sponda meridionale del Mediterraneo.
Un tempo anche noi nati sotto il Volturno ci dicevamo del Sud. Le baracche di Gibellina, i sassi di Matera, i vicoli di Forcella ci davano questo buon diritto. Fornivamo braccia a buon mercato alle Americhe, alle miniere, alle acciaierie. Vendevamo sale, lavoravamo da bambini e sul lungomare tiravamo reti lontane con corde grosse come braccia. Non avevamo petrolio, ma non ce lo facemmo mancare. Vennero navi lunghe e pesanti a raffinarlo sulle nostre spiagge. Era sporco, puzzava, specie nei giorni di scirocco. La fiamma perpetua che smaltiva le scorie era il nostro cero acceso al santo del progresso. Sui golfi piú belli del Tirreno e dello Ionio spuntarono torri, ma non per avvistare Saraceni. Avevano altra forma, piú stretta, assai piú elevata e fumavano in cima. Erano gli altiforni della colata continua, le metallurgie urgenti dell'industria pesante. Non dovevamo piú partire verso l'affumicato estero, ora ce l'avevamo in casa. Eravamo ancora del Sud e ci piaceva dirlo, scrivercelo addosso quando con quel nome di fabbrica passavamo nelle piazze d'Italia intorno a un palco. Eravamo la Questione Meridionale, ma i toni della classe dirigente locale erano quelli di una supplica quaresimale. A mensa ci venne servita la Cassa di Mezzogiorno, confezione di dolciumi purgativi che sfamavano per cinque minuti e subito dopo procuravano la dissenteria della disoccupazione. Sorsero baracche buone per il giorno dell'inaugurazione, poi tutti a casa perché l'impresario aveva intanto intascato il gruzzolo del finanziamento.
Furono i terremoti a insegnarci un modello di sviluppo. Il soccorso finì in molte mani, ci fu un'ansia di arricchirsi, nacquero molte società per azioni e sopraffazioni, sparsero in giro molto sangue e molte piccole industrie. Fu il tempo dell'accumulazione di fortune fresche, maledette e subito. Fa cosí il capitalismo quando è in buona salute. Oggi molti ricchi di quell'arrembaggio vogliono regolarizzare la loro posizione, perché sono la nuova borghesia e non vogliono aspettare la seconda generazione per godersi la rispettabilità del denaro. È la nuova questione meridionale.

Un tempo ho visto il Sud del mondo. In un periodo della mia vita ho parlato una lingua che si chiama swahili, ho preso parte a un po' di lavoro gratuito laggiú. Ho aderito a quel luogo sotto l'equatore, ho aderito alla lettera fino a tremare delle sue febbri malariche, fino a svuotarmi le viscere, commosse da un protozoo locale detto ameba. Era miseria diversa, natura snaturata, siccità e acque torrenziali, fame e fiori, stagioni che non lasciano seme nella terra. La vecchiaia era un privilegio, le nascite erano agguati. La morte era infantile e capricciosa come il cielo al tempo dei monsoni. È ancora cosí, perché quello è il sud. Noi dobbiamo dare le dimissioni da quel nome onorato. Ci resta il sud dell'anima, per chi ancora la conserva esposta a mezzogiorno, come un balcone. Siamo diventati una sfumatura del nord.

Le noir
A differenza delle persone i popoli si guadagnano nel mondo un credito indipendente dal loro conto in banca. Paesi come il Canada e il nostro possono pure sedersi a qualche tavolata prestigiosa in virtú del loro grado di ricchezza, ma poi contano decimi di niente al tempo delle grandi scelte. Nemmeno le armi fanno grande un popolo, il primato militare invecchia in fretta. Un popolo vale quanto la sua lingua e ha prestigio per quanto essa è diffusa lontano dai suoi confini. La Francia gode di questo valore aggiunto, la Germania potrà acquistarlo se l'Europa orientale parlerà tedesco. L'Italia perse l'occasione dell'emigrazione. La nostra lingua nelle Americhe si perse in una generazione e l'assimilazione dei nostri fu completa. Non uno scrittore, poeta, commediografo ci fu restituito da quel viaggio di sola andata. Oriundi di ritorno furono solo i calciatori, tenaci come pochi nel rifiutare di imparare la lingua dei vecchi nonni e delle lire nuove. Poi con un piú cruento dissanguamento l'Italia consumò la vanità coloniale di imporre la sua lingua a popoli lontani.
Resta un'altra occasione: dar voce italiana all'umanità che emigra da noi per suo bisogno. Non tutti possono trovare un riparo e un impiego, ma una lingua sí. Possiamo metterli in grado di parlare e scrivere bene in italiano, la grande maggioranza di loro ha un grado di istruzione perfino elevato. Invece succede spesso di ascoltare uno straniero che vive da molti anni presso di noi e che non sa ancora formulare una frase corretta nella nostra lingua. È umiliante, ma per noi, non per lui. Non costerebbe molto trasmettere ai nostri nuovi vicini questa rarità neolatina. La glaciazione delle nostre nascite lascia aule vuote e insegnanti a spasso, risorse che la comunità paga comunque. Non occorrerebbe scegliere il modello d'istruzione intensiva di Israele, basterebbe quello francese che inculca la propria parola per poi esigerla. Perciò ha ricevuto in premio uomini come l'irlandese Beckett e il rumeno Ionesco che hanno scritto in quella lingua. Il piú grande scrittore francese del secolo, per me, Albert Camus, è nato in Algeria e ci ha vissuto fino ai suoi vent'anni. Nessuno mette in dubbio che sia stato uno scrittore francese, togliendo in buona fede all'Algeria il suo diritto di maternità. Tale è il peso di una lingua, il suo campo magnetico irradiato lontano. Esso è il frutto di un investimento di orgoglio prima che di mezzi, convinzione di avere un rango nel mondo per la civiltà della propria parola.
Se è vero che si può abitare una lingua, allora noi non aiutiamo lo straniero ad abitare la nostra. Lasciamo a lui il compito di arrangiarsi anche in questo, forse ci conforta un altro vantaggio che abbiamo sul suo bisogno, che stenti anche con le parole. E invece potrebbe amare le nostre, farle rimbalzare indietro lontano, inzuppare di colori nuovi le pagine sbiadite dei nostri libri, le strofe insipide delle nostre canzoni. È una bella lingua la nostra, dovremmo offrirla a piene mani, regalarla agli altri: ce la vedremmo restituire piú grande, piú ricca. Non sempre tra le persone accade, ma tra i popoli sí: la generosità paga alti dividendi. Non avranno trovato molto da noi, i nostri nuovi vicini, ma quel po' di tesoro gratuito che sta in una lingua non gliel'avremo lesinato.
Lavoravo in Francia in un cantiere edile insieme a operai di molte nazioni diverse. Un giorno il capomastro si rivolse a uno di noi chiamandolo "le noir", il nero. L'uomo si fermò e ad alta voce rispose che lui era un operaio, aveva un nome e un salario come tutti e che non permetteva a nessuno di prenderlo per la pelle. Fece un discorso veloce, tenuto in perfetto francese e provai orgoglio di essergli amico. Tale è il peso di una lingua tra uomini che si guadagnano il giorno lontano dalla loro terra.


Se un liberale dice cose di sinistra
Gianni Vattimo su
La Stampa

Che piacere, sommersi come siamo dalla vacuità rumorosa della campagna elettorale, ascoltare la lunga intervista con Sergio Romano, ben noto anche ai lettori della Stampa, nel Tg de La 7 di giovedì sera. Finalmente un po' di sostanza, dopo giorni e giorni di insipide polemiche sulle convinzioni fasciste di Ciarrapico, candidato da Berlusconi nelle proprie liste per la sola buona ragione per cui anche il Pd ha candidato tanti altri personaggi che politicamente "ci azzeccano" poco, ma promettono di portare voti. E che tristezza dover prendere atto che, in questa situazione, le vestali "democratiche" dell'antifascismo (che peraltro avevano invitato Ciarrapico all'assemblea inaugurale del Pd) risultano insopportabilmente meno simpatiche e meno sincere del Cavaliere e persino del suo candidato così candidamente, ci si passi il bisticcio, mussoliniano.

Contro retorica, vuoto e insincerità
Fino a quando dovremo provare sentimenti di questo genere nei confronti della parte politica che continuiamo a preferire, intendo dire sentimenti di insofferenza, scandalo per la retorica, il vuoto, l'insincerità di tante posizioni degli esponenti "democratici"? Richiamo il caso Ciarrapico solo per evidenziare di più l'abisso che separa polemiche come questa dalle problematiche che, voce nel deserto, Sergio Romano ha squadernato davanti alla platea di La7. E per una certa analogia tra i sentimenti di irritazione di cui sopra e l'ammirazione consenziente che ho provato ascoltando il giro d'orizzonte dell'ambasciatore. Certo, le cose che diceva, come conservatore liberale quale si definisce, mi sono parse straordinariamente vicine a quelle che, da elettore di sinistra, professo da tempo. Non mi sono convertito al liberalismo dell'ambasciatore, né credo si sia convertito lui. E, se è per questo, non penso si sia convertito un economista come Giulio Tremonti che, sebbene in misura diversa, mi suscita oggi un'impressione analoga.

Tra l'ex ministro e l'ex ambasciatore
Sento in quel che dicono l'ex ministro e l'ex ambasciatore le cose che mi aspetterei legittimamente di sentire dai politici ai quali mi ritengo più affine. Sergio Romano ha detto, nell'ordine: che gli Stati Uniti, ai quali sempre ci si chiede di pensare come ai garanti della nostra libertà, sono oggi i massimi esportatori di crisi in tutto il mondo, a cominciare dall'Afghanistan; che la cosiddetta guerra al terrorismo nata dall'11 settembre, per stanare gli autori del massacro, avrebbe richiesto una azione di polizia invece che la disastrosa guerra in Iraq. E poi: che la Nato così com'è non ci serve assolutamente a nulla, adesso che è caduto il comunismo sovietico; e che anzi, in questa situazione, la progressiva adesione di Paesi dell'ex blocco comunista all'alleanza è una inutile e pericolosa provocazione verso la Russia di Putin. Che più? Su Israele - punto dolente se si ricorda che Sergio Romano si è (anche lui!) preso dell'antisemita per la Lettera a un amico ebreo, un libro pubblicato qualche anno fa - la sua idea è che porre come condizione per trattare con Hamas il riconoscimento preventivo dello Stato di Israele è come rifiutare ogni trattativa, giacché proprio questo riconoscimento sarebbe l'oggetto su cui negoziare.

Quanto a Giulio Tremonti, almeno il suo prendere criticamente le distanze dalla retorica della globalizzazione e del "mercatismo" ci sembra una ventata di aria fresca rispetto alle "lenzuolate" di liberalizzazioni alla Bersani, che fino a prova contraria hanno solo agevolato una sempre più frenetica corsa alle fusioni bancarie e di altro genere senza produrre nessun vantaggio per i consumatori-elettori.



Canaletto e Bellotto: l'arte della veduta
Alessandra Rolle su
Il Sole 24 Ore

Bellotto, vista sull'Arno a Firenze

E' vero che agli albori della sua carriera uno tra i più grandi talenti del vedutismo veneziano era solito firmarsi "Bernardo Bellotto, detto il Canaletto", ed è vero anche che l'ambiguo confine tra la sua opera e la maestosa impronta stilistica dello zio, Giovanni Antonio Canal detto Canaletto, rappresenta ancora oggi una tra le più affascinanti controversie del panorama artistico del '700.
Eppure, secondo alcuni critici d'arte, Bellotto rimane un pittore a sé stante nient'affatto interscambiabile con lo zio-maestro: non un paesaggista incline a trasparenti limpidezze, quanto piuttosto ai toni ombrosi, e non così legato a quella Venezia settecentesca, dove invece Canaletto morì, ma un viaggiatore, che anzi nella terra natia non fece mai più ritorno.
Proprio a questo suggestivo ed intricato rapporto artistico è dedicata la mostra a Palazzo Bricherasio dove, grazie ai prestiti di collezionisti di tutto il mondo e alla curatela di Bozena Anna Kowalczyk, uno dei massimi esperti di vedutismo veneziano, sarà possibile ammirare le opere in un confronto immediato tra stili, tecniche e composizione.
Le tele del Canaletto, soprattutto nella sezione introduttiva, rappresentano il corpus centrale nell'apprendistato bellottiano, mentre in molti casi non sfugge l'importanza del ruolo dell'allievo nello studio del maestro, come dimostrano per esempio alcuni disegni preparatori.
Se infatti i due importanti scorci veneziani provenienti dalle collezioni reali inglesi vogliono essere una lezione di stile squisitamente canalettiana, subito dopo un gruppo di vedute erroneamente attribuitegli ed invece opera dell'allievo, testimoniano immediatamente il precoce talento di quest'ultimo. Sarà un Antonio Canal o un Bellotto? Il gioco delle parti non ha mai smesso di esistere, e ciò che rende attuale il problema è l'esistenza di lavori dove la discussione rimane tuttora aperta: è il caso della penna e inchiostro bruno su traccia di matita, databile 1739, che raffigura la Porta dell'Arsenale a Venezia, foglio di attribuzione incerta.
Così se la fama indiscussa del Canaletto mise in ombra l'opera del nipote, dall'altra la grandiosità di questo rispose a tono e non tardò a farsi strada autonomamente.
La mostra regala, finalmente, uno sguardo ampio e simultaneo su questi due mondi "così vicini, così lontani" e, sottolineandone le comuni origini, dai paesaggi fino ai capricci e alle figure, rende evidenti le diversità tra i due pittori, nell'universo interiore, nei tempi e, infine, forse anche nello stile.

Canaletto. L'Arno a Firenze

Canaletto e Bellotto. L'arte della veduta. Torino, Palazzo Bricherasio, fino al 15 giugno 2008


  16 marzo 2008