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sulla stampa
a cura di G.C. - 20 novembre 2007


La seconda discesa in campo contro i politici "parrucconi"
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

Silvio "Pa-Peròn" Berlusconi, come lo battezzò Cossiga, ha estratto dal cilindro una nuova sorpresa: il Partito del Popolo Italiano delle Libertà. Diranno gli scettici che, dati ufficiali alla mano, è il 157°. In coda a creature lillipuziane quali il "Patto Cristiano Esteso" o il "Movimento Ultima Speranza". Ma lui ne è sicuro: diventerà il punto di riferimento di decine di milioni di italiani. Così grande che Forza Italia vi si "scioglierà dentro". Così ecumenico che spera "aderiscano tutti, nessuno escluso ". Così adatto ai tempi, spiega nella prefazione a un libro di "Magna Carta", da stare "nel solco dei valori del cristianesimo, del liberalismo, del socialismo democratico, della laicità". Un partito-tutto. Contro i partiti e i partitini. Ma soprattutto contro "i parrucconi della politica ".
Certo, c'è chi avrà buon gioco a ridacchiare sulla eccentricità di un pelato che, sia pure sottoposto alla messa a dimora di folte chiome luccicanti, dichiara guerra ai parrucconi. Per non dire del brevilineo che muove battaglia ai nani. Ma nel lanciare la sua nuova sfida, indifferente a questi dettagli, il Cavaliere mostra una volta di più di avere una caratteristica forse unica nel panorama della politica italiana: il coraggio spericolato di giocarsela. Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e perfino Umberto Bossi, dopo l'ennesima spallata annunciata e poi fallita al Senato, sembravano avergli rubato finalmente la palla? Lui se l'è ripresa di forza, è uscito dall'area in cui pareva asserragliato e si è catapultato all'attacco con una di quelle "ripartenze" da lasciare a bocca aperta anche il "suo" Arrigo Sacchi. Se arriverà in porta è da vedere. Rispetto alla prima "discesa in campo", ha una zavorra finanziaria in meno, dato che i conti aziendali vanno bene e i manager non gli suggeriscono più come Franco Tatò di "portare i libri in tribunale " (parole di Marcello Dell'Utri), ma alcune zavorre politiche in più. Che almeno sulla carta potrebbe appesantire molto la sua corsa. Spiegava allora agli italiani di non "avere intenzione di mettere in piedi una forza politica di vecchio tipo", di volere "un partito liberale di massa" che coinvolgesse uomini "nuovi alla politica, campioni nelle proprie professioni, i migliori", di essere deciso a rimanere estraneo alla "vecchia politica degli agguati e dei trabocchetti, delle congiure e delle manovre di Palazzo".

Chiedeva agli aspiranti candidati forzisti di sottoscrivere le seguenti parole: "Dichiaro 1) di non avere carichi pendenti 2) di non aver ricevuto avvisi di garanzia 3) di non essere stato e di non essere sottoposto a misure di prevenzione e di non essere a conoscenza dell'esistenza a mio carico di procedimenti in corso...". Sono passati, da allora, quasi quattordici anni. Tre più di quelli passati da Nikita Krusciov alla guida del Pcus, due più di quelli trascorsi da Helmut Kohl alla testa della Germania, due più di quelli vissuti da Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca. Per carità, nessun parallelo. Ma tre lustri sono un'era geologica, in politica. Lasciano il segno. E se Forza Italia è rimasto un partito legato al "centralismo carismatico ", come spiegò un giorno Cesare Previti, è difficile sostenere che non sia rimasto infettato da quelli che un tempo il Cavaliere considerava virus della "vecchia politica". Quella che gli faceva dire: "Torno a Roma. Torno nella cloaca". Basti ricordare come, dopo l'iniziale richiesta di immacolatezza, siano stati via via imbarcati uomini come Gianstefano Frigerio, vecchia volpe dicì milanese che, condannato a vari anni di carcere in diversi processi di Tangentopoli, fu eletto tra gli azzurri in Puglia dopo un lifting anagrafico con cui si era dato il nome d'arte di Carlo Frigerio. O Alfredo Vito, il famigerato "Mister Centomila Preferenze" cui Paolo Cirino Pomicino ricorda 22 condanne per corruzione. O ancora Gaspare Giudice, del quale i magistrati di Palermo chiesero invano l'arresto considerandolo "a disposizione" del presunto boss di Caccamo, Giuseppe Panzeca. Certo, lui si considera ancora, come disse un giorno, "Biancaneve in un mondo che non è una fiaba".

Contro i "faniguttun ", gli sfaccendati (avversari, ma anche compagni di strada) che "non hanno mai lavorato in vita loro" e che "non possono permettersi le barche e le case che esibiscono, dunque non c'è che una spiegazione: rubano". Contro i "politicanti " che arrivò ad attaccare 14 volte in un solo comizio nell'anniversario della "vittoria mutilata" del 1994. Ma come cavalcare, oggi, l'ondata di indignazione popolare contro i costi della politica se c'era la "sua" maggioranza al Senato quando i costi sono cresciuti del 39% oltre l'inflazione e c'era lui a Palazzo Chigi quando il governo spendeva 65 milioni di euro in un anno in voli di Stato, pari a 2.241 biglietti andata e ritorno al giorno Milano-Londra con RyanAir? Come chiamare la gente a imbarcarsi su una nuova "nave di sognatori" (così chiamò un giorno Forza Italia) per dare "nuovo futuro della politica italiana" se a 71 anni suonati è già stato alla guida del governo poco meno di De Gasperi o Andreotti ma già oltre un anno più di Amintore Fanfani, due più di Bettino Craxi, tre più di Mariano Rumor? Insomma: come rinnovare la sua nuova immagine di uomo "nuovo"? Questa è la grande scommessa. Qui deve venir fuori il "mago delle emozioni". Che va a giocarsela da solo, direttamente col "suo" popolo. Certo di conoscerlo come non lo conosce nessuno. E di poterlo convincere: se il cielo non sempre è stato blu, è stata solo colpa degli altri.


L'ultima metamorfosi
Curzio Maltese su
la Repubblica

La finzione giacobina del "Cavaliere contro tutti" è durata una domenica. Il tempo di raccogliere le firme e di contarle, molto alla buona. Sette milioni la sera del voto, otto milioni nella notte, come le baionette d´una volta. Dieci milioni per i telegiornali del lunedì, ultima offerta, prendere o lasciare. Con tanti saluti ai referendari che per raccoglierne cinquecentomila la fanno tanto difficile.
Chiusa la conta sulla cifra tonda, Berlusconi ha smesso i panni dell´agitatore di piazza e si è messo in fila per trattare con Walter Veltroni. Anzi, da buon italiano, arrivando per ultimo ha sorpassato chi in fila era già da tempo, Fini e Casini. E´ lui da oggi il primo interlocutore del leader democratico per la riforma della legge elettorale.
L´ennesima trasformazione di Berlusconi non ha nulla di strabiliante. Se non forse la rapidità nel cambiare marchio, strategia, opinioni, per giunta indossando lo stesso completo da trent´anni. Il "padre del bipolarismo italiano", come lo celebrava Ferrara, da oggi è per il proporzionale. Il fondatore di Forza Italia scioglie il partito in un giorno solo, senza congressi, dibattiti, lacrimucce e altre democratiche perdite di tempo, e ne inaugura uno nuovo, "il Partito della Libertà, anzi il Popolo della Libertà", o come si chiamerà. Il nome della cosa in effetti conta meno della proprietà, che rimane la stessa. E´ questione di marketing.
L´uomo che aveva promesso di distruggere la sinistra, sfascia la destra e fa rottamare in fretta il suo contenitore, la Casa della Libertà, in vista di una nuova stagione, improntata al "dialogo, al rispetto reciproco, al senso di responsabilità". Spallate al governo? "Mai parlato di spallate".
Una mossa abile. Del genere che, praticato da altri, viene bollato come "politica politicante". Oppure storicamente irriso ("contrordine, compagni"). Berlusconi, fallita la spallata, temeva che Fini e Casini potessero accordarsi con Veltroni alle sue spalle. E magari non soltanto quei due, ma anche Bossi, in cambio di un qualche regalo federalista. Si è rassicurato con una telefonata al leader leghista, ed è partito per la svolta. Per sedersi al tavolo della trattativa aveva bisogno della prova di forza, i gazebo, le firme, la piazza.
Il cambio repentino di strategia dal braccio di ferro al dialogo rientra in una logica aziendale. Il gruppo ha troppi interessi al sole per permettersi il lusso di sfidare le vituperate manovre dei politicanti e finire tagliato fuori da alleanze trasversali. Non si sa mai. Si comincia con la legge elettorale ma si può finire a discutere la riforma televisiva. Sono vent´anni che il gruppo Berlusconi riesce alla fine a mettersi d´accordo con qualsiasi maggioranza al potere, purché non si tocchino le faccende essenziali (televisioni, pubblicità). Dall´attuale governo, da questo punto di vista, non sembrano arrivare minacce.
In più, Berlusconi può offrire a Veltroni una serie di offerte speciali. Comanda il partito più consistente, senza il quale è complicato varare una riforma elettorale. E condivide con Veltroni il vantaggio di poter giocare su due tavoli, quello delle riforme e quello del referendum. Se vincessero i quesiti referendari il premio di maggioranza andrebbe tutto o al Partito Democratico o all´ex Forza Italia. E´ vero che pretende in cambio molto e forse troppo. Per esempio la data delle elezioni anticipate, meglio se in pochi mesi. Ma è un´altra strategia aziendale. Chiedere cento per ottenere la metà, ovvero le elezioni nella primavera 2009.



La strategia di Berlusconi
Angelo Panebianco sul
Corriere della Sera

L'annuncio è clamoroso: Berlusconi, forte del successo ottenuto con la raccolta di firme contro il governo Prodi, è pronto a sciogliere Forza Italia e a fondare un nuovo partito (il "partito del popolo italiano della libertà"), dicendo anche agli alleati: o con me o contro di me. È probabile che l'iniziativa maturasse da tempo nella mente di Berlusconi e che gli avvenimenti degli ultimi giorni ne abbiano accelerato i tempi. Al momento, Berlusconi è l'uomo più misterioso della politica italiana. La sua strategia è fino ad oggi fallita (il governo Prodi non è caduto), i suoi (ex) alleati sono in rivolta, la Casa delle Libertà è un cumulo di rovine, come dimostra anche la contestazione di Fabrizio Cicchitto ad Assisi da parte di militanti di An. Ma Berlusconi rilancia, continua a reclamare le elezioni anticipate. Sicuro, afferma, di essere in sintonia con la maggioranza degli italiani. All'apparenza, il suo è stato fin qui un comportamento irrazionale. Garantendo che avrebbe fatto cadere il governo sulla Finanziaria, Berlusconi si è comportato come quel tale che entra in un casinò e si gioca l'intera posta in un colpo solo, puntando tutto sul rosso o sul nero alla roulette. Ma è davvero così? Non è possibile che anche quella iniziativa fallita fosse parte di un più generale disegno teso a mettere i suoi riottosi alleati in un vicolo cieco, obbligandoli a confrontarsi col fatto che senza di lui non possono andare da nessuna parte? I politici, come tutti, fanno continuamente errori. Però, in genere, non conviene liquidare il loro agire come "irrazionale " dal momento che, in questo modo, si rinuncia a comprenderli.
Certo, Berlusconi sperava davvero di far cadere Prodi sulla Finanziaria e spera ancora che Lamberto Dini lo liberi presto dal governo in carica. Ma forse c'è dell'altro. Forse Berlusconi pensa già da tempo di avere di fronte a sé solo due strade: le elezioni anticipate o, in mancanza, la legge elettorale che uscirebbe dal referendum. In entrambi i casi, gli alleati sarebbero costretti a compattarsi dietro di lui. Può darsi che Berlusconi abbia riflettuto sugli sbagli commessi in passato (l'affossamento del referendum sulla quota proporzionale del 1999, il varo dell'attuale legge elettorale), sbagli grazie ai quali i suoi alleati ebbero modo di rialzare la testa e di contrastarlo. E che abbia deciso di cambiare registro. Contando oggi sul fatto che anche Walter Veltroni, piuttosto che ritrovarsi una legge elettorale che favorisca le formazioni medio-piccole, preferirebbe elezioni o referendum.



Per tutte le stagioni
Marcello Sorgi su
La Stampa

Salutata dagli alleati con riserve e perplessità, e dagli avversari come un regalo inatteso (la demolizione della Casa delle libertà invece che quella annunciata, e poi mancata, del governo), la svolta di piazza San Babila, la decisione di Silvio Berlusconi di fondare un nuovo partito, in grado di intercettare, da solo, la maggior parte dei voti del centrodestra, s'è imposta subito al centro dell'attenzione. Dopo averlo considerato un gesto estremo, l'ennesimo colpo di teatro di un leader che ha molta familiarità con il palcoscenico, tutti si chiedono a cosa punti veramente il Cavaliere.

Com'è evidente, non si tratta solo di un tentativo di camuffare la sconfitta subita al Senato sulla finanziaria. Berlusconi covava da tempo la svolta, almeno da quando ha cominciato a seguire con preoccupazione la fondazione del Partito democratico nel centrosinistra. In qualche modo, anzi, è come se avesse voluto ripercorrerne il processo. Poiché a sinistra la spinta è venuta da un nuovo ceto politico, all'interno del quale non c'erano più distinzioni di appartenenza tra un partito e l'altro, il Cavaliere, convinto che anche nel centrodestra era accaduta da tempo una cosa analoga, ha premuto nella stessa direzione.

Con la convinzione che la sconfitta di misura alle elezioni del 2006 e la crescente impopolarità delle scelte del governo Prodi motivino fortemente i suoi elettori e pongano le premesse per una rivincita. In un certo senso, Berlusconi si sente direttamente incaricato dalla sua gente di guidare la riscossa. Di qui, appunto, la campagna che ha condotto senza tregua contro il governo, le incomprensioni, via via approdate alla rottura, con i suoi alleati portatori di una linea più trattativista, fino alla convinzione che l'epoca del bipolarismo e delle coalizioni, a cominciare dalla Casa delle libertà, sia finita, e sia venuto il momento di tornare al proporzionale e al libero gioco delle alleanze in Parlamento. Alla medesima conclusione, sulla base dei risultati controversi del governo, spesso paralizzato dai veti della sinistra radicale e dei partitini centristi, sarebbe ormai arrivato anche Walter Veltroni: Berlusconi ne è sicuro. E ne ricava che la competizione vera, di qui a poco, si giocherà tra i due futuri partiti di maggioranza relativa: il Pd e il Pdl.

Se le premesse sono giuste e se dall'altra parte dovesse trovare ascolto, una logica come questa, nell'ordine, può portare rapidamente: a un accordo sulla legge elettorale - un proporzionale con soglia di sbarramento per i partiti minori - più simile, nei disegni del Cavaliere, al sistema tedesco che a quello spagnolo; a evitare il referendum ormai prossimo; e ad arrivare a uno scioglimento delle Camere e al voto anticipato già nel 2008. Berlusconi ritiene che il centrosinistra, più del centrodestra, sia pressato dalla scadenza referendaria, rispetto alla quale i partiti minori dell'Unione già minacciano crisi di governo. E lascia intendere che non esclude, in caso di difficoltà, dopo le elezioni, a trovare un assetto stabile di governo, di offrire il proprio appoggio a una grande coalizione, come quella di cui ha parlato di recente Gianni Letta, fondata sull'accordo tra i due partiti maggiori come in Germania, e destinata a portare a conclusione la stagione delle riforme.

Come protagonista della stagione inaugurata quattordici anni fa e come uomo-cardine di una transizione infinita (in fondo, sono quasi tre lustri che si ragiona in termini di "pro" e "contro" Berlusconi), il Cavaliere, ansioso di scrivere una pagina nuova, forse non ha calcolato bene gli effetti della riscoperta del regime dei partiti.

Lasciamo stare - ci saranno e si faranno sentire anche in un partito leaderistico e semirivoluzionario come Forza Italia - le ovvie resistenze delle strutture, il salto nel vuoto delle burocrazie locali, che si ritrovano un'altra volta di fronte al fatto compiuto. Ma come la mettiamo con le giunte? Nelle città e nelle regioni dove il centrodestra governa con l'appoggio degli alleati, non è pensabile che An, Udc e Lega restino indifferenti, con la prospettiva di ritrovarsi a breve con un nuovo e minaccioso concorrente che punti a svuotarli dei loro elettori.

La storia insegna, nel sistema proporzionale tutto si tiene, e ogni colpo al centro ha subito una ripercussione in periferia. Più in generale Berlusconi dovrebbe riflettere, e valutare, se sia possibile ancora per lui presentarsi come un uomo nuovo, l'uomo di un'altra stagione, senza rischiare di diventare presto, anche agli occhi dei suoi fan, un uomo per tutte le stagioni.


Prigionieri del fattore B
Pietro Spataro su
l'Unità

Quando la polvere della battaglia si sarà diradata vedremo cosa resterà della vecchia Casa delle Libertà e dei suoi inquilini. Per il momento vediamo una furibonda resa dei conti senza esclusione di colpi e con pericolosi appelli al popolo a far da giustiziere tra i contendenti. Cioè, niente di buono.
La spettacolare trovata di Berlusconi di ieri è l'ennesima prova che l'uomo ne sa una più del diavolo. Rimasto solo, messo sotto accusa dagli alleati (soprattutto Fini e Casini) ha giocato d'azzardo: è sceso in piazza e ha invocato la piazza contro gli ex compagni. È la prima volta che accade. Ma non c'è solo questo. Berlusconi brucia i tempi e rilancia il “Partito del popolo italiano” contro "i parrucconi della politica". È una mossa con cui tenta (abusando anche dei numeri: 7 milioni ai gazebo è pura invenzione) di riaffermare la sua leadership trattando Fini e Casini come sudditi: o ci state o vado avanti da solo. Il problema ora è capire che cosa sarà, se sarà, questo partito e quale disarticolazione provocherà nella destra.
La domenica del grande rilancio ha però, alla fine, un sapore un po' falsato. Perché sembra più che altro il tentativo disperato di un leader che non ha più fiato politico, che ha visto infrangersi le sue molteplici spallate contro il governo e non sa come muoversi di fronte all'offensiva riformista di Walter Veltroni. Però, attenzione: non è uno scherzo. È invece l'ennesima riproposizione del “fattore B” che destabilizza il sistema politico e fa restare il paese aggrappato al passato. Vedremo nei prossimi giorni se la sfida di Fini e Casini avrà questa volta solidità e continuità. Vedremo se la spavalderia di Berlusconi troverà alimento nel populismo. Vedremo insomma se l'Italia riuscirà o meno ad avere una destra che non sia più quella degli insulti e degli appelli alle piazze adoranti. È una partita che ci riguarda.


Telecom, la crisi dei poteri forti
Gad Lerner su
la Repubblica

Estenuante e bizantina, la lunga crisi di governo della Telecom dovrebbe concludersi la prossima settimana con la nomina del nuovo amministratore delegato, Franco Bernabè, e del nuovo presidente, Gabriele Galateri di Genola. Lo spettacolo offerto dai nuovi azionisti privati della nostra principale società di servizi – nel corso di oltre un mese di trattative – è stato tale da ricordarci le manovre più tortuose dei partiti della Prima repubblica.
E sarà bene ricordarlo quando i soliti paladini dell´establishment torneranno a rivendicare la loro presunta superiorità rispetto ai vizi della politica italiana.
Giunti del tutto impreparati all´appuntamento delle scelte per il rilancio di una strategia aziendale vincente – nonostante attendessero da oltre un semestre di subentrare alla vecchia gestione di Marco Tronchetti Provera – i soci della Telco hanno tergiversato lasciando trapelare quotidianamente indicazioni contraddittorie sugli organigrammi, bruciando candidature, avanzando veti reciproci. Dimostrando infine di essere impossibilitati a decidere senza l´orientamento di una sponda politica. Altro che libero mercato!
Del resto non è un segreto che in primavera furono necessarie le telefonate del ministro dell´Economia per dare forma a una cordata nazionale – Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Generali, Benetton – che fungesse da contrappeso agli spagnoli di Telefonica. Sempre più stupefatti e infastiditi, questi ultimi, da un gioco dell´oca in cui gli interessi di potere prevalevano sulla valorizzazione dell´investimento, e venivano mascherati da un richiamo ipocrita alla difesa dell´italianità di Telecom.
Le ultime caotiche settimane sono state rivelatrici della crisi in cui versano i nostri cosiddetti poteri forti, quasi avessero perduta la bussola del mercato e degli interessi nazionali. Fino al punto che per superare lo stallo sarebbe stata necessaria l´inusuale visita di Angelo Rovati, portavoce ufficioso della Presidenza del Consiglio, nella sede di Mediobanca. Dove lo ha ricevuto un Cesare Geronzi in attesa di conoscere se l´imminente definizione governativa dei nuovi requisiti di onorabilità necessari per guidare una banca consentiranno a lui – già condannato con una sentenza di primo grado, e inoltre rinviato a giudizio per il crack Parmalat – di conservare il suo incarico. A quanto pare, solo dopo il colloquio Rovati-Geronzi si sarebbe sbloccato il via libera a Franco Bernabè, nonostante le perplessità lasciate trapelare nei suoi confronti dal management di Mediobanca.

Non sono mancate, in questo delicato passaggio, un paio di interviste-messaggio di Giuliano Tavaroli, protagonista sotto processo dello scandaloso dossieraggio spionistico che ha disonorato la gestione precedente di Telecom. Venute puntualmente a ricordarci che l´azienda telefonica italiana resta un crocevia di potere non solo economico, essendo depositaria di relazioni delicatissime con la magistratura e i servizi di sicurezza, gestite a dir poco con colpevole opacità. La nostra azienda di telecomunicazioni resta una miniera di potenzialità industriali e tecnologiche.
Ad uno sguardo oggettivo risulterebbe impietoso qualsiasi paragone sull´andamento parallelo, nel corso degli ultimi cinque anni, dei risultati conseguiti dalla Telecom e dai suoi nuovi soci spagnoli di Telefonica. Ma il capitalismo italiano è abituato a mascherare i suoi insuccessi nella ragnatela dei patti di sindacato e dell´economia di relazione. Salotti buoni per lo più a sostenersi vicendevolmente nelle difficoltà finanziarie o giudiziarie.

Si può solo sperare, nell´interesse della Telecom e del paese, che alla fine la scelta sia caduta ugualmente sugli uomini giusti. Ma è la politica stessa che, se ne avesse la forza, lungi dal rallegrarsi per il fatto di essere rientrata nel gioco, dovrebbe avviare un´incisiva azione riformista ai vertici della piramide sociale: disincentivando l´intreccio delle partecipazioni e favorendo il ricambio nell´establishment.
La litigiosità esibita dai soliti protagonisti di troppe consorterie finanziarie, concessionarie, editoriali – sempre gli stessi, infine destinati a spalleggiarsi – è il contrario di una sana politica industriale.


Il mio diario spericolato
Carlo Rognoni su
l'Unità

"Voglio una vita spericolata... voglio una vita piena di guai". Mercoledì, in occasione del prossimo Consiglio di amministrazione della Rai, proporrò che la bella e tosta canzone di Vasco Rossi diventi l'inno ufficiale del settimo piano di viale Mazzini 14.
Dopo due anni e cinque mesi, per un totale di 900 giorni da consigliere, dopo che 100 di questi 900 giorni li ho passati fisicamente seduto intorno al lungo tavolo ovale della sala Orsello, sede del Consiglio, per più di 600 ore ininterrotte di discussioni, la sensazione di aver passato una parte importante della mia vita su un ottovolante è molto forte.
Salite lente e faticose, trainati da una cremagliera scricchiolante, si sono alternate a discese mozzafiato, a precipizio
Prima le nomine dei direttori di alcune testate giornalistiche (per esempio Riotta al Tg1 o Caprarica ai Gr) all'unanimità, poi il vuoto quando si è trattato di scegliere i responsabili delle reti (Minoli al posto di Marano, sì o no? E Del Noce resta a Raiuno?).
Prima tutti d'accordo sulla scelta del vice direttore generale (Leone). Poi i distinguo, le prese di distanza. Di sostituire alcuni dirigenti, con altri voluti dal direttore generale, non se ne parla! E la vita del consiglio è tornata in salita. Prima il ritorno in video di Michele Santoro e di Enzo Biagi, "vittime dell'editto bulgaro", poi le polemiche su singole trasmissioni: non solo AnnoZero ma anche Report della Gabanelli, oppure Che tempo che fa di Fabio Fazio. "C'è troppa faziosità". "Si fa fare a un comico l'opinionista oppure a un cronista giudiziario il comico". "Si rischiano troppe querele". "Non è da servizio pubblico". E ancora: "perché intervistare un politico in una trasmissione di intrattenimento?" Già, ma nessuno ha sentito parlare di "infotainment", del meticciato dei generi, del contaminare l'informazione con l'intrattenimento? Non è forse questa la tv moderna? E via disquisendo.
Diciamo la verità: a governare la Rai non c'è pericolo di annoiarsi. Se uno ha bisogno di continue scariche di adrenalina questo è il posto giusto.
Quando penso ai miei ex colleghi del Senato, impancati per ore e ore a votare schiacciando vuoi il tasto rosso (no), vuoi il tasto verde (sì), vuoi il giallo (astenuto), non soffro di invidia. Un po' di rabbia, però, sì. L'ho provata soprattutto quando ho ascoltato il dibattito sul servizio pubblico. Quanti luoghi comuni, giudizi strumentali, frasi fatte, informazioni parziali se non sbagliate! Un giorno intero della Camera Alta dedicato alla Rai. E per che cosa? Per approvare una risoluzione che diceva alla Rai di fare quello che la Rai aveva già deciso di fare: nessuna nomina nuova prima dell'approvazione del Piano industriale e del Piano editoriale.
Ebbene il Piano industriale è stato approvato. Già, ma dopo il reintegro - se ci sarà - del consigliere Petroni, bisognerà rivotarlo? Poi il piano editoriale, che è in dirittura di arrivo. È un piano coraggioso, innovativo, che può ridare slancio e credibilità alla Rai. Già, ma bisognerà aspettare che il consiglio di Stato si pronunci sul ricorso del Tesoro contro la decisione del Tar del Lazio per il reintegro di Petroni?
Intanto il tempo passa. E continua, si esaspera, si estremizza "il gioco del tiro al piccione" (un'immagine efficace inventata dal presidente Petruccioli). Dove la parte dei piccioni la facciamo noi consiglieri.

Il difetto sta nel manico. Sta in una legge demenziale che ha rimesso nelle mani dei partiti il destino dell'azienda. Si sa che Gasparri aveva un mandato chiaro e semplice: "salvare il soldato Fede", evitare che Retequattro finisse sul satellite. Si fosse accontentato! Oggi staremmo tutti molto meglio. No, ha voluto strafare: privatizzare la Rai (un progetto fallito che ha prodotto solo guai di bilancio), ridare al governo un potere che non aveva (nominare un consigliere... da qui "il caso Petroni").
E Berlusconi ci ha messo del suo: si è inventato un direttore generale "incompatibile" con il risultato di "dimezzare" le capacità gestionali del suo diretto concorrente. Alla faccia del conflitto di interessi! Con un secondo risultato: produrre un danno di 14 milioni di euro (la multa dell'Agcom) alle casse del servizio pubblico, e una richiesta di 50 milioni di euro di danni ai cinque consiglieri che erano stati indotti a votare quel direttore, da parte della Corte dei conti. Senza dimenticare che quei cinque devono anche vedersela con la giustizia penale, accusati come sono di favoreggiamento!

Ai miei occhi, due obiettivi ambiziosi giustificano la disponibilità a sopportare ancora per un po' il tormentone, la corsa sull'ottovolante.
Primo. La Rai non è un Luna Park e ha bisogno come del pane di un cambio di passo. Chi fa il mestiere del broadcaster sa di essere nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica. Il passaggio al digitale non solo cambia drasticamente la trasmissione dei segnali tv, ma interviene drammaticamente sui contenuti. C'è la necessità di non restare fermi. Se si pensa di vivere di rendita si è già con un piede nel baratro. Vanno cambiati sia pure gradualmente i palinsesti di tutte le reti, va rilanciata l'organizzazione per generi (intrattenimento, informazione, non solo fiction o cinema). Va affrontata con professionalità la sfida dei "new media". Il duopolio non è più solo. C'è Sky, c'è la tv a pagamento che avanza. Dopo due anni e mezzo in Rai per noi è il momento di tradurre questa consapevolezza in azioni. Citando De Gaulle che diceva che "la madre dei c... è sempre incinta" Enzo Biagi ci ricorderebbe che "liberarsi dei c..." è un progetto davvero ambizioso. Ma noi fin che siamo in viale Mazzini dobbiamo provarci. Chi non capisce che siamo nel bel mezzo di un cambiamento epocale, che cos'è se non un grandissimo c...?
Secondo. Se si vuole salvare il servizio pubblico, metterlo in condizione di affrontare lo scenario digitale, rifarne una tv moderna e credibile, nel cuore dei cittadini, anche dei più giovani, è assolutamente indispensabile cambiare la legge attuale che fissa le regole della governance. Personalmente credo di dover restare al mio posto anche per questo. Fin tanto che non ci sarà una nuova legge che stacchi la spina che collega in modo perverso la Rai ai partiti, devo continuare a testimoniare l'assurdità della legge attuale e continuare a testimoniare quanto sia necessario ormai cambiare le regole. So che al primo posto ci stanno le riforme istituzionali, e una nuova legge elettorale. Ma sarebbe miope non capire che un buon servizio pubblico, realmente pluralista e autonomo, è alla base di una democrazia più normale.



Kosovo, trionfa l'ex guerrigliero UCK
Sommario su
La Stampa

PRISTINA. L'ex capo della guerriglia separatista albanese, Hashim Thaci, che chiede l'indipendenza del Kosovo al più presto, ha proclamato oggi la vittoria del suo partito nelle elezioni politiche svoltesi ieri nella provincia serba a maggioranza albanese.

"Ringrazio tutti coloro che hanno contribuito alla nostra vittoria e alla vittoria del Kosovo", ha dichiarato Thaci, leader del partito democratico del Kosovo (PDK), nel corso di una riunione di aderenti alla sua formazione politica. Secondo l'Organizzazione non-governativa "Democrazia in Azione" - che svolge un'azione di sorveglianza sulla regolarità delle operazioni di voto nel Kosovo - il PDK DI Thaci ha ottenuto il 35 per cento dei voti, contro il 23 per cento ottenuti dalla Lega democratica del Kosovo (LDK), fondata dal presidente carismatico, Ibrahim Rugova,morto nel 2006.

Nel discorso ai suoi seguaci, Thaci, 39 anni, ha affermato: "Il tempo è cambiato stasera per il Kosovo. Una nuova era comincia. I cittadini del Kosovo hanno inviato al mondo il messaggio che è un paese democratico e pronto a ricongiungersi con la famiglia europea". La vittoria di Thaci è stata annunciata mentre Serbi e kosovari albanesi negoziano lo status definitivo del Kosovo, provincia serba, albanese per oltre il 90% dei suoi abitanti, ed amministrata dall'Onu dalla fine del conflitto del 1998-1999 tra le forze serbe e la guerriglia separatista.

Le due parti si incontreranno di nuovo dopodomani a Bruxelles, dopo tre incontri conclusisi con un nulla di fatto. I negoziati devono concludersi il 10 dicembre prossimo ed i kosovari hanno annunciato che, in caso di fallimento, proclameranno unilateralmente l'indipendenza. In seguito alle elezioni politiche di ieri, PDK e LDK formeranno probabilmente una coalizione e Thaci è il grande favorito per il posto di primo ministro. I circa 100.000 serbi rimasti in Kosovo dopo la guerra hanno disertato in massa le urne, aderendo ad un appello di Belgrado, che li aveva esortati a non votare.


MO, pace mai così vicina
Amos Oz sul
Corriere della Sera

La distanza fra israeliani e palestinesi sui temi nodali del conflitto è ancora grande. Per questo il vertice di Annapolis non sarà molto più di un evento ufficiale accompagnato, tutt'al più, da un proclama di speranza per il futuro. Su entrambi i fronti i partecipanti alla trattativa sono in larga misura ostaggi degli estremisti che impediscono loro di fare alcuna concessione significativa.
Eppure è bene ricordare che le posizioni di israeliani e palestinesi sono meno lontane oggi di quanto non lo siano mai state in questi ultimi cento anni di rabbia e di sofferenza. Entrambi accettano il principio di due Stati per due popoli e che il confine ricalchi pressappoco quello anteriore alla guerra dei sei giorni del 1967. Entrambi riconoscono l'obbligo di risolvere i nodi di Gerusalemme, degli insediamenti, dei profughi, dei confini, della sicurezza e del rifornimento idrico mediante una trattativa. Entrambi sanno — anche se non lo ammettono — che in fin dei conti l'accordo di pace sarà molto simile alla bozza Clinton-Taba-Ginevra e che se il negoziato dovesse fallire arriverebbe l'ora degli estremisti. E in effetti costoro attendono il fallimento, pregano che si arrivi a un vicolo cieco. E il tempo gioca a loro favore.
La responsabilità principale di un progresso nella trattativa pesa sulle spalle del governo e dell'opinione pubblica israeliani perché è Israele ad avere il controllo dei territori palestinesi, non il contrario. Se Ehud Olmert sceglierà di concedere ai falchi della sua coalizione (o sarà costretto a farlo) la facoltà di arrestare l'intero processo di pace, il risultato sarà che, di qui a breve, avremo Netanyahu al governo. Ma non solo. Anche da parte palestinese gli estremisti avranno il sopravvento sui moderati e anziché con Abu Mazen ci troveremo a fare in conti con un fronte bellicoso nel quale sarà l'Iran a tirare i fili. Il banco di prova della leadership di Olmert non sarà il suo talento a barcamenarsi tra Lieberman ed Eli Yishai (il capofila della destra estrema e quello dell'ortodossia sefardita all'interno del suo esecutivo, ndt) ma la sua determinazione a perseguire un cambiamento storico.
La destra radicale in Israele sostiene che Abu Mazen è troppo debole per concludere la pace. È la stessa destra che sosteneva che Arafat era troppo pericoloso per concludere la pace. La verità è che c'è un rapporto diretto tra l'indebolimento, o il rafforzamento, di Abu Mazen e i risultati del suo approccio moderato in un negoziato con Israele. Il presidente palestinese rimarrà debole fintanto che lo indeboliremo non concedendogli di ottenere risultati concreti.
Cosa succederà se l'attuale negoziato dovesse fallire? In quel caso la soluzione di due Stati per due popoli potrebbe sfumare per sempre e saremo costretti a scegliere tra due catastrofi di proporzioni storiche: un unico Stato (nel quale gli arabi saranno quasi la maggioranza) tra il Giordano e il mar Mediterraneo, o un governo di apartheid "all'israeliana" che perpetuerà gli insediamenti e opprimerà con la forza i palestinesi i quali, a loro volta, continueranno a ribellarsi all'occupazione.
Dobbiamo andare ad Annapolis e da lì proseguire, consapevoli che i due popoli già sanno, più o meno, quale sarà l'accordo finale: uno Stato palestinese entro i confini del 1967 a fianco di quello ebraico, con alcune modifiche di confine, senza il ritorno dei profughi in Israele e Gerusalemme capitale dei due Stati.



  20 novembre 2007