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sulla stampa
a cura di G.C. - 9 novembre 2007


Conflitto d'interessi, la legge Enzo Biagi
Sommario de
l'Unità

Ai funerali del giornalista Prodi e Gentiloni dicono: è vitale per la democrazia.
La figlia Bice: solo gli smemorati negano l'editto. Il cardinale Tonini: l'hanno ucciso.
"Dobbiamo onorare l'esempio di Enzo Biagi anche attraverso le iniziative legislative" sulla tv e sul conflitto d'interessi: è l'impegno del ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni ai funerali del giornalista a Pianaccio, in provincia di Bologna. "Il conflitto d'interessi - è il commento di Romano Prodi - è un rischio che c'è sempre nella democrazia, in Italia forse più di quello che ci dovrebbe essere".
Nel nome di Enzo Biagi, dunque, si riparte. O meglio, si prova a ripartire, considerate le grandi difficoltà che esistono nella stessa maggioranza. Ma almeno il tema torna nell'agenda di governo. "Le iniziative sono in campo - afferma ancora Gentiloni - e spero che dopo la Finanziaria vadano in porto".
All'ultimo saluto a Pianaccio ha partecipato una grande folla. La salma del partigiano Biagi è stata accompagnata dal canto "Bella Ciao". L'omelia è stata celebrata dal cardinale Tonini, che più tardi, durante AnnoZero, dirà: "Quell'uomo l'hanno ucciso, cacciarlo dalla Rai è stata una malefatta indegna degli esseri umani". Torna in primo piano l'editto bulgaro, smentito da Berlusconi in questi giorni. "L'editto c'è stato - è la replica della figlia di Biagi, Bice - papà ne ha sofferto. Chi lo nega soffre di amnesia...".


Il capitalismo delle bische
Marcello De Cecco su
la Repubblica

Sembrava un incubo, il petrolio a cento dollari, ed è già divenuto realtà. La velocità dell´ascesa del prezzo, oltre al livello raggiunto, dimostra senza ombra di dubbio che è in atto sui contratti a termine di fornitura una manovra speculativa gigantesca.
Non ci sono e non ci sono stati infatti improvvisi salti di domanda per nessuno dei derivati del petrolio tanto corposi e immediati da giustificare la velocità del rincaro. Ci sono molti fattori che giustificano una ascesa, ma di assai più moderate proporzioni. Ci sono problemi di offerta nel Mare del Nord, basso livello delle scorte di benzina e gasolio negli Stati Uniti, alla vigilia della stagione invernale, qualche difficoltà residua con i rifornimenti nel golfo del Messico. Ma nessuno grave abbastanza da dare un alibi sufficiente ad una manovra di rialzo basata su motivi reali di breve periodo.
L´antica canzone della strepitosa domanda di petrolio da parte dei paesi emergenti è stata cantata di nuovo. Ma funziona, se funziona, a medio termine. La scarsità di capacità di raffinazione negli Stati Uniti non poteva mancare di essere ancora tirata fuori. Ma nemmeno lei ce la fa a sopportare il peso del rialzo.
È dunque il caso, assai più che in occasioni precedenti, di credere all´Opec, che indica nella speculazione finanziaria la matrice del rialzo. Pare ci abbia già creduto il governo indiano, che ha deciso di proibire i contratti sul petrolio nelle borse merci di quel paese.
Dopo la debacle di agosto-settembre, gli hedge fund e gli altri scommettitori del "capitalismo delle bische" si sono alacremente messi all´opera per rifarsi delle perdite subite a causa dei "sub prime loan" americani. Hanno riversato enormi fondi sui mercati azionari dei paesi emergenti, che hanno conosciuto negli ultimi tre mesi rialzi clamorosi (citiamo solo l´indice brasiliano, il Bovespa, o quello messicano, ma il fenomeno è assai ampio). Hanno aggredito il mercato dell´oro e delle materie prime. Hanno dedicato fondi immensi a scommettere sul ribasso del dollaro e sul rialzo dell´euro.
Gli hedge fund sono ormai migliaia. Sono nati per ideare e svolgere strategie di investimento contro corrente rispetto ai più tradizionali fondi di investimento, usando mercati meno tradizionali di quelli in cui investono i fondi di investimento e tecniche molto rischiose, spesso basate su modelli matematici raffinati. Il loro successo li ha portati a essere imitati e si sono in qualche misura "democratizzati", accettando anche investimenti di quantità relativamente moderate di danaro, mentre all´inizio coinvolgevano solo i grandi ricchi. Tutto questo ha determinato la difficoltà crescente di trovare occasioni di arbitraggio e quindi di guadagno molto cospicua: in altre parole, si sono ritrovati a essere sempre più cani appresso ai soliti ossi.
Alla luce di tutte queste ragioni, l´invasione di campo da loro fatta sui mercati dei prodotti petroliferi non può sorprendere. Il momento è adatto. Il dollaro è diretto a Sud e l´euro a Nord a causa delle opposte politiche monetarie delle rispettive banche centrali. Dai primi anni settanta esiste una influenza diretta del valore relativo del dollaro sui prezzi del petrolio, che sono quotati in dollari. Dollaro in discesa significa dunque, dal 1971, petrolio in risalita. In aggiunta, i comportamenti della banca centrale europea hanno mostrato chiaramente che essa non vuole fare da "spalla" alla speculazione, difendendo una parità qualsiasi, sapendola destinata a crollare data la potenza di fuoco degli operatori finanziari.
Così, poiché i prezzi di petrolio e materie prime non interessano solo gli speculatori, ma entrano nella lista della spesa di quasi tutti i consumatori, sotto forma di aumenti del costo dei trasporti, del riscaldamento, ma anche del pane e della pasta, si vede che la separazione tra economia e finanza è impossibile.
Quelli che manovrano i loro poderosi computer in uffici situati nei palazzi di vetro-cemento e acciaio delle principali piazze finanziarie non sono più personaggi remoti. Il grande pubblico occidentale si accorge a un tratto della loro esistenza, e non si diverte al pensiero che a causa loro dovranno sentire un po´ più freddo o fare un po´ meno chilometri con le loro auto o spendere di più per pane e pasta.

Questo non significa assolvere l´Opec, che era e resta un cartello per tenere alti i prezzi del petrolio, significa solo chiarire anche le responsabilità di chi di solito non viene chiamato in causa.


Con il supereuro l'America siamo noi
Fabio Pozzo su
La Stampa

Il mito dell'economia a stelle e strisce s'infrange sotto una pila di sporte di plastica e sacchetti di carta. Lo shopping, più che la politica, ha ribaltato il mondo. L'Americano, quello di Carosone, quello del negozio di Manhattan che ci guardava dall'alto in basso e ci chiamava "eurotrash ", non c'è più. Puff! Tramontato. Adesso, tutto è cambiato: l'America, gli Americani siamo noi. Inutile dire perché. E' l'euro, bellezza. Anzi, il super-euro. Ieri il cambio ha toccato quota 1,468. Il che, agevola di gran lunga il conto se si decide di utilizzare il portafogli "pesante" proprio negli Stati Uniti, nuovo paese del Bengodi, almeno per noi europei (non solo dell'area euro: ieri il biglietto verde è affondato anche davanti alla sterlina e al franco svizzero).

Sulla Quinta a NewYork
Vuoi un IPod? Modello classic da 80 giga? Okey, a New York nell'Aple Store sulla Quinta si paga 249 dollari, in Italia 249 euro. Attenzione, negli Usa ci sono anche le tasse, una sorta di Iva, che variano da stato a stato: a Manhattan bisogna aggiungere l'8,37%, nel New Jersey circa la metà. Dunque, se l'Ipod sulla Quinta costa 249 dollari, il prezzo totale sale a 269,8 dollari, che al cambio di ieri fanno 183,7 euro. Contro i 249 dell'Italia. Passiamo all'abbigliamento. Un classico degli italiani, a New York? Entrare da Brooks Brothers, quello delle camicie button-down. Il modello normale, da uomo, si paga 79,50 dollari (54 euro). Ma volendo, se ne possono prendere tre al prezzo di 199, sempre dollari. In Italia, centro di Torino, costano 98 euro l'una. Dunque, un risparmio di 44 euro a pezzo.

Vale la pena, allora, andare a vedere quanto (ci) costa anche una scarpa da barca, la "docksides" della Sebago: il modello da uomo si paga 80 dollari negli States (54,5 euro), 140 euro a Genova, nel negozio più in di Albaro.

Da McDonald's
Vuoi non prendere un Big Mac a New York? Qui le cose si complicano un poco, perché ogni McDonald's, nella Grande Mela, è libero d'imporre il suo prezzo per il prodotto simbolo del fast food. Cambia da quartiere a quartiere. Quello medio è di 3,49 dollari più 0,29 cent di tasse, vale a dire 3,78 dollari. Se ti sposti però ad esempio nel Bronx, in certe giornate scatta la promozione a un dollaro più tax. Lasciamo perdere, restiamo al prezzo di listino: in euro fa 2,57. A Torino, in piazza Castello, 3,30 euro. Il discorso non cambia col "menù" panino+coca+patatine, formula che in America si chiama "combo": 5,80 euro quello medio in Italia, 6,59 dollari più tax quello proposto a New York, e cioè 4,80 euro.

Il mattone
Fin qui, la spesa del consumatore medio. Ci sarebbe anche da valutare, però, con il supereuro, il mercato immobiliare. A New York, ad esempio, i prezzi sono più bassi che a Tokio e Londra e l'investimento tiene ancora rispetto alle altre città americane (a Manhattan il prezzo del mattone, nonostante gli analisti prevedano un calo, finora è salito in media del 16%). La conferma la si ha dalle percentuali di europei che ci credono: il 20% delle transazioni era loro, lo scorso agosto, adesso siamo saliti al 37%. I prezzi? Scegliendo la formula "condo", più facile da affittare o rivendere, si va dai 450 mila dollari (306.539 euro) di un monolocale di 40 mq con portineria al milione 350 mila dollari (919.618 euro) di un 130 mq, nell'Upper East Side.

L'hotel
E se ci si stanca di New York e si volesse fare un salto a Miami, per svernare qualche giorno? Ieri una camera doppia al South Beach Hotel, quattro stelle, in pieno quartiere Art Decò, era offerta on line (Venere.it) a 120 dollari, cioé 81,7 euro. Come dire, fare i signori con poco.



Una mossa a sorpresa
Il Palio e il Santo assieme
Francesco Manacorda su
La Stampa

Una mossa a sorpresa, un blitz che nessuno si aspettava - a Siena così come a Padova, la città del Santo - dà l'ultima e decisiva spinta al sistema bancario italiano nell'età adulta.

Con l'operazione Mps-Antonveneta nasce il terzo grande polo del credito e quel complicato puzzle partito appena quindici mesi fa con la fusione Sanpaolo-Intesa e proseguito con Unicredit-Capitalia e altre due operazioni di minore entità (Banco Popolare e Ubi Banca) mette a posto tutti i suoi pezzi più importanti. L'esame di maturità è superato: ora resta da sistemare solo una parte del mondo delle Popolari.

Ma attenzione. Questo non significa che il cosiddetto "risiko bancario" sia finito. Quello che ormai si gioca non è più un campionato nazionale ma un torneo europeo che non finirà tanto presto.

Per capirlo basta seguire proprio il percorso dell'Antonveneta, una sorta di sismografo finanziario e politico i cui movimenti in questi anni hanno segnalato scosse ben lontane dal Nord Est italiano e sempre più estese.

È sulla conquista della banca padovana che si infrangono due anni fa i sogni di gloria di Gianpiero Fiorani e degli altri "furbetti" riuniti in quella Popolare di Lodi che assume il nome di "italiana" proprio per rivendicare un copyright nazionalistico. È sull'Antonveneta che crolla la tutela iperprotettiva - l'equivalente della maglia di lana imposta ai bambini dai genitori ansiosi - del governatore Antonio Fazio, convinto che il sistema non sia mai pronto ad aprire le frontiere.

Ma sull'Antonveneta inciampa alla fine anche Rijckman Groenink, prima trionfatore con l'Abn Amro su quell'Italia che se ne infischia delle regole e poi vittima delle regole della finanza globale con l'assalto concertato di Royal Bank of Scotland, Fortis e Santander alla sua banca accusata tra l'altro di aver pagato troppo la provincia italiana dell'impero. Ed è sempre e ancora sull'Antonveneta che gli spagnoli del Santander mostrano adesso sano realismo, finanziando grazie alla vendita la conquista di Abn.

Proprio il passaggio della banca dagli spagnoli ai senesi potrebbe essere frettolosamente archiviato come una rivincita di quell'italianità prima esaltata e poi bistrattata. Un'ingloriosa - anche se ben pagata - ritirata degli occupanti iberici dagli sportelli tricolori. Ma non è così: a sollecitare la mossa al rilancio di Mps è stata infatti anche un'offerta di Bnp Paribas, che voleva aggiungere la banca padovana alla Bnl che già possiede. Ha vinto il mercato, non un malinteso senso di appartenenza nazionale.

Dunque la lezione è che quello che avviene ad Amsterdam o a Bilbao ha ormai effetti diretti a Padova o a Siena. La novità, invece, è che l'Italia - anche senza la maglia di lana - si dimostra questa volta pronta ad affrontare fenomeni globali. Se il sistema vuole crescere dovrà essere sempre di più così: aperto al confronto e al mercato.

Ad aiutare questa apertura può contribuire anche il fatto che alla distanza si va infrangendo il mito della Penisola come terra promessa per il credito di mezzo mondo e simmetricamente scende quel timore dei barbari bancari alle porte che ha innescato tante reazioni di arrocco. Il nostro mercato retail fa gola a molti, ma proprio Antonveneta con la non eccelsa gestione olandese dimostra che non basta comprare mille sportelli per fare fortuna. Sia perché i mercati non si colonizzano in un lampo, sia perché adesso l'Italia è anche patria di alcune iniziative - prima fra tutte la legge Bersani - che rendono il terreno meno favorevole di un tempo.

Questa, che suona come una cattiva notizia per i banchieri, appare invece un'ottima notizia per i loro clienti. Quei clienti che - lo ha ricordato dieci giorni fa il governatore Mario Draghi alla Giornata del Risparmio - pagano ancora molto cari i conti correnti e non ricevono troppe attenzioni dal mondo del credito. E se le banche che si dimostrano oggi così mature sullo scenario internazionale non lo saranno altrettanto nei loro confronti, toccherà proprio ai clienti usare quella che Draghi chiama la "consapevolezza" per spingerle a comportamenti più concorrenziali.


La scommessa del Cavaliere diventa azzardo
Massimo Franco sul
Corriere della Sera

L'Unione si fa coraggio e ironizza sul Cavaliere. Ritiene di vedere un Silvio Berlusconi alle corde, smentito nelle sue previsioni di crisi di governo; perfino sull'orlo di una crisi di leadership con gli alleati. Eppure, se Romano Prodi può sperare di attraversare indenne le votazioni al Senato, lo deve proprio alla paura che il capo dell'opposizione incute al centrosinistra. È un timore non del tutto smaltito. Quando Berlusconi invita ad aspettare le prossime votazioni, e annusa aria di elezioni, alimenta l'attesa di un'"implosione " dell'Unione. Ma poi nega "la spallata, termine che non mi appartiene". Smentisce di avere esercitato pressioni sul Quirinale per ottenere lo scioglimento delle Camere.
E allora si fa strada il sospetto che speri di portare a casa la testa di Romano Prodi; ma anche che non ne sia sicuro: non subito, almeno. Le battute spiritose e quelle grevi distribuite ieri dal Cavaliere in Parlamento e in privato lo fanno apparire in forma. Tendono a perpetuare la sua immagine di ottimista. Vogliono smentire le voci di un improbabile "passo indietro ". Eppure non riescono a cancellare il dubbio di un azzardo politico che prodiani come il sottosegretario Enrico Letta bollano come "un boomerang ". Puntare sulla caduta del Professore durante la Finanziaria può rivelarsi una scommessa vincente. Ma è inutile negare che pochi, ormai, ci credono. Colpisce che Sandro Bondi, l'esegeta più ortodosso del berlusconismo, definisca "atto dovuto" la raccolta di cinque milioni di firme in vista della manifestazione del 18 novembre. Nelle intenzioni, quell'appuntamento dovrebbe essere la celebrazione dell'agonia del governo; e la maggiore arma di pressione su Giorgio Napolitano per indurlo a sciogliere le Camere. Se la maggioranza si sfalderà irrimediabilmente, in effetti sarà questo. Ma in caso contrario potrebbe diventare una prova muscolare fine a se stessa, senza conseguenze politiche: una sorta di girotondo dell'opposizione, costretta a prendere atto che Prodi per ora rimane a palazzo Chigi.
Per la Cdl, significherebbe ripensare le proprie strategie. E chiedersi se Berlusconi sia ancora un condottiero da seguire a occhi chiusi; o invece un leader che oggi non ha né strumenti né idee troppo chiare su come tradurre politicamente i consensi di cui gode nel Paese. È possibile che simili dubbi vengano spazzati via da un suicidio dell'Unione al Senato. Il modo in cui parlano i capi dei partiti del centrosinistra, però, mostra una crescente sicurezza: per quanto possa rivelarsi pericolosa. E, sul fronte opposto, fa riflettere la tendenza a glissare sulla crisi. Nel centrodestra si discute di una federazione dei partiti legati al Ppe. Si dice no al decreto sulla sicurezza. E si lanciano altolà sulla riforma elettorale.

Il Professore ed il Cavaliere sono leader speculari. La sopravvivenza dell'uno, dunque, può comportare quella dell'altro e non la sua fine; e rinviare all'inizio del 2008, o perfino più in là, la discontinuità che il Pd ha annunciato di voler marcare, e gli alleati berlusconiani con la "sindrome del delfino" sognano silenziosamente. È il solito paradosso. Eppure, se non accadrà nulla, vorrà dire che i due schieramenti ne sono prigionieri.


Veltroni: "La Cdl pensa alla spallata, noi al Paese"
Redazione del
Corriere della Sera

ROMA - Prima tappa: "trovare una compattezza e una convergenza nella maggioranza". Seconda tappa: "lavorare verso la ricerca del dialogo con il centrodestra". Al termine del vertice a Palazzo Madama, Walter Veltroni traccia il cammino del Partito Democratico verso le riforme istituzionale ed elettorale. "Noi da mesi stiamo discutendo e siamo al lavoro per un'ipotesi il cui obiettivo è trovare la compattezza e la convergenza della maggioranza - ha spiegato il segretario del Pd - e poi offrire il dialogo alle altre forze, anche se ho visto che al momento il dialogo non è particolarmente apprezzato". Secondo il sindaco di Roma, "la Cdl pensa alla spallata mentre noi pensiamo al bene del Paese". "In questo momento vedo che questo spirito non è molto apprezzato, ma l'offerta di dialogo - prosegue Veltroni - non si fa in ragione del grado di disponibilità degli altri. Lo si fa pensando al Paese e noi continuiamo a dichiarare e a sostenere che serve un confronto tra le varie forze politiche per affrontare la questione istituzionale ed elettorale".

SICUREZZA - Veltroni non ha ovviamente tralasciato il tema sicurezza. "In questa vicenda non tutti stanno dimostrando il meglio di se stessi, stanno riaffiorando dal passato in molte forze politiche sentimenti, parole, comportamenti che rischiano di fare molto male al Paese". Secondo Veltroni sarebbe "meglio" prima "garantire una compattezza nella maggioranza per l'approvazione del decreto e poi una disponibilità al dialogo con le altre forze politiche". Ma "in un contesto di responsabilità - spiega - in cui ciascuno deve dire non demagogicamente, ma realisticamente, ciò che è possibile fare per fronteggiare un problema che hanno tutti i paesi europei". Per il segretario del Pd, sarebbe bene se il decreto sulla sicurezza ricevesse un consenso più ampio di quello della sola maggioranza. Veltroni ricorda, parlando in qualità di primo cittadino della Capitale, che "tutti i sindaci avevano chiesto che queste misure fossero approvate come decreto, poi il Cdm valutò di varare un pacchetto" ma in seguito all'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, "non solo un episodio di cronaca perché evidentemente ha sconvolto l'opinione pubblica, il Governo ha fatto bene a cogliere questi sentimenti" e a varare il decreto.

BERLUSCONI - Mentre parlava Veltroni, sono arrivate anche le dichiarazioni di Silvio Berlusconi. Sempre in tema di riforme, il leader di Forza Italia è tornato a bocciare una legge elettorale in senso tedesco. "Il sistema non va cambiato, non c'è spazio, perché introdurre il sistema tedesco sarebbe un regalo a Veltroni" ha detto l'ex premier secondo quanto riferito da diversi partecipanti ad un incontro che il Cavaliere ha avuto con i deputati 'azzurri' alla Camera dei Deputati. "Noi - ha spiegato l'ex premier - con l'introduzione di questo sistema avremmo problemi con Alleanza Nazionale", mentre al contrario Veltroni avrebbe la possibilità di "cercare alleanze, anche nel centrodestra, per mera convenienza elettorale". Il leader di Forza Italia ha poi ribadito che, in base ai sondaggi, anche con l'attuale sistema di voto la governabilità sarebbe garantita: il centrodestra, ha spiegato, avrebbe una ottantina di deputati e una quarantina di senatori in più.



Meno agenti sulle strade d´Italia
Vincenzo Borgomeo su
la Repubblica

ROMA - Sorpresa: il tanto sbandierato potenziamento dei controlli su strada, elemento cardine del nuovo decreto legge sulla sicurezza stradale, è rimasto sulla carta. Almeno per ora. Stanno infatti per essere chiusi 43 distaccamenti della polizia stradale (in totale sono 200) e per 15 la decisione è già stata presa. Manca solo di conoscere i nomi delle zone interessate ma oggi sapremo quali di questi importanti presidi saranno cancellati.
Il "distaccamento" è un ufficio periferico molto importante per gli interventi su strada, ma al ministero dell´Interno sostengono che la scelta è inevitabile per razionalizzare le energie e accorpare i reparti. In realtà si tratta di un forte ridimensionamento dell´operatività degli agenti perché nel cosiddetto "accorpamento" dovrà essere accontentato il personale. In pratica solo alcuni agenti verranno riposizionati su altri reparti della Stradale: chi andrà nel commissariato della stessa cittadina, chi nella più vicina questura. Insomma, in strada ci saranno meno agenti.
Una decisione che va ad incidere su una situazione già difficile. Dei 200 distaccamenti, infatti, circa la metà sono già stati chiusi dalle 20 alle 8 del mattino. Senza dimenticare poi i problemi di organico della stessa polizia stradale: un decreto ministeriale del 1989 lo fissava in 13.500 fra funzionari e agenti. Ma ancora oggi sono circa mille in meno.
Nel 1960 in Italia, quando circolavano meno di due milioni di auto, c´erano 8.321 uomini in forza alla stradale, che effettuavano 545.424 pattuglie in un anno. Oggi, con 33 milioni e mezzo di auto, la stradale ha pochi uomini in più ma riesce a mettere in piedi solo 513.016 pattuglie di cui 226.359 in autostrada (44%). Ecco il motivo per cui i 6.400 km di autostrade e gli oltre 30mila km di statali e strade principali sono praticamente sguarnite da controlli di ogni tipo.
Certo, è vero che non esiste solo la polizia e che anche altre forze pattugliano le strade. Ma più che un vantaggio questo finisce per essere un altro problema perché ancora oggi manca un reale coordinamento delle pattuglie: non c´è una sala operativa comune e spesso si verificano sovrapposizioni su alcune strade e totali vuoti di vigilanza in altre.
Durissima la presa di posizione dell´Asaps, associazione amici della polizia stradale: "Si vanno a chiudere dei distaccamenti che, notoriamente, hanno competenze proprio sulle statali e provinciali, vale a dire il segmento a più alto tasso di "sinistrosità" (la media in Italia è di 2,4 incidenti mortali ogni 100 rilevati. Sulle statali e provinciali questa media tocca quota 6,3%). Così - commenta amaramente il presidente Giordano Biserni - aumenteranno solo le lenzuola bianche stese sull´asfalto".



Stazzema, confermati gli ergastoli agli Ss
Valeria Giglioli su
Unità

La giustizia per Sant'Anna di Stazzema è arrivata ieri, intorno a mezzogiorno. Con la voce dei giudici della prima sezione penale di Cassazione, che dopo due ore di camera di consiglio hanno confermato l'ergastolo a tre ufficiali SS, responsabili dell'eccidio che il 12 agosto 1944 costò la vita a 564 civili inermi. Il collegio della suprema corte ha considerato infondati i ricorsi degli imputati contro la sentenza del Tribunale di La Spezia, poi confermata in appello, condannandoli al rimborso delle spese processuali e al risarcimento di 4mila euro alle parti civili. E ha bocciato la tesi del procuratore militare Vittorio Garino, che martedì, suscitando reazioni indignate, aveva chiesto un nuovo processo di appello. Per il pg mancavano le prove sulla presenza a Sant'Anna degli ormai ultraottantenni Gerhard Sommer, Georg Rauch e Karl Gropler, oggi residenti in Germania. E secondo Garino i testimoni, soldati semplici SS, avrebbero dovuto essere considerati co-indagati.
Si chiude così, con dieci ergastoli per i responsabili (per gli altri 7 imputati la condanna era già diventata definitiva) e con una sentenza che sigilla una verità attesa per più di mezzo secolo, il calvario dei superstiti e dei familiari delle vittime. Molti di loro avevano testimoniato già davanti agli alleati e nei processi del dopoguerra, poi arenatisi con i fascicoli chiusi nell'Armadio della Vergogna. Ieri le prime telefonate sono state proprio per quelli che sono rimasti ad aspettare a casa. Milena Bernabò, 78 anni, medaglia d'oro, è contenta: "Dopo 60 anni senza giustizia, con i colpevoli che hanno passato la vita come volevano, è importante". "Sono contentissima. Ma è troppo tardi" dice invece Cesira Pardini, 81 anni, sopravvissuta al massacro portando in salvo 5 ragazzini: "Quei tre li vorrei vedere in faccia. Cosa gli avevamo fatto? Cosa gli aveva fatto la mia sorellina di 20 giorni?". A Roma c'era Mauro Pieri, cui la ferocia delle SS ha falciato la famiglia e 41 parenti: "Ora è finita, ci hanno finalmente reso giustizia". Accanto a lui il sindaco di Stazzema Michele Silicani, che nel pomeriggio ha scritto al presidente Napolitano: "Provo una gioia profonda per la mia gente - dice, la voce rotta dall'emozione - abbiamo vinto. Finalmente la Storia può essere consegnata ai giovani".

A questo punto c'è ottimismo anche per le prospettive degli altri processi: "Non posso nascondere - dice il pm Marco De Paolis - la mia soddisfazione. Il primo pensiero va ai familiari delle vittime e ai sopravvissuti". E, se la decisione di ieri aiuta il cammino dei processi in corso nei prossimi mesi la procura spezzina potrebbe incardinare nuovi procedimenti, tra cui quelli per le stragi di Vinca e San Terenzo (340 vittime) in provincia di Massa.


  9 novembre 2007