prima pagina pagina precedente



sulla stampa
a cura di Fr.I. - 22 giugno 2007


La storia che non passa
Franco Venturini sul
Corriere della Sera

Riuniti a Bruxelles per misurare le loro ambizioni future, gli europei si scoprono prigionieri di una Storia che non passa. La Polonia chiama Angela Merkel a pagare i conti arretrati di Hitler, la Gran Bretagna rivendica una sovranità che nessuno sul Continente ha mai intaccato, e l'Unione di oggi, così, rischia di finire stritolata in una tenaglia figlia dei secoli.
I gemelli Kaczynski non vogliono che le nuove procedure decisionali riducano il «potere di blocco» della Polonia. Pretesa questa assolutamente comprensibile. Ma quali argomentazioni vengono utilizzate da Varsavia a sostegno della propria tesi? Se la Germania nazista non avesse provocato la seconda guerra mondiale i polacchi sarebbero oggi sessantasei milioni invece di trentotto, dunque non è giusto applicare un sistema di voto legato alla popolazione degli Stati e premiare le stragi causate dai tedeschi. Non basta. Le partizioni della Polonia nell'Ottocento e nel Novecento legittimano un «credito » di Varsavia verso i suoi vicini. Orbene, come dovrebbero sentirsi i polacchi quando Berlino e Mosca costruiscono insieme un gasdotto che passa sotto il Baltico e taglia fuori il territorio nazionale? Non c'è l'ombra di Ribbentrop e di Molotov, dietro quel gasdotto che anche la signora Merkel ha approvato?
Non stupisce, partendo da simili premesse, che alla vigilia del vertice Jaroslaw Kaczynski abbia evocato la necessità di vincere o morire. A Bruxelles le sue armi sono assai più efficaci di quelle usate nel '39 dalla cavalleria polacca contro i carri armati del Reich, e gli altri partecipanti al vertice, che ne sono ben consapevoli, si sono dati come primo traguardo quello di evitare il veto di Varsavia sull'intero pacchetto di riforme istituzionali.
Non sarà facile. I Kaczynski incarnano quel nazionalismo polacco anti-russo e anti- tedesco che nella storia recente si è affidato a Giovanni Paolo II e a Ronald Reagan ben più che all'Europa. I gemelli venerano la memoria del padre che partecipò all'insurrezione di Varsavia nelle file dell'anticomunista Armia Krajowa, per loro come per moltissimi polacchi i decenni della dominazione sovietica si saldano alle colpe occidentali attraverso gli accordi di Yalta, e nessuno può dimenticare che la spartizione della patria tra Hitler e Stalin è avvenuta meno di settant'anni fa.

Con garbo, Berlino ha ricordato che la Polonia deve molto a Brandt, a Kohl e anche a Schroeder. A voce un po' più alta è stato fatto presente che silurare le riforme europee potrebbe avere per Varsavia un costo non indifferente quando si discuterà del prossimo bilancio della Ue. Ma i polacchi adorano sentirsi soli contro il mondo, e spetterà soltanto a loro la scelta da compiere. Con una triste constatazione che riguarda la cultura politica del più grande tra i nuovi soci dell'Unione: l'Europa è nata per superare le guerre, non per resuscitarle. Cosa accadrebbe se francesi e tedeschi ragionassero come i polacchi? E se a Varsavia venisse rinfacciata l'invasione di Praga del '68 cui i polacchi parteciparono?
A occidente l'Europa è insidiata da un'altra Storia. La perdita dell'impero ma non dell'orgoglio imperiale, il declino delle nazioni europee dopo la prima guerra mondiale, l'ascesa dell'anglofona e anglofila superpotenza americana, hanno esaltato l'insularità britannica e la sua ambizione (mai realizzata) di diventare il «ponte» tra le due rive dell'Atlantico. Quando lo ha ritenuto opportuno Londra ha deciso di mettere un piede in Europa e per questo ha dovuto vedersela con de Gaulle, ma l'Europa degli inglesi non è mai stata simile a quella franco-tedesca o a quella italiana o a quella spagnola. Oggi Tony Blair, al suo ultimo vertice e secondo Sarkozy paradossale candidato alla futura presidenza dell'Unione, si oppone al valore vincolante della Carta dei diritti, si oppone alle competenze di un ministro degli Esteri europeo degno di questo nome, si oppone a regole comuni in materia di giustizia e di polizia, e soprattutto si oppone all'estensione del voto a maggioranza con conseguente riduzione delle materie che vanno decise all'unanimità.

Storie diverse, quelle di Polonia e Gran Bretagna, ma entrambe capaci di bloccare la storia dell'Europa. Almeno dell'Europa a ventisette.


Le colpe della sinistra sulla «fine» di Israele
UN SAGGIO di Furio Colombo lancia l'allarme: minacciato e solo, lo stato ebraico rischia di essere cancellato. Colpa della «mancanza» di memoria storica e dell'averlo «consegnato» nelle mani della destra e a un destino di guerra
Furio Colombo su
l'Unità

Ero a Pesaro, alla Festa Nazionale de l'Unità, il 16 settembre 2006, un giorno di tempesta ma anche di folla, la folla di quei militanti di sinistra, persone anziane e giovani, famiglie intere con i bambini, uomini e donne che ricordano ancora la Resistenza come un pezzo della loro vita, uomini e donne che non hanno mai veramente separato il loro impegno morale sui diritti umani da quello sindacale in difesa del lavoro, da quello politico in difesa della democrazia. Eccoli, sono in tanti nonostante la pioggia violenta. Occupano - seduti e in piedi - tutti gli spazi del tendone «La Libreria» dove, accanto ai tradizionali dibattiti politici che avvengono nel tendone più grande - quello da mille posti - si parla di libri.
Quando entro, completamente inzuppato di pioggia, l'applauso è grande, affettuoso, lungo, come accade a volte nelle feste dell'Unità, in cui molti vogliono ancora dire il loro grazie e il loro sostegno al giornale ritrovato.
Quando, due ore dopo, il dibattito è finito, gli applausi sono gentili e brevi, ma anche un po' imbarazzati. Un uomo della mia età mi abbraccia e dice: «Ti voglio bene per quello che hai fatto a l'Unità. Ma non sono d'accordo neanche con una parola di quello che hai detto». Le dediche e le firme richieste sono poche, nessuna sul libro che ho presentato.

Questa volta il libro era La sinistra e Israele, atti di un seminario a sostegno di Israele che ha avuto luogo un anno fa. Qualcuno fra il pubblico ha notato un fatto curioso, e me lo sussurra nel breve «dopo dibattito», mentre il temporale, fuori, continua furioso. Guardando i nomi nella copertina del libro, nota che «per trovare quelli che sostengono Israele a sinistra, bisogna andare molto a destra della sinistra. Tu li disorienti perché arrivi così a sinistra nella tua intransigenza contro Berlusconi, contro la destra postfascista, la Lega e il “regime”. E poi sei il più accalorato a sostenere Israele. Come si spiega?».
Si spiega con il proposito di quell'intervento a Pesaro e di queste pagine. Israele appartiene al mondo e ai valori della sinistra. Senza il sostegno della sinistra del mondo Israele muore. Questa frase non piace e sarebbe accolta con sprezzo dalla destra israeliana. Ma anche in Italia, anche a Roma, ricordo una sera d'estate - il 17 luglio di quello stesso anno - in cui in tanti, ebrei e non ebrei, ci siamo raccolti davanti alla sinagoga di Roma, ci siamo arrampicati su una pedana e abbiamo espresso sdegno e tormento per le parole di Ahmadinejad, presidente dell'Iran, che aveva lanciato la parola d'ordine «cancellare Israele». Abbiamo detto sostegno a Israele attaccata dal Libano. Abbiamo detto solidarietà a Israele che - circondato da nord e da sud - aveva cominciato a respingere gli Hezbollah in Libano (dopo il rapimento di tre soldati).
Di quella notte mi sono rimaste impresse tre cose. Alcuni di coloro che hanno parlato erano di sinistra. Nessuno, tra la folla di via Portico d'Ottavia, che pure è la stessa strada, lo stesso luogo, del rastrellamento della notte del 16 ottobre 1943 (mille uomini, donne, bambini, neonati e ammalati, che non sono mai più ritornati, benché di qui si veda - appena al di là dal Tevere - la cupola di San Pietro). L'applauso più grande, più lungo ha salutato Gianfranco Fini. Fini ha fatto molte cose per meritare quell'applauso nella sua vita politica. Ma la sua vita politica è stata iniziata da Giorgio Almirante, segretario di redazione della rivista La difesa della razza, appena una generazione fa. Dalla folla alcuni giovani hanno gridato in coro - benché brevemente - «vinceremo». È stato come un capogiro, una vibrazione triste che per un istante è sembrata salire da quella folla. C'era come un cortocircuito nel tempo e nello spazio. L'abbandono della sinistra stava provocando una caparbia rivalsa. Si manifesta quando gli ebrei di Roma si stringono intorno a Fini. Si manifesta quando - a uno a uno - rappresentanti e notabili dello schieramento di Berlusconi si susseguono passandosi il microfono per dire che c'è un legame tra Prodi e gli estremisti islamici. E tutto porta ovazioni, come se si stesse discutendo davvero della vita di Israele.
Il dirottamento funziona e la gente sembra felice di battere le mani a Schifani e a Cicchitto, come a simboli dell'identità e del senso storico di Israele. Come un treno sullo scambio sbagliato, il convoglio di quella notte, che avrebbe potuto chiamarsi «con la destra per Israele», correva con qualcuno di noi aggrappato fuori. Ma la sinistra era altrove, a denunciare Israele e la sua guerra, immaginata come una decisione inutile e crudele.
***
Ho posto al pubblico dell'incontro di Pesaro che sto raccontando, tre domande: doveva proprio esserci uno stato di Israele? Doveva proprio essere lì? È stato il solo nuovo paese nato in terra d'altri?
Ho iniziato a raccontare il rastrellamento e la deportazione degli ebrei nella notte del 16 ottobre 1943. Ho ricordato l'evento della principessa romana che - avvertita di quanto stava accadendo - ha avvertito a sua volta la Santa Sede. Avendo accesso in Vaticano, la principessa ha chiesto di informare al più presto il Papa. Il cardinale Maglione si è limitato a convocare per un colloquio l'ambasciatore tedesco a Roma, Rahn. Alla principessa ha detto: «Non possiamo convocare nessun altro. Non c'è un consolato degli ebrei a Roma».
Ho ricordato un documentario che mi hanno fatto vedere nella sinagoga di Cracovia, materiale girato dai militari tedeschi: si vede un gruppo di bambini che viene fatto sloggiare da una scuola, ciascuno con la sua seggiolina. Camminano su un viale affollato di passanti. Tutti i bambini hanno la stella gialla. Vengono spinti in un vicolo e - mentre si voltano e guardano insieme a molti che erano già nel vicolo - alcuni muratori costruiscono subito un muro, una fila di mattoni sopra l'altra, finché i bambini non si vedono più. È il muro del ghetto di Varsavia. Neanche a Varsavia c'era un consolato degli ebrei. Ma più avanti, in un'altra scena dello stesso documentario, c'è l'assedio al ghetto. Nelle strade circostanti la gente continua a passare come in giornate normali. Dal marciapiede i soldati tedeschi sparano a chi si affaccia dalle case al di là del muro. Un passante avverte un soldato sbadato, gli indica un volto alla finestra. Il soldato spara subito.
Ma lo stato di Israele è in Medio Oriente per una scelta arbitraria? Gli israeliani hanno cominciato ad abitare un piccolo pezzo di Palestina, quando era territorio dell'ex Impero ottomano reclamato come proprio dalla Giordania, e occupato dalle truppe e dalla amministrazione dell'Impero britannico. Lo hanno fatto su mandato delle Nazioni Unite (1948). Nello stesso giorno è stato istituito un piccolo stato palestinese - altrettanto nuovo e mai esistito prima - che però tutti gli arabi (non i palestinesi, ma il potere dei grandi paesi arabi dell'area) hanno rifiutato, iniziando subito una catena di guerre. Dopo una di quelle guerre per stroncare subito l'invasione egiziana, giordana, siriana e libanese, gli israeliani hanno conquistato e dichiarato israeliana Gerusalemme (1967).
Che cosa c'è di diverso dalle guerre del Risorgimento italiano che - una dopo l'altra - hanno aggregato pezzi di territorio che non erano mai stati «italiani», se non nel sogno di Petrarca e Leopardi (un sogno sionista?), strappandoli con sangue, violenza, odio, a vicini europei (con cui oggi l'Italia forma l'Unione Europea)? Che cosa c'è di diverso rispetto alla conquista di Roma - la nostra celebrata «breccia di Porta Pia» - che per duemila anni, proprio come Gerusalemme, era stata capitale religiosa e sede di un altro stato e di un altro governo che ha dovuto cedere alla forza e si è barricato nell'isolamento, nel non riconoscimento del governo italiano, nella scomunica per cinquant'anni, prima di ricominciare a vivere accanto e insieme, in un incrocio di diritti reciproci con lo stato italiano?
Se una diversità c'è, è che il Risorgimento italiano ha conquistato e dichiarato italiani pezzi di territorio austriaci e balcanici (in una Europa in cui tutti i confini erano stati stabiliti arbitrariamente dal susseguirsi di diversi poteri). Israele ha bensì realizzato un proprio autonomo sogno risorgimentale (detto «sionismo» o ritorno alla terra degli ebrei), ma ha occupato e preso possesso di una piccola parte di quella terra solo dopo un voto e una autorizzazione - bilanciata da autorizzazione equivalente stabilita per gli abitanti della Palestina - delle Nazioni Unite. E non ha tolto terra a un altro stato più di quanto l'India o il Pakistan lo abbiano tolto all'Impero britannico. I risorgimenti, il sionismo, i grandi movimenti di liberazione dal colonialismo e dalle persecuzioni sono sempre fondati sul reclamo di un territorio, sulla presa di possesso fisica di quel territorio, sulla ricerca di riconoscimento internazionale per quell'evento. E - fatalmente - su molto sangue e continui spossessamenti. Come l'India e il Pakistan, Israele ha ottenuto il riconoscimento internazionale (con l'eccezione - durata decenni - del Vaticano). A differenza dell'India e del Pakistan, uno dei due stati non ha mai accettato di esistere. O non gli è stato permesso dalle potenze arabe dell'area. Ed è cominciata la guerra infinita.


Buone notizie
Antonio Padellaro su
l'Unità

Staino sull'Unità

La candidatura che Walter Veltroni annuncerà a Torino mercoledì prossimo, ma che viene già data per sicura, è prima di tutto una buona notizia per il nascente Partito democratico per tre ragioni almeno. Primo: non da oggi Veltroni è in testa ai sondaggi di gradimento tra gli elettori del centrosinistra, soprattutto come leader da opporre alla destra. Secondo: anche quando sembrava pura utopia, Veltroni è stato tra i primi a battersi per la nascita di un partito nuovo che mettesse insieme le diverse culture riformiste del Paese. Diciamo che conosce la materia. Terzo: sul nome di Veltroni si sono detti d'accordo D'Alema, Fassino, Rutelli, Finocchiaro, Franceschini, ovvero tutti gli esponenti ulivisti che avrebbero potuto competere per l'incarico di segretario del Pd. Questa convergenza ha fatto storcere il naso a qualcuno che teme o la «sciagura dell'unanimismo» («Corriere della sera») o il «plebiscito» frutto di «manovre preventive di negoziato interno», con la conseguente negazione dello spirito delle primarie («La Repubblica»). Tutte preoccupazioni rispettabili ma un po' affrettate visto che la candidatura Veltroni dovrà poi essere sostenuta dal voto popolare (ci auguriamo il più ampio) del prossimo 14 ottobre. E non sarà certamente colpa di Veltroni se (come teme Parisi) non si troverà a competere con altre candidature di spicco. Non vorremmo invece che con gli improvvisi timori di «unanimismo» poteri più o meno forti cercassero di suggerire al nuovo segretario del Pd il programma delle cose da fare e da non fare.
In molti commenti a caldo ci si interroga, poi, sui motivi della scelta. Se cioè Veltroni non rappresenti la carta migliore giocata nel momento peggiore.
È probabile che la candidatura sia figlia di uno stato di necessità (la bufera intercettazioni sui Ds, la crisi di consensi del governo Prodi) che ha reso indispensabile sia una svolta d'immagine (Veltroni sicuramente lo è) sia un forte investimento sul futuro del Pd. Si dice che Prodi tema la coabitazione con un segretario di così forte peso politico. E che il sindaco avrebbe preferito correre direttamente per l'incarico di candidato premier del Pd alle prossime elezioni politiche, piuttosto che scendere subito in campo come “semplice” segretario del Pd.
È comprensibile che Walter tema di logorarsi se le difficoltà del governare logoreranno la maggioranza. Ma è possibile, al contrario, che l'asse Prodi al governo e Veltroni al partito dia più stabilità alla coalizione e alla lunga rafforzi entrambe le entità. È una svolta, infine, che avrà ripercussioni sul resto del quadro politico. Per la sinistra radicale, che ha scommesso sul fallimento del Pd e che adesso dovrà rifare i conti. Per la sinistra di Mussi e Salvi che con il Pd hanno rotto e con il Pd di Veltroni potrebbero costruire un dialogo.
Per Berlusconi, infine, l'arrivo di Veltroni è una pessima notizia. Anche a destra, finalmente, si comincerà a guardare il caro proprietario per quello che è: un ingombrante avanzo del passato. E forse non è un caso se da ieri il cavaliere ha smesso di parlare di elezioni anticipate. Con un avversario del genere, avrà pensato, meglio non rischiare.



Walter e il Cavaliere i destini incrociati
Filippo Ceccarelli su
la Repubblica

Quando si dicono i segni del destino e gli appuntamenti della cronaca. «Io e Berlusconi (e la Rai)» si intitola, davvero assai profeticamente, un libro che Walter Veltroni pubblicò nell´ormai remoto 1990. Chi vi cercasse oggi ghiotte narrazioni tra l´intimistico e l´autobiografico, come nelle ultime opere dell´imminente leader del centrosinistra, resterebbe deluso.
Si tratta di una raccolta di articoli, relazioni, discorsi e interviste sulla televisione. Ma in copertina c´era pur sempre quel nome lì. E a distanza di 17 anni, meglio di tante analisi a venire, l´astuto titolo dimostrava come Veltroni avesse anzitempo ben intuito che il Cavaliere non era solo un bel richiamo, perfino commerciale, ma che la sua lezione di imprenditore del piccolo schermo andava anche seguita, studiata, smontata. E possibilmente battuta sul suo terreno - cosa che in verità non avvenne. Anzi.
Si parte da qui per tentare una sommaria ricostruzione dei rapporti fra i due personaggi. Ma è possibile risalire ancora più indietro nel tempo. Ha raccontato Giacomo Papi sul Diario di qualche mese fa (in uno dei più belli e completi articoli mai usciti sulla storia e l´immaginario veltroniani) che nel 1984 l´ex dirigente comunista e manager Fininvest Maurizio Carlotto segnalò a Berlusconi quel giovanissimo quadro appena approdato all´ufficio Comunicazione delle Botteghe Oscure: «Guarda Silvio, che questo qui è uno sveglio con cui si può parlare e che di televisione ne sa: potrebbe essere la sponda che cerchiamo nel Pci». La risposta suonò allora piuttosto risoluta: «Veltroni - disse il Cavaliere, che evidentemente aveva già maturato un giudizio sul personaggio - ha i peggiori cromosomi che ci siano in Italia: quelli del Pci e quelli della Rai».
Questo per mettere in chiaro che fra i due i rapporti nascono in un certo modo. Eppure, come succede, le cose sono o diventano sempre un po´ più complicate: e qui l´impiccio, o la stranezza, o il paradosso stanno nel fatto che quell´occhialuto giovanotto…
più di ogni altro si rivelerà in grado di assimilare con indubbio vantaggio politico e personale diverse modalità espressive del berlusconismo: i tempi rapidi, il linguaggio semplificato, gli allestimenti spettacolari, il calore e la gestione delle emozioni, una certa attitudine immaginifica e visionaria, in qualche modo anche la consapevolezza della potenza delle merci e del consumo,

Anche per questo, oltre che per un gap anagrafico di quasi vent´anni, c´è da ritenere che Berlusconi sia impensierito dal suo nuovo incombente competitor, che tra l´altro può vantare il suo stesso titolo onorifico e distintivo, essendo stato Veltroni nominato da Ciampi «Cavaliere», sia pure di Gran Croce, «per benemerenze di segnalato rilievo».
E tuttavia, come per un destino di sfuggenti simmetrie e inconsapevoli emulazioni, si registrano davvero pochi scontri fra le due personalità nella pur lunga e ricca storia rissaiola della Seconda Repubblica. Il minimo indispensabile, e anche questo un po´ fa riflettere. Sì, certo: battute, repliche, arzigogoli retorici, lievi sfottò. Disse una volta Berlusconi, ad esempio, che Veltroni aveva nella stanza la foto di Togliatti: «Ma il dottor Letta ha dovuto tirargli la giacca ricordandogli che era il ritratto di Berlinguer. Ma tanto per lui sono tutti uguali».

Solo in un´occasione - ma sintomatica - si videro le scintille. Fu nel 2000, quando sulla nave «Azzurra» Berlusconi raccontò una barzelletta effettivamente un po´ greve: «Dottore, le sabbiature serviranno a guarire dall´Aids?». «No, ma così si abitua a stare sotto terra». Ecco, «Basta! - reagì allora Veltroni - Ha superato ogni limite, è di un cinismo insopportabile!». L´altro rispose dandogli del «miserabile»; e poi, a ulteriore conferma del suo senso del limite: «Consiglio sabbiature anche a quei mentecatti del centrosinistra».
Sembra di ricordare, tra parentesi, che per quella barzelletta sull´Aids s´indignò anche Veronica Lario. Ma poco altro, a parte un recente battibecco su «Roma capitale della droga», cui seguì un «niente lezioni da chi dice che la città fu fondata da Romolo e Remolo», resta agli annali della polemica contundente e personalizzata. I due collaborarono proficuamente allorché nell´autunno del 2004 venne firmata in Campidoglio la Costituzione europea.

Proprio in quell´occasione, a ben vedere e sentire, mentre la capitale era coperta da una meravigliosa pioggia di fuochi d´artificio, apparve evidente il grumo nascosto o il segreto dispositivo che metteva a nudo e regolava un sorprendente caso di antagonismo mimetico. Nel senso che il berlusconismo e il veltronismo forse non sono, anzi di sicuro non sono, ma per tante ragioni che prescindono dai rispettivi protagonisti che danno il nome a questi fenomeni, ecco, certamente finiscono per sembrare due modelli uguali e contrari.
Da una parte il culto del successo, del denaro, del lusso; dall´altra la consacrazione dell´impegno contro il dolore, la povertà, l´egoismo. In mezzo, ma anche dentro e sopra e sotto e ai margini della più evoluta cornice tecnologica, si misura la stessa capacità di lavoro, la medesima e spasmodica cura per i dettagli, un tratto umano spontaneo e garbato, uno speranzoso ottimismo che avvolge e addolcisce le prospettive.
Va da sé che i doppi speculari non sono fatti per allearsi. Va da sé che la contesa è nell´ordine naturale delle cose e un po´ anche del destino.


De Gennaro non è né Pollari né Speciale
Giuseppe D'Avanzo su
la Repubblica

DIVISA in decine di partiti, la politica italiana è concorde soltanto nel comune odio per l'obiettività nella polemica. Il confronto politico patisce sempre i fatti. Regolarmente s'inabissano al primo rumore. Non è un'eccezione la coda di confuse baruffe che segue l'annuncio della fine del mandato di Gianni De Gennaro, capo della polizia. Nella contesa contro il governo ingaggiata dal centrodestra, Berlusconi in testa, si frullano, in apparenza - soltanto in apparenza - a difesa del poliziotto, argomenti che combinano in un unico gomitolo i comportamenti e i destini degli alti burocrati della sicurezza che, negli ultimi mesi, sono stati allontanati dal loro incarico.

Occorre avere memoria dei precedenti e saper separare il grano dal loglio, se si vogliono evitare altri e inutili strappi istituzionali.

Gianni De Gennaro non è Roberto Speciale, il comandante della Guardia di Finanza "licenziato" da Padoa-Schioppa. De Gennaro non è Nicolò Pollari, il direttore del Sismi (l'intelligence politico-militare) rimosso dalla sua responsabilità tra le divisioni nel governo. Le opacità e l'infedeltà contestata a Speciale e Pollari non trovano alcuna simmetria nel lavoro svolto dal capo della polizia nei sette anni del suo incarico.

Roberto Speciale è stato accusato dal ministro dell'Economia Padoa-Schioppa di "opacità di comportamenti", di avere gestito il Corpo "senza alcun rispetto delle regole" fino a creare addirittura "una separatezza", una "forte discrasia tra la Guardia di Finanza e il potere politico che deve dare gli indirizzi". Il governo non ha ritenuto quel comandante "più idoneo a svolgere la funzione di generale della Guardia di Finanza".

Ancora più critica la condizione in cui l'ansia di potere ha cacciato il capo delle spie. Nicolò Pollari, al di là delle sue responsabilità dirette o indirette nel sequestro di un cittadino egiziano, ha organizzato un ufficio di dossieraggio illegale, da lui stesso guidato (nessuno contesta la circostanza). I suoi uomini migliori erano parte integrante di un network spionistico che si è avvalso delle tecnologie e della collaborazione della Security di un'impresa privata, la Telecom (pure qui, nessuna contestazione del fatto). Anche per Pollari dunque, e al di là delle sue responsabilità penali, si può parlare di un abuso di potere nello svolgere le mansioni che gli erano state affidate dalla politica e dalle istituzioni.

Il bilancio professionale di Gianni De Gennaro è radicalmente diverso. I suoi sette anni da capo della polizia non lasciano intravedere "separatezze", "discrasie", spionaggi e dossier illegali, manovre storte nel sottosuolo della politica né alcun tentativo per condizionarla. Ha fatto il suo lavoro come meglio ha potuto, restandosene - come si dice - "al suo posto".

Risultati che non sono mancati, dall'arresto di Bernardo Provenzano all'annientamento del rinato nucleo delle Brigate Rosse, all'arresto degli assassini di Massimo D'Antona e Marco Biagi. Soddisfatto del suo lavoro, da maggio il capo della polizia prepara il suo addio concordando con l'esecutivo che, dopo sette anni, tre governi e sette ministri, un'opportunità istituzionale consiglia di passare la mano.

Il solo vulnus - grave - della lunga stagione di De Gennaro è la violenta inefficienza dimostrata dalla polizia durante il G8 di Genova. Se si esclude parte della sinistra radicale, nessuno gliel'ha mai rimproverato in questi anni, nemmeno la magistratura di Genova che, soltanto l'11 giugno scorso, ha contestato un'"istigazione o induzione alla falsa testimonianza" di un questore testimone. L'indagine è in corso e si vedrà. Tuttavia, è soltanto un trucco polemico, e di mediocre polemica, sostenere che De Gennaro fa fagotto per quell'avviso di garanzia o che la sua parabola di "uomo delle istituzioni" possa accompagnarsi alle lune nere che hanno orientato i comportamenti di Nicolò Pollari e Roberto Speciale. È un accostamento che De Gennaro non merita.



Montezemolo contro i sindacati :
«Così rappresentate solo Pa e qualche fannullone»
Emilio Bonicelli so
Il Sole 24 Ore

«Il Paese vive una fase delicata segnata quasi solo da contrapposizioni e da veleni e rischia di smarrire il senso di una missione condivisa. Questa missione non può che essere il consolidamento di una crescita economica ancora fragile minacciata da troppi egoismi e da inaccettabili resistenze al cambiamento ». È un fiume in piena il presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo, che parla agli imprenditori di Reggio Emilia, in occasione dell'assemblea annuale della locale Associazione industriali, e tocca tutti i temi caldi dell'attuale dibattito politico ed economico: dalla legge Biagi alla riforma delle pensioni; dalla crisi della politica ai tavoli di confronto con le parti sociali; dai casi Speciale e De Gennaro all'evasione fiscale. Con una conclusione operativa: «Servono scelte nitide che sappiano coniugare le logiche della crescita con quelle della solidarietà» perché «dal Paese viene una forte richiesta di cambiamento», mentre «sono anni che sentiamo parlare di patti, ma l'impressione è che nei fatti non cambi nulla».

Chiare le indicazioni sulle cose da fare. Il tesoretto, oltre che per ridurre il debito, può essere impiegato «in favore delle pensioni più basse o a favore dei giovani », ma queste scelte hanno un senso e possono essere condivise «solo se si accompagnano a scelte precise in favore della crescita economica, della produttività, della competitività». Ad esempio, «alleggerire il costo del lavoro straordinario, sia dal punto di vista fiscale che da quello dei contributi». Bisogna poi aprire nuovi spazi per «quote di salario legate ai risultati e al recupero di produttività».
Circa i tavoli di confronto in corso con le parti sociali, secondo Montezemolo è «inaccettabile l'approccio ideologico di chi vuole modifiche contro le esigenze delle imprese e contro gli interessi degli stessi lavoratori». Dunque la legge Biagi non si tocca, perché modificarne il contenuto, così come peggiorare l'attuale sistema dei contratti a termine, «significherebbe solo muoversi nella direzione opposta a quello dello sviluppo». Qui c'è una bacchettata per i sindacati che rischiano di diventare ogni giorno di più «sindacati della pubblica amministrazione, dei pensionati e di qualche fannullone». Frase che ha suscitato «sorpresa e irritazione» nella Cgil. Montezemolo — ha replicato il sindacato di Guglielmo Epifani — si presenta come «il nuovo capo populista del Paese».
Sul tema delle pensioni il presidente di Confindustria ricorda che le riforme Dini e Maroni «consentono di raggiungere obiettivi di stabilità finanziaria del sistema che non possono essere messi in discussione». Un accenno al fisco: «La prima condizione perché le tasse diminuiscano è che le paghino tutti, la seconda è non pensare a recuperare l'evasione facendo accertamenti solo a quelli che le pagano.
La terza, infine, è non fare una politica economica solo con le entrate senza tagliare mai la spesa pubblica».



Grandi scelte da vecchi
Barbara Palombelli su
La Stampa

Caro direttore,
e se i ragazzi che in questi giorni affrontano l'esame di maturità fossero invece interrogati su Berlusconi, Prodi, la Riforma Elettorale e i costi della politica? Giovani, entusiasti o incerti, timidi o sfacciati: a parte i genitori, e a volte neanche loro, nessuno sa cosa vogliano dal futuro i maturati prossimi venturi. Quale Stato, quale Repubblica, quali valori abitino le menti degli italiani e delle italiane che in queste ore sgobbano sui soliti libroni e sui soliti esami... è un mistero che nessuno ha voglia di affrontare. Loro per primi: figli di un'epoca in cui da bambini mangiavano fiocchi d'avena e Tangentopoli, cresciuti con le guerre atroci, prendono la licenza in un Paese di indagati/intercettati. Mai, dal dopoguerra, una generazione di diciottenni era stata così distante dall'impegno.

Come non capirli? Chi può, fugge verso un estero immaginato e vagheggiato, chi non ce la fa cerca disperatamente di separare comunque il personale curriculum dal dovere civico, il proprio io dal collettivo sociale. Spera in una buona università o in un buon lavoro, non immagina neppure che queste decisioni siano collegate anche ad una delle opzioni partitiche in campo, o ad una rivoluzione del sistema che li chiama in causa e che spesso criticano senza agire, restando passivi.

Ogni tanto, qualcuno li stuzzica nei sondaggi e si scopre che no, «la politica non m'interessa». L'io ha sostituito il noi iattante delle generazioni precedenti. L'associazione viene vista come una minaccia e non come una risorsa. Il merito, qualcosa da coltivare per sé o per il proprio gruppo. Saranno soli, questi maturi/immaturi, nelle loro strade individuali se non riscopriranno la forza del «noi», qualunque esso sia.

Una classe dirigente di quasi-pensionati guarda verso l'al di là. E non si accorge (o non vuole vedere) che gli italiani del futuro, quelli per cui dovrebbero lavorare e progettare, sono già qua.




L´EMERGENZA CLIMA
Inquinamento, la Cina sorpassa gli Usa
Gas serra, a Pechino il primato mondiale. Boom di fabbriche e cantieri .
In un anno le emissioni sono aumentate dell´8 per cento Entro il 2015 altri 550 impianti
"Ma la colpa è dell´Occidente: avete trasferito da noi molte vostre produzioni".
Federico Rampini su
la Repubblica

PECHINO - Bruciando le tappe e smentendo le previsioni la Cina conquista con anni di anticipo un nuovo record: è il numero uno mondiale per la quantità di anidride carbonica rilasciata nell´atmosfera. Ha strappato agli Stati Uniti il nefasto primato nel cambiamento climatico. Ma ai tentativi di coinvolgerla in un trattato per ridurre le emissioni carboniche la Repubblica popolare reagisce duramente, fa proprio un argomento caro agli ambientalisti e ai no global. La colpa è dell´Occidente - ribatte il governo di Pechino - che ha trasferito sul territorio cinese le produzioni più inquinanti.
Il sorpasso Cina-Stati Uniti era stato pronosticato dagli esperti, ma in un orizzonte più lontano. L´Agenzia internazionale per l´energia (Aie) lo aveva previsto entro il 2010. Ci sono voluti quattro anni di meno. Grazie a una crescita economica impetuosa - l´11% del Pil l´anno scorso - già nel 2006 la Cina ha indossato la maglia nera tra i grandi colpevoli del surriscaldamento ambientale. Ha relegato in seconda posizione l´America, seguita dall´Unione europea, poi da Russia, India e Giappone. Il calcolo finale per il 2006 è stato realizzato da scienziati indipendenti sotto l´egida della Netherlands Environment Assessment Agency, l´authority olandese per l´ambiente. Gli scienziati hanno misurato a 6,2 miliardi di tonnellate l´anidride carbonica che la Cina ha rilasciato nell´atmosfera terrestre, in crescita dell´8% sull´anno precedente. Gli Stati Uniti nel 2006 hanno emesso "solo" 5,8 tonnellate di CO2, in lieve calo (meno 1,4%) sull´anno precedente: non per merito di misure di risparmio, bensì grazie a un inverno clemente che ha ridotto le necessità di riscaldamento. Un contributo fondamentale al sorpasso cinese è venuto dal formidabile potenziamento della capacità di produzione di energia elettrica. Anche questo è un effetto della modernizzazione nel gigante asiatico: più fabbriche, più cantieri edili, maggiori consumi legati all´urbanizzazione di massa (elettrodomestici, condizionatori, computer). In un settore industriale altamente energivoro come il cemento la Cina delle megalopoli e dei grattacieli concentra ormai il 44% dell´intera produzione mondiale. Per soddisfare il boom dei bisogni di elettricità, negli ultimi cinque anni la Repubblica popolare ha aumentato del 150% il suo parco centrali. La crescita accelera a velocità esponenziale. Nei prossimi otto anni la Cina inaugurerà 550 nuove centrali termoelettriche, cioè aggiungerà l´equivalente di tutte le centrali che esistono oggi nell´intera Unione europea. I due terzi sono a carbone, la fonte energetica più inquinante in CO2.

Tuttavia è discutibile mettere sullo stesso piano le potenze emergenti e i paesi di più antica industrializzazione. Da una parte il cambiamento climatico è stato innescato dall´inquinamento accumulato nei decenni passati, quando il ruolo di Cina e India era minore. D´altra parte anche le responsabilità attuali appaiono sotto una luce diversa, se invece delle quantità totali si guarda alle emissioni pro capite. L´impatto distruttivo di Cina e India è legato alla dimensione delle popolazioni: 1,3 miliardi di cinesi e 1,1 miliardi di indiani. Ma i singoli cittadini di quei paesi hanno ancora consumi molto inferiori ai nostri e di conseguenza inquinano molto meno. I 700 milioni di cinesi che abitano nelle regioni rurali vivono con meno di tre dollari al giorno. Per il momento le emissioni carboniche dei consumatori cinesi, pro capite, sono appena un quarto di quelle degli americani e un terzo rispetto agli europei.
A queste considerazioni di equità che impediscono di mettere sullo stesso piano l´Asia e l´Occidente, ieri il governo di Pechino ha aggiunto un tema di battaglia caro agli ambientalisti. Di fronte alle accuse di essere il primo inquinatore planetario la Cina ha risposto rinfacciando l´ipocrisia delle nazioni occidentali. Il portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang ha usato toni duri: «La notizia del sorpasso non sorprende. La Cina sta svolgendo il lavoro manifatturiero per conto dei paesi ricchi. Siamo diventati la fabbrica del pianeta. Voi paesi sviluppati avete spostato qui gran parte delle produzioni. La maggior parte delle cose che mangiate, che indossate, che usate per lavorare, sono prodotte sul nostro territorio. Le vostre aziende aumentano le produzioni in Cina, poi ci criticate per le emissioni carboniche. È sleale».



  22 giugno 2007