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a cura di Fr.I. - 21 giugno 2007


Pd, Veltroni già in pista
«Un momento importante»
Dopo Prodi, incontra anche Rutelli
sommari de
l'Unità

Mercoledì sera l'incontro con Prodi dopo che erano arrivati gli appoggi di Fassino e di D'Alema. Giovedì l'incontro con Rutelli. La candidatura di Walter Veltroni ad essere il primo segretario del Partito Democratico ha avuto un'accelerazione. E forse già entro la settimana dovrebbe arrivare l'annuncio ufficiale che il Sindaco di Roma si mette in lizza per il prossimo 14 ottobre.


L'ora della verità
Dario Di Vico sul
Corriere della Sera

Non c'è sondaggista che nutra dubbi. Walter Veltroni appare la carta migliore che il centrosinistra possa spendere per guidare il Partito democratico e del resto l'opinione pubblica progressista lo ha largamente indicato, e non da oggi, come il leader preferito da opporre alla destra. Il sindaco di Roma è considerato un solido riformista, ma gode di consensi anche presso l'ala più radicale dello schieramento progressista e stando ai risultati che ha conseguito nelle elezioni capitoline può legittimamente sperare di sottrarre voti alla coalizione avversaria, contando magari sul favore di parte dell'elettorato cattolico. Su di lui però è inevitabile che si abbatta, sin dai prossimi giorni, la sciagura dell'unanimismo. Le dichiarazioni di appoggio alla sua candidatura fioccheranno. I professionisti dell'ulivismo, anche quelli che magari fino a qualche giorno fa pensavano di candidarsi, gareggeranno per venire bene in foto.
In questo modo faranno correre al candidato Veltroni il rischio-replay: bissare le finte primarie del 16 ottobre 2005 quando un numero decisamente consistente di italiani orientati a favore del centrosinistra si mise in coda sin dalle prime ore del mattino per votare Romano Prodi, senza però che fosse in campo una candidatura veramente concorrenziale. Il figlio legittimo di quelle primarie embrassons nous fu un programma elettorale dell'Ulivo di ben 281 pagine, fatto apposta per sommare le proposte di tutti i partiti della coalizione senza sostanzialmente sceglierne nessuna. Come hanno dimostrato il lungo braccio di ferro tra riformisti e radicali sulla Finanziaria e i successivi cento zig-zag sulla legge Biagi, la Tav, i Dico e la riforma delle pensioni.
Che oggi si corra il rischio dell'unanimismo induce a sospettarlo anche il singolare comportamento dello stesso Prodi. Solo due settimane fa l'attuale premier era contrario all'elezione diretta del capo del Partito democratico e aveva comunque dichiarato che si sarebbe presentato regolarmente in gara. La conversione sulla via di Walter non poteva essere più spettacolare, ma non sarebbe male che i maggiorenti dell'Ulivo — non solo Prodi — spiegassero quali riflessioni sono maturate negli ultimi giorni e cosa li ha spinti a lasciarsi alle spalle tattiche e piccole faide.

Il travaso di voti verso il centrodestra persino nelle regioni del Centro Italia e i fischi dei benzinai «rossi» a Prodi e Bersani sono episodi che hanno moltiplicato quei timori, avvicinato l'ora della verità e la ricerca di una soluzione forte. E Veltroni lo è.
Per evitare i rischi del plebiscito deve però costruire per tempo un suo programma. Resti pure sindaco di Roma per onorare l'impegno preso con gli elettori, usi pure ampiamente la fantasia di cui dispone per innovare l'offerta politica della sinistra, sia però netto e abbia il coraggio di scontentare qualcuno. Dalla crisi della politica si esce con impegni lineari e convincenti ma anche estendendo ai partiti e alle coalizioni le regole della concorrenza. L'Italia non può continuare a essere il Paese dove le primarie si fanno per gioco. Solo chi si espone al rischio di perdere alla fine vince davvero.


Le due vite dello "squalo"
Un funzionario scelto dalla sinistra, confermato dalla Cdl, accettato dall´Unione. La macchia di Genova sull´addio. Manganelli successore.
Giuseppe D´Avanzo su
la Repubblica

LO "SGAMBETTO" è arrivato alla fine. Gianni De Gennaro, che coltiva da qualche anno un sentimento molto prossimo all´onnipotenza, ne deve essere rimasto stupito. Dall´insediamento del governo Prodi, il capo della polizia sapeva di dover sgombrare l´ufficio al Viminale.
Da capitano coraggioso sul fronte antimafia a garante bipartisan per sette anni dell´ordine pubblico
L´argomento del ministro dell´Interno Giuliano Amato era molto coerente: nessuno alto dirigente dello Stato, nemmeno il capo della polizia o forse soprattutto il capo della polizia, può restare in carica, nello stesso ruolo, per un tempo superiore all´incarico - sette anni - di un presidente della Repubblica. Dunque, dal 26 maggio 2007 si attende l´uscita di scena di De Gennaro, nominato il 26 maggio del 2000 e assiso nella sua poltrona dal 1 giugno. Un addio preparato, discusso, vagliato e coordinato da Amato e Prodi secondo un percorso che doveva rendere il massimo onore a un funzionario dello Stato che ha avuto il merito "politico" di essere scelto dalla sinistra (Amato), riconfermato dal centrodestra (Berlusconi), ancora accettato nel ritorno del centrosinistra (Prodi). Un´uscita che riconoscesse la benemerenza "tecnica" di aver dato corpo, con una controllata ordinaria amministrazione, alle politiche della sicurezza che, di volta in volta, gli esecutivi hanno escogitato per venire a capo della percezione di insicurezza che attraversa il Paese dal Nord al Sud.
Un risultato non ordinario nell´Italia dei ribaltoni. Che meritava per il governo l´onore adeguato.

Il patatrac è arrivato all´ultimo metro. Nell´arco di un paio d´ore, due circostanze si sovrappongono e a De Gennaro rovinano la festa. Prodi annuncia in Parlamento l´addio del capo della polizia, spensieratamente: una responsabile prudenza consiglia di rendere noto il nome del nuovo capo della polizia. Se si vogliono evitare problemi, è un errore dare l´avviso di sfratto al capo della polizia in carica. Il delicato meccanismo di governo di 300 mila uomini prevede comandi accreditati, legittimati e non precari.
Un battito di ciglia dopo la gaffe del presidente del Consiglio, salta fuori che il capo della polizia è indagato a Genova per «istigazione o induzione alla falsa testimonianza». I pubblici ministeri credono di scorgere dietro la ritrattazione dell´ex-questore di Genova, nell´aula del processo per i fatti del G8 di Genova, le pressioni di De Gennaro. Ora, bisogna immaginare De Gennaro. Forse per un attimo si è stupito che proprio sulla porta gli sia caduta sulla testa quella tegola che ha evitato con cura per sette anni. Subito dopo, avrà ripreso il controllo di se stesso e sulla faccia gli sarà tornato quel sorriso ribaldo che può piacere molto o molto irritare. Il suo staff non ne sarà stato sorpreso. Gianni De Gennaro sa essere disumano con se stesso e con gli altri. Sa ridere, quando ha voglia di sbattere la testa contro il muro. Tacere quando ha voglia di parlare e parlare, parlare, parlare quando avrebbe voglia di cucirsi la bocca. Di Gianni De Gennaro è difficile afferrare i sentimenti o le preoccupazioni, ammesso che abbia dei sentimenti perché in molti, tra chi lo ha incrociato, il dubbio ce l´hanno. In tanti pensano che abbia soltanto un bel pelo sullo stomaco, una diavolesca ambizione dietro la faccia guascona. Come chiamarlo allora se non «lo squalo»?
Lo "squalo" ha avuto due vite. La prima - da poliziotto - non lasciava prevedere la seconda. Nella seconda, la preoccupazione dell´uomo di potere è stata soprattutto far dimenticare la prima. Tra l´una e l´altra, il G8 di Genova, i pestaggi irresponsabili della polizia, le prove truccate per nascondere gli errori e il rifiuto di assumersi le responsabilità di quella catastrofe "tecnica".
Gianni De Gennaro è, nella prima vita, uno sbirro con grande intuizioni, molto coraggio, con la straordinaria capacità di organizzare e dare motivazioni ai suoi uomini. Teorizza che le indagini poliziesche devono essere fredde come il ghiaccio e vanno fatte «senza rancore». Nelle sue regole, un poliziotto è soltanto «un professionista delle indagini», un «servitore dello Stato senza sentimenti e passioni». E´ il contrario di quanto nel corso del tempo gli viene attribuito dagli «amici» e dai «nemici». Gianni De Gennaro viene descritto come un partigiano, l´uomo di mano di una strategia politica che, per via giudiziaria, ha l´ambizione di liquidare un legittimo sistema di potere.

E´ il motivo per cui Silvio Berlusconi, 2001, non ha nessuna voglia di tenerselo una volta a Palazzo Chigi. Perché quel capo della polizia, proprio quello, con quell´inferno di racconti che gli vanno facendo Cesare Previti e Marcello Dell´Utri? Sono Fini, Casini e Frattini a convincere il Cavaliere e da quel momento De Gennaro riesce a far tutti contenti, a soddisfare tutte le attese della politica offrendo, da un lato, un accettabile controllo dell´ordine pubblico in un Paese che è sempre border line e, dall´altro, si vieta di ingrassare il suo potere, si accontenta dell´influenza che già gli garantisce essere il capo della polizia. Al contrario, di un suo competitore e acerrimo avversario - Nicolò Pollari, il capo delle spie - apparso convinto che il potere non ami gli stati di quiete e bisogna accrescerlo ad ogni passo se si vuole conservarlo. De Gennaro si dà un limite, sceglie di governare con mano ferma un territorio circoscritto. Questa prudenza, più andreottiana che guascona, più "democristiana" che ribalda, gli permette di superare anche la bufera del G8. Che ha compromesso, forse in maniera irrimediabile, la sua immagine. La sinistra radicale sostiene che Gianni De Gennaro sia l´uomo nero, il consapevole artefice di un pestaggio generalizzato di cittadini inermi in un "cambio di stagione" politico che, nei giorni di Genova, doveva mutare il "clima" del Paese", modificare la percezione dei diritti, dare alla polizia mano libera nella repressione dei movimenti e del dissenso. Sbaglia. In realtà, a Genova non c´è stata alcuna ragione ideologica in quelle violenze, ma soltanto l´assoluta incapacità delle linee di comando di tenere sotto controllo la situazione e gli uomini. Quindi, è accaduto di peggio. La polizia era del tutto impreparata ad affrontare con serenità quell´appuntamento. Rispetto a una catastrofe "tecnica" di quelle proporzioni, che lo chiamava direttamente in causa, Gianni De Gennaro ha una reazione cinica, mediocre, burocratica. Ammette che le forze dell´ordine si sono abbandonate «eccessi». Si rimpannuccia in leggi e regolamenti. Ripete che è pronto ad assumersi le sue responsabilità ma soltanto per la parte che lo riguarda direttamente e «non sui fatti per i quali non ha attribuzione da parte della legge».



Consulta: è incostituzionale la norma "anti Caselli"
sommari de
l'Unità

La norma "anti Caselli" è incostituzionale. Così la Consulta cancella un'altra legge di Berlusconi, che escluse Giancarlo Caselli, inviso al centrodestra, dal concorso per la direzione della Procura nazionale Antimafia.


Più poveri, più vecchi
Gabriele Polo su
Il Manifesto

Nel giorno in cui parte la trattativa sulle pensioni, l'Ocse rivela che la distribuzione del reddito, con la globalizzazione, è nettamente peggiorata in tutti in paesi industrializzati: una fetta sempre più consistente del «prodotto sociale», come l'avrebbe definita Marx, è finita non nel piatto dei lavoratori dipendenti, ma in quello dei percettori di altri redditi. In Italia le cose vanno ancora peggio. La crescita delle retribuzioni reali è impercettibile: nell'ultimo biennio addirittura le retribuzioni reali sono diminuite. Tanto che l'Ocse, organizzazione affatto di sinistra, chiede che i governi si diano una mossa per affrontare gli squilibri di società sempre più disuguali.
Ma l'Ocse ci dice anche un'altra cosa: sfata la leggenda che gli italiani siano degli sfaticati. Anzi, i dati (1.800 ore di lavoro l'anno) indicano che siamo gli stakanovisti d'Europa. Ma a maggior lavoro non corrisponde maggior salario. Ma allora, chi è che si appropria della crescita del prodotto? Ieri alla Confesercenti (un tempo costola commerciale del Pci) sono fioccati fischi per Prodi e Bersani. Ma sotto tiro era soprattutto Visco per la rivisitazione degli studi di settore. E proprio gli studi di settore ci permettono di rispondere alla domanda sull'appropriazione indebita del prodotto sociale. Senza voler generalizzare, è possibile che oltre la metà delle imprese non sia in regola con gli studi di settore?
Si potrebbe obiettare: forse è troppo alta la soglia fissata. Forse. Ma quando il 53,8% denuncia ricavi per appena 193 mila euro l'anno e un reddito di impresa di 10.500 euro (875 euro al mese) i conti non tornano più. Anche perché 100 mila aziende non hannno dichiarato il valore dei beni strumentali necessari alla loro attività, ma hanno dedotto gli ammortamenti. Per dirla con Visco, si tratta di «comportamenti straordinariamente anomali» che nascondono una evasione di massa che costringe i contribuenti onesti a pagare molte più tasse del dovuto, per tappare i «buchi» di chi non paga. E' di pochi giorni fa uno studio che dimostra che la pressione fiscale potrebbe scendere di 10 punti di Pil se tutti pagassero. Per Visco «quello che si chiede sono 100-200 euro in più al mese». E non si tratta di «chiedere soldi a tutti i costi, ma correggere patologie evidenti».
La somma richiesta non è una enormità, ma lo è se confrontata con gli aumenti offerti ai pensionati più poveri: se tutto va bene 70 euro lordi al mese per 2 milioni di ex lavoratori. Ma più in generale l'evasione di massa condiziona il confronto sulle pensioni e sul Dpef tra governo e sindacati. Sinceramente fa molta pena sentire quello che il governo offre e che il «tesoretto» sia destinato in larga parte al risanamento del debito pubblico. Può darsi che fra qualche anno il sistema pensionistico abbia problemi di sostenibilità. Però, prima dovremmo verificare se è veramente l'allungamento della vita e non l'evasione contributiva a mettere in crisi l'Inps, condannando i lavoratori dipendenti a una rincorsa pensionistica senza fine.


Nella roccaforte dell´Eta che riprende la sua guerra
Rotta la tregua, cresce il consenso per i terroristi
Guido Rampolli su
la Repubblica

SAN SEBASTIAN - Se volete un´idea della Spagna immutabile andate alla periferia orientale di San Sebastian, prendete il gozzo che fa la spola tra le due sponde del fiume e sbarcate a Donibane, Passaje de San Juan in castigliano (ma a bordo non vi scappi quel nome, altrimenti il barcarolo si terrà il resto e vi abbaierà in basco). Una volta sbarcati sarà sufficiente una passeggiata nel borgo medievale per avere un´idea di come vanno le cose quaggiù dal primo giorno di democrazia. Incontrerete sui muri la stella rossa dell´Eta (gora Eta, viva l´Eta); murales che celebrano il partito affiliato all´Eta; e un manifesto che allinea i sorrisi di tutti gli etarras attualmente detenuti, circa novecento.
Se invece cercate nelle tre province basche un tributo agli 817 spagnoli ammazzati dai ridenti eroi del manifesto, troverete pochissimo, e quel pochissimo solo al chiuso o in luogo sorvegliato. Per esempio, al primo piano del municipio di San Sebastian una piccola lapide effettivamente ricorda il vicesindaco Gregorio Ordoñez, assassinato nel 1995. Ogni anno sua sorella Consuelo faticava a trovare un prete disposto a celebrare la messa di suffragio, e alla fine è emigrata. A San Sebastian è rimasta una Fondazione Ordoñez, e uno sconsolato portavoce, Pedro Altuna, che paragona chi si oppone al nazionalismo basco agli ebrei nella Germania degli Anni Trenta. Idea sbagliata, grossolana: ma ricorrente in quel migliaio di spagnoli oggi di nuovo a rischio d´una pallottola.
Prima di respingerla bisognerebbe aver provato la loro solitudine, e la tristezza che adesso strema quanti di loro ripeterono al governo socialista: non trattate con gli assassini, non cadete nella trappola dell´Eta.
Nel 2004 molta sinistra liquidò i guastafeste come guerrafondai e rancorosi. Oggi è perlomeno verosimile che avessero ragione.
E´ la quinta tregua che fallisce in un trentennio, il quinto negoziato sotterraneo che naufraga in un nulla di fatto. Da quando l´Eta ha annunciato che tornerà ad ammazzare, il governo basco cerca con affanno altri 270 guardaspalle, a quattromila euro mensili, per aggiungerli ai tremila che già provvedono alla sicurezza dei più esposti. Nel frattempo ci si domanda a chi toccherà la bomba o la pallottola, se sarà un politico, un poliziotto, un passante. Meno dubbi sul fatto che per tornare sulla scena l´Eta si affiderà ad un attentato eclatante. «Qualcosa che faccia impressione», pronostica uno nel mirino, Carlos Gorriaran, co-fondatore di Basta ya (adesso basta). Minime le probabilità di evitarlo. Prima della tregua, l´Eta vedeva all´orizzonte la propria sconfitta, come ammetteva un documento interno. Ma oggi, rinsaldata la logistica e rimpinguate le casse con una serie di estorsioni, la banda «è in grado di mantenere una minaccia costante» su ogni lembo di Spagna, valuta l´Antiterrorismo.
Tornare in trincea dopo tre anni di tregua è deprimente, e lo è a maggior ragione perché la pace sembra ancora più lontana di quanto apparisse all´inizio del cessate-il-fuoco.

A scoraggiare è una sensazione confermata dai sondaggi: ai baschi premerebbe soprattutto non avere noie, non correre rischi, e se per ottenere la pace fosse necessario abbassare la testa, pazienza. Per questo il 64% vorrebbe che un negoziato con l´Eta continui anche se la banda ricominciasse a uccidere come ha promesso. Dentro quel 64% tantissimi si considerano estranei al conflitto, quasi si trattasse d´un fenomeno naturale da cui tenersi alla larga; o d´una faida tra alcuni 'spagnoli´ e la grande cosca dell´Eta (il centinaio di etarras alla macchia, i novecento detenuti, i loro amici, le loro famiglie, per un totale di 10-20mila persone). L´atteggiamento della Chiesa ha contribuito a questa percezione. Come mi ricordano al Covite, l´associazione dei familiari delle vittime dell´Eta, fino a pochi anni fa molti sacerdoti seppellivano i poliziotti assassinati con funerali sbrigativi; e il feretro usciva da una porta secondaria, come se finire uccisi dagli etarras fosse la prova d´una colpa vergognosa. Oggi la curia è un po´ meno vile, ma anche quest´anno ha disertato la cerimonia in ricordo delle vittime del terrorismo organizzata dal governo basco.

Il governo basco è anch´esso parte del problema. Ha poteri estesi quanto nessuno altro governo autonomo del pianeta. Dispone d´una polizia propria, d´una televisione, d´un sistema scolastico ossessivamente basco. Ma neppure questo soddisfa il partito del nazionalismo cattolico e moderato, il Pnv, che da un trentennio guida l´esecutivo. Il Pnv vuole un referendum consultivo sull´indipendenza: dunque procede nella stessa direzione in cui marcia il nazionalismo radicale. Quest´ultimo ha uno status legale assai confuso. Il suo partito storico, Batasuna, è fuorilegge perché legato all´Eta. In primavera il governo spagnolo ha permesso ad un partito figliato da Batasuna, l´Anv, di presentarsi alle amministrative, ma soltanto nella metà dei seggi. L´Anv ha colto un buon risultato. Sommando preferenze e voti nulli oggi si accredita 187mila voti, che farebbe 187mila baschi cui presumibilmente sparare nella nuca ad un inerme, perfino ad un ostaggio, risulta una pratica forse discutibile ma per nulla repellente. I 719 consiglieri comunali di Anv amministreranno fondi pubblici in alcuni piccoli municipi, insomma conteranno su un ulteriore strumento di controllo sociale. Alcuni di loro, questo è scontato, informeranno l´Eta di quel che accade nelle amministrazioni.
La relazione tra l´Eta e l´Anv non è diretta né automatica. Però la cultura di riferimento è identica, un miscuglio di terzomondismo, ispanofobia e culturalismo da accademia serba. Ne offre esempi il quotidiano Gara. Entusiasmo per Castro e per la "resistenza afgana", leggi i Taliban. Un editoriale (12 giugno) che spiega un uxoricidio avvenuto in quei giorni con la politica di Madrid. Manipolazioni della storia. Piagnistei sulla fine della tregua, però imputata al governo spagnolo.

Può darsi che abbia ragione Luke Uribe-Extebarria, deputato del Pnv nel parlamento basco, quando mi dice: «La maggioranza del nazionalismo radicale ritiene l´Eta un impaccio ed è convinta che sia arrivata l´ora di continuare a lottare solo con mezzi politici». Ma fosse anche così, non osa dirlo. Di fatto sono sempre gli etarras a decidere. Il "movimento" s´accoda.
La strategia socialista puntava su una vittoria dei "politici" sui "militari", scommessa ricorrente negli ultimi trent´anni ma sempre delusa. E obbediva ad una convinzione tipica di molta sinistra europea, e cioè l´idea che qualunque conflitto sia risolvibile con i mezzi della politica. Si tratti di Taliban o di etarras basterebbe sedersi ad un tavolo e discutere per ritrovarsi prima o poi affratellati e commossi a firmare la pace.

Zapatero ha promesso che d´ora in poi sarà "implacabile" con il terrorismo, terminologia affine al "nessuna indulgenza" cui ricorrono in Italia politici e opinionisti quando non hanno lo straccio d´un´idea. Nel concreto è successo questo: appena l´Eta ha abrogato la tregua, la Fiscalia, che dipende dall´esecutivo, ha piegato lo stato di diritto secondo le attese dell´opinione pubblica. Un etarra ricoverato in ospedale è stato rispedito in carcere, un politico filo-Eta è stata arrestato. A parte questa rappresaglia infelice, il governo sta cercando di coinvolgere il nazionalismo moderato in una sorta di patto antiterrorismo. Ma non gli sarà facile rimontare la corrente quando mancano nove mesi alle elezioni politiche. E il riprecipitare del conflitto basco segue l´insuccesso dei socialisti nelle amministrative, tanto più imbarazzante per Zapatero perché a Madrid è naufragato il candidato che aveva imposto ad un apparato malmostoso. Da allora le vecchie volpi del Psoe hanno rialzato la testa. Adesso chiamano Zapatero "Harry Potter", volendo intendere: è un ragazzino convinto d´avere la bacchetta magica, ma come vedete i suoi incantesimi non funzionano.

Sempre più necessari alla destra o alla sinistra, i partiti autonomisti vedono da anni aumentare il loro potere contrattuale malgrado diminuiscano i loro voti (oggi contano per l´8% dell´elettorato). Né il Psoe né il Pp hanno una strategia efficace per uscire dalla tendenza centrifuga, dice Gorriaran. «La sinistra è troppo conservatrice, la destra troppo aggressiva e apocalittica. Occorre una terza via».
Elaborata dagli uomini di punta dell´antinazionalismo, come i filosofi Gorriaran e Fernando Savater, la proposta di Basta ya punta a fissare un limite oltre il quale il potere centrale non può essere eroso, a uniformare gli statuti autonomi e a rafforzare lo stato di diritto. Ostile allo spagnolismo quanto ai nazionalismi basco e catalano, è piaciuta a tanti spagnoli delusi dal Pp e dal Psoe. Il successo è stato tale, mi racconta Gorriaran, da portare rapidamente allo scoperto la richiesta d´un nuovo partito, sul quale potrebbe convergere un 10% dell´elettorato, e cioè liberali laici e pezzi di sinistra riformista. Ora la gente di Basta ya si sta chiedendo se formare quel partito, e se un´impresa del genere possa riuscire senza appoggi confindustriali o politici, senza null´altro che un sito web e il prestigio personale delle figure che sarebbero coinvolte nell´impresa. Nel tempo di internet è possibile raggiungere l´elettorato saltando il sistema dei giornali e delle tv? Si possono imporre temi estranei agli ordini del giorno? Difficile immaginarlo. Ma se Basta ya riuscisse a soffiare un po´ di idee nuove dentro il cosiddetto dibattito politico, in barba ai direttori del circo, l´esempio potrebbe risultare altamente contagioso.


TRIBUNALE ONU
«Crimini di guerra» Prime condanne per la Sierra Leone
Massimo A. Alberizzi sul
Corriere della Sera

Prima sentenza del tribunale per i crimini commessi in Sierra Leone. Tre dei principali protagonisti della guerra civile (1991-2002), Alex Tamba Brima, Brima Kamara e Santigie Borbor Manu, sono stati condannati a Freetown, dal tribunale speciale internazionale misto governo/Nazioni Unite. La pena che dovranno scontare sarà resa nota il 16 luglio. I tre uomini sono stati accusati di aver reclutato bambini soldato (si calcola 30 mila su una popolazione di 6 milioni), di aver commesso atrocità inumane, come il taglio di mani, braccia e gambe di coloro che erano considerati nemici o comunque disobbedienti ai loro ordini, di stupri di massa, di omicidi sommari. Il tutto per mettere le mani sulle miniere di diamanti sierraleonesi, tra i più puri e preziosi del mondo (i diamanti insanguinati resi famosi dal film «Blood Diamonds» con Di Caprio).
Dodici gli imputati tra cui il presidente della Liberia, Charles Taylor, che però è in prigione a l'Aja ed è lì che sarà giudicato, per timore di disordini a Freetown. Tre sono morti, Foday Sankoh, leader del Ruf (Revolutionary United Front), il gruppo ribelle che controllava le miniere, il suo vice Sam Bokarie detto Mosquito, ammazzato probabilmente per non farlo parlare, e il ministro dell'Interno del governo golpista cha ha guidato il paese per un anno, Sam Hinga Norman, morto dopo un intervento chirurgico.
I tre condannati ieri (i primi al mondo che pagano per aver reclutato bambini) fanno parte del gruppo di ufficiali, comandato da Johnny Paul Koroma, che il 25 maggio 1997 rovescia il governo civile di Ahmaed Tejan Kabbah e costituisce l'Afrc (Armed Forces Revolutionary Council). L'Afrc immediatamente si allea con il Ruf, che già controlla il sud est del Paese e le miniere di diamanti. A smerciare le pietre ci pensa il presidente della Liberia, Charles Taylor, che in cambio rifornisce l'alleanza di armi e munizioni. Nel febbraio 1998 interviene una forza di pace dell'Ecowas (la Comunità Economica dell'Africa Occidentale) che rimette al potere il presidente estromesso, ma le ostilità continuano. La pace nel 2001 dopo l'intervento di un contingente di truppe inglesi.


Vecchi (e ricchi) a 30 anni, fuga da Google
Incassate le stock option sono andati ai Caraibi o a creare nuove aziende. Inutili gli sforzi dei fondatori Page e Brin per fermarli
Massimo Gaggi sul
Corriere della Sera on line

NEW YORK — Google non ha ancora dieci anni, continua a crescere tumultuosamente e ad attirare «cervelli» da tutto il mondo ed è, secondo la classifica di Fortune, il luogo di lavoro più ambito dagli americani. Ma già deve affrontare un'emorragia di talenti: più di un terzo dei primi trecento dipendenti assunti dai fondatori Larry Page e Sergey Brin tra il 1998 e il 2002 — quasi tutti ingegneri e matematici — hanno incassato le loro «stock option» milionarie e se ne sono andati; chi ai Caraibi, chi a fondare nuove aziende informatiche. Un esodo di queste dimensioni in un'azienda normale è come una campana che suona a morto, la fuga da una nave che rischia di affondare. Ma a Google non c'è niente di normale.
È un'azienda straordinariamente dinamica e innovativa. Anche un po' spaventosa, per la sua capacità di demolire tutti gli argini: regole di convivenza tra imprese, tutela del copyright, rispetto della privacy, rapporti di lavoro tradizionali. È una rivoluzione che lascia tutti frastornati, mentre Google cambia e cresce alla velocità della luce: successo, arricchimenti, progresso delle carriere, avvicendamento di «cervelli» sempre più giovani e «freschi » reclutati con metodi di ricerca del personale quantomeno originali. Tecniche che variano da quelle (apparentemente) ludiche, come i «Google Games» — i giochi nei quali studenti di università rivali come Stanford e Berkeley si sfidano in discipline che vanno dalle costruzioni Lego ai puzzle più complessi, ai videogiochi di ultima generazione — a procedure da «Grande fratello» come lo «screening» di massa dei candidati, realizzato analizzando con un algoritmo matematico i 1300 questionari (ricchi anche di domande su questioni molto personali) compilati ogni giorno da chi vuole entrare nell'azienda di Mountain View.
Da un lato i ventenni brillanti e ambiziosi che continuano a essere assunti al ritmo di 500 al mese da un'azienda che dal 2003 raddoppia ogni anno il suo organico (oggi i dipendenti sono oltre 13 mila); dall'altro i drappelli di manager che, a trent'anni, hanno già accumulato una fortuna. Molti preferiscono liquidare i titoli ricevuti qualche anno fa al valore nominale di un dollaro e che ora, dopo la quotazione e la straordinaria galoppata di Google in Borsa, valgono più di 500 dollari. C'è chi vuole investire e diventare imprenditore in proprio, chi preferisce godersi una ricchezza che lo libera dal lavoro come bisogno e chi, molto più semplicemente, arrivato a 32 o 33 anni, non vuole sentire sul suo collo il fiato di «genietti» più giovani, freschi e aggressivi.
È una porta girevole che ruota vorticosamente, quella di Google, simbolo di un'epoca nella quale tecnologie e globalizzazione hanno accelerato tutti i cicli economici. Alcuni dei siti sociali di maggior successo sono frutto del lavoro dei fuoriusciti dell'azienda di Mountain View. È il caso di Twitter o di BuzzLogic. Aydin Senkyt — un matematico che se n'è andato due anni fa, subito dopo la quotazione di Google in Borsa, ed ha incassato qualche decina di milioni di dollari — ha già creato 22 nuove aziende. Bismarck Lepe, che aveva cominciato a lavorare per Google nel 2003, quando aveva solo 23 anni, due mesi fa si è dimesso dall'azienda «più desiderata dagli americani» per sviluppare Ooyala, un sito web per immagini video ad alta definizione. Ed ha confessato alla rivista Forbes la sua ambizione: creare «un'impresa che diventerà più grande di Google».

Il rischio principale, a Google, è la sindrome dell'onnipotenza. Può capitare, in un'azienda che sta costruendo la biblioteca universale, che si è data la missione di «organizzare tutta la conoscenza del mondo», che ora pretende di organizzare anche le nostre con i nuovi programmi basati su algoritmi capaci di «ottimizzare» le scelte che facciamo tutti i giorni, che ha polverizzato il concetto di «privacy» analizzando gusti, costumi e abitudini di tutte le persone che dialogano in rete e riproducendo ogni angolo del Pianeta con i suoi satelliti e le migliaia di telecamere sparse in giro per il mondo. Il fatto che molti lascino quest'azienda onnipotente è, in fondo, salutare. E rassicurante. Alla fine se ne sono fatti una ragione anche a Mountain View: «Noi — ha dichiarato a Forbes il vicepresidente di Google Laszlo Bock, ripetendo il solito slogan — dobbiamo organizzare tutta l'informazione del mondo, non vogliamo fare di Google la compagnia più grande del mondo. Se da noi nascono le 200 start up più innovative, non è una cattiva cosa». Anche perché molte di queste aziende, per quanto indipendenti, mantengono un legame tecnologico o operativo con la corazzata Google.


  21 giugno 2007