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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 19 giugno 2007


La tragedia di un popolo
Il conflitto tra Hamas e Fatah. La divisione tra Gaza e Cisgiordania e l´impossibilità della pace. Come le guerre hanno sconvolto una terra di grandi tradizioni.
Sandro Viola su
la Repubblica

Da Gerusalemme si partiva per la Samaria, verso Ramallah e Nablus, molto presto di mattina. Le luci del primo sole esaltavano l´antichità del paesaggio. Le colline sassose, i piccoli villaggi arabi arrampicati sui declivi, il verde intenso dei tratti più fertili delle valli, la vite, gli ulivi, i fichi, le greggi di pecore al pascolo.
Era quello il momento in cui ogni volta l´uno o l´altro dei giornalisti seduti nell´automobile, esclamava puntualmente con voce ispirata: «Un paesaggio biblico!». Quanto a me che non avevo letto un solo rigo della Bibbia, certi scorci della Samaria ricordavano invece le Murge pugliesi. Sì, la Palestina mi piaceva perché dava la sensazione d´un ritorno a casa.
In quegli anni, quattro o cinque anni dopo la conquista israeliana del giugno 1967, Giudea e Samaria non erano ancora sfigurate. I paesi e le città non erano state ancora stravolte dalle furibonde battaglie di strada delle due Intifada, e la campagna non era stata ancora imbruttita, snaturata, dalle colate di cemento degli insediamenti ebraici. Tutto restava, a parte la presenza dell´esercito israeliano, più o meno com´era prima del ´ 67, quando questa parte della Palestina era governata dalla monarchia giordana. Se a Nablus o a Kalkilia o a Beit Jala si chiedeva di parlare con un notabile, comparivano un ex deputato del Parlamento di Amman, un ex ministro dei Trasporti di re Hussein, un anziano avvocato, il medico del paese, un esportatore d´olio d´oliva, tutti in giacca e cravatta e qualcuno con in testa il tarbusc, il rosso cappello cilindrico che si portava nel mondo ottomano. Restavamo a parlare a lungo nelle loro case di pietra, incredibilmente fresche malgrado il gran caldo, mentre un inserviente andava e veniva versando il caffè amaro, profumato al cardamone, nelle minuscole tazze senza manico.
L´occupazione israeliana? I notabili ne parlavano con prudenza. Nessuno avrebbe potuto infatti negare che dalla fine della Guerra dei Sei giorni la situazione economica in Cisgiordania era molto migliorata. Migliaia e migliaia di palestinesi andavano adesso a lavorare in Israele, con salari maggiori di quelli che riscuotevano nell´edilizia e nell´industria dell´olio locali, continuando inoltre a coltivare, da fittavoli o proprietari, i loro piccoli appezzamenti di terra. Erano molto aumentate le automobili e le motociclette, cui badavano agli incroci gli agenti della polizia urbana con ancora sul kepi lo stemma della monarchia hascemita, e indosso la stessa uniforme della polizia inglese al tempo del Mandato sulla Palestina.
E´ vero, dicevano i notabili: i giovani, e in specie quelli d´istruzione media o superiore, costituivano un problema. Essi odiavano gli occupanti e si sentivano attirati da Al Fatah, l´organizzazione di guerriglia capeggiata da Yasser Arafat, o dalle formazioni marxiste (il Fronte popolare di Georges Habash, il Fronte democratico di Nayef Hawatmeh), convinti che la conquista israeliana potesse essere annullata soltanto con il ricorso alle armi. Ma quanto ancora sarebbe potuta durare l´occupazione: tre, quattro anni ancora? Israele non poteva non rendersi conto, infatti, della forza che stavano acquistando le spinte nazionaliste, e certo non sarebbe voluta arrivare ad uno scontro aperto. Così, dicevano i notabili, quando l´occupazione fosse finalmente finita si poteva sperare che la moderazione delle classi borghesi, la tradizionale mitezza palestinese, avrebbero consentito il varo di un´entità amministrativa o addirittura statale, senza troppi sussulti e violenze.
Ero sempre stupito di vedere quanto somigliassero, quei paesi e cittadine della Cisgiordania, ai piccoli centri urbani dell´Italia meridionale come li avevo conosciuti sino ai primi anni Cinquanta.
Sulla soglia delle loro botteghe, i sarti pigiavano instancabili sulle macchine da cucire a pedali. Le bancarelle del mercato traboccavano di verdure magnifiche, d´uva piccola ma profumata, di grandi mazzi di menta. Gli anziani sorseggiavano l´arak intorno a un tavolo di caffè situato all´ombra d´un oleandro, nelle botteghe d´alimentari s´era quasi storditi dagli effluvi del cumino, della cannella, del cardamone e del coriandolo, il medico scriveva ricette in strada per le donne che s´avvicinavano a parlare della malattia d´una madre, d´un marito, d´un figlio.
Poi le cose cambiarono. Gli attentati dell´Olp (l´Organizzazione per la liberazione della Palestina) si fecero più frequenti e spettacolari, ebbero inizio le durissime rappresaglie israeliane. Ma soprattutto, dopo il ´77, col governo di Menahem Begin, presero a dilagare gli insediamenti ebraici. Sino ad allora, i laburisti avevano sì creato alcune colonie: ma le dimensioni erano ragionevoli, e la collocazione – fuori dalle aree più densamente popolate, come avevano fatto con i kibbutz i primi sionisti – molto accorta. Ma dopo il ´77 Ariel Sharon ruppe gli argini, fu preso da una specie di furore edilizio, guadagnandosi il nomignolo di bulldozer. Spinse gli insediamenti sempre più nel cuore di Territori occupati, a Gaza e in Cisgiordania, con l´esplicito intento di creare un fatto compiuto: vale a dire l´irreversibilità dell´occupazione.
Il paesaggio della Palestina fu così ferito a morte. Quelle enormi e massicce costruzioni a picco sugli uliveti e gli orti palestinesi, quelle prime strade e cavalcavie percorribili dai soli coloni, il proliferare degli accampamenti e dei posti di blocco dell´esercito, avevano scomposto, stralunato, il volto della Palestina. Kedumin, Karnè Shomron e Ofra in Samaria, Maaleh Adumin, Gush Ezion, Kiryat Arba in Giudea, per nominarne solo alcune: le colonie aumentavano ogni anno, infatti, e ogni volta più vaste. Su terre espropriate ai locali, con impianti idrici che sottraevano l´acqua ai campi e alle case dei palestinesi (oggi la disponibilità d´acqua è di uno a quattro a favore dei coloni).
Niente come il concetto di alieno può definire la presenza di quelle brutte costruzioni in cemento, quasi sempre in cima a una collina, circondate di filo spinato, agli angoli una torretta con riflettori e uomini armati. Ricordo una volta, nell´82, che s´era andati a Kiryat Arba per parlare coi portavoce dei coloni. Dalle case uscivano odori di cucina russa ed est-europea, sauerkraut, pesci in salamoia, minestra di barbabietole. E per la prima volta, in seguito a una delle ultime decisioni prese da Begin prima di sprofondare nella sua misteriosa demenza, i coloni erano armati. Tutti che s´aggiravano con un moschetto o un fucile mitragliatore (a spalla, di fianco nell´automobile, in mano con la canna rivolta verso il basso) tra i palestinesi inermi.
Era un brutto segno, e dopo qualche anno le cose precipitarono.
Tra l´87 e l´89, la prima Intifada sconvolse infatti anche le città. Ramallah era ormai piena di macerie per le cannonate dei tanks israeliani, l´aria irrespirabile a causa dei copertoni che i ragazzi palestinesi davano alle fiamme, le vetrine dei negozi sfondate, le condutture dell´acqua saltate. E lo stesso era a Nablus, a Kalkilya, a Hebron. Di fronte alla «rivolta delle pietre», le rappresaglie israeliane si fecero ancor più devastanti. Le città e i villaggi erano ormai irriconoscibili, qua e là punteggiati dai buchi neri delle case fatte saltare dagli israeliani.
Palestina? No, non era più la Palestina. Gaza era ormai un inferno in terra, il sovraffollamento, la miseria, la culla degli shaid – i martiri – che si facevano saltare nelle città israeliane, i missili aria-terra con cui Israele procedeva agli "omicidi mirati". E la Cisgiordania non somigliava più alle Murge pugliesi, era una zona di retrovia in una grande guerra.


Aiuti ad Abu Mazen, via l'embargo
Usa e Ue sostengono l'Autorità palestinese in lotta con Hamas Aperture da Israele. Solo Teheran con gli islamici: il nuovo governo non è democratico
Davide Frattini sul
Corriere della Sera

GERUSALEMME — La squadra messa in piedi dal nuovo premier Salam Fayyad e approvata dal presidente Abu Mazen ottiene l'abbraccio diplomatico di tre quarti del mondo, escluso l'Iran che considera l'esecutivo di emergenza «contrario alla democrazia». Condoleezza Rice, segretario di Stato americano, ha annunciato che gli Stati Uniti riprenderanno gli aiuti economici ai palestinesi, sospesi dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del gennaio 2006.
Anche l'Unione Europea ha deciso di riavviare relazioni normali con l'Autorità e di ricominciare l'assistenza diretta. Il governo israeliano di Ehud Olmert è pronto a scongelare i milioni di dollari in tasse raccolti per l'Autorità.
«Giuro su Allah, non lo so». Il neo-ministro degli Interni Abdel Razak al-Yahia, anziano generale a riposo da anni, risponde con franchezza a chi gli chiede come intenda ristabilire la legge dell'Autorità palestinese nella Striscia di Gaza. Anche Riad Al Malki, il ministro dell'Informazione che fa da portavoce del governo, ammette «non abbiamo un piano definito».

Dopo giorni di silenzio, il sostegno è arrivato anche da Marwan Barghouti, il leader più popolare di Fatah, condannato nel maggio 2004 a cinque ergastoli più quarant'anni con l'accusa di essere coinvolto negli omicidi di cinque israeliani. «Considero il colpo di stato militare condotto da Hamas una minaccia pericolosa per l'unità nazionale e per la questione palestinese — scrive dal carcere — un cambiamento sulla strada della resistenza e della democrazia». Barghouti approva le decisioni di Abu Mazen e invoca allo stesso tempo una riforma interna del partito. Il presidente avrebbe chiesto agli israeliani di rafforzare il Fatah rilasciando Barghouti e altri leader.
L'embargo è finito. Per la Cisgiordania. A Gaza, si cerca di evitare una crisi umanitaria. Le frontiere restano chiuse, gli israeliani hanno ripreso le forniture di carburante e promettono di lanciare cibo e medicinali dagli aerei. Gli europei stanno studiano un meccanismo per far arrivare gli stipendi agli impiegati pubblici, scavalcando Hamas.
Al valico di Erez, nel nord della Striscia, centinaia di persone aspettano ammassate di poter entrare in Israele e da lì verso la Cisgiordania. Un commando dei Comitati di resistenza popolare, schierati con Hamas, ha sparato contro una postazione dell'esercito dall'altra parte del confine.

Abu Mazen ha sostituito Mohammed Dahlan alla guida del Consiglio per la sicurezza nazionale. Al suo posto, il premier Salam Fayyad. Una parte di Fatah ha chiesto di mettere Dahlan sotto inchiesta per la disfatta militare subita a Gaza.


Stop al boia
L'Europa dice sì grazie all'Italia
Sergio Sergi su
l'Unità

Strasburgo - È sembrato quasi un gioco di squadra. D'Alema che insiste perché i colleghi votino subito il mandato, il Consiglio che nicchia e il neo-ministro francese, Bernard Kouchner, che getta sul tavolo la proposta di presentare la risoluzione alla sessione Onu di settembre. Si è sbloccata così, nella riunione dei ministri degli Esteri Ue a Lussemburgo, la battaglia per la moratoria sulla pena di morte. L'Europa ha detto sì. Adesso, c'è l'impegno unanime dei Paesi dell'Unione, trascinati dall'iniziativa italiana, impegnati a sostenere la proposta e a mobilitarsi per raccogliere più adesioni possibili. Ma non è stato facile, c'è stato bisogno di un paziente, quasi capillare lavoro di persuasione che, alla fine, l'ha spuntata sulle ultime titubanze o, anche, resistenze.



La Marcia su Roma
Strategia della destra
Furio Colombo su
l'Unità

Fausto Bertinotti ha lanciato un messaggio appassionato: «Ci vuole una sinistra unita che parla col cuore». Ma, da titolare di una delle tre massime istituzioni, la presidenza della Camera, si è accorto che i leghisti, al grido nobile e risorgimentale di «fuori dalle balle», solo tre giorni fa hanno occupato i banchi del governo con un gesto simile a quello tentato nel Parlamento spagnolo dal colonnello della Guardia Civil Antonio Tejero Molina nel 1981?
Quanto alla Guardia Civil, abbiamo avuto anche noi la nostra grave e pericolosa insubordinazione anche se si è scelto di non notarla, il generale Speciale, noto per le ragioni non patriottiche e non di attaccamento al dovere descritte dettagliatamente dal non smentito resoconto del ministro Padoa-Schioppa al Senato (fra le urla indecenti e insultanti della opposizione), ieri non si è presentato allo scambio delle consegne con il suo successore.
Non era mai accaduto. Non è un evento facoltativo il passaggio delle consegne, in un corpo militare, non è qualcosa che un generale fa se gli torna comodo e non fa se si trova al mare. È un dovere militare perché rappresenta la continuità di un corpo armato nei suoi doveri e funzioni. Il generale Speciale ha clamorosamente negato quella continuità con un grave atto di insubordinazione.
Non c'è un superiore (tutto il governo intorno a Padoa-Schioppa se necessario, tutta la maggioranza intorno al governo) in grado di intervenire? Nessuno può dire che cosa può nascere da una insubordinazione, anche isolata, anche interpretabile come un gesto squallido di grave maleducazione. Un generale, proprio perché comanda, quando riceve un ordine obbedisce e basta. Oppure inizia una ribellione.

Ma mentre soffia quel ghibli di polvere fitta che sembra accecare un po' tutti, c'è chi annuncia e proclama la marcia su Roma.
Sono l'ex primo ministro e miliardario in carica Silvio Berlusconi, capo di qualunque opposizione (nel senso che se gli sfugge Casini e si allontana in tutta fretta Tabacci, lui arruola chiunque sia pronto a fare il maggior danno possibile alla Repubblica) e il vice presidente del Senato Roberto Calderoli che, come politico, rappresenta poco (un'unghia di xenofobia europea) ma come carica istituzionale è quasi al vertice. Bene, i due annunciano che porteranno a Roma dieci milioni di persone, contro il governo, contro la maggioranza e dunque - alla maniera del gen. Speciale - contro e fuori dalla democrazia.

Però in questo caso si tratta non di una spacconata ma di un pericolo, per tre ragioni. Perché Berlusconi è ricco. Può pagare ciò che i partiti non possono più permettersi. Perché Calderoli (di cui benevolmente il direttore di Radio Radicale Bordin ha detto la mattina del 18 giugno che «ama colorire le sue dichiarazioni») è pericoloso nel senso squadristico del primo fascismo agrario. E perché le «rivolte delle tasse» giustificate o no, sono quelle che, nella storia, hanno sempre portato sovvertimento e sangue.
Governando come ha governato per cinque anni, oltre a triplicare la sua ricchezza, Berlusconi, con l'aiuto della Lega e il silenzio educato degli altri alleati, ha lavorato con lena a spaccare l'Italia. Neppure lui si aspettava quel «ma valà, non è vero, non demonizzate Berlusconi. Che cosa farete, voi che puntate tutta la politica su Berlusconi, quando Berlusconi non ci sarà più?».

Berlusconi, c'è ancora, miracolato da una opposizione (ora risicata maggioranza) che prima ha spinto via dalla scena i movimenti che non gli davano tregua e poi ha iniziato lo smantellamento dei due maggiori partiti, disattivando, nel corso del trasloco verso il futuro del partito democratico, la capacità di tener testa ogni giorno al lavoro di spaccatura.
Quel lavoro continua. Si estende dalla religione ai diritti civili, arriva agli immigrati, alle imprese, al commercio, alle tasse invadendo ogni campo della vita quotidiana.
I talk show politici, da Ballarò a Porta a Porta, ci sono ancora, identici, fiumi di presenze e parole sempre uguali, immagini di un'Italia immutabile e immobile che alimenta il vento dell'antipolitica. Cogliendo quel vento con la quantità di bullismo e di mezzi necessari (Berlusconi) e di spinta eversiva e razzista (Calderoli) si può anche sfidare con maleducazione il capo dello Stato. Da squadristi i due esclamano: «Da Napolitano non ci faremo dare quattro pacche sulle spalle». La mitezza guardinga di tutti i telegiornali li inducono a credere che saranno trattati con bonomia mentre annunciano rivoluzione, perché è tanto tempo ormai che questi personaggi portatori di distruzione, sono trattati come un simpatico «folklore italiano».
Intorno tutto tace. Prodi fa sapere che «ci vorrebbe una novena». Con tutto il rispetto per i credenti, mi domando se basterà. Da laico, ero rimasto al detto popolare: «Aiutati che Dio ti aiuta».


Priebke torna ai domiciliari il permesso dura solo un giorno
L´ex capitano delle Ss ieri al lavoro in motorino. Il magistrato di sorveglianza revoca l´autorizzazione. La comunità ebraica: vergogna. Parisi convoca il Pg militare.
Gabriele Isman su
la Repubblica

ROMA - Ieri doveva essere la prima giornata di lavoro, ma è stata anche l´ultima: il permesso permanente di lavoro per Erich Priebke è stato infatti sospeso. A firmare il provvedimento, Isacco Giorgio Giustiniani, magistrato militare di sorveglianza di turno, che ha così accolto la richiesta del Procuratore militare Antonino Intelisano. Già da oggi l´ex capitano Ss non potrà tornare a via Panisperna nello studio del suo fedelissimo Paolo Giachini, Alla base del provvedimento di sospensione, la mancata comunicazione alle autorità da parte di Priebke dei suoi spostamenti (orari e modalità) per recarsi a lavorare. Il 25 maggio a firmare il permesso di lavoro era stato l´altro magistrato di sorveglianza, Fulvio Salvatori, in ferie fino a oggi.
La notizia della sospensione arriva alla fine di una giornata convulsa. «Dal 26 maggio è venuto qui altre volte» confida Giachini a via Panisperna. Alle 7 del mattino è lui a portare il 93 enne ex Ss - casco, giubbotto e pantaloni beige, scarpe da ginnastica - in motorino dall´appartamento all´Aurelio allo studio nel Rione Monti. «Una corsa folle tra strade contromano e semafori rossi bruciati» racconta Massimo Percossi, fotografo dell´Ansa, che li segue su un´altra moto e a cui Giachini impedisce di fotografare l´ex ufficiale tedesco mentre entra nello studio dove resterà per oltre sei ore. Intanto, sotto l´appartamento dell´Aurelio, era partita la contestazione - tra cartelli, cori, insulti e sberleffi - di un centinaio di ragazzi della Comunità ebraica romana. Con loro, due reduci di campi di sterminio. «Quanto costa allo Stato la sorveglianza di Priebke? Ci risulta un milione all´anno» dice Carla Piperno, esponente della comunità. La protesta si sposta al rione Monti: un´altra mezz´ora di cori, stessi ragazzi, stessi cartelli - tra questi: "Non dimentico le Fosse Ardeatine", "Noi non ti perdoniamo" - e, nel pomeriggio, volantini sulle vetrine dei negozi contro l´ex capitano. Alle 14.30 un sorridente Priebke esce dallo studio per tornare a casa. Nella via i cori gridano "Vergogna", mentre le due autocivette sfrecciano via e si sfiora la rissa tra un fotografo e un ragazzo dalla testa rasata uscito dallo studio. Intanto la Procura di Roma apre un fascicolo senza ipotesi di reato e contro ignoti dopo l´esposto presentato nei giorni scorsi da Oreste Bisazza Terracini, avvocato della Comunità ebraica.
Nel frattempo, il ministro della Difesa Arturo Parisi annuncia di aver convocato il Procuratore Generale Militare presso la Cassazione per vuol capire di più sul reale funzionamento del tribunale di sorveglianza «e sulle disfunzioni organizzative connesse alla posizione del condannato Erich Priebke». Parisi vuol capirci di più sul reale funzionamento del tribunale di sorveglianza. «Priebke non è mai pentito» dice Parisi: a marzo il parere negativo del ministro aveva bloccato la richiesta di grazia.


Partito democratico, a ottobre
«segretario eletto dai cittadini» 
Prodi: forte senza indebolire il governo
sommari de
l'Unità

Un segretario politico «forte», eletto a ottobre da un assemblea costituente composta da 2400 membri, ma di fatto votato direttamente dai cittadini su un modello ispirato alle primarie Usa con un sistema proporzionale e liste collegate distribuite su 475 collegi. Un meccanismo piuttosto complesso, ma che garantirà la reale partecipazione dei cittadini e una elezione diretta di quella che sarà, ha detto Prodi, «un vero segretario, politicamente forte e legittimato dagli elettori».


I dolori del giovane Walter
Federico Geremicca su
La Stampa

Come verrà spiegato al «popolo dell'Ulivo» che il leader che con Prodi e più di ogni altro ha predicato la nascita del Partito democratico - e che qualunque sondaggio indica come il preferito per la leadership del nuovo soggetto politico - nemmeno si presenterà (salvo improbabili colpi di scena) al giudizio dei cittadini-elettori il 14 ottobre? E poi: quanto risulterà credibile e vera l'investitura popolare del primo segretario del Pd, se Walter Veltroni non parteciperà alla contesa? Detto in due parole, è questo il nuovo tormentone da ieri in gestazione nel triangolo Ds-Margherita-società civile. Perché è precisamente questo quel che dovrebbe accadere il 14 ottobre: tutti alle urne per scegliere tra Bersani e Franceschini, magari tra Rutelli e Fassino o ancora tra Anna Finocchiaro ed Enrico Letta.

Ma con l'impossibilità di votare per Walter Veltroni, democratico ante litteram che però non si presenterà ai nastri di partenza.

Può sembrare paradossale ma è questo lo scenario più accreditato dopo la svolta e l'accelerazione impresse ieri pomeriggio all'intera vicenda dal Comitato dei «magnifici» 45: voto popolare a candidati presenti in liste collegate a un candidato segretario, e poi ratifica della scelta del leader nell'Assemblea costituente. Alla fine, infatti, è passata la linea di chi chiedeva per il Partito democratico un segretario vero e autorevole, scelto dai cittadini: proprio la soluzione meno gradita a Veltroni. Di qui a un momento vedremo il perché dell'opposizione del sindaco di Roma a una tale procedura. Per intanto si può però annotare che, in un impeto di saggezza (e di coraggio), l'Ulivo ha scelto la via della massima apertura alla società civile in un passaggio dal quale dipende per intero il suo futuro: un segnale di vitalità, insomma, dopo mesi di difficoltà di ogni genere e di autoreferenzialità spinta all'estremo.

Ma torniamo al paradosso iniziale ed a Walter Veltroni. A giudizio più o meno unanime (e naturalmente più o meno malizioso) in tutta la fase di definizione di regole e percorsi per la nascita del Pd, il sindaco di Roma si è mosso sulla base di una scelta e di un obiettivo: la scelta consiste nella decisione di rimanere primo cittadino della Capitale il più a lungo possibile (il suo mandato scade nel 2011) non essendo per altro particolarmente interessato ad un ritorno alla «vita di partito» quanto - piuttosto - alla candidatura a premier alle prossime elezioni politiche; l'obiettivo, di conseguenza, sarebbe stata l'elezione di un segretario del Pd «debole» o comunque senza velleità (e possibilità) di contendergli la premiership quando verrà il momento di scegliere il successore di Romano Prodi. Se questi sono l'obiettivo e la scelta di Veltroni, è indubbio che l'elezione diretta (o semi-diretta) del neo-segretario non è per lui un buon affare, essendo l'investitura popolare - notoriamente - un potente e incontrollabile propellente.

La linea scelta da Veltroni è stata contestata da più parti e con più argomenti. Ieri, prima della riunione del comitato dei 45, Arturo Parisi (sponsor da sempre dell'elezione diretta del segretario) avrebbe invitato il sindaco di Roma a ripensarci: avvertendolo che quando un treno passa bisogna saltarci su, perché non è detto che vi sia una seconda possibilità. Meno concilianti e più aspri alcuni commenti degli antichi amici-nemici dalemiani: «Veltroni spieghi cosa vuol fare nella vita - argomentava ieri uno dei collaboratori del vicepremier -. Il sindaco di Roma? Il segretario del Pd? Il candidato premier? Si candidi, si può discutere di tutto: l'unica cosa che non è accettabile è che pretenda di dettare tempi e modi della nascita del Pd in rapporto alle sue personali convenienze».

La «resistenza veltroniana», insomma, ieri non ha retto alla voglia di rimettere in discesa il carro del Partito democratico. Ma probabilmente non è finita qui. E non resta che aspettare le prossime mosse del candidato-ombra: che è pur sempre il leader al quale sono affidate le maggiori chances di riscatto e risalita di un centrosinistra disorientato e sotto tiro.


Metà degli autonomi con guadagni da fame
Il dossier Visco: oltre il 50% dichiara un quarto di chi sta negli studi di settore
Barbara Ardu su
la Repubblica

ROMA - Con 800 lire si comprava un bignè. Ottomila lire e te ne portavi a casa un vassoio. Oggi a meno di 80 centesimi non c´è pasticciere che te lo venda. Eppure nonostante il prezzo sia raddoppiato i pasticcieri continuano a fare una vita grama. È vero che anche lo zucchero è aumentato, che le mandorle costano, che il cioccolato, se lo vuoi buono, lo devi pagare, ma a leggere le loro dichiarazioni dei redditi sembra meglio entrare in Polizia che aprire una pasticcieria. Chi vende dolci elaborati, un artigiano a tutti gli effetti, dichiara meno di un poliziotto con dieci anni di servizio alle spalle, appena 25 mila euro lordi l´anno. E mica a tutti va così bene. Solo coloro che hanno aderito agli studi di settore, che si sono dunque riconosciuti nei calcoli dell´Agenzia delle entrate, che stabiliscono quanto in base ai ricavi e ai costi sostenuti da un´impresa, si porta a casa, a fine anno, un lavoratore autonomo, dichiarano in media 25 mila euro. Gli altri, quelli che hanno valutato troppo elevato il reddito calcolato con gli studi di settore, sono sull´orlo della povertà, guadagnano 11 mila euro l´anno, la metà di quanto si porta a casa in media un lavoratore dipendente. O almeno quegli 11 mila euro è quanto dichiarano. Una vita amara nonostante tutto quello zucchero.
Gli autonomi sugli studi di settore hanno sempre puntato i piedi, nonostante a scriverne il contenuto ci siano anche loro. E quanto più agli studi vengono aggiunte sofisticazioni (è accaduto con la Finanziaria del 2006 e anche con quella del 2007), tanto più gli autonomi non vi si riconoscono. Nel 2005 meno del 40 per cento di commercianti e artigiani ha aderito, riconoscendo dunque che il reddito calcolato dallo studio era più o meno quello reale. Un anno prima però, nel 2004, le adesioni erano state più alte, il 60 per cento. Cosa è accaduto? Qualcuno se la sarà vista brutta, magari ha lavorato di meno. E gli altri? Forse l´aggiornamento degli studi di settore non li ha convinti troppo e si sono defilati.

Dunque la metà dei lavoratori autonomi italiani (2milioni e 616 mila) nel 2005 non si è riconosciuto negli studi di settore. Avrebbe guadagnato di meno, parecchio di meno: il rapporto a volte è addirittura di uno a quattro. Se per esempio chi ha aderito ha dichiarato 25 mila euro, chi non lo ha fatto ne avrebbe guadagnati poco più di 6 mila, un reddito da fame. Meno di quanto si porta a casa una donna di servizio extracomunitaria o un lavoratore precario dei call center. Possibile? Assolutamente sì. Un ristoratore laziale nel 2005 ha dichiarato in media un guadagno di quasi 12 mila euro l´anno. Il titolare di una lavanderia lombarda che passa la giornata tra fumi e vapori guadagna in media 12 mila euro. Meno, sempre meno, di chi ha un lavoro dipendente, che in media si porta a casa a fine anno 22 mila euro lordi.
E la lista può continuare all´infinito, perché chi si ritiene non congruo ad aderire agli studi di settore (il 50 per cento degli autonomi) dichiara di guadagnare in media tra i 10 mila e i 20 mila euro. Non c´è da stupirsi dunque se l´evasione fiscale sfiora ormai i 270 miliardi (il 27 per cento del Pil). Tutta ricchezza prodotta, ma occultata o celata con sofisticati sistemi. Le scorte di magazzino per esempio.

Per un macellaio che si sottrae agli studi di settore la durata delle scorte varia dai 75 ai 199 giorni. Dunque o la carne è marcia o è congelata o c´è qualcosa che non torna. Ci sono casi anche più palesi: panettieri che producono poco pane, ma acquistano molta farina. Parrucchieri che pagano bollette della luce e dell´acqua elevate, ma fanno poche messa in piega. I dati sconcertano eppure la protesta di commercianti e artigiani contro gli studi di settore cresce.


Si chiama Mediaroom la nuova piattaforma Iptv di Microsoft
Pino Fondati su
Il Sole 24 Ore

Da Microsoft Iptv a Microsoft Mediaroom. Con la nuova versione della sua piattaforma Iptv, annunciata in questi giorni, Microsoft ne cambia il nome con l'obiettivo di renderla più aderente all'immaginario presente e futuro di nuove esperienze di intrattenimento. Ma anche per mettere a disposizione dei fornitori di servizi un marchio noto in grado di differenziarli dalla concorrenza e di supportarli nelle attività di marketing. Non solo di cambio di nome si tratta però, perché la nuova versione della piattaforma presenta anche novità sostanziali. Tre funzioni in particolare. La prima riguarda la condivisione di contenuti digitali personali, che consente di ascoltare musica digitale e di visualizzare sul televisore le fotografie digitali memorizzate sul Pc di casa. La seconda riguarda l'ambiente per applicazioni multimediali, grazie al supporto per i Web services e le applicazioni, cosa che consente così ai service provider di fornire funzionalità avanzate come portali dinamici di video-on-demand, giochi e servizi di Tv interattiva. La terza, ma non ultima, l'ampliamento delle funzionalità MultiView, che consentono di vedere contemporaneamente più canali, programmi e angolazioni di inquadratura su un solo schermo. L'obiettivo insomma è di rafforzare le caratteristiche già esistenti nella precedente versione, come la registrazione avanzata di video digitali, video on-demand, la televisione ad alta definizione e il cambio istantaneo di canale.
E non è tutto. Microsoft Mediaroom contiene le funzionalità di digitale terrestre.



  19 giugno 2007