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a cura di Fr.I. - 15 giugno 2007


La notte della Palestina
Ali Rashid su
il Manifesto

Forse una speranza, ho pensato ieri quando la gente di Gaza è scesa in piazza contro la guerra fratricida. Poi Al Jazeera ha mostrato il corteo bersagliato da entrambi i contendenti, e sono cadute le prime vittime. Si può ripartire solo da questo coraggio, da chi non si è fatto intimidire da armi, calci e sputi. Ora c'è solo rabbia, vergogna, stupore. I due contendenti in armi non rappresentano più il disagio e le aspirazioni palestinesi. È lotta per il potere, in assenza di potere, sulle macerie della Palestina ancora sotto l'occupazione israeliana che dura da sessant'anni. Tornano in mente le parole di Frantz Fanon nella Rivoluzione tradita: «In mancanza di un progetto politico e culturale alternativo si riproduce la dimensione del nemico occupante». Così azzerano anni di lotta drammatica, ma anche di riscatto politico, umano e culturale. Le parti che si fronteggiano, nel metodo e nel contenuto, sembrano estranei a questa storia.
Ma perché questa trasformazione dopo la vittoria elettorale di Hamas. Perché hanno sconvolto un popolo che aveva fatto, comunque, la sua scelta? La risposta sta nel meccanismo democratico inceppato che non ha permesso a chi ha vinto le elezioni di esercitare il suo diritto-dovere di governare. I responsabili sono troppi: innanzitutto la stessa Al Fatah e il presidente Abu Mazen che, insieme ad Israele e alla Comunità internazionale, ha frapposto mille ostacoli tra Hamas e la possibilità di governare. Il resto lo hanno fatto l'isolamento politico, l'embargo economico, le uccisioni mirate, le incursioni militari quotidiane, gli arresti dei membri del governo e del Parlamento, il Muro, i nuovi insediamenti. Israele e gli Stati uniti - il rapporto dell'inviato dell'Onu Alvaro de Soto parla di effetto «devastante» per «l'appoggio incondizionato dato dalla Casa bianca ad Israele» - hanno imposto un assedio finanziario, minacciando le banche internazionali, impedendo l'arrivo di fondi raccolti nel mondo per la popolazione alla fame.
È così cresciuto un caos non calmo, con una deriva malavitosa. E l'ultimo accordo della Mecca tra Hamas e Fatah che aveva posto fine agli scontri precedenti dando vita al governo di unità nazionale accolto con gioia nei Territori, non ha modificato né l'intransigenza d'Israele, né le condizioni materiali dei palestinesi. L'embargo e l'isolamento internazionale continuano. Altri ministri e parlamentari sono stati rapiti e rinchiusi nelle carceri israeliane. L'accordo della Mecca prevedeva l'allontanamento di tutti i falchi responsabili degli scontri. Hamas ha allontanato i propri - quelli che oggi guidano la protesta e la cui ferocia in queste ore è scellerata - ma Abu Mazen ha confermato e promosso l'eminenza grigia Dahlan. E le forze dell'ordine hanno continuato a rifiutare gli ordini del ministro degli interni, costringendolo alle dimissioni. Infine le dichiarazioni di Israele e di Bush, sulle intenzioni di sostenere con armi e denaro le forze dell'ordine alle dipendenze di Abu Mazen in funzione anti-Hamas, hanno aperto la voragine dei sospetti. Oggi «allegramente» Israele sostiene che è la divisione dei palestinesi ad impedire la ripresa delle trattative. In verità Israele, che non trattava neanche quando l'interlocutore c'era, non tratta perché è contro una soluzione politica che ponga fine alla sua occupazione sulla Palestina.
I palestinesi si uccidono e suicidano il sogno della terra più amata. Ma il mondo occidentale, Europa compresa, che sta a guardare è il vero responsabile. La sua guerra e le sue false promesse hanno riaperto per sempre la ferita del Medio Oriente.


Grossman: "Questo è l'inizio
la guerra può travolgerci tutti"
Parla lo scrittore israeliano: "Esplode una frustrazione sedimentata per anni". "Dovremo trattare anche con gli integralisti ma non credo che si possano rimproverare gli israeliani".
Alberto Stabile su
la Repubblica

GERUSALEMME - David Grossman, la guerra è il tema che attraversa il suo ultimo libro ("Con gli occhi del nemico", Mondadori). In questi giorni stiamo assistendo ad un paradosso della Storia, la guerra civile palestinese, il conflitto fra i poveri, i rifugiati, gli occupati. Che cosa pensa davanti alle immagini provenienti da Gaza?
"Prima di tutto, sento una grande preoccupazione per quello che sta per svilupparsi da questa guerra civile. Sono quasi sicuro che non finirà a Gaza, che si infiltrerà anche nella Cisgiordania e in seguito produrrà violenze contro Israele. E' orribile vedere quello che i palestinesi si fanno l'uno l'altro. Devo dire che la mia prima reazione è stata che una violenza interna di tale portata è una cosa che noi, qui in Israele, non abbiamo ancora sperimentato. Ho pensato allo sganciamento da Gaza, a quanta tensione ci fosse, a quante armi, a quanto fanatismo ci fossero in giro, eppure, nemmeno una goccia di sangue è stata versata, né dei coloni, né dei soldati".

Qualcuno ritiene che la guerra civile palestinese sia un risultato perverso dell'occupazione israeliana. Pensa che Israele possa avere una qualche responsabilità in quello che sta succedendo laggiù?
"Questa è la prima cosa che si tende a dire: 'Abbiamo parlato loro nella lingua della violenza e dell'occupazione per tanti di quegli anni, che alla fine sono rimasti contagiati ed ora parlano la stessa lingua'. Ma penso che le cose siamo molto più complesse. Israele non ha occupato l'Iraq, eppure gli iracheni si stanno sgozzando a vicenda, a centinaia al giorno. Quindi propongo di non rimproverare Israele per tutto quello che succede, anche se come israeliano so che partecipiamo alle violenze in tutta la regione. E' una cosa che dobbiamo ricordare.

Dovesse, come tutto lascia prevedere, prevalere Hamas, ritiene che Israele dovrebbe intavolare un negoziato anche con il movimento islamico?
"Penso che sia necessario provare ogni possibilità. Non sono sicuro che avremo successo, ma ho una profonda fede nella natura del dialogo e penso che due parti che comincino un dialogo senza condizioni preliminari, nella maggioranza dei casi ne emergeranno diversi, un po' più amici di prima.
...
Rabin diceva, infatti, che "non ci si può scegliere il proprio nemico". In questa fase, vede svanire le probabilità di pace?
"Penso che questi siano brutti giorni per la pace e per la speranza. Nel momento in cui stiamo parlando, in questa settimana, con Hamas che sta conquistando gli avamposti di al Fatah a Gaza e centinaia di palestinesi sono stati uccisi da altri palestinesi, non penso veramente che ci sia qualcuno con cui si possa parlare, perché non si sa con chi s'andrebbe a concludere l'accordo.

Per il momento penso che dobbiamo semplicemente aspettare finché i palestinesi stessi decidano del loro proprio destino. Detto questo, vorrei anche ricordare che abbiamo un altro fronte in cui dobbiamo fare uno sforzo, il fronte siriano. Di nuovo, non si tratta di un fronte molto incoraggiante o con ampie prospettive, ma dobbiamo fare del nostro meglio per prevenire la prossima guerra".



Tra il lutto e la paura
Gad Lerner su
la Repubblica

BEIRUT - Avanzano fianco a fianco, Saad Hariri e Walid Jumblatt, stretti fra decine di miliziani col mitra dei loro eserciti privati, le Land Cruiser blindate e solo piu´ in là i soldati in divisa. Entrambi hanno avuto il padre ammazzato. Sono dei predestinati, speriamo non dei morti che camminano. Il sunnita Saad con i capelli neri lucidi di gel, cui neanche la barba riesce a togliere l´aria sperduta del ragazzo costretto a crescere troppo in fretta, nato in Arabia Saudita 37 anni fa e precipitato alla guida di un movimento libanese che affida ai signori della guerra perfino la speranza della democrazia. Il druso Walid, paradossale aristocratico socialista, protagonista assoluto della politica e della mondanità.
Si sono ritrovati a portare le loro condoglianze nel condominio borghese di Walid Eido e di suo figlio Khaled, assassinati il giorno prima dall´autobomba sulla Corniche. Si sono fatti largo fra le lamentazioni e i tacchi a spillo di spettacolari prefiche contemporanee, abbigliate di nero Dolce & Gabbana. Seguono le bare verso la moschea mentre i sostenitori li omaggiano di urla tribali in cui c´è tutta la maledizione di questo Medio Oriente: "Saad, hai un popolo che beve sangue!", "Walid, siamo pronti a morire per te!". Slogan retaggio di quindici anni di guerra civile, mitizzati da giovanotti che non hanno soldi abbastanza per volare in Europa.
Beirut ha paura. Nonostante il lutto nazionale e gli uffici chiusi, solo 2500 uomini seguono le bare avvolte nella bandiera col cedro. E anche le orazioni funebri paiono guardinghe nell´alludere alla colpevolezza siriana. Forse il settimo omicidio politico del dopo Hariri insinua anche nei leader antisiriani il dubbio dell´impossibilità di un futuro a prescindere da Damasco.
Un dubbio odioso, perché ne va dell´indipendenza del Libano. Ma quando ipotizzo che Israele, gli Stati Uniti e l´Europa potrebbero anche scambiare una moneta libanese pur di trascinare Damasco al trattato di pace e alla stabilita´ regionale, dai miei interlocutori ottengo sguardi addolorati, non dinieghi. Lo sanno: il Libano e´ sempre stato merce di scambio. A chi serve davvero un Libano indipendente, proclami a parte, se non ai libanesi?

All´ingresso della moschea cozzano fra di loro le guardie del corpo che circondano ogni notabile, urlano, sembrano impazziti, si spintonano con violenza nel tentativo di seguire il loro protetto all´interno. Ciascuno ha i suoi e diffida degli altri, lo Stato pare in frantumi. Del resto pare incredibile che al funerale di un deputato vittima di un attentato terroristico non partecipino il presidente della Repubblica e il presidente del Parlamento. Ma nessuna milizia potrebbe garantire qui l´incolumità del filosiriano Emile Lahoud e dello sciita Nabih Berry. La spaccatura del paese è fotografata da tali assenze istituzionali.
La separazione confessionale, la compattezza dei clan, sopporta alleanze provvisorie ma non ammette contaminazioni. Ho provato a chiedere se fra le personalità più in vista vi sia qualcuno che abbia contratto matrimonio fuori dalla sua comunità; se almeno nelle università, nell´élite culturale sia praticata l´amicizia fra diversi. La risposta è negativa. Impensabile.
Certo, alla riunione dell´"alleanza 14 marzo" convocata subito dopo l´omicidio Eido si fanno fotografare il falangista Samir Geagea (l´unico processato per crimini di guerra) e il maronita Amin Gemayel insieme agli ex nemici di un tempo, Walid Jumblatt e Saad Hariri. Ma il fatto stesso che la rivoluzione dei Cedri, il grande movimento popolare per l´indipendenza e la democrazia, abbia dovuto affidare la sua leadership ai capiclan ex signori della guerra, ne spiega l´afasia.
Questo e´ un paese in cui fino a pochissimo tempo fa l´appartenenza religiosa veniva registrata perfino sulla carta d´identità. E´ andata in crisi la costituzione materiale che prevede un presidente della Repubblica cristiano, un capo del governo sunnita e un presidente del Parlamento sciita, ma nessuna alternativa credibile si delinea all´orizzonte.
Possibile che la società civile di questa Beirut dinamica, evoluta, intraprendente, rimanga cosi´ priva di rappresentanza? Possibile che il futuro sia delle milizie private, come a Gaza?
Ho tra le mani un bel fascicolo della rivista "La pensée du midi" che raccoglie le testimonianze di giovani talenti cresciuti dopo la guerra civile: film-maker, autori teatrali, scrittori, psicanalisti. Per lo più donne, sconosciute all´establishment, capaci di raccontare la vita notturna sotto i bombardamenti israeliani, le avanguardie musicali, la creatività del cinema libanese. Una realtà vivacissima. Ma sono tutte intellettuali che traggono la loro energia dalla possibilità di vivere perennemente fra le due sponde del Mediterraneo, con un piede a Beirut e l´altro a Parigi. Hanno sperato in un nuovo Libano. Lo inseguono attraverso un´osmosi con l´Europa ancora possibile, unico antidoto al richiamo del sangue. Nessuno meglio di loro sa che la distruzione della cultura levantina scatenerebbe effetti letali anche nelle società d´oltremare.



Presidente non li riceva
Antonio Padellaro su
l'Unità

Non ci permetteremo certo di suggerire al capo dello Stato ciò che egli deve o non deve fare. Ma la presenza al Quirinale, mercoledì prossimo, di quegli stessi leghisti che ieri, e in quale modo, hanno oltraggiato il Parlamento sembra quasi un'ingiuria reiterata nei confronti delle istituzioni. Qui non si tratta più del volgare disprezzo che costoro non hanno mai smesso di rovesciare sui simboli della Repubblica italiana. Quella che, del resto, non hanno mai riconosciuto (continuando però a occupare poltrone e a mungere privilegi), sentendosi cittadini della fantomatica Padania. Gli è stato consentito di tutto. Il tricolore che il loro capo voleva usare come carta igienica. I cappi da forca mostrati nell'aula di Montecitorio. Gli insulti irriferibili lanciati ai senatori a vita, colpevoli di non farsi intimidire dai mazzieri con il fazzoletto verde. Sempre considerati (i mazzieri) con benevolenza da quasi tutta la stampa. Dei simpatici casinisti ma in fondo innocui anche quando sguinzagliavano le ronde padane per buttare a fiume gli immigrati. La stessa comprensione che oggi mostra Silvio Berlusconi, e non a caso visto che lui i leghisti li ha spesso utilizzati come massa di manovra. Anche adesso che si tratta di salire al Quirinale con la scusa delle elezioni che la destra non otterrà ma sempre con l'idea fissa della spallata contro il governo legittimo del Paese. I cui banchi, appunto, vengono assaliti, tanto per cominciare. Sappiamo che Giorgio Napolitano non si è mai tirato indietro quando le circostanze lo hanno richiesto. Lo sa il governo del maxiemendamento alla Finanziaria, richiamato a un più corretto uso della legislazione. Lo sanno ministri, sindaci e presidenti di regione ammoniti nei giorni dell'emergenza rifiuti a Napoli. Non gliela faccia passare liscia, presidente. Li lasci fuori della porta.


Cavalcare la protesta per non esserne travolti
Massimo Franco sul
Corriere della Sera

L' opposizione soffia su una rivolta sociale che segnala un malessere destinato a degenerare. E nel centrosinistra qualcuno comincia a temere che il governo di Romano Prodi possa portarlo alla rovina; e cerca di prendere affannosamente le distanze. Non è un bello spettacolo. E non soltanto per i leghisti che occupano i banchi del governo alla Camera; o per i calci ed i pugni di una folla irpina esasperata contro l'auto di Guido Bertolaso, il commissario straordinario per i rifiuti in Campania. Si tratta di episodi estremi che lasciano indovinare una rabbia ed una protesta più profonde e diffuse, covate da tempo nelle viscere del Paese. E indirizzate contro il governo ed i suoi simboli, indistintamente. Silvio Berlusconi fiuta il fenomeno, e lo cavalca: soprattutto per non esserne travolto.
La sua spinta per le elezioni anticipate nasce più dall'esigenza di distinguersi da quello che definisce «il Palazzo», che non dalla speranza di far cadere il governo con le sue spallate; o di andare davvero al voto in autunno o a primavera del 2008. «Ci vorrebbe un regicidio», ammette con una punta di rassegnazione. Il destino di Prodi è intrecciato con le tensioni nell'Unione, che crescono per la Tav, la riforma delle pensioni e, di nuovo, per la base americana a Vicenza: l'estrema sinistra è infuriata perché l'ambasciatore Usa Ronald Spogli ieri ha annunciato che cominciano i lavori per ampliarla. È nella maggioranza, insomma, che si sta decidendo il futuro della coalizione. Il vertice diessino continua a ripetere che non esiste un'alternativa; che non ci si salva scindendo le proprie responsabilità da quelle del premier; e che non esiste una «questione morale » a sinistra.
Ma ormai, alcuni alleati sembrano avere interiorizzato una depressione da insuccesso, non solo elettorale. Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, vede avanzare «una voglia di Messia» che dà i brividi; e che neppure il Cavaliere riesce più a soddisfare, a suo avviso. Mastella avverte che occorre «contrastare l'idea che questo governo sia nemico del popolo, di ceti sociali, categorie e aree geografiche». Pesano l'aggressione a Bertolaso ed i fischi della Confartigianato al ministro diessino per lo Sviluppo, Pier Luigi Bersani, ieri mattina, in contrasto con gli applausi a Berlusconi. Così, al comitato politico dei Ds è andato in scena un cupo pessimismo. D'altronde, i segnali negativi prevalgono. Negli ultimi giorni sono arrivate anche le intercettazioni che riguardano Fassino e Massimo D'Alema nello scandalo Unipol-Bnl.

Forse anche per allentare le tensioni il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, annuncia che il gettito fiscale in eccesso non servirà solo a tagliare la spesa pubblica, come chiede l'Ue. Le richieste, ammette però il ministro, sono quattro volte superiori al cosiddetto «tesoretto». Il tentativo, comunque, è evidente: il governo cerca di arginare gli effetti di un'impopolarità che Prodi definisce «una scelta per avere più margini per sviluppo ed equità».
Prima il premier la rivendicava come il prezzo da pagare «per salvare l'Italia». Adesso, sembra rendersi conto che rischia di fargli saltare la coalizione; e si sforza di cambiare atteggiamento. Ieri si è appellato all'Unione perché reagisca «ad una campagna di discredito che non è dovuta solo all'impopolarità: non sono estranee attività di alcune lobbies ». Parole oscure, usate per rimettere insieme una maggioranza che gli sta scappando vistosamente di mano, nonostante un'offensiva berlusconiana che di solito la ricompatta. Palazzo Chigi appare insieme isolato e assediato. Il fatto che per la riunione del G8 nel 2009, ospitata dall'Italia, il governo abbia scelto l'isola sarda della Maddalena, conforta senza volerlo l'immagine dell'accerchiamento.
E Prodi capisce che la «scelta» di essere impopolare diventa un handicap


Ma la mafia va intercettata
Gian Carlo Caselli su
l'Unità

Legislazione d´emergenza! Decine di volte questo marchio negativo (con conseguente rigetto o presa di distanza) è stato appioppato ad interventi in tema di antiterrorismo o antimafia. Perché erano interventi del «giorno dopo», dopo che si era verificato un qualche fattaccio che costringeva ad intervenire: non in maniera meditata - si sosteneva - ma d´urgenza. E via a storcere il naso. Oggi, mi sembra ispirata alla stessa logica emergenziale la progettata riforma in tema di intercettazioni.

Com´è noto, il 17 aprile scorso la Camera dei deputati ha approvato praticamente all´unanimità (nessun voto contrario e 7 astenuti) il ddl Mastella che rivoluziona la disciplina delle intercettazioni. La nuova legge è ora al Senato per la definitiva approvazione. Per l´impianto complessivo e per ciascuno dei molti articoli del ddl si possono formulare un´infinità di osservazioni. Mi limito, in questa sede, a due rilievi. Il primo in parte positivo (ma con forti riserve). Il secondo decisamente critico.

Va segnalata, innanzitutto, la nuova disciplina in materia di gestione degli atti relativi alle intercettazioni. Essa prevede che siano depositate (ciò che le rende non più segrete) esclusivamente le intercettazioni che si dimostrano, con provvedimenti motivati, rilevanti per il processo. Le altre conversazioni (non rilevanti o di per se stesse inutilizzabili) devono essere custodite in un «archivio riservato»: restano quindi segrete e sono destinate alla distruzione. Nello stesso tempo è vietata la trascrizione di ogni circostanza o fatto estraneo alle indagini. Devono comunque essere espunti i nomi dei soggetti estranei all´inchiesta.

Sono così fissati dei paletti rigorosi, che soddisfano l´esigenza di utilizzare lo strumento delle intercettazioni (irrinunciabile per i più gravi reati) senza oltrepassare la soglia di quanto è strettamente necessario per accertare la verità, cioè la colpevolezza o l´innocenza degli indagati.

A fronte di questi robusti paletti, risulta eccessivo il divieto - previsto dalla nuova legge - di pubblicare il contenuto delle intercettazioni, anche quando non siano più coperte dal segreto, fino alla conclusione delle indagini o addirittura (se si apre il dibattimento) fino alla sentenza di appello. Viene ad essere eccessivamente compresso, infatti, il diritto dei media di informare e dei cittadini di essere informati su vicende di interesse pubblico (oltre che sul funzionamento della giustizia), privilegiando oltre misura il pur importante diritto alla riservatezza. Il tutto sigillato con la previsione ( in caso di pubblicazione arbitraria) di sanzioni pesanti, in particolare l´ ammenda fino a centomila euro: una somma che poche testate potrebbero reggere, con possibili gravi ricadute sull´effettività del pluralismo dell´informazione.

L´altro rilievo, decisamente negativo, riguarda la durata delle intercettazioni( 90 giorni per quelle telefoniche; 45 per le ambientali) e la disciplina delle proroghe.

l´esperienza insegna che le organizzazioni criminali ragionano con tempi lunghi, non hanno quasi mai fretta.

Gli inquirenti perciò devono armarsi di tenacia e pazienza. Se concrete e precise risultanze probatorie (per esempio le rivelazioni di un pentito attendibile e «riscontrato») portano a ritenere «sensibile» un certo luogo, perché vi sono state ed è ben probabile che vi si ripetano attività di sicuro interesse per le indagini, gli inquirenti cercheranno di piazzare «una cimice» in quel luogo (di pertinenza di un boss o di persone a lui strettamente legate: perciò, piazzarvi una «cimice» significa affrontare enormi rischi e superare sempre difficoltà estreme, di assoluta evidenza).

Se poi ci riescono, gli inquirenti devono rimanere in ascolto h 24. Per giorni, magari per mesi e mesi, le conversazioni possono essere insignificanti, finchè non arriva l´interlocutore giusto o il momento buono. Un fatto nuovo, un imprevisto, una visita, una riunione d´affari o un summit (non è che i mafiosi ne tengano uno alla settimana...), qualcosa che induce i presenti a «sbottonarsi» nei loro colloqui.

Ma se ciò non accade nei primi giorni, stop, più niente da fare. Le «cimici» piazzate con tanta fatica, scavalcando pericoli micidiali, diventano inutili. E anche la più promettente pista d´indagine - ancora capace di «produrre» risultati - deve essere abbandonata, chiusa. Francamente, una mannaia irragionevole. Un lusso che non possiamo concederci. Meno che mai nella lotta alla mafia.


"Alla Diaz fu una notte cruenta
ma il macellaio non sono io"
G8 di Genova, dopo il racconto di Fournier al processo parla l'allora comandante del reparto celere. Il questore Canterini: "C'era una macedonia di polizia. Quando entrai era tutto finito: vidi sangue ovunque".
Carlo Bovini su
la Repubblica

La voce del questore Vincenzo Canterini arriva da Bucarest. Il Viminale ce lo ha spedito due anni fa a occuparsi di traffico di organi ed esseri umani presso una struttura Interpol, mettendo il mare tra lui e il Reparto celere di Roma, tra lui e la scuola "Diaz" di Genova, dove, la notte del 21 luglio del 2001, agli uomini che allora comandava venne ordinato di fare irruzione.

Sessantatrè feriti. Una "macelleria messicana", per usare le parole del vicequestore Michelangelo Fournier, che di Canterini era il vice. "Io un macellaio non lo sono mai stato", dice lui. Insiste: "Capito? Chi parla non è mai stato un macellaio. E' un signore che è in polizia da 41 anni, fa sindacato con il "Consap" e vive in Romania, dove l'Amministrazione gli ha chiesto di andare. Detto questo, sapete quando Fournier ha parlato di "macelleria messicana"? Dieci giorni dopo quella notte. E sapete con chi? Con il Procuratore di Genova dove si era presentato spontaneamente per riferire quel che aveva visto. E sapete chi lo aveva accompagnato dal procuratore? Vincenzo Canterini. Dunque, sono un macellaio io?".

Dunque, la macelleria c'è stata
"Il termine è folcloristico. Ma non c'è dubbio che è stata una notte cruenta".

Il sangue lo ha visto anche lei?
"Certo che l'ho visto. Ne ho visto tanto e dappertutto".

Ha visto poliziotti picchiare donne e uomini inermi?
"No".

"Come ho ripetuto per tredici ore al processo di Genova, come spiegai nell'immediatezza dei fatti alla Commissione di inchiesta e appunto al procuratore di Genova dove andai insieme a Fournier, quando entrai nella "Diaz" era tutto finito. Cominciai a salire le scale della scuola e mi fermai al primo piano, proprio quando sentii le urla di Fournier".

Cosa vide?
"Fournier era vicino a una ragazza ridotta malissimo. E mi diedi da fare per far soccorrere lei come gli altri feriti che erano nella scuola".

Qualcuno la testa l'aveva rotta a quella ragazza.
"Non gli uomini del mio reparto. Non a caso, Fournier dice di essersi dovuto togliere il casco e di aver gridato "Basta!" a chi la stava picchiando. Se fossero stati i nostri ragazzi, Fournier non avrebbe avuto necessità di togliersi il casco, perché il nostro intero reparto era connesso da interfono. Avrebbe usato quello".

Dunque, lei arriva a cose fatte e né quella notte, né successivamente, riesce a venire a capo di chi si è comportato da macellaio. È così?
"Quella notte, dentro la Diaz, c'era una macedonia di polizia".

"Come si vede dai filmati, nella scuola entrarono almeno in 300. I miei uomini erano solo 70. Poi c'erano colleghi di altri reparti celeri, identici a noi per abbigliamento se si eccettua il cinturone bianco. C'erano agenti con l'Atlantica (camicia a maniche corte ndr.), agenti delle squadre mobili con pettorina e casco, poliziotti dell'Anticrimine. Di tutto, insomma".

Insisto. La notte della "Diaz" le ha cambiato la vita. Da due anni vive a Bucarest, e in tutto questo non è riuscito a venire a capo di chi si abbandonò alle violenze.
"Che vuole che le dica? È così. Che devo fare? Appena rientrai a Roma, chiesi tutte le relazioni di servizio di chi era stato nella scuola quella notte. Ma non seppi allora e non so oggi chi si è reso responsabile delle violenze".

Chi altro lo dice?
"Evidentemente non lo sa nessuno, ma soltanto su 2 dei 78 tonfa (i manganelli ndr.) in uso al mio reparto quella notte, le perizie del Ris dei carabinieri hanno trovato tracce di sangue. E quei due tonfa erano in dotazione a due agenti rimasti feriti, Ivo e Parisi. Dunque, è molto probabile che il sangue sia il loro. Dico di più. A Genova, Vincenzo Canterini è imputato di un solo presunto reato. Non violenze, non pestaggi. Ma di aver stilato una relazioncina di servizio al questore di 15 righe sui fatti di quella notte che non sarebbe stata veritiera".

A distanza di sei anni ci sarà qualcosa che si rimprovera di quella notte. O no?
"Mi rimprovero di non essere riuscito a imporre una soluzione diversa da quella che poi fu adottata. Ma è anche vero che non ne ebbi modo".

Quale soluzione diversa?
"Suggerii a chi comandava in quel momento di tirare all'interno della scuola qualcuno dei potenti lacrimogeni di cui avevamo dotazione. E di aspettare che chi era dentro uscisse. Ma non ci fu verso".



Elettricità liberalizzata dal 1° luglio
Il dl prevede misure per accompagnare gli utenti all'apertura totale del mercato. Chi cambia gestore non dovrà subire aggravi
sul
Corriere della Sera

ROMA - Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto legge per la liberalizzazione del mercato dell'energia per i clienti residenziali (le famiglie) e ha approvato un decreto legge per consentire a chi vuole cambiare subito operatore di non incorrere in aggravi dei costi. Ciò significa che dal 1° luglio anche famiglie e pmi (le grandi imprese potevano già farlo) potranno cambiare gestore elettrico. E che il mercato sarà completamente libero, si introdurrà la concorrenza tra i vari operatori e tariffe di mercato tra le quali gli utenti finali potranno scegliere. A verificare la legittimità delle offerte proposte sul mercato e a tutelare gli utenti ci sarà l'Autorità per l'energia elettrica e il gas (Aeeg), con funzioni di regolamentazione e controllo.
TUTELE PER CHI CAMBIA - Il decreto legge, presentato dal ministro Bersani e approvato dal Consiglio dei ministri, adotta le prime misure in vista del completo recepimento della direttiva comunitaria 2003. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Enrico Letta, ha spiegato che il provvedimento contiene parte delle norme del disegno di legge delega sull'Energia in discussione al Senato. Questo per assicurare l'introduzione del quadro normativo di riferimento in tempo per la liberalizzazione. Il decreto punta a tutelare, in sostanza, i consumatori da aumenti ingiustificati nella prima fase di liberalizzazione. Il decreto interviene «con misure di tutela per fare in modo che chi vuole muoversi verso nuove offerte», dal primo luglio, «possa farlo subito senza incorrere nel rischio di aumenti ingiustificati dei prezzi». Chi vuole invece rimanere con il proprio fornitore potrà farlo continuando ad avere le garanzie e le tariffe attuali, almeno «fino a quando il processo di liberalizzazione non sarà completamente realizzato».
TARIFFA DI TRANSIZIONE - Giovedì l'Autorità per l'energia ha approvato la cosiddetta «tariffa di transizione», da applicare ai clienti domestici dal 1 luglio, il primo passo in attesa della definizione del nuovo assetto tariffario post liberalizzazione completa (che comprenderà anche una tariffa sociale). Si tratta di una tariffa ristrutturata per rendere il sistema più coerente con il mercato liberalizzato, mantenendo, allo stesso tempo, «un sistema di garanzie e una spesa sostanzialmente invariata» per le famiglie.

TARIFFE VARIABILI - E' bene sottolineare che la liberalizzazione del mercato elettrico non è automaticamente una garanzia di tariffe più basse. I prezzi verranno fissati nella Borsa elettrica e varieranno di ora in ora. Così anche le tariffe applicate dagli operatori alle famiglie potranno oscillare durante la giornata. L'elettricità potrebbe costare di meno nelle ore di basso utilizzo (di notte e nei fine settimana) e di più durante il giorno, quando si registrano i picchi di utilizzo.
VANTAGGI - La liberalizzazione del mercato elettrico è una delle priorità indicate dall'Unione Europea ai Paesi membri. E si regge sul presupposto che la libera concorrenza in un mercato ben regolato dovrebbe comportare vantaggi per i consumatori finali. Anche se non sempre i Paesi con un gran numero di fornitori di elettricità hanno anche prezzi più bassi (Spagna e Regno Unito sono tra i più cari).
AUTORITA' - Il passaggio a un mercato completamente libero sarà graduale, tanto che il governo ha predisposto e approvato un decreto legge per rendere il più possibile indolore il passaggio a un sistema aperto. L'Autorità per l'energia elettrica e il gas, inoltre, secondo quanto disposto dal Consiglio dei ministri, sarà l'organismo indipendente che regolamenterà e controllerà l'erogazione dei servizi nei settori dell'energia elettrica e del gas. Oltre ad assicurare un sistema tariffario trasparente e requisiti minimi di qualità (con particolare riguardo agli interessi di carattere sociale e di tutela ambientale) dovrà indicare «condizioni standard di erogazione e prezzi di riferimento nelle forniture di elettricità e gas».

ENERGIA VERDE - «Si tratta di un importante decreto legge che dal primo luglio liberalizza il sistema dell'energia e ognuno potrà comprarla da chi crede». Così il ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio commenta la misura approvata stamattina dal Consiglio dei ministri. «Soprattutto- puntualizza Pecoraro- abbiamo ottenuto che nelle bollette sia chiaro se l'azienda produce energia anche dalla fonte solare o eolica e con quale impatto ambientale. Il nostro obiettivo, conclude il ministro- è che il cittadino possa decidere di comprare energia solare anzichè quella che viene dal carbone e dai fossili».


  15 giugno 2007