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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 14 giugno 2007


Gaza, la follia dei palestinesi
e quarant'anni di occupazione militare
I territori nel vuoto politico e nell'anarchia senza scampo. Una massa di disperati che si contendono il potere.
Sandro Viola su
la Repubblica

Mahmud Abbas, il presidente dell'Autorità palestinese, ha ragione: quel che sta accadendo a Gaza è "una follia". Una guerra civile che invece di coinvolgere, come sempre nelle guerre civili, classi sociali diverse, interessi economici in conflitto, ha spinto nel precipizio una stessa massa di pezzenti impazziti. Gli uni e gli altri, quelli di Fatah e quelli di Hamas, senza lavoro da anni, tenuti in vita dagli aiuti alimentari dell'Onu, con montagne d'immondizie e minacce d'epidemie sulla porta di casa, una gran parte senza acqua né luce.

Una massa di disperati che si contendono il potere in un paesaggio di tremenda miseria. In quell'anus mundi che è oggi la Striscia di Gaza. Lo s'era detto giorni fa, e vale la pena di ripeterlo. I palestinesi appaiono incorreggibili. Invece di proporsi verso Israele e la comunità internazionale come interlocutori credibili in un negoziato di pace, essi forniscono pretesti e ragioni a quella parte della società israeliana che non vuole trattative, compromessi, accordi, sostenendo appunto che sul versante palestinese "non c'è nessuno con cui negoziare".

Tutta colpa dell'Islam radicale portato in Palestina da Hamas, e quindi delle divisioni innescate nella società palestinese (un tempo la porzione più laica del mondo arabo) dall'irrompere del fanatismo religioso? No, solo in parte. Ci sono altre colpe, altre responsabilità che hanno condotto alla formazione del contesto sociale e politico in cui oggi vediamo divampare un inizio di guerra civile.

Ricostruire fase per fase, episodio per episodio, il formarsi del contesto da cui sono scaturiti i combattimenti di Gaza, sarebbe lungo.
Bisognerà quindi limitarsi ad elencare le tappe, i fatti principali. Intanto l'occupazione. Che cosa hanno prodotto nelle menti, nell'animo dei palestinesi, quattro decenni di occupazione militare israeliana? Quarant'anni di terre espropriate, di acque deviate verso le piscine delle colonie ebraiche, di ulivi dei contadini palestinesi tagliati alla base durante i raid dei coloni più estremisti, di rappresaglie devastanti, di code interminabili ai posti di blocco dell'esercito.

È mai stata fatta giustizia, da parte israeliana, dei soprusi dei coloni, delle inutili violenze dell'esercito ai posti di blocco, delle partorienti che rischiavano di partorire per strada e sotto il sole a picco, delle tre ore e più che uno studente impiegava per superare il reticolo dei check point e raggiungere la sua scuola o università a pochi chilometri da casa? È mai stata chiesta giustizia dalla comunità internazionale per gli "omicidi mirati" che l'esercito e l'aviazione d'Israele compiono da anni, vere ed proprie condanne a morte senza l'ombra di un'istruttoria o d'un processo? Sì, quella palestinese è una follia: e un episodio di ieri - due donne, di cui una incinta, che cercavano d'entrare in Israele cariche d'esplosivo per farsi saltare in un posto affollato - costituisce un dettaglio significativo della caduta della ragione nel mondo palestinese.

Ma un'occhiata al "contesto" per vedere se da esso siano venute alcune delle cause di tale follia, alcuni degli stimoli al suo scatenamento, è doverosa. È doveroso chiedersi quale altro popolo avrebbe sopportato senza perdere la ragione i quarant'anni che hanno vissuto i palestinesi. È vero: sono stati loro, con i loro kamikaze, ad imprimere una delle svolte più tragiche e bestiali al conflitto che li oppone ad Israele. Ma anche qui il "contesto" suggerisce qualcosa che va tenuto a mente.

I kamikaze di Hamas sono comparsi nel 2001, trentaquattro anni dopo l'inizio dell'occupazione. Non c'erano kamikaze, prima. Quanto ad Hamas, chi conosce le vicende della Palestina occupata sa bene quanta parte abbiano avuto gli israeliani nell'insediamento degli islamisti a Gaza e in Cisgiordania. Come nella seconda metà degli Ottanta fossero visti, da Ariel Sharon in particolare, quali utili contendenti dell'Olp di Arafat. Come ne vennero favorite la crescita e le attività, così da produrre due risultati: uno certo, l'indebolimento dell'Olp, e un altro auspicabile, lo scontro interno tra le due fazioni. Non c'è dubbio: oggi hanno ragione gli israeliani che sostengono l'assenza di interlocutori affidabili sul versante palestinese. Con chi si dovrebbe negoziare: con le bande armate di Hamas, con quelle della Jihad islamica, con i resti delle forze fedeli a Mahmud Abbas? No, con questi, a questo punto, non è possibile trattare.

Ma il "contesto" ci serve anche a vedere come siano stati bruciati da Israele quelli che forse avrebbero potuto essere gli interlocutori affidabili. Arafat prima, screditato, ridicolizzato dall'assedio posto da Sharon, per un anno e mezzo, al suo quartier generale di Ramallah, mentre Hamas convinceva i palestinesi che l'unica via d'uscita dall'occupazione fossero gli attentati e l'intransigenza verso "l'entità sionista". E poi Mahmud Abbas, bruciato anch'egli da Sharon al momento del ritiro da Gaza. Ritiro unilaterale, senza che Abbas vi avesse alcun ruolo, senza che vi fosse una sia pure simbolica consegna della Striscia all'Autorità palestinese. Forse l'atto più rilevante per la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del marzo 2006.

Ecco, il "contesto" non va dimenticato. Quando si critica la politica dei governi israeliani, bisogna sempre tenere presente che Israele è l'unico Stato di cui una parte del mondo discute ancora sulla sua legittimità, sui suoi confini, e anzi contesta l'una e gli altri. Questo induce a giustificare, volta per volta, anche gli errori più gravi della politica israeliana. Ma d'altra parte, come ignorare che sono stati anche quegli errori a produrre "la follia" palestinese?


Libano, giornata di lutto nazionale. La condanna del mondo
sommari de
l'Unità

Giornata di lutto nazionale in tutto il Libano, dove si celebreranno i funerali di Walid Eido, e delle altre 9 vittme del grave attentato a Beirut. Eido, che presiedeva la commissione Difesa del Parlamento libanese. La Francia: «crimine odioso e vigliacco». Prodi: «Simili atti sono inaccettabili».


Camera, gazzarra della Lega nei banchi del governo
sommari de
l'Unità

Hanno occupato i banchi del governo brandendo "La Padania" su cui giganteggiava il raffinato titolo: "Fuori dalle balle". Urla, spintoni, lancio di fogli, insulti. È l'ultima performance del circo della Lega Nord a Montecitorio, da cui si dissociano An e Berlusconi, che si attira il disprezzo dell'Udc e le accuse di disprezzo delle istituzioni da parte della maggioranza. Domani Bossi al Quirinale chiederà elezioni.


Quasi
jena su
La Stampa

Berlusconi, Bossi e Fini andranno al Quirinale a chiedere le dimissioni del governo. Commento di Prodi: «Quasi quasi mi unisco a loro».


Violenza di Stato
Una battaglia a senso unico
Quella notte fu l'inferno. Per tutti quelli che dormivano nella palestra della scuola Diaz, improvvisamente invasa da decine di poliziotti.
Riccardo Barenghi su
La Stampa

Cominciarono a picchiarli, così, senza ragione. Spensero anche la luce e giù botte da orbi. E fu l'inferno anche per tutti quelli che, con un immediato passaparola, si ritrovarono lì fuori, costretti ad assistere allibiti e impotenti alla processione dei loro compagni portati via da quella scuola, sanguinanti, in barella o trascinati come sacchi dell'immondizia. Gridavano agli agenti «il mondo vi sta guardando», ma gli agenti non se ne curavano. Al massimno sorridevano, in altre parole se ne fregavano. Era la notte della vendetta per gli scontri della giornata e del giorno prima (quello in cui fu ucciso Carlo Giuliani). L'avevano preparata bene, portando molotov dentro la scuola per accusare poi i giovani no global, producendo prove false, come tubi e bastoni che in realtà erano gli strumenti di lavoro dei muratori che stavano ristrutturando una parte di quella scuola intestata a un famoso generale italiano della Grande Guerra. Gli agenti avevano bisogno di una dimostrazione di forza, il capo della Polizia Gianni De Gennaro era a Roma ma sul posto, proprio lì alla Diaz, c'erano i suoi uomini Arnaldo La Barbera e Franco Gratteri (imputati entrambi), forse volevano anche nutrire il loro carnet di arresti, che fino a quel momento erano «solo» un centinaio. E forse, chissà, una prova di forza serviva anche al nuovo premier Berlusconi, al suo vice nonché ministro degli esteri Fini (che si piazzò non a caso nella sala operativa della Questura genovese) e al ministro dell'Interno Scajola.

Quando lasciarono il campo di battaglia (una battaglia a senso unico, nessuno dei ragazzi reagì), il pavimento della palestra era pieno di sangue, e qualcuno scrisse un cartello: «Non lavate questo sangue». Quel cartello è diventato un simbolo del movimento no global, tanto che la collega di Repubblica Concita De Gregorio l'ha utilizzato come titolo del suo libro che racconta i giorni del luglio 2001 a Genova. Ma è la scuola Diaz e quel che lì dentro avvenne la notte tra il 21 e il 22 luglio che sono diventati un simbolo dei giovani e meno giovani che erano nel capoluogo ligure in quelle drammatiche giornate del G8, e di tutti i loro compagni sparsi per l'Italia e per l'Europa.

Ma finora, e il proceso dura ormai da tre anni, nessun agente o ufficiale aveva avuto il coraggio di confessare quel che ha confessato ieri il vicequestore Michelangelo Fournier: «Sembrava una macelleria messicana». Una macelleria che dal punto di vista politico oggi rischia di pagare una sola persona che ancora ricopre l'incarico di allora, il capo della polizia De Gennaro.


G8, il poliziotto ammette:
la Diaz come una macelleria
Un vicequestore al processo di Genova: ho visto i pestaggi  
Michele Serra su
la Repubblica

C´è un poliziotto che ama la polizia. E´ il vicequestore Michelangelo Fournier, che ha deciso di raccontare al pubblico ministero di Genova che quanto è accaduto alla scuola Diaz, durante i disordini del G8, è una delle pagine più tristi e vergognose della storia delle nostre forze dell´ordine. Lo si sapeva già.
Abbondanti testimonianze, anche terze rispetto alle contrapposte "ali dure" dei maneschi di piazza e dei maneschi di Stato, avevano descritto scene di inutile e sadica violenza contro inermi, in un clima di demente, esaltata rappresaglia che aveva ben poco da spartire perfino con il concetto di repressione.
"Scene da macelleria messicana", ha detto testualmente il vicequestore Fournier aggiungendo che, in passato, aveva preferito tacere su quanto aveva visto per "spirito di appartenenza". Fortunatamente, però, lo spirito di appartenenza del vicequestore è perfino più forte di quanto egli stesso potesse supporre: tanto forte da spingerlo, oggi, a raccontare una verità che fa onore a lui e restituisce onore e logica al senso stesso del difficile lavoro delle forze dell´ordine di un Paese democratico.
Negli scorsi anni, una malintesa (oppure, peggio, benissimo intesa) interpretazione del ruolo della polizia di Stato aveva coperto fino alla spudoratezza la verità sulla Diaz. E una campagna di stampa della destra peggiore aveva accusato di disfattismo e collusione con la violenza politica qualunque critica al comportamento della Celere in quel drammatico giorno.

La testimonianza di Fournier è solida e, come dire, politicamente matura. Spiega che ad alcuni dei fermati della Diaz non si poteva certo dare "la patente di santità". Riconduce dunque la scena, giustamente, alla difficoltà di muoversi, capire, scegliere il da farsi nel parapiglia scatenato dalle poche centinaia di farabutti che profittavano di una manifestazione di massa per mettere in ginocchio una città intera. Ma, appena mette piede alla Diaz, non ha neanche mezzo dubbio nel giudicare raccapriccianti le scene di bestiale violenza che vedono protagonisti alcuni suoi giovani colleghi. Allontana i suoi uomini, fa chiamare le ambulanze, soccorre una ragazza stesa a terra in una pozza di sangue e ancora circondata da picchiatori in divisa. Picchiatori di Stato: un ossimoro, almeno secondo l´idea di Stato che abbiamo – o dovremmo – avere tutti quanti, indipendentemente dagli orientamenti politici.
Nessuna strumentalizzazione dei fatti della Diaz è più possibile, da nessuna parte. La polizia deve reprimere chi commette reati e chi usa violenza, e non sempre è possibile farlo con il fioretto. Ma non può e non deve usare indiscriminatamente la clava contro dimostranti spesso giovanissimi, e disarmati, considerandoli, all´ingrosso, come un esercito di terroristi. Questo si disse – non altro – dopo i fatti della Diaz, dopo il sangue di quel giorno terribile. E si ebbe, per tutta risposta, un silenzio istituzionale inaccettabile, e un´orgia di demagogia disgustosa sull´"onore della polizia" da tutelare, comprese svariate citazioni a vanvera di Pasolini.

La giusta misura, quel giorno, purtroppo non fu trovata. Strategicamente il G8, per le forze di polizia, fu una vera e propria disfatta: i black block poterono agire quasi indisturbati, mentre il grosso dei cortei fu spesso intercettato e disperso con le maniere brusche, come chi avvelena un fiume quando i piranha sono già scappati. Tatticamente, le cose andarono anche peggio. Molti poliziotti persero la testa. Il conto (fisico) di quel giorno di fuoco e di caos fu pagato soprattutto da chi, con i black block, non c´entrava nulla, tanto da far nascere il legittimo sospetto che almeno alcuni gruppi di agenti fossero stati spediti a Genova malpreparati, o peggio predisposti psicologicamente a "dare una lezione ai rossi".

Speriamo che, al di là della pagina veritiera finalmente scritta dal vicequestore Fournier, il processo in corso a Genova serva a individuare gli errori marchiani commessi quel giorno, a punire le responsabilità, infine a ritrovare quel poco di serenità che ancora è concessa a proposito di ordine e democrazia, di legalità e lotta alla violenza, di prevenzione e repressione.



Padoa-Schioppa: «L'evasione fiscale è un'epidemia da debellare»
intervista su
Il Sole 24 Ore

L'evasione fiscale, stimata in 270 miliardi, «non è una malattia, è un'epidemia» ed è
possibile «in pochi anni portare l'Italia alla normalità»: lo ha detto il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa durante la registrazione di Sky Tg24 Pomeriggio. La situazione attuale, secondo Padoa-Schioppa, è «assolutamente anormale. C'è da fare un lavoro notevole se vengono utilizzati a pieno gli strumenti dell'amministrazione». Ma «si può fare di più: diffondere la consapevolezza che le tasse sono il prezzo minimo che si paga per beni indispensabili. Far vedere che il denaro raccolto non viene sprecato».

Studi di settore
Lo strumento degli studi di settore «è ottimo e gradito alle categorie». Padoa-Schioppa ha ricordato che «sono stati inventati con l'accordo delle categorie per eliminare la minimum tax» e che anche le recenti modifiche «sono state concordate con le categorie di professionisti ed autonomi».
Il ministro ha inoltre osservato «la forte sensazione di ingiustizia» sull'evasione fiscale «soprattutto per quei contribuenti che fanno il proprio dovere nelle categorie dove l'evasione è più elevata, cioè gli autonomi e i professionisti». In queste categorie, ha aggiunto Padoa-Schioppa, «ci sono molti soggetti onesti».

Ministro, lei é di sinistra?
«Mah, non lo so». Così ha risposto al quesito Padoa-Schioppa, che ha aggiunto: «Questo é un governo di centrosinistra- spiega il ministro- quindi se non avessi condiviso questa linea non sarei entrato nell'esecutivo».


Il metodo del dialogo
Giovanni Valentini su
la Repubblica

Non è un compromesso, nel senso deteriore del termine, quello che il governo sta cercando faticosamente di raggiungere sulla controversa questione della Tav in Val di Susa, dietro il sostanziale via libera con cui palazzo Chigi ha annunciato ieri sera che presenterà entro il 23 luglio la richiesta di finanziamento all´Unione europea. Si tratta, piuttosto, di una soluzione praticabile e ragionevole che – come su questo giornale avevamo auspicato fin dall´inizio – deve tendere giustamente a conciliare le esigenze della modernizzazione e dello sviluppo con quelle vitali dell´ambiente, inteso qui non solo come assetto del territorio ma anche come rispetto degli interessi e difesa della salute di tutti i cittadini. La linea ad alta velocità Torino-Lione, dunque, alla fine si farà. Ed è senz´altro un bene che passi al di qua delle Alpi, per non isolare l´Italia dal resto dell´Europa nel trasporto ferroviario dei passeggeri e delle merci.
Ma ancora meglio è che sia stato abbandonato l´azzardato progetto del maxi-tunnel di Venaus, 53 chilometri che avrebbero dovuto essere scavati nella montagna con il rischio di portare in superficie un´enorme massa di terra e di amianto, per adottare possibilmente un´alternativa di minore impatto e di efficienza equivalente. Sta di fatto, comunque, che un´opera del genere non avrebbe potuto essere neppure concepita fuori da una regolare procedura di compatibilità ambientale.
Tra gli "opposti estremismi" della sinistra radicale e di quella che una volta si sarebbe definita "sinistra ferroviaria", e cioè di chi si opponeva alla Tav in nome di un pregiudizio ideologico e di chi invece la voleva a tutti i costi, è prevalsa infine la linea più riformista incarnata in prima persona dal ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, con la benedizione del presidente del Consiglio e del ministro dell´Economia. Per un governo precario e malandato come quello in carica, è già un successo aver evitato il deragliamento su questo binario. Altrimenti, a marciare ad alta velocità, sarebbe stata solo la sua disgregazione.
Ma si farebbe torto alla verità a non riconoscere oggi, alla luce delle conclusioni prodotte finora dall´Osservatorio tecnico, la fondatezza della posizione assunta dai Verdi e da tutto il mondo ambientalista. Da una parte, infatti, si convalida la possibilità di triplicare la portata della linea storica, fino a 19 milioni di tonnellate di merci all´anno, con la prospettiva della saturazione dopo il 2027; dall´altra, si abroga di conseguenza il tunnel di Venaus, previsto dal precedente governo di centrodestra e in particolare dall´ex ministro Lunardi, ingegnere e imprenditore delle "talpe" meccaniche. Se non è una vittoria per Pecoraro Scanio, per i sindaci e per le comunità locali, è comunque una vittoria per l´ambiente, per la salute pubblica e forse anche per l´economia nazionale.



Doppio sfregio per Impastato
Due attentati con l'acido in due notti di fila all'ex abitazione di Peppino a Cinisi, ora «Casa della memoria». Il fratello Giovanni: stiamo tornando agli anni '60. E il sindaco intitola all'ex militante di Lotta continua la sala del consiglio comunale
Massimo Riannetti su
il Manifesto

Palermo - Peppino Impastato fa ancora paura. A quasi trent'anni dal suo assassinio, la lotta antimafia del militante di Democrazia proletaria ucciso da Cosa nostra il 9 maggio del 1978 dà ancora fastidio a più di qualcuno a Cinisi. Di sicuro ancora oggi è mal sopportata dagli autori ignoti che per due giorni di fila, lunedì e ieri mattina, hanno versato bottiglie di acido corrosivo contro la «Casa della memoria», l'ex abitazione di Peppino e di sua madre Felicia - la donna coraggio morta nel dicembre 2004 - che si trova a «cento passi» di distanza dalla residenza che fu del boss Tano Badalamenti, zio di Peppino e mandante del suo delitto, morto negli Usa qualche anno fa.
Due raid in 24 ore che, secondo Giovanni Impastato, fratello minore dell'animatore di Radio Aut, «sono un chiaro segnale di intolleranza da parte di chi sente come una vera minaccia quella porta sempre aperta sul corso di Cinisi. Qualcuno avrà detto: forse pensano che quella dell'altro ieri sia stata una bravata, facciamolo di nuovo così capiranno. Siamo tornati agli anni Sessanta - aggiunge Giovanni Impastato, già vittima qualche anno fa di un attentato (gli incendiarono il negozio) - Dobbiamo fare qualcosa affinché fatti del genere non accadano più».

I motivi che le avrebbero scatenate, per Giovanni Impastato, vanno però ricercate nelle molte iniziative antimafia portate avanti in questi anni dalla «Casa dei cento passi». Ma una di queste in particolare porta dritto dritto ai volantinaggi di denuncia fatti nei giorni scorsi contro la proposta avanzata da alcuni consiglieri comunali di Forza Italia di intitolare l'aula consiliare del municipio di Cinisi all'ex sindaco Leonardo Pandolfo. Una proposta ritenuta gravissima, un'offesa alla stessa memoria di Peppino Impastato. L'ex sindaco Pandolfo è stato anche deputato, in diverse fotografie degli anni Sessanta - foto custodite nell'archivio della Casa della memoria e per l'occasione distribuite insieme ai volantini - è infatti ritratto in compagnia dal boss Badalamenti e di altri mafiosi locali. Si tratta di fotografie che trent'anni fa lo stesso Peppino mostrava in paese e ne parlava dalla sua emittente per denunciare la collusione tra politici e mafiosi.

Inviti «a non abbassare la guardia» nei confronti della mafia sono stati invece lanciati da numerosi politici ed esponenti di varie associazioni. Tra gli attestati di solidarietà pervenuti alla famiglia di Peppino, oltre a quella del Centro Impastato di Palermo, diretto da Umberto Santino, anche quelli del presidente del consiglio Romano Prodi, del presidente della camera Fausto Bertinotti, del presidente di Libera Luigi Ciotti, del sindaco di Roma Walter Veltroni, del presidente della commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, da Rita Borsellino e dall'Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili a Firenze. Quest'ultima, in una nota, pone simbolicamente l'accento sull'«arma» intimidatoria usata dagli attentatori, l'acido corrosivo: «Anche il boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, ora pentito, fece sciogliere nell'acido il corpo del piccolo Di Matteo forse proprio per impedire al padre Santino di collaborare per la verità completa sulle stragi del 1993».


Gli indiani delocalizzano in Italia con un brand tedesco.
Così rinasce Nordmende
Mario Cianflone su
Il Sole 24 Ore

Gli indiani delocalizzano in Italia per produrre tv con un marchio tedesco. È questo in sintesi il senso della rinascita del marchio Nordmende, fulgido esempio della tecnologia «made in Germany» degli anni Settanta e Ottanta, travolto dal tracollo dell'elettronica europea sotto i colpi dell'hi-tech nipponico prima, poi taiwanese e cinese ancora dopo. Il brand, protagonista dell'era del tubo catodico, rinasce adesso sulla scia del del Flat Tv al plasma, apprezzato ma di nicchia, e della massificazione dei cristalli liquidi.
Normende-fenice, ex brand del bruno appartenente alla galassia dell'ex -gigante Thomson, torna sul mercato fin da ora con quasi 20 modelli di televisori Lcd e al plasma prodotti nello stabilimento di Anagni, ex Videocolor, pietra miliare dell'elettronica italiana ed esempio del treno perso da parte della tecnologia del Bel Paese. E si rimette in moto grazie ai capitali messi sul piatto dalla Videocon, la multinazionale indiana che ha rilevato dal gruppo Thomson molti stabilimenti (il brand francese andò 3 anni fa ai cinesi di Tcl) tra cui quello di Anagni. L'obiettivo, si badi bene, non è assemblare televisori con componenti del far east, bensì produrre pannelli al plasma da montare sui propri apparecchi e venduti anche ad altri produttori. Ma la sorpresa non è soltanto la conversione degli impianti dal tubo catodico al plasma, ma anche un investimento da ben un miliardo di euro per una fabbrica di pannelli Lcd in Campania, al confine con il Lazio, tra Caserta e Cassino. Un progetto per il quale è al via un finanziamento Ue e un intervento del Governo per circa il 20% dell'investimento che avrà positive ricadute sull'occupazione: 1000 posti di lavoro. L'impianto si candida a diventare una realtà unica nell'ambito dell'industria elettronica europea e inizierà la produzione, secondo i piani, alla fine del 2009.
Resta il dubbio se convenga davvero investire in Italia e in Occidente in generale per produrre beni tipicamente realizzati in Paesi dove il costo del lavoro è ritenuto più economico. «In realtà spiega Marco Padella - direttore generale di Nordmende - sul costo di produzione di apparati complessi come i flat tv pesano i materiali e le macchine per l'assemblaggio. Due fattori, questi, che hanno un costo uniforme in tutto il mondo, mentre il maggior costo della manodopera in Italia può essere facilmente compensato con vantaggi come quelli inerenti ai minor costi di logistica o ai benefici dovuti a processi di ordine più veloci e snelli».


Mariani: nuova giunta per rilanciare Monza
Forza Italia si aggiudica sette assessori, uno rispettivamente a Lega, Udc e lista civica. Sabato il via ai lavori . Nell'esecutivo 12 uomini e due donne. L'urbanistica affidata a Paolo Romani.
Riccardo Rosa sul
Corriere della Sera

«Sono stati necessari poco più dieci giorni per comporre questa giunta. D'altro canto, condurre in porto un'operazione così, in una città così e dopo una vittoria così netta non è mai facile». Marco Mariani, neo sindaco di Monza, ha tenuto a battesimo ieri il nuovo esecutivo cittadino: sala giunta affollata di fotografi e telecamere e 14 assessori schierati in parata. Volti noti, come quelli di Piefranco Maffé (Fi), già assessore nell'ex giunta Colombo, che ha conquistato deleghe pesanti come Villa Reale, Parco e Pubblica Istruzione, e volti nuovi come quello di Stefano Carugo (Fi), assessore alla Famiglia e alle Politiche Sociali.
Ma anche volti più famosi come quello dell'onorevole Paolo Romani, coordinatore regionale di Forza Italia, chiamato a gestire la delega all'Urbanistica.
Che a Monza vuol dire Cascinazza, l'area verde di proprietà di Paolo Berlusconi sulla quale pende da anni un piano di lottizzazione da quasi 400 mila metri cubi di abitazioni. «Nessuno nega che Cascinazza sia un problema — commenta Romani —. Faccio però notare che i quartieri confinati al lotto sono fra quelli che hanno votato in massa il nostro schieramento ». Forza Italia ha conquistato la bellezza di sette poltrone.
Oltre ai nuovi assessori appena citati, compaiono anche Giovanni Antonicelli (anche lui ex assessore) con la delega all'Ambiente, Osvaldo Mangone ai Lavori Pubblici, Alfonso Di Lio alla Cultura e, infine la giovanissima Martina Sassoli, solo 24 anni, forse il più giovane amministratore che abbia mai varcato la soglia del palazzo municipale. «So di avere una grossa responsabilità — sottolinea —. Non sono però intimidita: cercherò di tutelare gli interessi dei miei coetanei».
An, oltre al vice sindaco Dario Allevi con relativa delega allo Sport, ha ottenuto due assessorati, fra i quali compare il Bilancio assegnato a Marco Meloro. Infine, uno l'ha scelto il sindaco, Marco Baldoni all'Università, uno è stato assegnato alla Lega, uno al Mida e uno all' Udc, che dopo avere lottato col coltello fra i denti per averne due si è dovuto accontentare di uno, ma di peso: Commercio, Artigianato e Industria.



  14 giugno 2007