prima pagina pagina precedente



sulla stampa
a cura di Fr.I. - 13 giugno 2007


Guerra civile nella Striscia di Gaza  
Abu Mazen: "Difendiamoci, Hamas tenta il colpo di stato"    Razzi contro l´ufficio del presidente e la casa del premier Haniyeh. Ventuno morti, oltre cento i feriti
Alberto Stabile su
la Repubblica

GERUSALEMME - Gaza brucia. Le forze di sicurezza fedeli al presidente Abu Mazen sono intrappolate nelle loro caserme. Settore dopo settore, l´Autorità palestinese sta perdendo il controllo della Striscia. Al Nord e lungo la costa le milizie del movimento islamico, Hamas, si sono impossessate di alcune posizioni strategiche, come la cittadina di Beit Lahya, dove hanno saccheggiato e dato alle fiamme la casa di Nabil Shaat, notissimo dirigente della vecchia guardia di al Fatah. Da Ramallah, la capitale della West Bank non ancora contagiata dal germe autodistruttivo della guerra civile, l´ufficio di Abu Mazen ha gridato al golpe.
Sembra, dunque, prendere corpo la possibilità di un´Autorità palestinese smembrata in due: Gaza da un lato, la West Bank dall´altro, ovvero, come ironicamente dicono alcuni osservatori israeliani, «Hamastan» da una parte, «Fatahland», dall´altra.
Sarebbe la fine non solo dello Stato palestinese, ma forse della stessa questione nazionale palestinese.
Il fatto è che la guerra tra Hamas e al Fatah, tra le milizie islamiche e le Forze di sicurezza laiche (oltre ai motivi di scontro politico c´è anche questo risvolto religioso) ha preso una deriva nelle ultime 48-72 ore che nessuno sembra in grado di fermare. Solo ieri, in una giornata cominciata con un lancio di granate contro la casa del premier Ismail Haniyeh (di Hamas) e un altro contro gli ufficci del presidente Abu Mazen (di al Fatah), i morti sono stati almeno 21.
La situazione è degenerata a tal punto che il premier israeliano Ehud Olmert, mettendo da parte la tradizionale avversione verso le ingerenze della comunità internazionale, ha esortato l´Occidente a «prendere seriamente in considerazione l´eventualità di inviare una forza d´interposizione, simile all´Unifil, al confine tra l´Egitto e la Striscia di Gaza per arrestare il rafforzamento delle forze radicali».
È il caso di ricordare che la guerra civile a Gaza ha subito una lunga incubazione. Ma è dopo la vittoria di Hamas, alle elezioni legislative del gennaio 2005, che un´Autorità palestinese sempre meno credibile e per di più indebolita dalle sanzioni economiche, ha dovuto fronteggiare un movimento islamico legittimato dal voto popolare e sostenuto economicamente e politicamente da importanti sponsor internazionali come Siria e Iran.
Per alcuni mesi, Abu Mazen ha cercato senza successo di imporre la sua autorità attraverso un proconsole discusso come Mohammed Dahlan, e preteso di mantenere il monopolio della sicurezza grazie ad una serie di apparati composti da uomini vicini o fedeli ad al Fatah. Hamas ha risposto creando una sua milizia, chiamata Forza Esecutiva, composta da 5.000 uomini che hanno finito con l´affiancarsi al braccio militare del movimento, le Brigate Ezzeddin el Kassam.

In realtà il fossato scavato tra Hamas e al Fatah, tra Hamas e l´Autorità palestinese, riguardava questioni strategiche essenziali, come il negoziato con Israele, il rispetto e l´applicazione degli accordi precedentemente sottoscritti, in parole povere la stessa scelta d´orientare la lotta nazionale entro i limiti sanciti dalla comunità internazionale, vale a dire verso la creazione di uno Stato palestinese entro i confini precedenti alla Guerra del '67, secondo il tracciato delineato dalla Road Map.
Non fossero state questioni così profonde a dividere i due campi, l´accordo della Mecca, che ha portato alla nascita di un governo d´unità basato su un debolissimo compromesso, avrebbe tenuto.
Invece, è bastata una sparatoria a Rafah a far precipitare la violenza fratricida a livelli di brutalità che non s´erano mai visti.



La follia fratricida di Gaza
Igor Man su
La Stampa

Il Vicino Levante? Un minestrone ribollente». La famosa definizione di André Malraux trova, una volta ancora, in questi giorni, preoccupante conferma. Vediamo. Nella striscia di Gaza si sta combattendo una piccola guerra civile. Palestinesi diremo storici, quelli di al Fatah, si scontrano con i «fratelli» di Hamas. Morti e feriti d'ambo le parti e, come da copione, scambio di roventi accuse.

Nel marzo scorso, dopo arrabbiate discussioni e in grazia di generose iniezioni di dollari promosse dall'Arabia Saudita - in forza, altresì, d'una vigorosa mediazione dell'Egitto -, si riuscì a varare un governo palestinese di unità nazionale. Nell'occasione, il presidente della cosiddetta Autorità palestinese, Abu Mazen, già ascoltato consigliere di Arafat, definì il governo di unità la dernière chance. Se saremo uniti, le nostre rivendicazioni avranno peso al tavolo della trattativa. Dobbiamo sottrarci alla spirale della violenza, della provocazione e ragionare. L'unica guerra che non prevede sconfitte si combatte col «realismo della ragione», col negoziato. Questo in fatto disse Abu Mazen.

Con queste premesse è già straordinario che nonostante uno stillicidio di accuse, insulti, colpi di mano, sequestri di persona e via così si sia giunti allo sfascio soltanto in queste ultime ore. Si combatte oramai da giorni, non tralasciando, da parte degli irriducibili di Hamas che non ascoltano nessuno, di lanciare i rozzi ma devastanti missili Qassam su Sderot, sui villaggi israeliani.

Ma alla radice della piccola guerra civile che s'accende di scontri casa per casa, tetto per tetto, troviamo il giuoco infernale di Hezbollah. Il Partito di Dio, creato nella Bekaa dai pasdaran subito dopo la vittoria di Khomeini, ha combattuto contro il vertice libanese per conto terzi (leggi la Siria); oggi, con le armi e le vesti di Hamas, è sceso in campo a Gaza per un golpe che tuttavia non sembra tale se non fosse per il disperato proclama di Abu Mazen, una mistura di retorica arafattiana e di disperazione vera. «Difendete la vostra dignità, il vostro onore», grida alla radio l'ex palazzinaro miliardario, invocando (per telefono) «l'intervento taumaturgico» di Mubarak.

Ma il raiss è in piena ansia elettorale, anch'egli deve affrontare una sfida pericolosa: i Fratelli Musulmani, ancorché falcidiati da arresti in sequela, sfidano «il faraone» brandendo uno slogan vietato dalla polizia: «L'islàm è la soluzione». In Iraq le cose vanno come sappiamo e notizie sempre più allarmanti vengono da Teheran. Quel presidente-pasdaran ha confidato ai suoi che il Mahdi (il Messia) in una delle periodiche visite che gli dedica, abbia garantito «la prossima fine di Israele. Il conto alla rovescia è già cominciato».



Iraq, distrutti da bombe i minareti di Samarra
sommari de
l'Unità

Un attentato che colpisce un simbolo religioso in Iraq è più potente dei soliti kamikaze: distrutti i due minareti della Moschea d'Oro di Samarra, uno dei luoghi più santi per gli sciiti, già colpita da un attentato nel 2006.


Una crisi europea
Valentino Parlato su
il Manifesto

I risultati delle elezioni politiche in Francia e quelli delle amministrative in Italia, preceduti dalle sconfitte dei socialdemocratici nei paesi scandinavi ci dicono una cosa molto pesante e molto chiara: in Europa, in tutta Europa, la sinistra non solo è in crisi, ma ha perduto la credibilità. Massimo D'Alema può dire che la fase (togliattiana) di un partito di lotta e di governo appartiene al passato, ma oggi non possiamo fare a meno di dire che il ruolo di governo (ha ragione Salvati sul Corsera di ieri) è fallimentare o, in tutti i casi, impopolare, e che anche quello di lotta (le due piazze di sabato a Roma) non sta tanto bene.
La situazione è grave e seria. Prendersela con Prodi o con Bertinotti o con Cannavò non serve a niente, salvo a farsi reciprocamente del male. La questione non è delle due sinistre e neppure del partito democratico, ma della crisi profonda della sinistra, della sua incapacità di sviluppare, sulla base di una seria analisi della società contemporanea, una politica capace di trovare consenso, di mobilitare forze.
La crisi della sinistra è di dimensione europea, ma con una differenza tra l'Italia e la Francia. In Francia Sarkozy delinea una politica di destra egemone, capace di aumentare i consensi e liquidare sinistre, destre (Le Pen) e centristi, come residui di un passato. In Italia, invece, anche la destra berlusconiana, appartiene al passato. Non ha un disegno egemone, cerca di guadagnare consensi con trovate politicantesche, la detassazione dell'Ici e altro. Questo anche perché l'Italia, ricca della sua storia, non presenta le semplificazione della Francia, diventata stato molti secoli prima dell'Italia.

Un discorso analogo - sempre a mio parere - vale anche per la sinistra che si autodefinisce di alternativa: faccia quello che dice e rinunzi alle contrattazioni di opportunità policante.
Ma al fondo di tutto - e il problema investe anche il manifesto - c'è la necessità, urgente, di analizzare e individuare le ragioni dell'attuale profonda crisi della sinistra in Europa. Se non si trovano le ragioni della malattia curarla sarà impossibile.
E tutto questo, aggiungo, non avviene in una fase di capitalismo trionfante. Pure il capitalismo (anche negli Usa) non sta tanto bene. E vale ricordare - pensiamo al passato - che quando le cose stanno così c'è da preoccuparsi.


"Intercettazioni, follia italiana"  Attacco di Amato.
I Poli concordi: serve una nuova legge. Ma i magistrati di Milano difendono la Forleo. Destra al Colle, scontro Fini-Casini  
sommari de
la Repubblica

ROMA - «E´ una follia tutta italiana»: lo ha detto il ministro dell´Interno Giuliano Amato rispondendo ieri a una domanda sulla vicenda intercettazioni. «Non è possibile che dalle sedi giudiziarie esca tutta questa roba, non abbiamo trovato ancora il modo di affrontare il problema». Poli d´accordo sulla necessità di rivedere la legge, anche se Di Pietro chiede che la norma non sia limitativa della libertà di stampa. Il tribunale di Milano si difende dopo le polemiche: legittima la visione delle trascrizioni, adottate cautele mai viste. Riunione della Quercia: aggressione ai Ds e vicenda che indebolisce le certezze dello stato di diritto. Emergono intanto nuove carte: il parlamentare di Forza Italia Luigi Grillo disse a Giampiero Fiorani che Silvio Berlusconi intendeva essere aggiornato sulle scalate. Berlusconi, Bossi e Fini hanno deciso di salire al Colle per denunciare al capo dello Stato la «grave situazione» del Paese, mentre Casini si chiama fuori dalla visita al Quirinale: «Propaganda che fa prosperare e non cadere Prodi».


Vice questore shock: «Pozze di sangue per terra,
la Diaz sembrava una macelleria messicana»
su
Il Messaggero

GENOVA (13 giugno) - «Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza». È la testimonianza resa stamani da Michelangelo Fournier, all'epoca del G8 a Genova del 2001 vice questore aggiunto del primo reparto mobile di Roma e oggi uno dei 28 poliziotti imputati per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz. Questa mattina in aula, Fournier ha fornito infatti una nuova versione su quello che aveva visto nella scuola al momento della sua irruzione: non manifestanti già feriti a terra, ma veri e propri pestaggi ancora in atto.

«Sono rimasto terrorizzato e basito - ha spiegato - quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: "basta basta" e cacciai via i poliziotti che picchiavano». Fournier, sollecitato dalle domande del pm Francesco Cardona Albini ha aggiunto: «Intorno alla ragazza per terra c'erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze».

Fournier ha poi raccontato di aver assistito la ragazza ferita fino all'arrivo dei militi con l'aiuto di un'altra manifestante che aveva con sè una cassetta di pronto soccorso. «Ho invitato però la giovane - ha raccontato - a non muovere la ragazza ferita perchè per me la ragazza stava morendo».


Reputazione
Antonio Padellaro
su
l'Unità

Si chiama reputazione. Per alcuni è un bene prezioso da difendere ad ogni costo. Per altri il problema non esiste proprio. Perciò i Ds parlano di aggressione nei loro confronti dopo aver visto i giornali inondati dalle telefonate di D'Alema e Fassino durante la scalata Unipol-Bnl di due estati fa. Loro hanno sicuramente un'immagine da proteggere e non accettano di essere messi nel frullatore dei veleni. Ma se esce fuori che Fiorani chiama Berlusconi per ringraziarlo dell'appoggio dato alla scalata Antonveneta e l'allora premier ringrazia commosso, in quel caso non c'è notizia perché non c'è reputazione. Il cavaliere se ne sbatte e i giornali quasi ignorano la cosa. La cultura berlusconista (si fa per dire) ha prodotto questo bel risultato. Chi misura i propri comportamenti con la regole della legalità e scivola su una battuta («abbiamo una banca» o «facci sognare») viene sbattuto in prima pagina. Chi teorizza l'illegalità come strumento della politica, dorme invece sonni tranquilli avendo ormai superato il muro del suono dello sputtanamento. Si capisce perciò il tentativo della destra di omologare tutto e tutti (voi siete come noi), e di convincere la Quercia a fare fronte comune contro la magistratura. I Ds si chiedono perché siano state divulgate quelle intercettazioni che, sostengono, non hanno rilevanza penale e che sono il replay, con qualche approfondimento in più, di ciò che già era stato pubblicato. Ormai però quelle conversazioni sono di dominio pubblico e da esse emerge che nell'occasione alcuni esponenti Ds tifarono, e in qualche caso molto si attivarono, per la buona riuscita dell'operazione Consorte. Non è stata la scelta migliore, se non altro perché adesso sono costretti a difendersi dagli attacchi dei tanti improvvisati maestri di etica del mercato (che però non sprecano una parola per quell'altra politica che tifò e si attivò contro la riuscita dell'operazione Consorte). Fa male, ma può essere una lezione salutare.


Crack Parmalat, aggiotaggio: 4 banche a giudizio
sommari de
l'Unità

Sono la Morgan Stanley, l'Ubs, la Deutsche bank e il Citigroup, cioè quattro dei maggiori colossi finanziari mondiali. Chiamati in causa dal giudice di Milano Tacconi che indaga sul crack della Parmalat. Il gup convoca al banco degli accusati 13 loro dirigenti per aggiotaggio. «Ma noi siamo parte lesa», dice Citigroup. «La Procura di Milano non è competente, siamo istituti esteri», insiste Ubs.


Maria Cervi, la bambina che vide l'orrore
Wladimiro Settimelli su
"l'Unità"

Lei, Maria Cervi, quella terribile mattina del 25 novembre del 1943, con la paura che le serrava la gola, vide tutto: i fascisti che sbucavano dalla nebbia intorno alla casa di Fraticello. Vide il padre, Antenore, che con i fratelli Gelindo, Aldo, Ferdinandio, Agostino, Ovidio ed Ettore, sparavano per difendersi. Vide il nonno Alcide che passava da una finestra all'altra della soffitta e faceva partire un colpo dietro l'altro da un vecchio fucile. Poi il silenzio terribile dopo che le munizioni erano finite. Subito dopo, ecco l'arrivo dei fascisti che entrarono in casa urlando. Presero tutti e cominciarono a picchiare.

Poi il fuoco che divorava i fienili e i mobili delle stanze, in mezzo ad un fumo infernale. E loro, le mogli dei Cervi e figli piccoli che guardavano ammutoliti da un angolo dell'aia. Quella fu l'ultima volta che Maria vide il padre Antenore vivo. L'altra notte Maria Cervi, nipote di papà Cervi e figlia di uno dei sette eroici fratelli fucilati dai fascisti a Reggio Emilia, tutti insigniti di medaglia d'oro al valore è deceduta improvvisamente. Era lei, da sempre, l'anima dell'Istituto Alcide Cervi ed era lei che riceveva a Campegine, a Fraticello e a Gattatico, i luoghi della famiglia, i visitatori. Migliaia che arrivavano, dal dopoguerra in poi, da ogni angolo d'Europa per farsi raccontare le sensazioni, le sofferenze. E Maria, paziente, raccontava tutto ai grandi e i ragazzi delle scuole. Lo aveva fatto anche con me nel febbraio dello scorso anno, durante il congresso nazionale dell'Anpi. Come tanti della mia generazione, avevo letto tutto dei Cervi: dal celebre libro di Renato Nicolai alle lunghe biografie delle enciclopedie della Resistenza. Ma, dopo avere conosciuto Maria al congresso dell'Anpi a Chianciano, come un ragazzino delle elementari, non avevo resistito alla voglia di chiederle il racconto di quella mattina. Davvero volevo sapere ancora una volta? Poi aveva cominciato dal descrivere quella famiglia emiliana del tutto particolare. Una famiglia di contadini che si occupava anche della storia del mondo, di biologia, di cose scientifiche legate allo sfruttamento della terra, di coltivazioni particolari, di progresso sociale e, ovviamente, di politica.

Poi era cominciata la vera e propria attività antifascista dando aiuto ai partigiani e ai prigionieri di guerra che scappavano dalle prigioni e dai campi. Molti di loro - mi spiegava Maria - erano rimasti nascosti nei fienili anche quando, dopo l'8 settembre, era cominciata la lotta armata. E anche i piccoli di casa Cervi si erano ormai abituati a non dire neanche una parola di quello che vedevano nella grande casa dei padri. Era, quindi, una specie di grande «cellula da combattimento». In mezzo al fieno e nelle stalle c'erano ormai fasci di armi per rifornire i ragazzi in montagna e i fascisti certamente lo immaginavano. Avevano più volte interrogato i Cervi, ma non avevano cavato un ragno dal buco. Poi era arrivata quella gelida mattina di novembre e gli uomini in camicia nera. Erano in tanti perché dei Cervi avevano una paura sfottuta. Subito la sparatoria era diventata terribile. Poi ecco la fine delle munizioni e la resa per tentare di salvare almeno le donne e i bambini. I fratelli furono portati al tiro a segno di Reggio e fucilati uno dopo l'altro. Papà Cervi saprà della strage solo dopo.

Maria Cervi racconta queste cose, calma e serena come sempre. Papà Cervi, decorato con le medaglie dei figli e la sua dal presidente Einaudi, dirà parlando «dei ragazzi» una frase rimasta celebre: «Dopo un raccolto ne viene un altro... ».

Maria Cervi, in tutti questi anni ha lavorato giorno dopo giorno per ricordare gli uomini della sua famiglia, la Resistenza e parlare ai ragazzi delle scuole di libertà, democrazia, giustizia sociale. È stato come se tutti gli altri Cervi avessero lasciato a lei questo grande compito.



Risparmio energetico
Google e Intel scommettono sui computer «verdi»
Gianluigi Torchiani su
Il Sole 24 Ore

I consumi energetici dell'Information Technology sono cresciuti in maniera esponenziale nell'ultimo decennio e, ultimamente, le grandi società del settore stanno cercando di correre ai ripari, anche per poter vantare presso il pubblico un approccio "verde". L'ultima iniziativa di questo genere vede scendere in campo due colossi del calibro di Intel e Google, con l'appoggio esplicito di nomi come Lenovo, Microsoft, Ibm, Sun microsystems, in collaborazione con il Wwf.
Le due società hanno costituito un consorzio, chiamato Climate Savers Computing Iniziative, che punta non solo a coinvolgere il mondo delle imprese, ma anche a sensibilizzare i singoli utenti. Secondo Climate Savers, attualmente i computer da tavolo sprecano metà dell'energia che utilizzano, mentre i server ne dilapidano almeno il 30-40%. I costi di questo sperpero non sono ovviamente solo economici ma anche ambientali: l'obiettivo di Climate Savers è perciò di aumentare l'efficienza energetica della tecnologia informatica per limitare le emissioni gassose.
Il consorzio punta a costruire entro il 2010 dei Pc del 90% più efficienti rispetto ad oggi, in grado cioè di ridurre la produzione di CO2 di circa 54 milioni di tonnellate l'anno, equivalenti all'inquinamento prodotto in un anno da 11 milioni di automobili. Tradotto in termini economici, circa 5,5 miliardi di dollari l'anno di risparmio energetico.

Il programma Climate Savers non è però rivolto solo al mondo degli affari: l'obiettivo è di promuovere delle campagne per educare i comuni utenti a tenere sotto controllo le proprie spese energetiche, così da arrivare a una riduzione del 50% dei consumi casalinghi entro il 2010.
Insomma, i grandi nomi dell'hi-tech, sposano la causa dell'ambiente, in linea con la domanda proveniente dall'opinione pubblica: in un recente sondaggio, l'80% dei consumatori americani ha dichiarato di considerare importante acquistare prodotti realizzati da compagnie impegnate sul fronte ambientale.


  13 giugno 2007