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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 11 giugno 2007


America e Italia
Furio Colombo su
l'Unità

Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.

La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l'America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all'estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.

Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l'opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *

Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.

A lungo i senatori eletti dell'opposizione si sono impegnati a superarsi l'un l'altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l'onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.

Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.

No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.

Secondo. L'intento non era - e tutt'ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L'intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell'offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.

Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.

Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.

Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l'idea non riuscita (c'è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l'hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.

Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell'Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.

Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell'archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell'Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
* * *


È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.


Il paradosso delle sinistre
Edmondo Berselli su
la Repubblica

Se si vuole un´immagine plastica della crisi della sinistra radicale, o come si voglia chiamarla, sinistra «alternativa», «antagonista», «altermondialista», basta mettere a fuoco le due piazze separate in cui è confluita la protesta contro il presidente americano Bush: in Piazza del Popolo la sinistra alternativa di governo, con i Russo Spena e i Diliberto; in Piazza Navona la sinistra alternativa di lotta, in cui spiccavano trotzkisti come Marco Ferrando ed esponenti della disobbedienza come Francesco Caruso e Haidi Giuliani. La sintesi l´ha offerta una delle madonne dell´ultrasinistra storica, Franca Rame andandosene da Piazza Navona: «La politica è una cosa schifosa», spiegando che quest´ultimo anno, passato nelle istituzioni, è stato il peggiore della sua vita.
Da qualsiasi ragione fosse dettato questo giudizio, nella sua emotività sintetizza lo stato d´animo di una parte della sinistra alternativa, quella che si è assunta un compito di governo, e si trova a vivacchiare di compromessi quotidiani nelle aule parlamentari. Certo, la figura di Fausto Bertinotti si staglia sullo scranno della presidenza della Camera, a testimonianza del lungo viaggio che ha portato il movimento a farsi istituzione: è stato il socialista non marxista Bertinotti che prima è riuscito a rinnovare il profilo politico di Rifondazione comunista, sottraendo il partito alle grisaglie postcomuniste, e poi ha completato la sua lunga marcia iscrivendo il Prc nel sistema istituzionale.
La scommessa di Bertinotti è stata uno dei progetti politici più coraggiosi e razionali che si siano visti nel nostro paese. Con fermezza, il leader ha decomunistizzato Rifondazione, facendone un partito esplicitamente non violento, in cui la radicalità è uno stile di pensiero generale più che un modello di comportamento collettivo. Per riuscirci, Bertinotti ha dovuto accettare il confronto con la prassi, il compromesso, il negoziato. Fra l´altro ha accettato anche di partecipare alle primarie dell´Unione contro Prodi, nell´ottobre del 2005, contribuendo così, con il 15 per cento dei suoi voti, a definire il perimetro dell´alleanza di centrosinistra.
Va da sé che per buona parte della sinistra di movimento questa scelta è apparsa come una rinuncia. Il movimento no global, la moltitudine di lotta e dei centri sociali che è confluita sabato in Piazza Navona non si convince facilmente che la scelta «ministeriale» effettuata da Rifondazione sia efficace. Vuole le mani libere, per poter esprimere nel modo più adeguato il suo potenziale di contestazione.

Ma in questo modo Rifondazione ha visto impallidire la sua caratteristica fondamentale. Cioè di essere il partito che presidia l´area della sinistra radicale, che ne filtra tutti gli umori e li riconduce nel circuito della politica ufficiale. I primi segnali concreti della perdita di questo ruolo si erano avuti in seguito alla dissidenza interna sulla politica estera, come nel caso del senatore Franco Turigliatto, uscito dal Prc in quanto postosi «fuori dalla comunità di Rifondazione», secondo le parole della segreteria (con Franco Giordano che lo giudicava «incompatibile» con il partito).

Ci sono processi in corso nel mondo sindacale, particolarmente dentro la Cgil (in cui la Fiom ha acquistato la consistenza di un quasi-partito), in cui il cammino, o la "deriva", verso il Pd viene giudicato un cedimento alla subalternità neocentrista.
Ma ovviamente lo scenario decisivo dipende dall´evoluzione delle molte sinistre che si stanno disegnando dopo il via al Pd. C´è in atto una sorta di costituente socialista; occorre verificare quale sarà l´approdo di Sinistra democratica, cioè la diaspora diessina guidata da Fabio Mussi; inoltre il cantiere della sinistra coinvolge Verdi e Comunisti italiani, e impone una riflessione senza sconti a Rifondazione comunista. Perché il «governismo», se non incorpora elementi di dinamismo politico, significa in fondo una politica banale: da un lato richieste solidariste di destinare l´extragettito alle fasce sociali «verso cui siamo in debito», come dice il ministro Paolo Ferrero; dall´altro l´opposizione strisciante in aula alle misure di liberalizzazione, talvolta con il contributo di alcune aree corporative del Polo.
L´argomento da mettere sotto osservazione, allora, è una nuova versione del «paradosso delle due sinistre». Secondo cui la sinistra alternativa «istituzionale» non è mai stata così ampia in Parlamento e così debole nell´arena pubblica. Perché rispetto all´opacità del lavoro nelle istituzioni, l´unico antagonismo identificabile è quello dei Caruso, con la sua capacità di mobilitarsi e di puntare sul conflitto. E si sa che quando l´unica alternativa davvero visibile è quella dell´estremismo politico, la vita della sinistra istituzionale, di qualsiasi sinistra si tratti, tende a farsi ogni giorno più difficile.


Rifondazione all'ultima spiaggia
Resa dei conti a sinistra. E alla sbarra c'è Fausto
Riccardo Barenghi su
La Stampa

L'ultima goccia è stata la manifestazione fallita di sabato in piazza del Popolo, mentre il movimento sfilava in un corteo numeroso che ce l'aveva con Bush, con Prodi e anche - se non soprattutto - con la sinistra, radicale e di governo, che in quel corteo non c'era. Una ferita che i dirigenti di Rifondazione comunista stanno cercando in queste ore di rimarginare, «dobbiamo ricostruire subito un rapporto con i movimenti che forse abbiamo un po' dimenticato», ammette il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore.

Ma è appunto solo l'ultima goccia di un malessere, se non vogliamo chiamarla crisi, del rapporto tra la sinistra radicale e il suo popolo. Le altre gocce sono le elezioni, con risultati certo non piacevoli (anche se quelli del Partito democratico sono peggiori, si consolano quelli della Cosa rossa). Con un astensionismo che cresce soprattutto nelle zone operaie, vedi anche ieri nel Ponente di Genova, cioè proprio tra gli elettori più di sinistra. Con un disagio tra i lavoratori che si è espresso con i fischi di Mirafiori. Con i risultati dei ballottaggi che rischiano di peggiorare il quadro.

E con la battaglia che si apre sulla questione economico-sociale che qualcuno già chiama «la madre di tutte le battaglie».

Si soffre al governo, soprattutto se si è di sinistra radicale e se il tuo governo non fa quello che tu pensi debba fare. Si soffre ma si continua a starci: «Perché oggi non siamo al 1998 quando ponemmo l'alternativa tra svolta e rottura. E alla fine fu rottura visto che non ci fu la svolta», spiega ancora Giordano. Però. Però si punta tutto sulla partita sociale, le pensioni, il Dpef, il risarcimento sociale dei ceti più deboli finora penalizzati, secondo tutto l'arcipelago della sinistra radicale. La battaglia si annuncia aspra, il bersaglio è essenzialmente il ministro Padoa-Schioppa, «che ragiona come un tecnocrate quando dice al sindacato: o vi innovate o vi estinguete - accusa Migliore

Nessuno lo dice apertamente, tuttavia nel partito di Bertinotti e Giordano e in tutta l'area della Cosa rossa l'aria che si respira è appunto quella dell'ultima spaggia. Voci dal sen fuggite: «Se va male la battaglia sul Dpef, sulle pensioni, sulla redistribuzione del reddito, che ci stiamo a fare ancora al governo?». E ancora: «Non sarebbe meglio sfilarci prima che Prodi ci crolli addosso seppellendoci di macerie?». Ma la linea ufficiale è ancora un'altra, quella espressa appunto da Giordano e che non prevede al momento abbandoni della nave. Anche se un dirigente come Giovanni Russo Spena, che fa il capogruppo al Senato, dice senza mezzi termini: «Qualora dovessimo perdere anche la battaglia sulle questioni sociali, qualora cioè non dovessimo ottenere quel risarcimento sociale che, non noi, ma gli elettori del centrosinistra si aspettano, allora io proporrò di consultare la nostra base per chiederle una cosa molto, molto semplice: cosa dobbiamo fare, dobbiamo restare o andarcene dal governo?».

La questione se restare o lasciare Prodi dunque ormai è sul tappeto. Tanto che un sindacalista come Giorgio Cremaschi, che in Rifondazione è in minoranza ma che ha comunque un certo polso della situazione operaia essendo uno storico dirigente della Fiom, spiega che «il corteo dell'altro ieri ha segnato l'ennesimo strappo tra il partito e la sua base, così come prima gli episodi accaduti nelle fabbriche. C'è poco da fare, lo scollamento tra il vertice e la parte più radicale dell'elettorato è ormai evidente, c'è chi protesta, chi fischia e chi si rifugia nell'astensionismo. E lo voglio dire molto chiaramente, anche se mi dispiace perché mi considero un suo amico: il danno maggiore per Rifondazione si chiama Fausto Bertinotti.

E dunque? «Dunque io penso che Rifondazione, se vuole sopravvivere, deve emanciparsi da Bertinotti. E soprattutto porsi il problema di uscire dal governo, magari mettendo a punto un'exit strategy in modo da organizzare un sistema che non consenta a Berlusconi di tornare al potere. Però mi pare che una via d'uscita sia obbligata».

Faranno un altro partito, loro, i no global, Cremaschi e tutti quelli che non si sentono più rappresentati da Rifondazione, i Comunisti italiani, i Verdi, la sinistra democratica? E' presto per dirlo, ma certo la tentazione è forte. Soprattutto se nel frattempo Giordano, Migliore, Russo Spena, Ferrero, Diliberto, Mussi, Salvi, Pecoraro, Cento (e il «regista» Bertinotti) non saranno riusciti a ottenere da Prodi quella svolta capace di far ritrovare alla sinistra radicale la sua missione politico-sociale. E a farle vincere la sua storica scommessa sul governo.


Grossman e il '67: la guerra ci ha avvelenati
Mara Gergolet sul
Corriere della Sera

CASALE MONFERRATO — Aveva 12 anni, il 10 giugno 1967. Era l'anno del suo Bar Mitzvah. «Li ricordo benissimo, quei giorni.
Ricordo nettissima la paura, il pensiero terrorizzante che sarei morto». Aveva la radio, David Grossman, la girava di notte sui servizi in ebraico di un'emittente del Cairo che promettevano a Israele «di stuprare le donne, di gettare a mare gli uomini. E io ero un bambino, e non sapevo nuotare». Così David Grossman racconta a Gad Lerner il suo ricordo della Guerra dei sei giorni, a 40 anni dalla sua fine. C'è un pubblico numerosissimo, gente tenuta fuori dal teatro dai vigili, a sentire a Casale Monferrato, al festival di cultura ebraica OyOyOy, la voce più autorevole della sinistra israeliana. «Per questo, quando i nostri caccia hanno sconfitto l'aviazione di Egitto, Iraq, Siria, Libano e Giordania, io ho pensato a un miracolo: eravamo stati salvati da un'esecuzione». Ora è quel miracolo, quel sentirsi salvati che è per Grossman, per l'«ateo» Grossman, anche l'eredità più complicata della vittoria israeliana del 1967.
«Questo sentimento ha prodotto un'ondata di messianismo, religioso e politico. Molti hanno scorto il segnale che era giusto occupare la terra dei palestinesi». E c'è un secondo, radicale, cambiamento che quella guerra ha prodotto: «Israele ha scoperto la tentazione del potere, il suo sapore dolcissimo. Meglio, del potere arbitrario sulle vite degli altri». Difficile resistere. «E noi ci siamo rimasti intrappolati. Quella guerra non è finita neppure 40 anni dopo, noi e i palestinesi continuiamo a mangiarne i frutti avvelenati». Oggi, dice, la situazione è ancora più «senza speranza». Con Israele paralizzata, senza la forza di spingere per la soluzione dei due Stati. La minaccia di una guerra con la Siria — dice Grossman — che potrebbe scoppiare in estate, la «retorica machista che si autoavvera», per l'assoluta assenza d'iniziativa e di coraggio politico dei leader.



Europa più corta con i treni veloci
Anche Francia e Germania uniscono le reti. L´Italia tagliata fuori . Dal week end sono iniziati i collegamenti tra Parigi e Francoforte completando una rete continentale che fa concorrenza agli aerei .
Andrea Tarquini su
la Repubblica

BERLINO - In Italia si litiga e ci si divide sulla Tav, l´alta velocità ferroviaria. Nel cuore dell´Europa invece la Tav diventa transnazionale. Da sabato scorso i treni ad alta velocità francesi (i famosi Tgv) e tedeschi, cioè gli Ice 3 della Siemens, collegano Parigi a Francoforte e Stoccarda. Entrambi i collegamenti in meno di quattro ore, da città a città. L´alta velocità nel cuore della vecchia Europa diventa quindi pienamente competitiva e concorrenziale con l´aereo. E la nascita del nucleo duro franco-tedesco della Tav europea spinge altri paesi a collegarsi con la massima fretta: il Benelux è già integrato, i Tgv arrivano già a Londra. E presto l´estesa, rapidissima rete della Alta velocidad espanola sarà collegata alla rete francese e del resto dell´Europa centrale.
E´ un nuovo mondo straordinario, quello che francesi e tedeschi fanno nascere sui binari del vecchio continente. Il treno, mitico trasporto di lusso nella Belle époque dell´Orient Express, ora è il mezzo del futuro. Un mondo da cui l´Italia con le sue polemiche, le sue lotte politiche e i suoi ritardi sulla Tav rischia di restare tagliata fuori. Mentre è invece pronta ad agganciarsi la Spagna, che con entrate tributarie nazionali e aiuti della Ue ha costruito in pochi anni una rete tav che noi possiamo solo sognare: Madrid-Barcellona in 2 ore e 20, più collegamenti ad alta velocità Madrid-Siviglia e da Barcellona al sud della costa mediterranea. Concorrenziale con l´aereo, anche là dove esiste da decenni il puente aereo, cioè un volo ogni 10 minuti Madrid- Barcellona a prezzi modici con il check-in lampo e la possibilità come in treno di pagare il biglietto a bordo.
L´Europa del futuro è già cominciata. Ancora una volta, grazie agli ex nemici di secoli di guerre: francesi e tedeschi. L´investimento è stato pesante: 3,6 miliardi di euro.

Un esborso enorme, ma il risultato si fa vedere. Parigi- Francoforte in 3 ore e 49 minuti, da centro città a centro città. Parigi-Stoccarda in 3 ore e 39. Mète tedesche che diventano raggiungibili anche da Londra, dove correndo sotto la Manica il Tgv arriva da Parigi in 2 ore e 50. L´obiettivo comune delle ferrovie francesi Sncf e della tedesca Deutsche Bahn (Db) è aumentare i passeggeri del 50 per cento entro in 2012. Attirandoli con biglietti a non più di 99 euro, e con il vantaggio che i tempi di poche ore sono tempi di viaggio reale da centro città a centro città, senza doverci cioè aggiungere il viaggio all´aeroporto e il check-in un´ora e mezza prima del decollo.

Il Benelux è già nel sistema. Londra anche. Gli svizzeri inviano "pendolini" costruiti in casa da 220 orari fino a Monaco e Stoccarda, gli austriaci spingono a 230 all´ora i loro intercity internazionali grazie a potentissime locomotive. Gli spagnoli, detentori del record di velocità in Europa nei servizi regolari passeggeri con 360 orari, lavorano per agganciare la Madrid- Barcellona alla rete franco-tedesca. Cèchi, ungheresi, polacchi, scandinavi vogliono muoversi. L´Italia ha in mano il suo destino sui binari: può agganciarsi alla rete del futuro, o escludersi da sola.


Addio supertunnel, la Tav cambia percorso
L'Osservatorio tecnico boccia il vecchio tracciato. Niente Venaus, rispunta la Val Sangone.
Lorenzo Salvia sul
Corriere della Sera

ROMA — È il primo, parziale, verdetto sulla linea ferroviaria ad alta velocità fra Torino e Lione. Dice che non si può fare affidamento solo sul vecchio tracciato e che i lavori per costruire quello nuovo devono partire prima possibile. Non arriva dalla politica, che tanto si è accapigliata sulla questione e forse tanto si accapiglierà ancora. Ma dall'Osservatorio tecnico, il gruppo d'esperti nominato nell'agosto scorso dal governo proprio per ricondurre la contrapposizione senza fine fra Tav e no Tav ad un problema tecnico con (se possibile) relativa soluzione.
NO VECCHIO TRACCIATO — È una conclusione a cui si arriva per gradi.

Di fatto il loro lavoro non solo spazza via l'ipotesi minima, quella che prevede di fare affidamento sul tracciato esistente e non muovere una foglia. Ma rende impraticabile anche l'idea di un ulteriore potenziamento della vecchia linea (oltre ai lavori già in corso) pur di evitare la costruzione di una nuova. Non solo. Considerando che per realizzare un nuovo tracciato servirebbero ad essere ottimisti dai 10 ai 15 anni, i lavori della Tav dovrebbero partire il prima possibile per evitare di raggiungere la fatidica soglia del 2020.
LA DECISIONE — Fin qui la situazione dal punto di vista tecnico. Ma la decisione spetta alla politica e già dopodomani se ne discuterà al tavolo convocato a Roma con i ministri Alessandro Bianchi e Antonio Di Pietro, oltre al sottosegretario Enrico Letta. Del resto proprio ieri il ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa ha ribadito che la Tav «si farà» e che una decisione «sarà presa entro giugno». Viste le prevedibili turbolenza il ministro si avvantaggia: la scadenza è in realtà per il 20 luglio. Entro quella data dovremo indicare all'Unione europea la soluzione scelta, non un progetto dettagliato ma un percorso di massima.
QUALE PERCORSO? —

sembra ormai certo l'accantonamento del tunnel di Venaus, la galleria di 52 chilometri che aveva scatenato le proteste in Val Susa anche per i rischi legati alla possibile presenza di amianto nelle rocce.

Il tracciato più probabile sembra quello che passa più a Sud e attraversa la Val Sangone, più agevole della Val Susa. Ma è possibile che si opti per una soluzione mista, in caso anche recuperando qualche tratto della vecchia linea, portandolo a 4 binari.


Afghanistan, attentato contro Karzai. Nessun ferito
sommari de
l'Unità

Il presidente afghano Hamid Karzai è scampato a un attentato della guerriglia talebana mentre partecipava a una manifestazione pubblica nel distretto di Andar della tumultuosa provincia centrale di Ghazni. Una salva di razzi ha colpito non distante dal luogo dove Karzai stava tenendo un comizio, ma non ci sono stati feriti.


Selva usa l'ambulanza come taxi. L'Unione: «Vergogna»
sommari de
l'Unità

Nel giorno della visita di Bush a Roma, il senatore di Alleanza Nazionale, finge un malore per arrivare in tempo a una diretta televisiva, cui si è fatto portare da un'ambulanza. L'Unione: «È inqualificabile». D´Amato ha preannunciato un'interrogazione urgente. «Gesto sonsiderato e vergognoso – dice il leghista Calderoli -. Da censurare totalmente».


Toyota, superato il traguardo di un milione di auto ibride vendute
M.Cia su
Il Sole 24 Ore

In 10 anni la Toyota ha superato, a fine maggio, il traguardo del primo milione di automobili ibride vendute in tutto il mondo da quando, nel 1997, è iniziata la commercializzazione della Toyota Prius in Giappone. Prius è stata la prima automobile ibrida prodotta di serie e, dopo il mercato giapponese, la sua commercializzazione è stata rapidamente estesa anche a quello statunitense e poi, nel 2000, in Europa.
Il primo milione di veicoli ibridi venduti da Toyota ha una valenza non solo in termini di puro record numerico. «È stato infatti calcolato - precisa la nota - che in dieci anni le vendite globali dei veicoli ibridi Toyota, dal 1997 al 30 aprile 2007, hanno fortemente contribuito alla riduzione delle emissioni di CO2, considerata uno degli agenti responsabili del riscaldamento del pianeta, con un risparmio di circa 3,5 milioni di tonnellate di CO2 emesse nell'atmosfera rispetto alle automobili di stessa classe, dimensioni e prestazioni, alimentate con motori tradizionali a benzina».

Come funziona la macchina ibrida
Nel 2003, Toyota ha lanciato la seconda generazione di Prius, equipaggiata con il Toyota Hybrid System II che abbina un motore a combustione interna ad alta efficienza ad un motore elettrico che in maniera sinergica alimentano l'automobile.
Infatti le vetture ibride come Toyota Prius e le Lexus (divisione di lusso della Casa nipponica) sono dotata di un sistema intelligente che sceglie quale motore usare: elettrico, benzina o entrambi e con quale ripartizione di potenza. A bassa velocità l'auto è spinta dal motore elettrico alimentato da batterie. Durante la guida normale opera quello a benzina mentre una parte della sua potenza è usata per azionare il generatore che a sua volta alimenta il propulsore elettrico e ricarica le batterie grazie a un innovativo circuito ad alta tensione. Nelle accelerazioni il benzina (un 1,5 litri da 57 KW) lavora in sinergia con quello elettrico (50 KW di potenza), capace di erogare, con andamento piatto da 0 a 1200 giri, una coppia di addirittura 400 Nm, un valore enorme simile a quello di un turbodiesel da super car. Il cambio non c'è: nei motori elettrici non serve e al suo posto i tecnici nipponici hanno messo un economico variatore elettrico. Invece, durante le frenate si recupera energia: il motore elettrico si trasforma in un alternatore ad alta capacità che ricarica le batterie speciali.

Il mito dell'idrogeno
L'architettura ibrida è competitiva a livello di emissioni complessive con le auto elettriche alimentate con celle a combustibili all'idrogeno e con quelle che bruciano questo gas in motori a combustione interna.
L'era dell'idrogeno - se mai arriverà - infatti è molto lontana e non rappresenta allo stato attuale delle cose una strada praticabile a breve termine. L'idrogeno, non è una fonte di energia bensì un vettore di energia, non esiste libero in natura e occorre spendere energia per produrlo, magari convertendo idrocarburi come il metano e liberando CO2 che va «confinata». Bisogna, poi, distribuirlo e comprimerlo nei serbatoi. Il tutto si riflettete in un bilancio energetico - dal pozzo alla ruota (from well to wheell) non è competitivo con un sistema elettrico-diesel.



Dopo oltre 30 anni torna Wight
Così rinasce la Woodstock europea
Gli Stones chiudono la kermesse con il meglio del rock inglese. Nel 1970 centinaia di migliaia di giovani affollarono l'isola britannica, tutti nudi, per un festival diventuo leggenda.
Gino Castaldo su
la Repubblica

ISOLA DI WIGHT - "Kate Nichols, ti amo. Vuoi sposarmi?". Il messaggio arriva dal cielo, trainato da un aereo che lo mostra alla folla assiepata al Seaclose Park di Newport, al centro esatto dell'Isola di Wight. A migliaia guardano su, mormorano di commozione, approvano. Dove sarà questa Kate? Potrà resistere a un così romantico invito lanciato nel pieno del resuscitato festival che nel 1970 fu la Woodstock europea? Allora c'era una line-up da sogno: Who, Doors, Jimi Hendrix, Leonard Cohen, Miles Davis, Joni Mitchell (che ci andò per puntiglio, ancora arrabbiata contro quelli che l'avevano sconsigliata, a torto, di partecipare a Woodstock, l'anno prima). Oggi che i tempi sono cambiati ci sono Kasabian, Muse, Groove Armada e tanti altri, nomi che non possono certo competere con la leggenda, ma sono il meglio che la musica può offrire di questi tempi.

A ricordare i fasti di un tempo ci sono voluti i Rolling Stones, per la prima volta in un festival dal 1976, disposti a chiudere la tre giorni con i fuochi d'artificio del loro "Bigger Bang tour" (il 6 luglio a Roma). Loro sono vecchi come il festival, ma hanno in serbo colpi micidiali (in una recente intervista al tedesco "Mannheim Morgen" hanno assicurato che continueranno a suonare insieme "finché morte non ci separi" ha detto letteralmente Richard). E in fondo un tema come "I can't get no satisfaction" va bene in qualsiasi epoca.

Il popolo del rock li segue con devozione, guarda sugli schermi i dettagli delle loro facce scavate, le scattanti acrobazie di Mick Jagger, le mani nodose di Keith Richard che abbrancano la chitarra come una scialuppa di salvataggio in un oceano in tempesta. A volte la loro sembra una pantomima grottesca, ma hanno la storia dalla loro parte. Sono loro che come immarcescibili docenti devono ricordare a tutti cos'era il rock di una volta. È il gran finale, il trionfo di un festival ripescato dal mito.

Nel 1970 a Wight c'erano seicentomila giovani, circa sei volte la popolazione locale, un vero e proprio esercito di occupazione libertaria e pacifica. Se ne stavano tutti nudi, innocentemente eversivi, mettendo in scena una clamorosa risposta europea ai raduni americani, ma fu un successo esagerato, sproporzionato. La situazione scappò di mano agli organizzatori, l'isola rimase tramortita da quella sarabanda e nessuno osò riprovarci, per più di trent'anni.

I treni che partivano dalla Waterloo Station di Londra sembravano convogli dei desideri, gonfi di zaini, tende e sacchi a pelo. Ragazzi con lo sguardo luminoso, pieno di aspettative. E che poco sanno della Wight del 1970, quella rimasta nell'immaginario popolare come "il" festival, cantato all'epoca anche da una canzone dei Dik Dik. "Sì, so che c'è stato, ma non ne so molto", confessa un ragazzo di Cambridge con la tenda sulle spalle. A due ragazze neozelandesi chiediamo se sono qui per qualche gruppo specifico: "Assolutamente no" rispondono sicure, "andiamo per stare al festival".
Almeno in questo il rock è rimasto lo stesso, un pretesto per aggregarsi, per fare amicizia.

Ma tutto il resto è cambiato. Oggi il festival è molto più ordinato, uno straordinario miscuglio di gente di ogni età, fricchettoni, famiglie con bambini, reduci dallo sguardo malinconico, ma soprattutto ragazzi, colorati, scatenati, urlanti, affogati di birra, con una singolare attitudine al travestitismo, come fossero i tre giorni di carnevale. Ci sono ragazzi con trampoli fauneschi, una donna-pavone, i cappelli più bizzarri che si possano immaginare, parrucche enormi e fosforescenti, c'è chi è vestito da suora o da angelo, piccole ali brillano sulla schiena di molti, sembra un gioco di mutazioni, estremo e irridente.

Girando nell'enorme arena sembra di essere in uno strano luogo, a metà tra il raduno rock e la festa paesana. Grandi archi delimitano le zone con titoli appropriati: Teenage wasteland, Strawberry fields, Light my fire, Electric Ladyland (e a ricordare Hendrix c'è anche una enorme statua bianca), e c'è perfino un luna-park con giostre estreme, quasi incredibili (tra cui una sfera metallica che viene sparata a un'altezza vertiginosa con due occupanti all'interno), negozi che vendono di tutto, dalle T-shirts agli strumenti indiani, centinaia di banchi per comprare birra e panini.

L'isola questa volta sembra sopportare il tutto con composta accettazione. L'isola che fu cara a Tennyson e alla regina Vittoria, isola di marinai coriacei che all'angolo delle case ci infilano le loro polene, talmente amena e propizia per gli anziani che ci sono cartelli stradali che ne segnalano la presenza. E infatti i Beatles nella loro ironica immaginazione della vecchiaia, in "When I'm 64", citano proprio l'isola come dolce ricovero per le vacanze. Sulle coste passeggiano i vecchini, ma al centro dell'isola si è scatenato l'inferno della musica, una maratona ininterrotta, per tre giorni, da mezzogiorno a notte inoltrata.

Nel pomeriggio era volata sul campo la pattuglia acrobatica della Royal Air Force strappando grida di giubilo ai presenti, soprattutto quando due jet hanno descritto in cielo un enorme cuore, trafitto poi da un terzo jet. Applausi convinti e la conferma che oggi a un raduno ci si va soprattutto per partecipare a un grande gioco collettivo. Nel 1970 sembrava un anticipo della rivoluzione. Oggi, con pretese molto meno ambiziose, ci si va per vivere tre giorni di musica e divertimento. Una grande festa, dunque, che supera ogni dettaglio. A un ragazzo felicemente spalmato sul prato chiediamo chi è il gruppo che sta suonando: "Non ne ho la più pallida idea" dice. Appunto.


  11 giugno 2007