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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 10 giugno 2007



Rischioso elogio del nostro premier
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

La logica vorrebbe che, dopo l´invereconda gazzarra inscenata dalla destra in Senato durante il discorso di Padoa-Schioppa sul caso Visco-Speciale e di fronte alla fondata ipotesi d´una resurrezione del governo Berlusconi, i dissenzienti di sinistra astenutisi al primo turno delle elezioni amministrative domani tornassero in massa alle urne. Ma esiste ancora la logica?
Mi viene in mente una celebre battuta di Woody Allen: "Vorrei tanto iscrivermi ad un circolo per potermi espellere un minuto dopo". Molti dissenzienti e astenuti del centrosinistra ragionano esattamente a quel modo, perciò temo che diserteranno anche questa volta. Lo temo non tanto per le sorti del governo, che non sono in discussione nei ballottaggi di domani, ma appunto per la sorte della logica che dev´essere fuggita a nascondersi in qualche soffitta o in qualche scantinato.
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Nel frattempo il popolo degli "autonomi", piccoli imprenditori e artigiani concentrati soprattutto nel Nord, insorge contro gli "studi di settore", cioè contro le tasse, cioè contro Visco, Prodi e Padoa-Schioppa, nell´ordine. Il ministero delle Finanze ha aumentato i parametri degli studi di settore che le categorie interessate non accettano definendo l´aumento insopportabile, vessatorio, offensivo. Minacciano di non pagare gli aumenti. Reclamano una moratoria, cioè un condono e il ritiro dei nuovi parametri.
La protesta riguarda più o meno 4 milioni di soggetti e un gettito stimato all´incirca in 3 miliardi e mezzo più elevato di quanto fin qui incassato dal Fisco. Si tratta dunque di una massa notevole di contribuenti e di elettori. Fin qui la loro sponda politica è stata soprattutto la Lega e Forza Italia; ma la loro protesta ha trovato ora udienza anche nella Margherita, nei Ds e in alcuni sindaci di centrosinistra del Nord e della Puglia. Lo stesso Visco del resto ha deciso di ammorbidire la stretta riconoscendo che una parte delle rimostranze degli "autonomi" meritano di esser prese in considerazione.
Lo pensiamo anche noi, per quel tanto che può valere l´opinione di osservatori indipendenti. Ci sono molti casi tra i piccoli imprenditori e tra le imprese artigianali che non sono in condizioni di sopportare nuovi incrementi fiscali. I giornali ne hanno dato ampia notizia nei giorni scorsi; si tratta di casi così detti "marginali" per i quali l´amministrazione aveva già disposto criteri specifici prima che la protesta collettiva esplodesse.
Secondo stime attendibili i casi "marginali" coinvolgerebbero mezzo milione di contribuenti, ma ora sembra di capire che anche gli altri 3 milioni e mezzo saranno in qualche modo alleggeriti dall´aggravio inizialmente previsto. Ci auguriamo che questo basti ad eliminare il conflitto tra il Fisco e i contribuenti, ma non ne siamo affatto sicuri. Quanto al maggior gettito, sulla base delle nuove valutazioni risulterà "alleggerito" anch´esso: si prevede che scenderà dai 3 miliardi e mezzo a 1 e mezzo.
L´intera questione merita tuttavia qualche ulteriore osservazione. Capisco che si tratta d´un terreno minato sul quale è impervio incamminarsi, ma ci sembra doveroso farlo se non altro per stanare quella famosa logica della quale abbiamo già fatto cenno dalle soffitte dove si è nascosta.
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Le categorie degli "autonomi" alle quali si applicano gli studi di settore hanno dichiarato per bocca dei loro rappresentanti (una ventina di sigle riunite in una sorta di stati generali) di essere esasperate e anche offese dal Fisco. Esasperate è comprensibile. Non sono le sole. Sono esasperati i professionisti, le cosiddette partite Iva, gli agricoltori e coltivatori diretti e insomma tutta la vasta platea di contribuenti le cui imposte non sono trattenute alla fonte ma debbono emergere dalle dichiarazioni dei redditi.
Non so se anche i lavoratori dipendenti siano altrettanto esasperati. Potrebbero esserlo perché il loro reddito viene tassato alla fonte dai cosiddetti sostituti d´imposta, cioè dai loro datori di lavoro. Non sfugge un solo centesimo alla tassazione dei lavoratori dipendenti. Esasperati è dunque possibile, offesi certamente no: nessuno infatti può sospettare che il reddito proveniente da lavoro dipendente possa essere evaso. Ma poiché il reddito delle varie categorie di lavoro autonomo dipende "in primis" dalle loro dichiarazioni, la logica ci dice che l´enorme evasione e l´enorme "sommerso" sia annidano appunto nel piccolo commercio, nella piccola impresa, nell´artigianato. Ecco perché gli "autonomi" oltreché esasperati sono anche offesi: offesi dal sospetto di evadere le imposte, reato che ciascuna categoria scrolla con sdegno dalle proprie spalle.
Hanno ragione: infatti nessuno può accusare i commercianti o i barbieri o i ristoratori o gli idraulici o i medici di essere evasori in quanto categoria. Ma (aiutami logica!) poiché gli evasori ci sono e sono una massa ingente, da qualche parte bisognerà pur cercarli. Senza dire che l´evasione si annida spesso perfino nei bilanci delle grandi imprese, nelle holding non quotate in Borsa, nel sistema dei sub-appalti e delle sub-forniture, nelle false fatturazioni, nelle misteriose società domiciliate nei paradisi fiscali.
Tutti, assolutamente tutti, da Tronchetti Provera all´ultimo barbiere di provincia e all´avvocaticchio di paese, vogliono che l´evasione sia debellata una volta per sempre. Ma quando l´Agenzia delle Entrate comincia a rovistare nell´ambito d´una qualsiasi categoria o d´un qualsiasi bilancio per individuare l´evasore che vi avesse fatto il nido, i lai si fanno altissimi, l´offesa diventa bruciante, il Fisco viene visto come un invasore e prende corpo la minaccia dello sciopero. Naturalmente fiscale.
Che cosa sono gli studi di settore? Un metodo patteggiato tra il Fisco e il lavoro autonomo. Il Fisco rinuncia a pretendere che il lavoratore autonomo sia tassato sulla totalità del suo reddito per una serie di giuste considerazioni: l´autonomo lavora personalmente, lavora senza orario, le ferie e le malattie non sono ovviamente previste, non avrà liquidazione visto che è al tempo stesso lavoratore e datore di lavoro.
Tutte buone ragioni per non toccarlo al cento per cento. Gli studi di settore servono proprio a questo: individuano un livello d´imposizione che sia una percentuale del reddito prodotto. Il problema dunque si sposta alla percentuale: dove va messa l´asticella di un equo sconto fiscale? Al 10 per cento? Al 20? Al 50? Al 70? Il sommerso la mette al 100 per cento.
Dunque il problema sta nella valutazione dello sconto fiscale. Se esso compensa equamente i disagi del lavoro individuale non c´è evasione; se supera di troppo il costo stimato di quei disagi non si tratta più di compensazione ma di evasione. Del resto ciascuno di noi ne fa diretta esperienza con gli artigiani casalinghi, nel senso di quelli che vengono in casa a riparare i guasti. Avete mai avuto una fattura registrata fiscalmente? Se l´avete chiesta certo l´avrete ottenuta, ma cancellate quel lavoratore autonomo dalla vostra agenda telefonica: non lo vedrete mai più.
Può darsi che il problema sia insolubile. Tremonti infatti non ci pensò nemmeno e andò avanti con i condoni. Condonò tutto il condonabile mentre l´evasione fiscale ovviamente cresceva. Prodi, Visco e Padoa-Schioppa hanno imboccato invece una strada diversa per combattere un´evasione che viene stimata a dir poco a 300 miliardi di euro.
Ne faremmo di cose se solo ne recuperassimo un terzo. Ma se tutta Italia si ribella bisogna fermarsi. E questo è quanto.
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Per le liberalizzazioni vale più o meno lo stesso discorso. Le "lobbies" non vogliono un mercato liberalizzato. Il governo di centrosinistra ci prova (quello di centrodestra si dimenticò che il problema esistesse e nessuno - dico nessuno - gliene fece carico). Le lobbies si moltiplicano e si contano. Ci si accorge che sono una moltitudine. Ci si accorge pure che, quando i provvedimenti arrivano in Parlamento, non c´è un solo deputato o senatore di centrodestra che dia il suo voto a favore delle leggi Bersani. Ci si accorge addirittura che perfino settori della maggioranza, da quelli moderati a quelli radicali, contribuiscono ad annacquare. Ci si accorge infine che i cosiddetti giornali indipendenti criticano - giustamente - l´annacquamento e ne danno principalmente la colpa al governo. Anche qui: la logica si è imboscata non so proprio dove e rifiuta pervicacemente di venir fuori.
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Ieri a Roma è stata la giornata di Bush. E dei cortei contro di lui. Cortei pacifici ma con frange violente di difficile controllo.
La stampa, compresi alcuni giornali "indipendenti", ha attribuito al governo l´eventuale responsabilità delle eventuali violenze.
Il governo è certamente responsabile, in casi come questi, di effettuare un´efficiente prevenzione e attuare, se necessario, un´efficace repressione proporzionata a livello di scontro con le frange violente. Ma che l´esistenza stessa di frange violente venga ascritta a responsabilità di governo, questo rappresenta un salto logico incomprensibile.
A Rostock, tanto per dire, in occasione di quest´ultimo G8 gli scontri tra i "Black Bloc" e la polizia tedesca sono durati tre giorni lasciando sul terreno oltre ducento feriti tra forze dell´ordine e dimostranti. Nel frattempo la Merkel e le delegazioni del G8 discutevano in un castello sede della riunione di clima, di Trattato europeo e anche di scudo spaziale americano e missili russi, di crisi africana e di altri non trascurabili problemi che affliggono il pianeta.
Nessun giornale o telegiornale ha imputato al governo tedesco e al suo Cancelliere il fatto che esistano giovani violenti che utilizzano eventi internazionali come vetrina per le loro teppistiche imprese. Ai governi, lo ripeto, si chiede di tutelare gli ospiti, garantire la regolarità degli incontri diplomatici, prevenire e reprimere le violenze con efficacia e ponderazione. E se riusciranno in questi obiettivi alla fine gli si riconosce il merito dovuto.
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Chiuderò queste note con qualche breve considerazione politica.
La sinistra radicale, principalmente Rifondazione comunista, si sente per la prima volta lambita dalla disaffezione dei suoi elettori. Da questo punto di vista le recenti amministrative non sono andate affatto bene. L´effetto sembra esser stato quello di suggerirle un´ulteriore radicalizzazione politica soprattutto in vista del Dpef, della trattativa sulle pensioni e dell´impiego delle risorse disponibili. Lo stesso presidente della Camera, terza carica istituzionale dello Stato, si è sporto assai più di quanto la carica gli consentirebbe su questi temi e su altri ancora i quali, senza eccezione, dovranno poi esser tradotti in atti legislativi e quindi affidati al dibattito e al voto della Camera guidata dal suo presidente.
Apprezzo l´eloquenza e la rettorica (nel senso scolastico del termine) di Bertinotti e ne apprezzo altresì alcune intenzioni e ragionamenti di lunga prospettiva, ma non ho cessato di ripetere che egli viola troppo spesso la discrezione del suo dire che la carica istituzionale dovrebbe imporgli. Così facendo reca danno all´immagine sua e, quel che è peggio, dell´istituzione che presiede.
L´onorevole Rutelli, vicepresidente del Consiglio e leader della Margherita, ha molto accentuato dopo le elezioni amministrative e il loro magro risultato, certi suoi atteggiamenti di spiccato riserbo e anzi di critica sulla politica del governo, sulla laicità del futuro Partito democratico, perfino sulle leggi Bersani e sulla vicenda Visco-Speciale.
Un leader di partito può ben avere ed esprimere pubblicamente riserve sul governo di coalizione cui appartiene; ma un vicepresidente del Consiglio può e deve farlo autorevolmente soltanto in sede di governo. Fuori da quella sede non dovrebbe e valgono le stesse ragioni che ho usato nei confronti del presidente della Camera. Si dirà che si tratta di ragioni formali. Lo stesso si diceva un tempo da parte dei comunisti contro chi difendeva le libertà borghesi. Si è visto poi che in pratica nulla è formale e tutto è sostanziale.
Mi verrebbe infine da concludere facendo un elogio di Romano Prodi per la sua tenacia che può a volte sconfinare nella testardaggine. Ha innumerevoli difetti, Romano Prodi. Ma tiene. Se cadrà prima del tempo il ruzzolone metterà l´intera sinistra col sedere per terra e non gioverà in nulla al paese che riavrà Berlusconi per un altro tempo indefinito. Mi auguro perciò che Prodi continui a tenere e metta mano finalmente agli effetti positivi del suo programma di governo lasciando al Partito democratico la libertà di nascere purché senza ipoteche. Neppure la sua.



Italietta o Italiona
Barbara Spinelli su
La Stampa

Nelle ore che hanno preceduto l'arrivo a Roma di George Bush si è discusso molto di Italietta, per descrivere l'esecrazione dell'America che avrebbe animato di lì a poco cortei e manifestazioni contro il presidente americano. Dimostrazioni che lungo la giornata sono state pacifiche, e che non hanno turbato gli incontri con Prodi e il ministro D'Alema, conclusisi bene. Solo verso sera, in corso Vittorio, un piccolo gruppo si è ritagliato uno spazio nel corteo no-war e ha scelto la violenza, suscitando la risposta della polizia. A parlare di Italietta era stato Berlusconi e il governo ha reagito accusando l'opposizione d'aver precipitato il Paese in ben più palpabili provincialismi, negli anni in cui era ai comandi, correndo dietro alla falsa grandeur promessa da Bush.
L'epiteto Italietta fu usato prima dai nazionalisti contro l'Italia di Giolitti, poi dal fascismo che sognava un'Italiona con smanie nazionaliste. Non ne scaturirono che disastri: "l'intervento nella prima guerra mondiale e l'Italiona fascista, quella dei muscoli tesi e gonfi, degl'immancabili destini, della spada dell'Islam, degli eroi santi e navigatori", scrisse Montanelli il 10 marzo '96 nella rubrica delle lettere sul Corriere. La tanto sprezzata Italia dei notabili aveva compiuto in realtà miracoli, con le sue umili fatiche: "Era figlia di chi, avendola fatta dopo il Risorgimento a prezzo di uno sconquasso politico ed economico oggi difficilmente immaginabile, si trovarono poi a doverne pagare i costi, né conoscevano per questo altra terapia che la lesina".
Berlusconi imita quel disprezzo e propone un'Italia che può spendere e spandere senza mezzi. Che s'immagina grande solo perché affianca Washington incondizionatamente. Possiamo immaginare come Montanelli reagirebbe alle accuse del capo dell'opposizione: gli direbbe che l'Italia odierna è nulla, se non investe su un'Europa potente. Ricorderebbe al politico disgustato dall'Italietta che egli stesso è figura di un'Italia piccola che mente a se stessa: figura interessata non al mondo ma a un'elezione amministrativa parziale, non all'America ma alle peripezie d'un governo che l'opposizione intera s'ostina - con atteggiamento assai poco americano - a definire illegittimo. Il centro sinistra si difende ma cade spesso nella trappola: ogni giorno i suoi rappresentanti si sentono in dovere di spiegare che non sono antiamericani, quasi scusandosi. La discussione sull'antiamericanismo del governo è ideologica, senza relazione coi fatti del mondo e con le azioni di Prodi in Afghanistan e Libano.
Per capire l'importanza delle manifestazioni contro Bush non serve dunque guardare alle dispute italiane. Conviene guardare anche alla Germania e soprattutto all'America. Conviene meditare su un viaggio che vede il presidente Usa come intrappolato: impedito a Roma di andare a Trastevere, tanto grande è la sua impopolarità. Impedito di muoversi dalla cittadina balneare di Heiligendamm, perché un vertice a Berlino sarebbe stato incendiario. Tutti questi son segni del degrado che colpisce l'immagine americana in Paesi europei che in passato furono tutt'altro che antiamericani.
Qui infatti è la novità di quest'inizio secolo. Cortei contro l'America ci sono sempre stati, a cominciare dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, ma oggi i dimostranti non rappresentano una minoranza. Basta leggere il libro "America contro il mondo" (America Against the World: How We Are Different and Why We Are Disliked, New York 2007) di Andrew Kohut e Bruce Stokes, rispettivamente direttore e consulente del Centro indagini Pew, per rendersi conto che l'egemonia mondiale Usa vacilla straordinariamente e che la superpotenza non è in realtà più tale.
Per la prima volta i manifestanti in Germania e Italia non sono una minoranza, contrapposta a una maggioranza silenziosa filoamericana. Non esiste una maggioranza italiana o tedesca favorevole agli estremisti - alle loro violenze, alla profanazione con cui hanno offeso ieri la lapide di Aldo Moro - ma esistono maggioranze robuste che hanno smesso d'aver fiducia nell'America, che temono l'inefficacia delle sue politiche in Iraq, Afghanistan, Medio Oriente, sul clima, nei rapporti con Mosca. Questi sviluppi sono visibili in Europa e altri continenti, dopo l'intervento in Iraq. In Indonesia, l'immagine positiva dell'America è crollata nel giro d'un solo anno: dal 2002 al 2003, il favore è passato dal 55% al 15. All'origine di simili tracolli la reazione all'11 settembre, le guerre preventive, l'esportazione della democrazia. L'America è giudicata una potenza non affidabile, dopo la guerra in Iraq, dall'82% dei tedeschi: una cifra mai vista. Domandarsi se la contestazione non violenta vituperi Bush o l'America stessa non ha molto senso. La tesi di Kohut è che "a causa di Bush, aumentano sensibilmente coloro che cominciano a esecrare l'America in quanto tale", ha spiegato a maggio in una conferenza del Consiglio Carnegie a New York. Kohut parla di baratro: "Uscirne sarà difficile. Non basterà un cambio di presidenza".
Importante a questo punto non è fare la conta di chi sta in un campo e di chi sta nell'altro, ma esaminare la natura del baratro e costruire politiche su tale esame. Un compito che toccherà all'America come all'Europa. Alla prima tocca imparare dai fallimenti e chiedersi se il discorso su superpotenza e iperpotenza abbia ancora significato. Alla lunga, un potere forte esercitato senza responsabilità diventa inefficace oltre che arrogante: inefficace sino a svanire. All'Europa tocca prender atto d'un desiderio diffuso dei popoli e trarre le conseguenze da quello che per ora è più desiderio d'impotenza che di potenza. La sfiducia verso l'America non si traduce infatti in vera presa di coscienza, dunque in azione politica. Gli autori del libro sull'America contro il mondo sottolineano come tanti in Europa aspirino a un'Unione capace di controbilanciare gli Stati Uniti, senza però indicare come ciò possa avvenire. Divenire potenza comporta sforzi, spese, e gli europei (comprese le sinistre radicali che manifestano a Roma e Germania) non intendono pagare il multipolarismo che pretendono di inaugurare. Non si sforzano di smentire lo storico Michael Mandelbaum, secondo il quale molti perseguono una cosa e il suo contrario: vogliono in cuor loro che sia l'America a presidiare il mondo, e vogliono il lusso di poterla criticare gratis. Il 70% degli intervistati dal Centro Pew sostiene che il mondo funzionerebbe meglio se esistesse una seconda potenza, ma alternative non le propone né le vuole.
Quando era ministro delle Politiche comunitarie nel governo Berlusconi, Buttiglione disse una cosa che l'odierna maggioranza ancora non ha contestato: "I nostri elettori non sono disposti a pagare le spese di un apparato militare che ci offra possibilità di intervento paragonabili a quelli degli Stati Uniti. Non credo che si tratti semplicemente di miopia, ma di una corretta percezione del fatto che l'apparato militare americano in parte protegge anche noi. L'elettore non si sente minacciato dagli americani e anzi si sente almeno parzialmente protetto da essi. Per questo non è disponibile a pagare i costi di un massiccio riarmo europeo" (Corriere della Sera, 20 marzo 2003). I manifestanti dovrebbero rispondere a questo interrogativo: siete favorevoli a un'Europa che abbia mezzi e istituzioni per controbilanciare Washington, per una politica diversa dall'americana ma pur sempre audace? Se non sanno rispondere, la loro serietà è inesistente. Un altro problema europeo è il rapporto con Mosca e i dissidi tra europei su America e Russia.
D'Alema critica con rigore la tendenza di Bush a dividere l'Europa, trattando bilateralmente con Varsavia e Praga sullo scudo antimissilistico. Ma la questione riguarda non solo l'America ma anche la Russia. Putin ha mostrato nei giorni scorsi che l'Europa è spendibile. Ha minacciato di riattivare contro di essa le proprie atomiche per convincere gli americani a non installare scudi antimissilistici in Europa dell'Est. Poi ha sorpreso Bush, proponendo l'utilizzazione di propri radar in Azerbaigian. Ma nel frattempo aveva adoperato l'Europa alla stregua d'una pedina.
Il male non è l'antiamericanismo. L'accusa è astratta, viene ormai sistematicamente pronunciata per occultare la realtà. Chi vuol avere un rapporto con il reale si armerà - per meglio potere - di volontà di sapere: sapere cosa nascerà da queste manifestazioni di insofferenza verso l'America, negli Stati Uniti e in Asia, in Africa, in Europa e Italia. Solo Bush e i no-war tedeschi e italiani credono all'iperpotenza americana e a una globalizzazione governata con efficace mano di ferro dalla Casa Bianca.


Se la politica è solo potere
Sergio Romano sul
Corriere della Sera

Qualche giorno fa abbiamo scritto che l'Italia d'oggi ricorda quella del 1992: lo stesso disgusto per gli affari dei partiti, la stessa noncuranza della classe politica per i segni della tempesta che si sarebbe abbattuta di lì a poco sulla sua testa. Qualcuno ha osservato che il confronto è improprio. Non esiste un partito, come allora la Lega, pronto a cavalcare l'indignazione popolare. E non esiste un gruppo di procuratori convinti di poter provocare, con gli strumenti della loro professione, la rivoluzione morale del Paese. È vero. I confronti sono quasi sempre parziali e imperfetti. Ma a me sembra che la situazione sia per certi aspetti peggiore e proverò a spiegarne le ragioni.
Nel 1992 molti italiani capirono che la crisi non era un semplice incidente di percorso e che non poteva essere risolta con la formazione di un nuovo governo e la nascita di qualche nuovo partito. La corruzione e gli scandali erano i sintomi esterni di una crisi costituzionale che aveva investito l'intero sistema politico. La Carta era invecchiata e la Costituzione materiale aveva progressivamente creato un Paese in cui il potere dello Stato e degli organi autorizzati a esercitarlo era stato usurpato da partiti, sindacati, interessi corporativi, famiglie professionali e criminali, istituzioni pubbliche non legittimate da un pubblico mandato come, per l'appunto, l'ordine giudiziario. Il fatto stesso che un organo tecnico come la Banca d'Italia abbia fornito al Paese, da allora, due presidenti del Consiglio, un presidente della Repubblica, due ministri del Tesoro e un ministro dell'Economia, dice meglio di qualsiasi analisi quanto grave e profonda fosse la malattia del sistema politico italiano.
Non bastava quindi cambiare governi. Occorreva rifare la Costituzione. Furono inutilmente create due commissioni bicamerali. Vennero esaminati e dibattuti tutti i sistemi costituzionali delle maggiori democrazie occidentali. Fu tentata la strada parlamentare con una riforma costituzionale del centrosinistra e una riforma più incisiva del centrodestra. Ma la prima è parziale e difficilmente applicabile, mentre la seconda è stata distrutta da un voto popolare frettoloso e disinformato. Il risultato è zero. La classe politica ha buttato via quindici anni della Repubblica per girare attorno a un problema che non aveva alcuna intenzione di affrontare con metodo e coraggio. Non è tutto. Quindici anni dopo gli scandali di Tangentopoli scopriamo che questa classe politica sta facendo esattamente il contrario di ciò che dovrebbe fare. Anziché lavorare al governo del Paese e alla riforma dello Stato occupa il potere come un territorio conquistato e sta elargendo a se stessa, come certi ecclesiastici alla vigilia della Riforma, sinecure, prebende, manomorte e vitalizi. Anziché suscitare rispetto per le istituzioni e incarnare la dignità della cosa pubblica, preferisce la piazza o gli studi televisivi al Parlamento. E quando decide di partecipare a una seduta, tratta l'Aula come un chiassoso refettorio scolastico. Certe esibizioni parlamentari degli scorsi giorni dimostrano che parecchi politici hanno ormai perduto il senso della realtà e non capiscono quali sentimenti questi spettacoli stiano suscitando nella società italiana.
Danno la sensazione di pensare che la politica sia rissa, alterco, scambio d'ingiurie o, più semplicemente, dichiarazioni irresponsabili e irriflessive, rilasciate a caldo di fronte a un microfono per segnare un punto contro l'avversario del momento. Si battono per la conquista o la conservazione del potere, e non si rendono conto che stanno perdendo il Paese.


Le piazze divise della sinistra
Concita De Gregorio su
la Repubblica

Sembra tutto finto, la città – vuota e lucida – sembra un plastico. Sembrano comparse gli sposi che posano per le foto in mezzo ai blindati, l´ex presidente della Repubblica Cossiga (vero) che prende un gelato al limone in mezzo ai manifestanti anti-Usa, Fidel Castro (finto) in piazza Venezia, i poliziotti in borghese che sgommano su una Bravo color rame, sul vetro l´adesivo che dice "bimbo a bordo" e dentro loro con gli occhiali neri. Sembrano pagati per passare di lì i quaranta giapponesi che arrivano dalla stazione Termini con quaranta trolley e pretendono – evidentemente ignari – di varcare disposti in fila per due la diga di camionette che li separa dal loro hotel in via Veneto.
Discutono, probabilmente in inglese, con un poliziotto di Caserta. "Penseranno che Roma è una città sicurissima", ride l´anziano gioielliere di via Sistina. Le vecchie in vestaglia rosa alla finestra, la macchina di Bush in panne e lui (vero) che scende e saluta, nessuno risponde, gli striscioni dei cortei che dicono "ammericano, there is no trip for cats", inglese finto.
Sembra il set di un film grottesco e scandente, certamente un film italiano. Anche gli scontri di fine giornata sono attesi secondo copione: qualche decina di ragazzotti coi passamontagna e i caschi, un cinquantenne rasta, Casarini appesantito che dice preoccupato "questa piazza chiusa è una tonnara". Non siamo a Genova, però. Roma ha più talento per la commedia che per la tragedia. Volano lattine di birra e sassi, in risposta lacrimogeni, assalti nei vicoli, spaccate le vetrine delle banche, qualche colpo di manganello qualche arresto, un´ambulanza. Niente di grave. Anche il sindaco Veltroni si rallegra: incidenti minori provocati da gente venuta da fuori. "Bush, potessi cade´ per le scale con le mani in tasca", c´è scritto su un lenzuolo in via Cavour. Franca Rame con gli orecchini pendenti di corallo rosa lascia piazza Navona, assicura per telefono al marito premio Nobel che va tutto bene, dice che è stato l´anno peggiore della sua vita "la politica è una cosa schifosa" e se potesse, se solo sapesse che il primo dei non eletti dopo di lei è persona affidabile "non uno tipo De Gregorio" si dimetterebbe domani. Un padre accompagna il figlio a lezione privata di sostegno all´imminente esame, esibisce la carta d´identità quattro volte. L´ultima, al poliziotto che gli dice "c´è Bush", risponde in romanesco come Carlo Verdone: un´espressione tipica che si richiama alla virilità e si potrebbe tradurre, garbatamente, in accidempolicchia.
Di vero in questa giornata surreale - a parte l´effettivo transito di Bush e lo spiegamento di forze da guerra termonucleare - c´è solo il disastro della sinistra politica, la sinistra radicale divisa tra due diverse piazze perché i leader di governo non se la sono sentita di mescolarsi alla folla di lotta, sarebbe stato imbarazzante. Perciò quattro gatti in piazza del Popolo - Diliberto e Russo Spena, Gennaro Migliore e l´ottantenne Lidia Menapace, piazza vuota e mesta - tutti gli altri in piazza Navona a fare movimento: il trotzkista Marco Ferrando, abbronzatissimo, che conciona in piedi su un camion all´indirizzo di quindici-venti ascoltatori. Turigliatto il dissidente di governo, Bernocchi dei Cobas e Casarini fra il pubblico sì, ma distratti dall´imminente disordine annunciato dalla chiusura dei varchi. "Se fanno così la gente si agita". Difatti. Franca Rame è già andata via, anche Lucio Manisco non si vede più: restano i clown e quelli del "No Dal Molin" un po´ intristiti dalla notizia che della base di Vicenza Prodi e Bush non hanno nemmeno parlato.
I due cortei, nella città svuotata dall´allarme preventivo e dal primo vero weekend estivo, non si sono mai incrociati. Non si sono nemmeno mai visti di lontano, era scritto che fosse così. La carovana di Bush ha attraversato Roma la mattina: andata e ritorno dall´ambasciata Usa verso il Vaticano dove, accompagnato da agenti della sicurezza vestiti da preti, il presidente dagli occhi di spillo si è potuto rivolgere al papa chiamandolo Sir, signore, anziché sua Santità, si vede che delle novecento persone che lo accompagnano nessuna lo ha avvisato delle regole di protocollo. Lungotevere corso Vittorio e via del Tritone bonificati da decine e decine di passaggi di coppie di poliziotti in borghese - quasi sempre lui e lei, forse mimetizzati da fidanzati - su moto di grossa cilindrata. Un uomo e un mezzo lungo ogni centimetro di strada. È qui che la limousine del presidente va in panne (in realtà le auto sono due, identiche), lui scende e prova ad andare a piedi, lo riprendono e alzandolo da terra lo ricaricano in auto. È qui che si accorgono che la lunghissima vettura non gira dal vicolo laterale dell´ambasciata, non c´è spazio di manovra. Questa è Roma, non Los Angeles. Del resto è per la stessa ragione che dopo giorni di ansia preventiva gli abitanti di Trastevere sono stati risparmiati dalla gita a Sant´Egidio: le macchine americane dai vicoli non passano. Le prime dame, intanto, si scambiano borse e rosari firmati, Tod´s contro Tiffany, in villa al Gianicolo: doni e cordialità. Il corteo degli anti Usa è previsto per il pomeriggio. Tardo, anzi tardissimo pomeriggio: Anoubi Davossa, già leader del movimento romano oggi giornalista di Liberazione, protesta contro il boicottaggio dei treni "non li hanno fatti partire, hanno quattro ore di ritardo, alcuni sono ancora fermi a Milano". Così mentre il vero ex presidente Cossiga esibisce se medesimo e le sue quattro bandiere (sarda, italiana, americana e inglese) dalle finestre di casa sua i finti papa boys finalmente giunti alla stazione Termini si uniscono al corteo, che comunque parte. È un corteo per niente cupo quello che scende per via Cavour: gli annunciati black bloc per ora non si vedono. Slogan in romanesco, l´augurio di cadere a mani in tasca dalle scale, "Bussha via", pagliacci trampolieri bandiere di Cuba e Iannacci che dagli altoparlanti canta "vengo anch´io non tu no". La frangia dura scandisce "dieci cento mille Acca Larentia", sono gli autonomi della stella col fulmine. Un tizio passa con l´ombrellone e il carretto dell´acqua minerale come in spiaggia. Ci sono i "Bushbuster" dell´area antagonista campana. Alle sei meno un quarto la testa del corteo annuncia "siamo 150 mila", la questura dice 12 mila. "D´Alema, non siamo sulla stessa barca", e rivolti ai "compagni pavidi" che non sono venuti, quelli di piazza del Popolo: "Pacifinti". Sfilano Caruso, Haidi Giuliani. Un ragazzo con un cartello che dice "sono Carlo Giuliani". Cremaschi della Fiom. Nell´altra piazza Russo Spena dice che a sera "i ragazzi del movimento verranno", non arriva nessuno, Cossiga al bar Rosati si dispiace, ironico, di non vedere D´Alema. Si son fatte quasi le nove, è l´ora degli scontri. Bush sta già riposando in residenza, deve alzarsi presto. In corso Vittorio qualche decina alza il fazzoletto sul viso, abbassa il casco. Provano a spaccare vetri antiscasso, applausi ironici degli altri manifestanti già pronti ai canti della sera, birra in mano. Lancio di oggetti, prima carica leggera, nuovo lancio, fumogeni, seconda carica, inseguimenti, manganelli, arresti. Dura in tutto mezz´ora, i disegnatori di caricature di piazza Navona non hanno mai smesso di lavorare, i bar sono tutti aperti. Nuovi turisti coi trolley, si riaprono al traffico piazza Venezia e il Corso. Accenno di ripresa del traffico. Alle nove e mezza il parcheggiatore abusivo di piazza San Pantaleo, il luogo degli scontri, è già rientrato in attività. Ha una maglia a righe rosse e la bandana, vuole un euro l´ora. Riparte l´altro film, quello di tutti i giorni.


Silvio, l'amico di sempre
Augusto Minzolini su
La Stampa


Il primo comandamento della diplomazia prevede che quando non si è d'accordo su un argomento, è meglio accantonarlo. E George W. Bush che voleva dimostrare all'opinione pubblica del nostro Paese di non essere quel mostro di cui parla una certa sinistra che in Italia è anche al governo, si è attenuto a questa regola aurea.
La stessa cosa ha fatto Romano Prodi, che aveva un obiettivo primario: dimostrare che l'anti-americanismo non è uno degli elementi fondanti della sua coalizione. E i due hanno perseguito i loro obiettivi con una buona dose di realismo e di pragmatismo. I sogni, insomma, sono stati messi da parte.
Alla vigilia del viaggio il presidente Usa aveva una speranza confidata in più occasioni: "Vado da Prodi per dargli un po' di coraggio sull'Afghanistan". Cioè per chiedergli un maggior coinvolgimento dei soldati italiani nelle operazioni militari. Ebbene, di quell'argomento, come dell'Iraq, si è parlato poco nell'incontro di Palazzo Chigi perché già nelle istruttorie preliminari le due parti avevano capito che non avrebbero tirato fuori un ragno dal buco. E nel breve accenno che si è fatto nei colloqui il Professore ha risposto con la frase di rito: "La nostra Costituzione ci pone dei vincoli".
Per dirla in breve, noi italiani la guerra non la possiamo fare. Per cui alla fine l'attenzione si è incentrata sull'emergenza clima, sul Kosovo, sul Libano, sull'Iran, cioè sui temi in cui i due Paesi vanno di comune accordo per dare modo a George W. di chiamare Prodi per nome, ricordare che è un amico e dimenticare la lettera con cui sette ambasciatori dei Paesi che fanno parte del contingente Nato a Kabul avevano stigmatizzato qualche mese fa l'atteggiamento del governo italiano laggiù. "Attutire, attutire": è stata la tattica messa in atto secondo l'ambasciatore italiano a Washington, Gianni Castellaneta, già consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. "L'importante - sono le parole con cui ha descritto il lavoro preparatorio della visita - era rammendare". Così la sceneggiatura dell'incontro è stata studiata apposta per mettere in risalto l'amicizia ritrovata. Con George W. che in queste commedie è un vero mattatore.
Come il Cavaliere. Entrando nei saloni affrescati di Palazzo Chigi ha chiesto al Professore: "I soffitti li hai dipinti tutti tu, Romano?". E ha regalato una battuta a tutti i membri della delegazione italiana. "E' un sacco di tempo che non la vedo", ha detto a Massimo D'Alema, che aveva lasciato cinque minuti prima al Quirinale. E non ha risparmiato una battuta sulla statura notevole del portavoce, Silvio Sircana: "Mi pare che ti ho notato al G8". In breve: il rapporto tra il presidente Usa e il premier italiano non è quello della pacca sulle spalle, ma la classica amicizia che secondo il protocollo diplomatico debbono dimostrare i capi di governo di due Paesi alleati, specie se hanno litigato da poco.
Un'amicizia "diplomatica", appunto. Quella che unisce, invece, George W. e Berlusconi è un'amicizia vera, personale, non fosse altro perché i due si piacciono. Parlano lo stesso linguaggio e quasi sempre la pensano allo stesso modo. "A vederli da vicino - confida lo stesso uomo “ombra” di Prodi, Sircana - sono uguali. Se mi debbo immaginare un incontro tra loro, li vedo sotto il tavolo a raccontarsi barzellette. Solo che mentre Romano le capirebbe immediatamente, Berlusconi avrebbe bisogno dell'interprete".
Ecco perché George W. per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio a Roma con l'amico Silvio. Prodi avrebbe preferito che questo evento irrituale fosse cancellato dal programma. Palazzo Chigi ha fatto anche qualche velato passo in tal senso alla vigilia. Ma non c'è stato nulla da fare. "Ho deciso di vedere Berlusconi - ha spiegato Bush - perché è il capo dell'opposizione e perché è un mio amico personale. Del resto ho detto a Romano che avrei visto Silvio e lui mi ha detto che non mi rimproverava mica per questo, perché è la stessa cosa che lui fa in altri Paesi. Non si deve leggere nient'altro in questa cosa".
Un modo elegante per ricordare che anche il Professore ha i suoi amici in Usa, a cominciare da Bill Clinton e tutto l'Ulivo mondiale. Eppoi le affinità che legano George W. al Cavaliere non sono solo "personali", ma anche politiche. E i due hanno una certa complicità. "In un'ora - ha confidato il Cavaliere - abbiamo parlato di tutto". Procedendo all'unisono. Quando il presidente Usa gli ha parlato dei suoi problemi in Afghanistan, il Cavaliere è stato lesto a rispondere: "Certo se fossi al governo ti darei una mano. Il mio governo aveva un altro concetto dell'alleanza". Per poi rincarare: "Una parte di questa maggioranza ha una visione distorta degli americani. C'è qualche esponente del centro-sinistra che partecipa ai cortei contro la politica Usa. Se qualcuno fosse sceso in piazza stando nel mio governo gli avrei ordinato di scegliere: o stai al governo o manifesti in piazza. Comunque le contraddizioni della loro politica estera saranno risolte presto. Questo è un governo che non dura. Ha due terzi del Paese contro".
Anche ieri, quindi, nel colloquio tra Bush e Berlusconi, i formalismi della diplomazia sono stati messi da parte. Non li rispettavano quando erano entrambi al governo, figuriamoci oggi. E tra l'Afghanistan, il Libano e la situazione politica italiana, i due come vecchi amici hanno parlato delle vacanze. "Avrò modo di avere il presidente Bush ospite - ha spiegato poi il Cavaliere - magari per farsi qualche foto dove sa che io mi diletto a costruire musei botanici". Oppure di quello che faranno quando andranno in pensione. "Ho parlato a Bush - ha raccontato - dell'università per la democrazia e la libertà, gli ho offerto di venire come “professore visitante” e lui mi ha detto che farà un'analoga iniziativa in Texas".
I due hanno una visione del mondo comune, che non è quella di Prodi. Del resto non potrebbe essere altrimenti. Ieri tutti quelli che hanno manifestato a Roma contro Bush - sia nel sit-in di piazza del Popolo, sia nel corteo di piazza Navona - erano elettori di Prodi. Elettori senza i quali non avrebbe vinto. E il dato più preoccupante per il Professore è il risultato della sfida tra le due manifestazioni: la sinistra dei movimenti, quella che brucia in piazza le bandiere americane, ha dimostrato di avere più seguito nelle piazze di quella massimalista istituzionale. Almeno ieri, purtroppo per Prodi, Casarini ha battuto Bertinotti.


Il classicismo in Leopardi
Luciano Canfora sul
Corriere della Sera

E sce in questi giorni, col giovanilistico titolo Zapping, lo "Zibaldone" di Mario Martelli (Gli Ori, pp.704, e 40) e ha il pregio del disordine. Del resto raccolte cui un dotto affida il quotidiano bilancio delle sue letture e delle riflessioni che esse hanno suscitato in lui presentano non di rado l'aspetto della "selva". Ma la selva costituisce un disordine sui generis: il filo conduttore c'è ed è nella curiosità e negli andirivieni intellettuali dell'"io" che unifica, come soggetto senziente, quella selva. Talvolta il disordine è ostentato per nascondere qualcosa, come è il caso della prefazione, in forma di lettera, della cosiddetta Biblioteca di Fozio.
Mario Martelli ha — e non da ieri — una sua stella polare, che è la visione del classicismo come costante della letteratura italiana piuttosto che momento storico circoscritto. Questo presupposto, che in realtà è frutto di vasta ricerca empirica (si vedano le pagine sull'uso poetico di già da Dante a Lalla Romano), si invera in un reticolo di riferimenti ai classici, che Martelli valorizza e chiama alla luce nel mentre che percorre senza sosta i sentieri della letteratura perlustrando, indagando, rileggendo, e spesso facendo progredire l'interpretazione proprio attraverso il riconoscimento della fonte classica che sta dietro un verso o una frase. Per esempio del suo prediletto Machiavelli, al quale già aveva dedicato, per la Salerno Editrice, un attento scrutinio degli storici greci antichi che, pur attraverso il filtro di traduzioni latine, sustanziano tanta parte dell'"uso" machiavelliano della storia.
Ma veniamo — in questo "Zibaldone" — ad un caso emblematico del nesso tra scoperta delle fonti e progresso nell'interpretazione. Esso riguarda un verso notissimo e purtuttavia passibile di ulteriore schiarimento, della Ginestra. È il verso 201, il più distaccato del filosofico poema: "Non so se il riso o la pietà prevale". In modo persuasivo Martelli mostra — ciò che era sfuggito ai precedenti interpreti (ma Domenico De Robertis vi s'era approssimato) — che dietro quell'alternativa (riso o pietà) c'è un modello classico: ci sono i due filosofi Democrito ed Eraclito, dei quali l'uno ride e l'altro piange di fronte all'insensatezza dei comportamenti e delle illusioni degli uomini. Alla base c'è una lunghissima tradizione, al principio della quale c'è Seneca, che Martelli opportunamente ricorda e traduce. E si potrebbe anche addurre a riprova certa della fondatezza dell'osservazione di Martelli la lettera di Leopardi a Giordani del 18 giugno 1821: "Ma dimmi, non potresti tu da Eraclito convertirti in Democrito?". "Eraclito — scrive Seneca nel de ira (10, 3) — ogni volta che usciva di casa e intorno a sé vedeva tanto grande numero di malamente viventi, anzi di malamente morenti, piangeva e aveva pietà di quanti gli si facevano incontro contenti e beati. Invece di Democrito dicono che ogni volta che usciva in pubblico gli veniva da ridere: a tal punto nulla di ciò che gli altri seriosamente facevano gli sembrava degno d'esser preso sul serio". La stessa tradizione si ritrova in Giovenale (decima satira): "Ogni volta che mettevano il piede fuori di casa l'uno piangeva, l'altro rideva a labbra aperte".
E c'è, a ben vedere, già Orazio delle Epistole. Nella prima del libro secondo egli inquadra in una situazione concreta il riso di Democrito di fronte alla scempiaggine umana: "Se Democrito fosse tra noi, riderebbe nel vedere le facce del volgo pervase da ammirato stupore alla vista della giraffa o dell'elefante bianco". In Luciano di Samosata il topos è ben chiaro, per esempio nelle Vite all'incanto (13). Ed è interessante osservare che esso si presenta per la prima volta come operante anche nella pittura in un'attestazione tarda e molto interessante di Sidonio Apollinare (V secolo dopo Cristo), nell'Epistola al vescovo Fausto. Lì Sidonio cita la pratica di affrescare i ginnasi e i pritanei con una serie di ritratti di filosofi e scienziati ciascuno presentato con la sua connotazione iconografica tipica: "Speusippo a capo chino, Arato con la testa piegata all'indietro, Zenone con la fronte corrugata, Epicuro con la pelle distesa, Diogene con la barba lunga, Socrate con la chioma candida, Aristotele con un braccio proteso, Senocrate con le gambe accavallate, Eraclito che piange con gli occhi chiusi, Democrito invece che ride a labbra aperte etc." ( Epistole IX, 9, 14). Il passo di Sidonio venne ricopiato pari pari da Pietro Crinito nel De honesta disciplina (1508), opera influentissima nel Rinascimento. Essa ha certamente influito sulle varie raffigurazioni pittoriche moderne dei filosofi.
Certo — all'interno del ciclo dei filosofi — la coppia Eraclito-Democrito godette di una rinomanza privilegiata, in epoca rinascimentale e moderna. Ritorna in più luoghi delle opere italiane di Giordano Bruno e ritorna nell'anonimo Dialogo tra Eraclito e Democrito sulla Rivoluzione politica di Venezia (1797). E trova significativa realizzazione nella grande pittura rinascimentale per esempio nell'affresco del Bramante che raffigura appunto Eraclito, le cui lacrime (un paio) spiccano sulle scarne e ascetiche guance, e Democrito che se la ride "labris apertis", mentre di mezzo c'è la sfera terrestre raffigurata in planimetria: a significare ancora una volta che è del mondo, dei comportamenti degli uomini, che l'uno ride e l'altro piange.


Come è vecchia la sinistra TV
Marco Damilano su
L'espresso

Uno è il Produttore del 'Grande Fratello', nel board della più potente multinazionale dell'intrattenimento tv, la Endemol. L'altro è il Conduttore gentile, ben educato, simbolo della tv sottovoce alternativa alle discariche dei reality. Uno si definisce "socialista senza casa, in Francia avrei votato Sarkozy" e aveva un suocero chiamato Bettino Craxi. L'altro è il più amato del popolo dell'Ulivo, il preferito degli intellettuali. Eppure, Marco Bassetti e Fabio Fazio lavorano insieme. Endemol Italia (presieduta da Paolo Bassetti, fratello di Marco) produce 'Che tempo che fa', la trasmissione di Fazio. Il Produttore e il Conduttore, in un'insolita intervista a due voci, parlano di tv, dell'ipotesi di acquisto di Endemol da parte di Mediaset e di politica. "C'è più modernità nel centrodestra che nel centrosinistra", dice Bassetti. Fazio sottoscrive.
Si chiude una stagione poco felice per gli ascolti e per Endemol. Il flop di 'Colpo di genio' e di 'Un due tre stalla', l'edizione 'Grande Fratello' 2007 la più bassa in assoluto. Il reality show è in crisi?
Bassetti:
"La correggo. Il 'GF' ha registrato i migliori ascolti della stagione. 'Un due tre stalla' ha fatto il 19 per cento contro Milan -Manchester. Con 'Colpo di genio' abbiamo sbagliato, è vero, la responsabilità è totalmente nostra. Ci dispiace che Simona Ventura ne abbia pagato le conseguenze. Non è in crisi il reality, è in crisi il modello della tv generalista, in tutto il mondo. Il pubblico ci chiede di essere più innovativi. In Italia facciamo programmi troppo lunghi, con lo studio, il conduttore... È stata una stagione di transizione: l'anno prossimo le grandi reti dovranno proporre modelli nuovi. Non nei contenuti ma nelle modalità: serve un modello leggero, meno costoso, forse senza studio e con qualche faccia nuova".
La fuga del pubblico, però, è un dato di fatto. La gente sta spegnendo la tv?
Bassetti:
"L'ascolto quest'anno è calato del 4 per cento. C'è stato anche il clima...".
Colpa del caldo?
Bassetti:
"Certo, influisce parecchio!"
Fazio: "Uno degli aspetti positivi dell'Apocalisse...".
B: "In realtà, la popolazione occidentale passa più tempo davanti alla tv, eccetto gli under 20. Ma nei target commerciali ci sono gruppi consistenti di ascolto. Il 'GF' ha il 40 per cento nelle fasce più interessanti. Comunque, ci saranno altri flop ma solo in Italia diventano un caso nazionale. C'è una fibrillazione che non c'è da altre parti".
Per quale motivo?
B:
"La tv è il campo di battaglia della politica. In campagna elettorale in Francia ci sono meno talk-show politici che in Italia in un periodo normale. Abbiamo le ballerine nei quiz, i reality più lunghi e un numero esorbitante di talk-show. Siamo in perenne campagna elettorale e manca una legge di sistema sulle tv".
Come valuta la riforma Gentiloni?
B:
"Mi piace la parte che vuole distinguere il servizio pubblico finanziato dalla pubblicità da quello finanziato con il canone. Per il resto, mi sembra un progetto incompiuto. Mi piacerebbe vedere cosa succederà ai politici che con il controllo della parte pubblicitaria vogliono gestire i pacchi, l'Isola e poi magari vendere autostrade, energia, gas, acqua".
In questa tv inzeppata di reality 'Che tempo che fa' è l'isola felice?
F:
"È un lusso. Ho avuto la possibilità per far crescere un programma in una fascia d'ascolto inesistente. Sono andato in controtendenza, nel momento in cui la tv scommetteva su un pubblico diverso. Ma servono il tempo e la consapevolezza dell'editore".
Chi è l'editore di riferimento? Endemol?
F:
"L'editore è la Rai. Siamo l'unica forma di marxismo esistente: lavoriamo senza avere i mezzi di produzione! Ho chiesto a Endemol totale autonomia di movimento. Io e Marco su tante cose non siamo d'accordo, ma mi ha sempre aiutato a fare quello che volevo".
B: "Siamo un paese in cui mancano élite al passo con lo sviluppo. Fazio porta in tv personaggi che possono diventare élite. Questo è un vero servizio pubblico, far conoscere tutto quello che può far crescere il paese".
Fazio produce classe dirigente, nientemeno?
F:
"Produco lettori, questo sì. Dico una cosa immodesta: credo di fare il primo vero programma di libri. Gli editori mi ringraziano, l'unico dono ricevuto è un Meridiano, ma per me è motivo di orgoglio".
B: "Lui ha instaurato un rapporto di stima, di fiducia con il pubblico. E sta attento a non tradirla. Noi siamo più liberali: a volte vendiamo anche l'auto usata...".
Non fate il lavoro opposto? Fazio costruisce lettori, Bassetti li involgarisce con i pacchi...
B: "Smettiamo di avere una visione pedagogica della tv, spetta alla scuola. L'etica della tv commerciale è il rapporto tra il cliente e il consumatore. Il servizio pubblico deve offrire ciò che serve per conoscere la realtà, non ciò che è bene e che è male".
F: "Su questo non siamo d'accordo. La parola pedagogia è terribile, ma una volta la tv mostrava l'eccellenza, modelli di riferimento. La tv commerciale ha messo in moto il meccanismo contrario: la tv cerca di assomigliare al consumatore. Ho letto di giovani coppie che arredano la casa come quella del GF. Lo specchio si è invertito".
Bassetti, è lei il padrone della tv? Facendo zapping tra le varie reti, si resta sempre sul palinsesto Endemol. 'Il milionario' e 'Affari tuoi', 'Che tempo che fa' e 'Invasioni barbariche': tutti programmi vostri, mai in concorrenza tra loro...
B:
"È una leggenda che ha da finire. Fazio va contro 'Affari tuoi', per dire. E in Italia c'è la produzione indipendente più bassa d'Europa, la stragrande maggioranza dei programmi è prodotta all'interno. 'GF', 'Affari tuoi', 'Milionario', pilastri della programmazione, sono prodotti da Endemol. Ma da qui a dire che comandiamo i palinsesti ce ne corre. Gli spazi sono pochi: per lavorare devi avere contenuti forti e il know how per saperli realizzare".
Per la Sipra 'Affari tuoi' è la cassaforte della Rai: cosa succede se la passate alla concorrenza?
B:
"Finché il prodotto è valorizzato e si rispettano gli accordi, non ne vedo il motivo".
F: "Anche perché l'altro non c'è..."
Siamo alla vigilia della vendita di Endemol a una cordata con Mediaset?
B:
"Ci sono varie offerte, Telefonica può accettarne una, o nessuna. In tutto il mondo Endemol difende la sua indipendenza. Dr. House prodotto da Nbc va in onda su Fox Tv. In Spagna Endemol lavora con la pubblica Tve e nessuno ha posto il problema della concorrenza con Telecinco (Mediaset) e Antenna Tre (De Agostini)...".
Minoli ha scritto che l'ingresso di Mediaset in Endemol sarebbe di fatto la privatizzazione della Rai, con un contratto di 40 milioni di euro all'anno e con i programmi di punta in mano vostra...
B: "
Una provocazione la sua, rivolta più all'interno della Rai che a noi. Sono certo che Minoli non ha pregiudizi verso Endemol".
Fazio, finirà prodotto da Berlusconi?
F: "È un'ipotesi che mi impressiona molto. Per uno come me che crede che esiste il conflitto di interessi è un bel problema. Vorrei che ci fossero proprietari diversi per ogni televisione. La soluzione era vendere Raiuno, liberare energie nel mercato. Non bisogna dimenticare che pubblico significa di tutti e dunque di nessuno, non di tutti i singoli partiti. Nella Rai anni '80 c'era un controllo asfissiante della politica. I testi venivano mandati ai funzionari e tornavano sottolineati in giallo. Su ogni cosa si alzava qualcuno e diceva: 'Andreotti non è d'accordo'. Era un continuo rimando ad Andreotti, a Craxi, entità astratte..."
Bassetti avrà ricordi diversi. Cominciò come produttore in quota Psi, essendo il genero di Craxi...
B:
"Senza ipocrisia, non nego che il fatto di essere socialista mi abbia aperto qualche porta. Quando mio suocero cadde in disgrazia, però, non mi hanno fatto entrare in Rai per molto tempo. In quei momenti difficili Freccero, Minoli e Maffucci mi diedero una mano. Alla fine è il mercato che riconosce i prodotti migliori e chi sa realizzarli".
E oggi, quanto conta la politica in Rai?
F:
"Non c'è più quella cappa. Ma c'è una politica molto ferma e una società molto più dinamica. I cittadini non si sentono più rappresentati da quello che dicono i politici: la convivenza come un peccato o un reato, roba da matti. In questo, la televisione ha un ruolo forte, mostra molto meglio il paese di quanto faccia la politica. Penso che si possa fare politica intervistando in tv Jeremy Rifkin o parlando liberamente di Dio con Ermanno Olmi senza decidersi se andare al Family Day oppure no".
Chi sono i politici che sanno usare la tv?
B:
"Berlusconi. E poi Veltroni e Casini hanno l'atteggiamento più moderno".
Il centrosinistra capisce la tv?
F:
"No, la capisce meno del centrodestra. Ne diffida, la considera un genere minore. La parola scritta, per la sinistra, ha un valore più importante della parola detta".
B: "C'è più modernità nel centrodestra che nel centrosinistra. La sinistra gioca su cose banali, come il minutaggio nei tg. Eppure, il centrosinistra in Rai ha prodotto fatturato politico ai tempi di Guglielmi e Freccero. Guglielmi era bravissimo e aveva un progetto politico. La Dc fu massacrata da Samarcanda sulla criminalità al Sud. Domanda: la mafia non c'è più?"
Fazio, la infastidisce l'etichetta di cerimoniere dell'Ulivo?
F:
"È una definizione antica come questa concezione della politica. Ho visto Prodi un anno fa quando venne a presentare il libro, mai più visto né sentito. Ho incontrato Veltroni in tv e basta".
Però Padoa-Schioppa durante la Finanziaria scelse lei per l'operazione simpatia...
F:
"Sì, ma gli dissi subito che nella Finanziaria non si capiva niente. Per fortuna il Pd nascente, forse, ci libera di queste etichette, ulivista, buone solo per le didascalie. Il Pd serve a ricominciare da capo. Anche se vedo difficile mettere insieme istanze come la laicità. Credo che esista un'etica laica: non sono disposto a rinunciarvi".
A Berlusconi cosa vorrebbe chiedere?
F:
"Chi glielo fa fare? Con tutti i soldi che ha, al posto suo farei tutta un'altra vita. Forse non è mai venuto per eccessiva stima nei miei confronti".
Perché si arrabbia se le danno del buonista?
F:
"Quando devo dare un giudizio su qualcuno ci penso su un milione di volte e poi non lo do. Dare un aggettivo su una persona senza conoscerla si chiama superficialità, maleducazione".
Fare le domande è da maleducati?
F:
"Non bisogna essere reticenti. A Berlusconi farei la domanda di Moretti: come ha fatto i soldi. Ma con educazione".


Da Rostock a Roma
Guido Ambrosino su
il Manifesto

Forse a qualcosa servono gli incontri degli otto "grandi". A far vedere quanto sono piccoli, di fronte ai guai del pianeta. Guai provocati da loro: le guerre, l'inquinamento dell'atmosfera che fa impazzire il clima, la povertà del resto del mondo saccheggiato.
Sono piccoli, i "grandi", anche di fronte ai lillipuziani che li assediano. Si barricano dietro a palizzate d'acciaio. Si fanno protegge da un esercito di 16.000 poliziotti e da una squadra navale. E quel gran dispositivo gli si sbriciola, bucato per terra e per mare da ragazzi che sgattaiolano nei boschi o dai gommoni di Greenpeace. Sono loro, i "grandi", a doversi muovere. Dire che sul clima hanno fatto un "grande passo avanti", come pretende Angela Merkel, è una smargiassata. Siccome non sono giganti, fanno passi da formica. Ma li fanno, spinti dalla dimensione dei problemi in cui si sono cacciati. Assediati dalla critica e dagli sberleffi dei lillipuziani.
Il più grande dei "grandi", Bush, è quello messo peggio, costretto nell'angolo, guardato storto dagli altri soci del club. C'è un passo, nel comunicato sul clima di Heiligendamm, che dimostra la sua solitudine: "Noi prenderemo seriamente in considerazione le decisioni dell'Unione europea, del Canada e del Giappone, che comportano almeno un dimezzamento delle emissioni globali entro il 2050". Quel noi, tolti gli europei, Canada e Giappone, sono i soli Stati uniti, scolaretti in ritardo sul programma che si promettono di ripassare la lezione.
Bush, alle corde sul clima, sulla guerra ha però ancora qualche chierichetto che gli regge lo strascico. Il nostro Prodi gli regalaVicenza per farci una base e gli infeuda una truppa di complemento per occupare l'Afghanistan. Dunque, dopo la lavata di capo di Heiligendamm, i lillipuziani devono rimettersi in moto a Roma, per impartirgli una lezione di sostegno in materia di pace e guerra. Ne hanno bisogno entrambi, Prodi quanto Bush. Faranno finta di non sentire, ma le orecchie ce l'hanno.
Agli scoraggiati, che dubitano dell'efficacia delle manifestazioni di protesta, suggeriamo di non sottovalutare gli effetti delle contestazioni ai G8. Non è poco aver costretto i "grandi" a nascondersi in posti appartati, e a cambiare continuamente la loro agenda per scrollarsi di dosso una pessima fama. Ora parlano di clima. Si sbracciano a promettere elemosine all'Africa. Invitano nel salotto buono, anche se come ospite di serie B, qualche parente povero. Sono duri di testa, ma qualche dubbio li rode.
Ai tremebondi, che temono di indebolire il governo Prodi, obiettiamo che ritirare i soldati dall'Afghanistan, e impedire lo scempio a Vicenza, rafforzerebbe la sua base di consensi.
A Roma blinderanno la città? Se non si cade nella trappola degli scontri frontali, con un po' di astuzia le barriere si possono aggirare. Schiereranno truppe formidabili? Gli si può mandare contro un'armata di clown, come a Rostock e dintorni. E seppellirle con una risata.


   10 giugno 2007