prima pagina pagina precedente



La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 3 giugno 2007



La destra giacobina a passo di carica
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

La maionese è impazzita. Quando avviene questo incidente culinario (e può accadere anche se le uova sono fresche di giornata) non c´è che buttarne il contenuto e ricominciare pazientemente da capo.
Un´altra immagine dello stesso fenomeno che ho usato qualche mese fa è quella dello specchio rotto. Lo specchio è uno strumento che serve a riflettere l´immagine. Se si rompe in tanti frammenti l´immagine non c´è più e sopraggiunge una sorta di cecità, sia che si tratti d´un soggetto individuale sia – peggio ancora – d´un soggetto collettivo. Ma nel caso nostro, voglio dire nella società italiana, nelle forze politiche e sociali che ne sono parti rilevanti, nella classe dirigente che dovrebbe guidarla ed esserne punto di riferimento e di esempio, non ci sono più nemmeno i frammenti di quello specchio. Si direbbe che un cingolato ci sia passato sopra e l´abbia polverizzato. Così si procede a tentoni, animati solo dall´istinto di sopravvivenza, dagli spiriti animali, dalla psicologia del branco, dai legami corporativi.
La razionalità non fa più parte del nostro bagaglio intellettuale e morale. È stata picconata da tutte le parti la razionalità; accusata di essere all´origine dei delitti e del più grave tra tutti – quello della superbia. Così la luce della ragione è stata spenta, nuove ideologie si sono installate al posto di quelle crollate in rovina, fondamentalismi d´ogni tipo hanno preso il posto della tolleranza e della certezza del diritto.
I circuiti mediatici hanno dato mano a questa devastazione e salvo rarissime eccezioni ancora continuano in questa funzione amplificatoria e istigatrice del peggio, accreditando e ventilando versioni dei fatti prive di verità e di ragione.
Questo complesso di circostanze ha toccato il suo culmine nel conflitto in atto tra il governo e il generale comandante della Guardia di finanza, Roberto Speciale. Un conflitto certamente grave perché motivato da ragioni tutt´altro che futili, ma che sta coinvolgendo le massime istituzioni repubblicane in un contesto, appunto, di impazzimento generale sapientemente alimentato da una psicologia del tanto peggio tanto meglio che ha ora raggiunto livelli mai visti prima.
Ci occuperemo dunque di questa incredibile vicenda cercando di chiarirne gli elementi di fatto con la massima obiettività possibile in questi chiari di luna. Non senza avvertire che essa è soltanto l´ultimo episodio d´una serie che costella da anni il costume nazionale gettando nello sconforto tutte le persone di buona fede e di buona volontà che costituiscono ancora la maggioranza del Paese e assistono impotenti e senza voce allo scempio della ragione.
Sarò conciso nel rievocare fatti già noti ma spesso trascurati o volutamente stravolti. E comincio dalla fine, cioè da quanto è avvenuto ieri, 2 giugno, festa della Repubblica.
La giornata è cominciata malissimo. A Roma nella tribuna dalla quale le autorità dello Stato assistevano alla parata delle Forze armate mentre sfilavano i vari corpi, le storiche bandiere dei reggimenti con i medaglieri guadagnati sui campi di battaglia e nelle rischiose missioni di pace, andava in scena una lite continua e sommamente disdicevole tra i rappresentanti dei due schieramenti politici, seduti alle spalle del presidente della Repubblica.
Poco dopo il capo dell´opposizione, Silvio Berlusconi, interrogato dai giornalisti sull´intenzione di chiedere udienza al Capo dello Stato per rappresentargli una situazione definita di “attentato alla democrazia” da lui e da tutti gli altri componenti del centrodestra, rispondeva: “Quella visita al Quirinale sarebbe nei nostri desideri, ma purtroppo non c´è più nessuna istituzione che ci dia garanzie d´indipendenza: la sinistra le ha occupate tutte”. Affermazione della quale è superfluo segnalare la gravità e che, pronunciata da chi ha guidato il governo per cinque anni e da un anno guida l´opposizione, segnala – essa sì – un degrado democratico che colpisce il presidente della Repubblica in prima persona e il suo ruolo di massima garanzia.
Prodi dal canto suo, nel corso di un drammatico Consiglio dei ministri avvenuto il giorno prima, di fronte alle reiterate divisioni sull´uso delle risorse disponibili, aveva detto: “Se si continua così io me ne vado, ma non vi illudete pensando a soluzioni dopo di me perché dopo di me ci sono soltanto le elezioni”. Si può capire il perché di questa affermazione, volta a richiamare all´ordine gli alleati riottosi, ma non toglie che si tratti d´una forzatura poiché non spetta a Prodi stabilire che cosa potrebbe avvenire dopo le sue eventuali dimissioni; spetta soltanto al Capo dello Stato dopo che abbia consultato i gruppi parlamentari.
Quanto a Napolitano, egli ha più volte ripetuto che non intende sciogliere le Camere con la vigente legge elettorale che le rende ingovernabili e comunque senza prima aver accertato l´esistenza o meno d´una maggioranza parlamentare che possa dare fiducia ad un governo istituzionale insediato per formulare una nuova legge elettorale e adempiere ai compiti urgenti che incombono sulle materie dell´economia, della finanza pubblica e della sicurezza nazionale.
Infine lo stesso Napolitano ha dichiarato che il tema della Guardia di Finanza e della rimozione del suo comandante generale esulano dalle sue competenze.
In quelle stesse ore, nel corso d´un convegno dei giovani industriali a Santa Margherita, Gianfranco Fini insultava pesantemente il ministro dell´Industria, Bersani, ottenendo dalla platea un´ovazione da curva sud dello stesso tipo di quelle ottenute da Berlusconi a Vicenza alcuni mesi fa sotto lo sguardo allora allibito di Montezemolo e del vertice della Confindustria. Spettacolo preoccupante, quello di Santa Margherita; non perché gli industriali non possano applaudire un uomo di partito che esprime le sue idee, ma perché quell´uomo di partito è lo stesso che ha condiviso quella politica che ha portato il reddito nazionale a crescita zero, il debito pubblico a risalire, l´avanzo primario del bilancio a scomparire, la pressione fiscale ai suoi massimi, i fondi per le infrastrutture inesistenti e le liberalizzazioni interamente inevase.
Questo, ad oggi, il grado di impazzimento di quella maionese di cui si è parlato all´inizio.
* * *
Ma ora risaliamo a quanto è accaduto tra il vice ministro delle Finanze e il generale Speciale. Ecco i fatti nella loro crudezza.
1. Speciale presenta a Visco qualche mese fa un piano di avvicendamenti comprendenti l´intero quadro di comando della G. d. F. Motivazione: è prassi che ogni tre anni gli incarichi siano avvicendati per ragioni di funzionalità.
2. Visco esamina il piano e vede che l´avvicendamento riguarda tutti i comandi salvo quelli di Milano e della Lombardia. Ne chiede ragione. Speciale, in ottemperanza, si impegna a riformulare il piano includendovi i comandi della Lombardia.
3. Visco sa benissimo il motivo dell´esclusione dei generali e dei colonnelli che hanno incarichi dirigenti a Milano: si è formato da anni in quella provincia un gruppo di potere collegato con il comando generale di Roma. Risulta a Visco che quegli ufficiali abbiano "chiuso gli occhi" su gravissime irregolarità verificatesi nel sistema delle intercettazioni telefoniche, avvenute nel corso di scalate finanziarie a banche e a giornali. Alcuni di quei documenti sono stati trafugati e consegnati a giornali di parte per la pubblicazione. In alcuni casi le intercettazioni non sono neppure arrivate all´ufficio del Pubblico Ministero ma trafugate prima e consegnate ai giornali senza che la magistratura inquirente ne avesse preso visione.
4. Passano i giorni e le settimane ma Speciale non consegna il nuovo piano di avvicendamento.
5. Nel frattempo lo stesso Speciale avvisa, all´insaputa di Visco, il procuratore della Repubblica di Milano che i comandi della G. d. F. milanese stanno per essere sostituiti. Il procuratore si preoccupa per i nuclei di polizia giudiziaria che operano ai suoi ordini effettuando inchieste delicate e importanti. Speciale lo invita a mettere per iscritto quelle preoccupazioni. Arriva la lettera del procuratore. Speciale la mostra a Visco.
6. Visco, dopo aver riesaminato la pratica, telefona a Speciale per manifestare la sua sorpresa e il suo malcontento. Speciale mette in vivavoce la telefonata alla presenza di due alti ufficiali che ascoltano la conversazione.
7. Il tribunale di Milano, richiesto di verificare lo stato dei fatti in via di accertamento, esclude che esista alcuna indebita interferenza da parte di Visco.
8. Speciale rende pubblico il conflitto in atto presentandolo come un´interferenza di Visco sull´autonomia della G. d. F.
Di qui i seguiti politici che conosciamo e che portano all´autosospensione di Visco dalla delega sulla G. d. F. e alla rimozione di Speciale dal comando generale per rottura del rapporto fiduciario tra lui e il governo.
* * *
Dove sia in questa arruffata vicenda l´attentato alla Costituzione e alla democrazia denunciato con voce stentorea da Berlusconi e da tutti i suoi alleati, Casini compreso, è un mistero.
Il vice ministro delle Finanze aveva – ed ha – il fondato sospetto di gravi irregolarità compiute da alcuni comandi collegati con il comando generale. Rientra pienamente nei suoi poteri stimolare il comando generale ad avvicendare i generali non affidabili. Alla fine, accogliendo le preoccupazioni del procuratore di Milano, lo stesso Visco consente ad escludere i comandi milanesi dall´avvicendamento dei quadri nel resto d´Italia.
Tra i dettagli (dettagli?) incredibili c´è quella telefonata messa in vivavoce all´insaputa dell´interlocutore ed ascoltata da due ufficiali di piena fiducia dello Speciale. Basterebbe questo dettaglio a rimuoverlo dal comando.
Del resto – e purtroppo – non è la prima volta che il comando generale della G. d. F. dà luogo a gravissimi scandali. Almeno in altre due occasioni dovette intervenire la magistratura penale e fioccarono pesanti condanne di reclusione.
Ovviamente ciò non lede il valore e l´affidabilità di quel corpo militare, così come i tanti casi di pedofilia dei preti non vulnerano l´essenza della Chiesa quando predica il Vangelo. Certo ne sporca l´immagine e quindi danneggia fortemente la Chiesa. Così le malefatte di alcuni generali e perfino del comandante generale pro-tempore non inficiano l´essenza d´un corpo chiamato a tutelare le finanze dello Stato ma certamente ne sporcano l´immagine.
Quanto a Visco, quando il conflitto si è fatto rovente tracimando nella politica e in Parlamento, ha restituito la delega in attesa che si pronunci la magistratura di Roma che nel frattempo ha aperto un´inchiesta contro ignoti su quel tema.
* * *
C´è un´orchestrazione sapiente in tutto questo. La ricerca della spallata che tarda a venire. L´uso delle proteste provenienti dai tanti interessi corporativi. I danni gravi dell´eterno litigio all´interno del governo e della coalizione che lo sostiene. Il voto elettorale certamente sfavorevole al centrosinistra specie nel Nord. Il riemergere del massimalismo della Lega e dei falchi berlusconiani. Le rivalità fra i riformisti del centrosinistra per la leadership del Partito democratico. La sinistra radicale imbizzarrita.
C´è un paese che non ha più una classe dirigente ma solo veline e velini disposti a tutto pur d´avere due minuti su un telegiornale e un titolo di prima pagina su un quotidiano.
Possiamo esser tranquilli in mezzo a questo "tsunami"?
Due punti fermi negli ultimi tre giorni ci sono stati. Il primo è la correttezza e la forza di Giorgio Napolitano di fronte agli sguaiati tentativi di coinvolgerlo e il richiamo del Capo dello Stato al principio della divisione dei poteri che rappresenta il cardine dello Stato di diritto e che, in verità, Berlusconi ha calpestato e calpesta da dieci anni a questa parte. Le leggi "ad personam" e la sua prassi di governo lo provano a sufficienza, quale che sia in proposito l´opinione della nuova borghesia sponsorizzata e immaginata da Montezemolo e dal giovane Colaninno.
Il secondo punto di tranquillità è venuto dalle Considerazioni finali esposte il 31 maggio dal governatore della Banca d´Italia.
Draghi, con una prosa secca quanto lucida e documentata, ha segnalato le luci e le ombre dell´economia italiana distribuendole equamente tra la classe politica, le parti sociali, gli operatori economici. Ha dato a ciascuno il suo, nessuno è stato privato dei riconoscimenti meritati e del fardello di critiche altrettanto dovute.
Personalmente temevo che il tecnocrate Draghi si mettesse sulla scia della protesta confindustriale legittima ma sciupata dalla salsa demagogica servita a piene mani nell´Auditorium di Roma e in quello di Santa Margherita. Non è stato così e ne sono ben lieto. Draghi ha reso un servizio al paese, come ha fatto Mario Monti in altre occasioni. Come fece Ciampi nelle varie tappe della sua vita al servizio delle istituzioni. Queste persone ci danno calma e recuperano la morale e la ragione. Seguendo questa traccia si potrà forse costruire uno specchio nuovo e recuperare un´immagine decente di noi stessi e d´un paese deviato dai cattivi esempi a ingrandire il fuscello che sta nell´occhio altrui senza occuparsi della trave che acceca il proprio.


Il coraggio di ricominciare
Ernesto Galli della Loggia sul
Corriere della Sera

Siamo così immersi nelle difficoltà della congiuntura politica da dimenticare che in realtà è da quando la Seconda Repubblica è nata che essa è in crisi, è dal '94 che essa non funziona. A renderla così inefficace è un vizio d'origine: l'assenza di una “costituzione materiale”. L'assenza, cioè, di quella cornice di regole, non definite formalmente ma rispettate per tacito accordo da tutti gli attori, che assai più delle regole scritte consentono a un sistema politico nel suo complesso di funzionare. Come funzionò, per l'appunto, il sistema della Prima Repubblica, il quale era sì “bloccato” (perché privo di alternanza di governo) ma ciò nonostante riuscì a produrre partiti solidi, alleanze durature, leadership qualificate, soprattutto una decisione politica di quantità e qualità notevoli. Laddove il sistema della Seconda Repubblica è invece esattamente l'opposto: non è bloccato (conosce l'alternanza di governo fin dalle origini) ma non funziona: cioè non ha mai prodotto né politica di qualità, né partiti, né leader autorevoli, e tanto meno riesce ad articolarsi in schieramenti solidi.
La costituzione materiale della Prima Repubblica si riassumeva in due regole da cui discendevano tutte le altre: la Democrazia Cristiana non avrebbe messo il Partito Comunista fuori legge; e dal suo canto il Pci rinunciava ad ogni proposito rivoluzionario e adottava una linea aperta ai ceti medi e ai cattolici. Due regole che assicurarono una premessa indispensabile per il funzionamento della costituzione formale: il reciproco riconoscimento degli avversari. Due regole che, come spesso capita in questi casi, erano nate in un certo senso per forza propria, dalla storia del Paese, dalla necessità di evitare dopo il '45 una possibile, nuova, guerra civile.
Il guaio della Seconda Repubblica è di essere nata, invece, anziché dalla storia dal caso (o se si preferisce dai casi: giudiziari), senza il concorso vero della politica e perciò priva di una costituzione materiale. Senza la cui risorsa coesiva, per l'appunto eminentemente politica, anche la costituzione formale, però, serve a poco, come vediamo ormai da quindici anni. Ecco infatti che lo spazio pubblico si frantuma e si disarticola in ogni senso, tutto vive e muore in un giorno, gli attori politici tendono a presentarsi o con un che di perennemente trasformistico e di ondivago ovvero fissati in tratti parossistico-temperamentali, quasi da personaggi della Commedia dell'Arte (il Cavaliere, il Professore, come Scaramuccia o Pantalone); mentre la guerra civile, da incubo vero da esorcizzare, diviene l'allusione fasulla con cui ognuno cerca di costruire a sé e al proprio avversario quella consistenza che sa mancare a entrambi.
La Seconda Repubblica ha dunque bisogno soprattutto di una costituzione materiale, questa volta scaturita non dalla storia ma dalla consapevolezza della politica. Gli ambiti su cui da parte dei suoi rappresentanti è necessario convenire, intorno ai quali fissare gli opportuni paletti, e con la garanzia di tutti impegnarsi a rispettarli, sono ovvii: i rapporti tra la sfera giudiziaria e la politica, il conflitto d'interessi e l'uso dei media, i princìpi della legge elettorale. Solo così, solo con un mutuo e preliminare accordo che delimiti il terreno dello scontro, sarà possibile uscire da questo pantano, ricominciare davvero. Ciò che altre volte ha fatto la storia deve oggi e qui, in Italia, avere il coraggio di farlo la politica, cioè i suoi capi se, come dovrebbe essere, sono capaci di rischiare, di scommettere: magari anche contro il proprio passato.


Pd, Prodi e il futuro di Veltroni
Roberto Zuccolini sul
Corriere della Sera

ROMA — La tempesta c'è. Accompagna Romano Prodi fino all'ingresso del teatro Quirino. Ci sono le polemiche del giorno prima, il vertice burrascoso della maggioranza. E, ancora, l'offensiva del Polo che lo incalza sul caso Visco. Ma quando il premier entra nel teatro dove si parla di Partito democratico, la musica cambia. Ovviamente. L'attendono i “suoi”, quelli del Pd che ancora non c'è, ma su cui punta tutto. Ci sono Arturo Parisi, Giulio Santagata, Giovanna Melandri e, soprattutto, c'è Walter Veltroni. Il sindaco in giacca e cravatta, lui in camicia e golf, come se andasse a casa di amici. Il leader che c'è e quello che ci sarà? Sì e no. Qualche ora prima, a Radio 24, già gli avevano chiesto se sarà Walter il suo successore e aveva risposto in modo molto burocratico. O, forse, diplomatico: “Ci sarà una gara vera, senza nessun posto prenotato. Veltroni leader? Perché no? Se vince le primarie diventa il capo del Pd”. E ancora: “Non è che io voglio qualcuno: chi vince vince”. Perché, assicura, “non ci sarà diarchia” tra il presidente del nuovo partito (lo stesso Prodi) e il segretario eletto dall'Assemblea costituente.
Comunque i due si siedono vicino, in platea, mentre sul palco vanno Parisi, Santagata e Melandri, circondati da una decina di cittadini, pronti a fare domande sul nuovo soggetto politico. La partita per la leadership, dice Prodi, è ancora aperta, ma non è un caso se a parlare per primo è proprio il sindaco di Roma. Che sprona l'assemblea a cambiamenti più radicali: “Attenti a non fare un partito algido, da second life, estraneo alla gente”. E lancia il suo avvertimento sulle regole del gioco: “Bisogna al più presto realizzare riforme istituzionali per passare dalla democrazia dei veti alla democrazia delle decisioni”.
È lo stesso tema affrontato anche da Prodi in mattinata. Quando aveva confessato che gli attuali sottosegretari “forse sono troppi”, ma che la proliferazione è stata il frutto dell'attuale legge elettorale. Quando aveva detto che dimezzare il numero dei ministri “potrebbe essere un'idea”. E che, se avesse un quadro istituzionale simile a quello francese, di dicasteri ne farebbe solo 12 contro i 15 di Sarkozy. Aveva anche ammesso, Prodi, che le amministrative sono andate male, “anche se non è stata una batosta”.
Poi, nel pomeriggio, giocando in casa al Quirino, rilancia: “State tranquilli, sono sicuro che governerò per cinque anni, senza paura dei traguardi intermedi”. Parisi, Santagata e Melandri raccomandano di sciogliere i nodi ancora irrisolti del “comitato dei 45” (che fa da garante al Pd) e il ministro della Difesa mette in guardia da una contrapposizione tra leadership e premiership. Poi lasciano la parola a Prodi per le conclusioni.
Il Professore è ottimista, nonostante tutto: “Questo è l'unico partito in cui si dibatte: non ce n'è un altro. Stiamo facendo la rivoluzione. Sbaglia chi si rifugia nell'antipolitica. Guai a credere nei partiti comandati o posseduti dall'alto”. Ed è un riferimento alla discussione, alquanto vivace, che si è svolta venerdì durante il vertice della maggioranza. Perché, è vero che si è discusso, “ma poi si è tranquillamente deciso che il 14 ottobre si va a votare: questa è la rivoluzione”.
Ogni volta che parla del 14 ottobre, il Pd-Day, è ovvio che tutti pensano a Veltroni. Ma se la mattina aveva detto che “non c'è nessun posto prenotato” e che a lui il posto “non l'hai mai lasciato nessuno, quando sono sceso in politica: ho lottato, me lo sono preso”. Poi la critica ai giovani di oggi: “Non vedo nessuno che si fa avanti”. E ricordando che Martin Luther King s'impose a 34 anni: “Non glielo ha mica detto sua nonna di fare quel suo celebre discorso...”. Nel pomeriggio, infine, un'altra stoccata: “Ho visto tanti giovani vecchi, sponsorizzati da potenti, che poi si sono rivelati incapaci”. E quindi avanti tutta, verso un Pd che “guarderà al centro, ma anche a sinistra”. Mentre il governo punterà sull'“equilibrio dei conti” e la riforma delle pensioni. Un governo che Prodi difende a spada tratta: “Cercano di buttarci giù perché stiamo raccogliendo i frutti di una politica seria”. Senza perdere l'occasione un affondo contro chi ama troppo apparire, anche tra i suoi: “Io non ho il 46% della tv italiana”. E non amo “chi partecipa al "panino" dei tg”. Cioè alla gara “tra chi parla più in fretta”.


Don Rigoldi: “Sulla droga Milano sbaglia tutto”
Zita Dazzi su
la Repubblica

Se si vuole veramente far qualcosa di serio contro la droga, l´idea più sbagliata è quella mandare i carabinieri a scuola, luogo che dovrebbe essere deputato all´educazione. Puntare solo sulla repressione è una follia. Esattamente come l´idea del kit per le famiglie che sospettano che i figli fumino spinelli”.
Da 35 anni cappellano del Beccaria, don Gino Rigoldi scuote la testa elencando quelli che definisce “gli errori madornali” degli amministratori sul tema degli stupefacenti. Altro tema che lo fa infuriare è quello delle macchinette scambia siringhe, che il sindaco Moratti ha deciso di far sparire. “Poi mi dovrà spiegare cosa faremo delle 20.000 siringhe sporche che si raccoglievano in quel modo - si arrabbia il fondatore di Comunità Nuova -. Così le troveremo nei parchi e la gente tornerà a prendere l´Aids e l´epatite perché non ha i soldi per comprarsi un ago pulito”.
Don Rigoldi, esce a giorni il suo primo libro, "Il male minore" (Mondadori, 110 pagine, 15 euro). Sono molti i capitoli dedicati alla droga e ai giovani, i due cavalli di battaglia di tutta la sua vita.
“Sulla droga c´è troppa ideologia, e troppa disinformazione. Per aiutare i ragazzi non serve fare terrorismo, ma parlare chiaramente delle cose. Bisogna spiegare le differenze fra le sostanze, gli effetti, i pericoli. Ma soprattutto serve un lavoro educativo: bisogna andare alla radice del male, capire qual è il disagio che spinge i figli a cercare rifugio nei paradisi artificiali”.
Ancora la linea della prevenzione, mentre molti invocano la repressione, visto che la droga dilaga.
“L´obiettivo di noi adulti, di noi educatori, non è metterci l´anima in pace con piccoli mezzi. Ma è quello di essere efficaci, onesti. Sulla scuola occorre investire risorse educative, non militarizzarle. I kit sono inutili se nelle famiglie non si riscopre l´antica abitudine del dialogo, del confronto, della trasmissione dei valori. I giovani crescono osservando e imitando i comportamenti dei genitori. Ma se le parole non corrispondono ai gesti, se non si insegnano l´atteggiamento critico e una vita sana, non consumista, non aggressiva, non si può pretendere che loro imparino da soli”.
Nel suo libro ci sono consigli pratici per educare i ragazzi. Ma i giovani ascoltano poco gli adulti, siano essi genitori o professori.
“La scuola perde per strada il 20 per cento degli iscritti, fra bocciature, abbandoni ed espulsioni. Nelle famiglie si sta davanti alla televisione per sere intere. Nessuno sa più parlare con i giovani. C´è un analfabetismo di ritorno in campo educativo che fa spavento. E le istituzioni fanno marcia indietro, invece di pensare qualcosa di serio”.
Quando era in seminario rischiò di non ricevere l´ordinazione sacerdotale perché “affetto da vistosa mancanza di spirito ecclesiale”. Oggi, si definisce “prete laico” e spiega che la “religione deve non scomparire, ma un po´ defilarsi”.
“Io leggo il Vangelo tutte le mattine e il mio desiderio è quello di farlo capire alle persone. Quella è l´autorità a cui io faccio riferimento, non tanto ai vescovi e alle mitre. Anzi se dalle gerarchie mi vengono indicazioni che non condivido, lo esprimo. Non ho mica affittato il cervello al Vaticano”.
Lei scrive che “la dignità di un travestito che si prostituisce in via Novara non è inferiore a quella del Papa”.
“Lo dice il vangelo. Gesù era amico delle prostitute e io questo lo tengo presente ogni momento del giorno. I gay sono miei amici, Non mi piace sentirne parlarne in modo aggressivo o sguaiato. Bagnasco e Ratzinger sono come me servi del Vangelo”.


La festa della Repubblica
Gabriele Polo su
il Manifesto

Un tempo non lontanissimo parlar di tentato “golpe” aveva qualcosa di serio persino in Italia. O, almeno, era seria la paura che ci faceva passar le notti fuori casa quando delle guardie forestali partivano in colonna verso Roma. Ora quella serietà si è del tutto persa, negli ululati del centrodestra che annunciano “pericoli democratici” per la rimozione del generale Speciale dal comando della Guardia di Finanza. Ma la situazine è ugualmente grave, anche se il “trasferimento” del suddetto generale alla Corte dei conti la fa sembrare un po' ridicola: nel Belpaese tutti cadono più che in piedi (del resto questo è il patto non detto che governa le caste).
La gravità della situazione riguarda proprio il collasso della democrazia, non nel senso che lo intende il centrodestra, ma nell'incapacità del centrosinistra di sottrarsi al gioco al massacro di cui è vittima e artefice. C'è una semplice domanda, cui non si risponde, che dà l'idea concreta di quel collasso: cosa ne capiscono di tutto ciò che sta avvenendo le persone che vivono fuori dai palazzi? Quei tanti che hanno votato l'Unione non per cieca fiducia nei suoi leader e partiti ma per liberarsi perlomeno dagli intrighi berlusconiani? La risposta è altrettanto semplice: niente.
Non c'è alcuna trasparenza nelle mosse del governo. Prendiamo il vertice di ieri. All'uscita parole rinfrancanti sulla tenuta della coalizione, mentre all'interno i toni non erano così idilliaci, ma lo si poteva leggere solo nelle facce o tra le righe delle dichiarazioni ufficiali. Perché tutti sono ormai convinti che l'attuale governo è a termine, è entrato nella fase finale (agonia quanto lunga non si sa) sulla spinta di voler far nascere un partito (il Pd) che squilibra ancor di più i fragili assetti di una coalizione eterogena e, soprattutto, che ha per fine il governo a tutti i costi. E questo - oggi in Italia - comporta lo snaturamento del centrosinistra e lo spostamento al centro del suo asse.
Nel duello Visco-Speciale va in scena un copione analogo. Perché arrivare al pari e patta, “diminutio” del viceministro che lascia la delega alle Finanze e rimozione-promozione del generale? Qual è il messaggio che arriva a noi “spettatori”? semplicemente che entrambi hanno qualcosa da nascondere, che l'esecutivo non sa o non può scegliere e che non sceglie per continuare a galleggiare. Così l'unico vero effetto della vicenda è l'accantonamento del “Robespierre fiscale”, come voleva la destra.
Questa è la vera emergenza democratica: a furia di barcamenarsi la maggioranza eletta si spacca sempre di più e, nel merito, viene meno al mandato elettorale. Il voto dell'aprile 2006 oggi non vale quasi più nulla, e chi lo ha espresso (a sinistra) percepisce la crescente inutilità del gesto. Ha poco da implorare una “politica più credibile” il presidente della Repubblica e ha ben poco da alzare la voce con toni decisionisti il presidente del consiglio. La distanza tra istituzioni e paese reale cresce nell'indistinta palude della rappresentanza e nel principio del governo come fine unico della politica. In quel vuoto di comunicazione e chiarezza può trovare spazio ogni giorno di più l'oligarchia tecnocratica dei normalizzatori guidati dal Corriere della sera. La sinistra dovrebbe porsi l'obiettivo di non partecipare a questo gioco, che la porterà al massacro.


Il governo annulli l'effetto Brancaleone
Edmondo Berselli su
L'espresso

Dopo tutte le discussioni sull'antipolitica, e dopo il risultato del primo turno delle amministrative, si tratta di vedere se il centrosinistra può salvare se stesso, il governo, la legislatura, e soprattutto la sua credibilità. La situazione è difficile. E non per un generico rigetto qualunquista della politica in sé, ma per un giudizio ultimativo degli elettori sul governo Prodi e sulla maggioranza parlamentare che lo sostiene.
Un elenco sommario dei punti di crisi dell'Unione è presto fatto. In primo luogo, il processo redistributivo varato con la legge finanziaria è stato vanificato dalle imposizioni aggiuntive degli enti locali, in modo che pochi cittadini hanno riscontrato un beneficio diretto. L'obiettivo primario del governo, risanamento dei conti pubblici e rilancio della crescita economica, è stato ottenuto, ma il risultato è stato annebbiato dalla turbolenza interna dell'Unione.
Il governo di centrosinistra è stato identificato come il governo delle tasse, al punto che alla fine è passata praticamente sotto silenzio la realizzazione di una misura, il taglio del cuneo fiscale, attraverso il quale le imprese ottengono un vantaggio significativo nel costo del lavoro. Inoltre nei centri di potere economico c'è la sensazione che la rimessa in sesto dei conti pubblici sia un dato astratto.
Come ha scritto Massimo Giannini su 'la Repubblica' dopo l'exploit di Luca Cordero di Montezemolo, "Confindustria ritiene che quello realizzato dal centrosinistra sia solo un 'risanamento contabile', che riflette il riequilibrio dei saldi, ma poggia su un artificio aritmetico e politico: poiché manca il coraggio di abbattere gli aumenti forsennati della spesa pubblica, la riduzione del deficit è garantita solo dall'incremento più che proporzionale della pressione fiscale".
Sul piano politico, invece, la quotidianità del centrosinistra è attraversata da nuvole nere. Dall'Afghanistan ai Dico e all'Ici, dal caso Visco ai timori evocati dall'ambiente dalemiano ("Non faremo la fine di Bettino", frase che sembra paventare per i Ds una questione giudiziaria incombente). L'Unione non sembra in grado di trovare coerenza quasi su nessun argomento. Gli interessi di parte rendono arduo il cammino delle riforme più incisive, a cominciare dal sistema pensionistico. Di qui una sensazione di incertezza, se non di impotenza, che si trasmette all'elettorato, tanto da configurare sondaggi catastrofici.
Si può uscire dall'impasse? Prodi punta su tempi dilatati, convinto che alla lunga la crescita si farà sentire e recherà benefici a tutta la società italiana. Ma è chiaro che se il governo non riesce a far percepire una tonalità efficace nella sua azione complessiva, ogni conseguimento parziale, ogni riforma, tutti i provvedimenti appariranno frammenti sparsi e incoerenti, che non si integrano in un progetto riconoscibile.
Questo 'effetto Brancaleone' potrebbe essere sterilizzato se il governo fosse in grado di comunicare con chiarezza una serie limitata di punti programmatici, da perseguire in un arco di tempo ragionevole. In primo luogo la riforma elettorale, per uscire dal vicolo cieco del 'Porcellum' e dai contraccolpi del referendum (che finora rappresenta l'unica chance per battere l'immobilismo dei partiti). Subito dopo, una riforma delle pensioni in cui l'aspetto dei tagli ai rendimenti futuri venga compensato da un sostegno ai trattamenti più bassi: sotto questa luce, l'ipotesi, variamente circolata, di una specie di 'quattordicesima mensilità' per le pensioni minime, potrebbe avere un impatto psicologicamente più forte sulle fasce di pensionati di reddito meno elevato.
Un'ulteriore spinta al processo di liberalizzazione (sull'energia, nei servizi pubblici o semipubblici locali, superando le secche in cui sembra finito il progetto Lanzillotta) conferirebbe un peso molto maggiore all'azione dell'esecutivo, dando corpo a un intervento questa volta strutturale e non congiunturale sull'economia.
Infine, resta il tema politico di fondo, quello del Partito democratico. Finora si è assistito a una serie di bizzarrie, come la costituzione del comitato per l'elaborazione delle regole dell'assemblea costituente: 45 persone per stendere un regolamento, record stagionale. All'orizzonte c'è un'alternativa drammatica: o il Pd diventa l'occasione anche politicamente cruenta di un rinnovamento della classe dirigente del centrosinistra, oppure finirà nel discredito generale. Con il governo che apparirà una tecnocrazia logora, e il centrosinistra una partitocrazia sfinita.
C'è ancora poco tempo, tanto vale provarci.


L'uomo è un animale comunitario?
Vittorio Beonio Brocchieri su
Golem l'Indispensabile

Nella conclusione del suo intervento, Gherardo Colombo ha ricordato il mio invito a reintegrare il terzo incomodo della triade rivoluzionaria nel novero dei valori fondativi delle democrazie moderne. Un invito che muoveva dalla considerazione – avanzata fin dalle origini da molti liberali atipici come Tocqueville – che il funzionamento di istituzioni liberal-democratiche dovesse poggiare sulla presenza di elementi prepolitici, etici, emozionali ed identitari. Ovvero che in definitiva la polis precede la politica, il sentimento di appartenenza e di identificazione con una comunità precede l'accettazione di un determinato ordinamento politico e istituzionale. Insomma dalla percezione dell'insufficienza pratica e teorica del paradigma contrattualista – nelle sue innumerevoli versioni – e dei suoi presupposti individualistici.
Il rivalutazione della fratellanza solleva però obiezioni da opposti versanti politici e culturali. Da una parte le vestali dell' ortodossia liberale hanno visto nel richiamo alla fraternità una minaccia per l'autonomia sovrana dell'individuo e quindi il rischio di nuove derive autoritarie se non totalitarie. La sensazione che la fraternità costituisca un intruso all'interno della triade rivoluzionaria deriva però anche dal suo carattere prepolitico ed extragiuridico. Il concetto di fraternità – ha scritto Mona Ozouf, rimanda “a dei doveri più che a dei diritti, fa riferimento a dei legami più che a uno statuto, all'armonia più che a un contratto, alla comunità più che all'individualità, ad una dimensione carnale più che intellettuale, religiosa più che giuridica, alla spontaneità più che alla riflessione”.
Nonostante questo suo sapore “carnale” e “comunitario”, “emozionale” e “religioso” il riferimento alla fraternità come possibile valore fondativo delle democrazie moderne è stato però criticato anche sul versante opposto, quello dei cosiddetti “comunitari”, ovvero di coloro che hanno più o meno radicalmente criticato il presupposto individualistico e contrattualistico delle liberal-democrazie occidentali, insistendo sul valore delle comunità come “noi” che precede l'“io”, direbbe Giovanni Gentile, sul radicamento concreto del vivere collettivo in un tempo e in uno spazio definiti, sul valore della tradizione, delle memorie condivise, degli usi e dei costumi ereditati, della dimensione religiosa.
Da questo punto di vista il richiamo alla fraternità è apparso come un tentativo debole e incompleto di reintegrare la dimensione comunitaria nel mainstream della modernità. Marcello Veneziani ha sintetizzato molto efficacemente questa posizione: “In realtà un comunitarismo fondato sull'idea di fratellanza sarebbe due volte dimezzato: in primis, perché le società fraterne sono società senza padri (e dunque senza tradizione, senza il legame verticale con i padri e con i figli); e poi perché la fratellanza rivoluzionaria ha vocazione universale e dunque da un profilo comunitario la sua estensione indifferenziata produce la sua estinzione”.
Non c'è dubbio che la diffidenza nei confronti della fraternità della tradizione comunitaria “di destra”, alla quale Veneziani fa riferimento, sia pure in modo innovativo e con garbo e moderazione, derivi in larga misura proprio dalla sua origine rivoluzionaria. In sostanza quello che viene rimproverato alla fraternità è di non essere sufficientemente organica e di essere tendenzialmente universalista. La comunità, al contrario, si definisce per la sua natura ascrittiva e particolaristica. Non si sceglie per contratto di appartenere ad una comunità, ci si nasce, e una comunità è tale perché si distingue, anche se non necessariamente si contrappone ad altre comunità. È di queste obiezioni che vorrei occuparmi brevemente in questa sede, dicendo subito che la prima mi sembra sostanzialmente sbagliata, la seconda in sé corretta ma pericolosa.
È vero che il rapporto di fraternità o di fratellanza enfatizza la dimensione sincronica, orizzontale ed egualitaria della relazione rispetto alla dimensione verticale, diacronica e in fondo gerarchica implicita nel rapporto fra padre (o, perché no?, madre) e figlio. L'assenza, o l'indebolirsi, di questa dimensione storica e temporale, di questa solidarietà fra le generazioni nelle società democratiche o in via di democratizzazione, è stata rilevata e denunciata dai alcuni dei maestri del liberalismo conservatore tra la fine del Sette e l'inizio dell'Ottocento. Burke affermò, ad esempio, che “la società è un patto non solo tra coloro che sono vivi, ma anche tra i vivi, i morti e quelli che ancora devono nascere”. Tocqueville da parte sua individuava nel restringimento dell'orizzonte temporale della vita del singolo, nell'oblio degli antenati ma anche nel disinteresse per i discendenti uno dei tratti caratterizzanti delle società democratiche: “Presso i popoli democratici nuove famiglie emergono incessantemente dal nulla, altre vi ricadono… la trama del tempo si lacera ad ogni momento e il ricordo delle generazioni si cancella. Ci si dimentica facilmente di coloro che ci hanno preceduti e non abbiamo alcuna idea di coloro che verranno dopo di noi”; al contrario, “presso i popoli aristocratici conservano nel corso dei secoli la stessa condizione e abitano gli stessi luoghi. Ciò rende, per così dire, tutte le generazioni contemporanee. Un uomo conosce i suoi antenati e li rispetta, crede di intravedere i suoi discendenti e li ama”. La perdita delle memoria si accompagna dunque nelle società democratiche e individualiste ad una perdita di progettualità, di futuro. Un tema, questo del legame, del patto fra generazioni, a lungo rimosso, ma tornato di grande attualità sotto forma, ad esempio, delle preoccupazioni per gli squilibri demografici e previdenziali o, cosa ancora più importante, per il degrado ambientale planetario.
Ma il rapporto di fraternità presuppone comunque una legame intergenerazionale, una paternità e una maternità. A differenza dell'amicizia o dell'amore, la fraternità non è elettiva. Possiamo scegliere i nostri amici o i nostri amori, non i nostri fratelli. La fraternità rimanda quindi comunque ad un rapporto di discendenza – biologica, culturale, religiosa o di altro tipo –, ad un essere “gettati nel mondo” in un tempo, in un luogo, in una cultura che non scegliamo noi ma con la quale dobbiamo fare i conti. Sottolineare la dimensione fraterna della trasmissione della tradizione significa sottolineare l'aspetto plurale e dinamico, aperto, di questa trasmissione. I fratelli si dividono l'eredità paterna (e materna) e possono interpretarla in modo profondamente diverso senza per questo tradirla. Leggere la trasmissione della tradizione attraverso la fraternità ci può quindi portare a darne un'interpretazione meno rigidamente patrilineare, primogeniturale e in fondo maschilista implicita in una lettura della tradizione come trasmissione “di padre in figlio”.
Passando al secondo punto, individuare nella tendenziale universalità della fratellanza una controindicazione o un limite mi sembra paradossale. L'irruzione del sentimento di fraternità nell'ambito sociale e politico precede evidentemente di molti secoli la formulazione della triade rivoluzionaria. È nell'ambito della tradizione cristiana che si origina e si sviluppa il nesso inscindibile fra fraternità e uguaglianza. In questa prospettiva è la fraternità a fondare teologicamente e ontologicamente un'uguaglianza fra gli uomini, che cancella distinzioni sociali, etniche e di genere: “Non possono esistere né ebreo né greco… né schiavo né padrone, né maschio né femmina, perché siete tutti un uomo in Gesù Cristo” (Paolo). “Agli occhi di Dio – scrive Lattanzio – nessuno è schiavo né padrone perché siamo tutti suoi figli”. È la filiazione divina quindi a rendere gli uomini fratelli e uguali.
Certo questa uguaglianza spirituale non si traduce immeditamente sul terreno sociale. Il cristiano, soprattutto dei primi secoli è, essenzialmente, un uomo-in-relazione-con-Dio. Un uomo-fuori-dal-mondo, come fuori dal mondo è il legame di fraternità e di uguaglianza che lega gli uomini fra loro. D'altra parte anche l'individualismo cristiano – la fondazione del singolo individuo come unità di valore – è inizialmente un individualismo-fuori-dal-mondo. Ma nel corso dei secoli, soprattutto a partire dal momento in cui la religione cristiana diventa religione uffciale dell'Impero, i superiori valori spirituali hanno esercitato una pressione crescente sulla realtà mondana ad essi subordinata. Louis Dumont ha illustrato in modo persuasivo le tappe fondamentali del processo, da Agostino a Calvino, che ha portato il cristiano a diventare da individuo-fuori-dal-mondo (come il rinunciante della tradizione indiana) ad individuo-nel-mondo. La mondanizzazione della Chiesa ha avuto come contropartita una spiritualizzazione del mondo. L'individualismo, l'uguaglianza hanno nel corso di questo processo guadagnato terreno, come valori sociali condivisi, rispetto all'organicismo e alla gerarchia.



Smettere fa male. Per ora
Filippo Facci sul blog
Macchianera

Anzitutto oggi è il 31 maggio, Giornata mondiale senza tabacco a cura dall'Organizzazione mondiale della sanità: il tema quest'anno è “Il tabacco è nocivo sotto qualsiasi forma o maschera”.
Tra i libri più venduti d'Italia, seconda notizia, c'è il longseller di Allen Carr "E' facile smettere di fumare", agile volumetto che in tutto il mondo ha venduto otto milioni di copie. L'autore, Carr, fumava sino a cento sigarette il giorno ma poi ha inventato un metodo per smettere come ha fatto da trent'anni, anche perchè, si legge a pagina 16, "ero certo che il fumo mi avrebbe ucciso".
La terza notizia, purtroppo, nel libro di Carr non c'è: è che Carr è stato ucciso da un cancro ai polmoni nonostante non fumasse da trenta. Aveva 72 anni.
La quarta eccezionale notizia è che l'autore di questo articolo, l'11 maggio scorso, ha detto addio al suo ultimo pacchetto di sigarette, e questo dopo aver scritto sul Giornale decine di articoli contro le crociate salutiste.
L'ultima notizia, infine, è che sempre l'autore di questo articolo, insomma io, adesso scrocco sigarette al prossimo e fumo pochi sigari toscani: ma dal punto di vista del beneficio salutare, dopo esser passato da cinquanta sigarette il giorno a due o tre al massimo (tutte scroccate) il risultato è che all'apparenza sto per finire al Creatore.
Vedrò di spiegarmi meglio.
Anzitutto non si ha cambiato idea su niente, ed ecco quanto già scrissi su due quotidiani, un libro e in questo mal frequantato blog:
"Fumare è meraviglioso ma il più delle volte diviene un vizio e una dipendenza, e se potessimo tornare indietro probabilmente non inizieremmo a farlo. Fumare è meraviglioso in particolare per chi si fermi ai sigari e alla pipa, o appartenga alla cerchia dei fortunati capaci di non oltrepassare le dieci sigarette il giorno. Fa male? In questa misura, sia scientificamente che statisticamente, no, o lo fa in misura risibile per sé e soprattutto per gli altri. Il vizio del fumo tuttavia non vale la candela se non in proporzioni che siano moderate quanto sostanzialmente innocue per sé e per gli altri, e tuttavia assai difficili a ottenersi. Tutto sommato, calcolando le probabilità che il tabacco divenga un vizio e non solo un piacere, forse non varrebbe la pena neppure di iniziare".
Detto e riletto questo, smettere di fumare per un vero tabagista è tra i peggiori inferni possibili: un rimpianto eterno che non sparisce mai, perché la voglia di fumare è per sempre, non c'è sincero ex fumatore che non l'ammetta, senza contare il dissesto fisiologico che ne consegue, dunque l'aumento di peso che non sempre si riassorbe, l'ansia, l'insonnia, il rincitrullimento, la difficoltà di concentrazione, irritabilità, la bramosia irrefrenabile, le spaventose depressioni, tutte cose che non spariscono in una settimana nè in due. Ci sono cose difficili da spiegare, ed è per questo che il libro di Allen Carr sta avendo tutto questo successo.
Molte cose semplicemente non si sanno, e neppure quel libro ne parla. Nel 1994, negli Stati Uniti, vennero alla luce dei documenti che dimostravano come il potere della nicotina di dare dipendenza fosse noto sin dagli anni Sessanta, cosa che le multinazionali avevano sempre negato. Invece non solo gli era noto, ma nel segreto del loro laboratori avevano trovato il modo di ampliare le dipendenze: aggiunsero dei composti per accelerare il rilascio della nicotina e ne aggiunsero altri per dilatare i bronchi agevolando l'aspirazione del fumo. La dipendenza da nicotina è più subdola di quanto non pensino soprattutto i non-fumatori, e la Food and Drug Administration ha rilevato dati impressionanti: quasi due terzi dei fumatori accendono la prima sigaretta entro mezz'ora dal risveglio, l'84 per cento di coloro che fumano 20 o più sigarette ha tentato vanamente di ridurne il numero, un fumatore che fa un serio tentativo di smettere ha meno del 5 per cento di probabilità di riuscirci, il 70 per cento dei fumatori sostiene di voler smettere completamente di fumare, e, ancora, e qui parrà incredibile, quasi la metà dei fumatori che si sono sottoposti a un intervento per cancro al polmone riprende a fumare, e nel 40 per cento dei casi tenta di ricominciare a farlo anche dopo l'asportazione della laringe. Tra coloro che appaiono fortemente determinati a smettere, e ricevono un'assistenza medica ottimale, la metà è in grado di smettere solo per una settimana, mentre a lungo termine la percentuale di fallimento è pari a più dell'80 per cento.
Un mese fa una rivista di ricercatori americani, Bmc genetics, roba seria, ha addirittura spiegato che per smettere di fumare occorre avere i geni giusti: ce ne sono almeno 221 che fanno la differenza tra chi riesce a buttare la sigaretta per sempre e chi no.
E' con questa scoraggiante consapevolezza che mi sono avviato a smettere: non certo grazie a campagne salutiste che hanno solo ridonato un fascino carbonaro a un vizio che si avviava, da solo, a diventare una retroguardia sociale. Consapevolezza che avevo davvero deciso di farlo: null'altro conta, perchè fumare cinquanta sigarette al giorno, due pacchetti e mezzo, è da cretini e punto. Di calare non se ne parla: non devo averle e punto. Se le ho le fumo. Se non le ho non le fumo.
In passato provai il Bupropione, un farmaco (una molecola) con cui hanno smesso in parecchi: niente. Ho solo rischiato di uscire pazzo, perchè come effetti collaterali davvero non scherzava. Prima di smettere ho provato anche uno spray che si chiama Smoke Out e che spruzzato sulla lingua rende schifoso il sapore della sigaretta: niente, le fumavo anche da schifose.
E' che in realtà non volevo smettere.
Ho persino telefonato all'avvocato Vincenzo Campanelli, una specie di pranoterapeuta che per motivi misteriosi riesce a far smettere in un minuto il 70 per cento di quelli che incontra: e stiamo parlando di medici, docenti universitari, magistrati, ufficiali dei carabinieri, ragionieri dello Stato, presidenti dell'Antitrust, un presidente del Gruppo Rizzoli, Maurizio Costanzo, Valeria Marini, Giuliano Pisapia, Stefania Craxi, registi come Citto Maselli e Margarethe Von Trotta, statisti come Shimon Peres, Re come Hussein di Giordania. Ma non sono andato da Campanelli. E non ho avuto voglia di aspettare il vaccino antifumo (è in sperimentazione) o ancora la vereniclina, un farmaco della Pfizer che simula il principio attivo della nicotina e fa credere al cervello di averne ricevuto la dose necessaria.
Poi è arrivato l'11 maggio, data pianificata da mesi: e ho sostanzialmente smesso. Ho scritto "sostanzialmente" perchè posso fumarne due o tre al giorno solo se me le offrono o se le scrocco. Le fumo per non mitizzarle, per non diventare come quelli che se vedono una sigaretta scappano, quelli che ti dicono che basterebbe un tiro e ci ricadrebbero. Non voglio quell'aria da reduce, voglio poterle fumare quando capita.
Per qualche giorno ho messo i cerotti alla nicotina, quelli forti: funzionano, mi pare. Ma poi ho smesso perchè ho cominciato a fumacchiare qualche toscano, poca roba che non fa male, come la pipa, perchè non l'aspiro: ma non vorrei aprire un dibattito anche su questo, visto che oggi è la Giornata mondiale senza tabacco e lo titolo era "Il tabacco è nocivo sotto qualsiasi forma o maschera”. Cazzate.
Il punto, per ora, resta un altro. Chi smette in genere ha una fame boia: io, dopo aver smesso, ho perso l'appetito. Chi smette guadagna fiato: io, che di fiato ne ho sempre avuto, dopo aver smesso ho giocato a pallone come tutte le domeniche e quasi chiamavano l'ambulanza.
Tre giorni dopo aver smesso, ancora, ho fatto una visita medico-sportiva e mi hanno trovato una lieve tachicardia e soprattutto la pressione alta: 150 su 100.
Mai avuto tachicardia nè pressione alta: smettere peraltro dovrebbe abbassarla. Solo due mesi avevo fatto una visita medico-sportiva più approfondita per un brevetto di sub: tutto a posto.
Ora, invece, il giorno dopo la prima misurazione, la pressione era salita a 160 su 100. Il giorno dopo, 165 su 110. Il giorno dopo, 170 su 100. Il giorno dopo, 170 su 110. Il giorno dopo era ieri, anzi è ora, è il momento in cui sto scrivendo questo articolo.
Ho smesso di fumare. Per il resto vi terrò aggiornati.


  3 giugno 2007