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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 28 luglio 2006


Le conseguenze della guerra
Tahar Ben Jelloun su
la Repubblica

Anche se la guerra finisse domani, ci saranno conseguenze per anni. Il Marocco, geograficamente lontano dal Medio Oriente, segue gli eventi con rabbia. Gli schermi delle televisioni satellitari del Golfo, quasi in diretta, mostrano dappertutto la morte che colpisce popolazioni civili, con le telecamere che indugiano in particolare su bambini a pezzi. Quelle immagini orribili non penso che vengano mostrate dalle televisioni occidentali. Ho ricevuto via internet immagini insopportabili, una serie di diapositive mandate da militanti che non conosco. Non ho avuto il coraggio di guardarle fino in fondo. Quando passa attraverso l´innocenza stessa, l´infanzia, l´orrore si moltiplica per cento. Personalmente non ho bisogno di vedere corpi dilaniati dalle bombe per esprimere la mia opinione.

Ariel Sharon aveva messo in atto una serie di assassini mirati seguita da invasioni e distruzioni di case, portando l´inferno fino alle baracche dei campi profughi. Questa politica non ha fatto altro che radicalizzare ulteriormente i Palestinesi e chi li sostiene, come Hezbollah e la Jihad islamica. La conseguenza principale di quella politica e della guerra attualmente in corso sarà la crescita del razzismo e dell´antisemitismo. L´odio guadagnerà ancora terreno e riempirà altri cuori.
Si può dire che a partire dall´11 settembre 2001 la sorte dei Palestinesi era segnata: ce n´era abbastanza per rovinare la resistenza di un intero popolo, per considerare ogni palestinese un terrorista, un nemico dell´Occidente, un kamikaze pronto a uccidere dei civili.

La lotta contro il terrorismo è diventata un alibi indiscutibile.
Quella guerra diventa sempre più complicata e sempre più pesante per le popolazioni palestinesi e israeliane. Appena si profila in lontananza una promessa di pace, da una parte o dall´altra arriva una provocazione a silurarla. Come se non ne valesse la pena. Come se la convivenza non fosse più auspicata né dagli uni né dagli altri. Troppe ingiustizie, troppe umiliazioni, troppa intransigenza finiscono per portare tutti alla disperazione. Ma nessuno sa più cosa fare per porre fine a questa tragedia.
Israele si difende ma ha fatto un errore attaccando un paese, uno Stato indipendente – il Libano – e distruggendo l´aeroporto civile, bombardando quartieri cittadini e provocando la morte di decine di famiglie. Israele si difende seminando morte senza raggiungere il suo obbiettivo, "annientare gli Hezbollah". Le Nazioni Unite (poverine!) come sempre cercano di trovare le parole per dire le cose senza urtare la suscettibilità americana. In Europa, e perfino in Israele, viene organizzata qualche manifestazione di solidarietà con i civili libanesi.
La lega araba (poverina!) si è riunita al Cairo per decidere di rimettersi alle decisioni delle Nazioni Unite. Divisi, gli Arabi non fanno niente per salvare i Palestinesi; non è certo cosa nuova. D´altronde ormai è da parecchio tempo che i Palestinesi non si aspettano più niente dai loro "fratelli" arabi. Sanno che la maggior parte degli Stati arabi sono impantanati in difficoltà politiche e guidati da regimi impopolari. Oltretutto, gli unici argomenti che sembrano riunire gran parte degli arabi sono le ideologie islamiche. E a equiparare islamismo e terrorismo si fa in fretta. Tutto questo non fa che esacerbare odio e paure.
Israele conosce perfettamente la situazione. Ha scelto la politica del tanto peggio tanto meglio avviata da Sharon e portata avanti da Olmert: favorire la crescita di Hamas e della Jihad islamica per neutralizzare i laici e rifiutare ai Palestinesi la pace che reclamano, vale a dire i negoziati per la pace.

I missili su Haifa dimostrano che Israele, malgrado la sua forza, è vulnerabile. Non vincerà la guerra con i bombardamenti, ma vincerà la pace accettando la situazione palestinese e avviando negoziati sinceri. Vincerà la pace accettando le risoluzioni dell´Onu e acquisendo in questo modo il diritto di esigere dal Libano che questo rispetti la risoluzione sul disarmo di Hezbollah. Siamo ancora lontani. È per questo che i due popoli devono essere separati, non dal muro dell´odio, ma da soldati delle Nazioni Unite che impediscano che i razzi finiscano sui civili israeliani e che le bombe cadano sulle popolazioni palestinesi e libanesi.
Ma chi oserà intervenire? Chi troverà il coraggio di dire la verità agli uni e agli altri, che la guerra non risolverà nessun problema, che il radicalismo religioso non porterà la pace e che prima o poi quei due popoli vivranno fianco a fianco? È indispensabile che Israele e Palestina si riconoscano a vicenda, perché tutti sono stanchi di questo conflitto che dura da troppo tempo. Forse sono proprio la stanchezza e la disperazione a produrre l´energia e l´eterno ritorno dell´odio.
(traduzione di Elda Volterrani)


Iran: dietro le quinte l'ayatollah invisibile
Magdi Allam sul
Corriere della Sera

Nella guerra in corso in Medio Oriente l'Iran sembra essersi dato alla latitanza. E il mondo sembra essersi dimenticato del regime nazi-islamico che persegue il sogno dell'atomica e della distruzione di Israele. Era il «most wanted» fino al 12 luglio scorso. Il giorno in cui l'Onu si sarebbe dovuto esprimere sul rifiuto iraniano di accettare l'offerta dell'Unione Europea di aiuti per sviluppare il nucleare civile in cambio della rinuncia ai programmi bellici.
Con un deciso orientamento a imporre sanzioni, nel generale convincimento che l'avventurismo nucleare della teocrazia degli ayatollah costituisse la più seria minaccia alla sicurezza e alla stabilità internazionali. Guarda caso, sempre il 12 luglio, il braccio terroristico dell'Iran in Libano, l'Hezbollah, con un'incursione in territorio israeliano, uccidendo otto soldati e sequestrandone due, ha provocato la deflagrazione della guerra. Raccogliendo e amplificando la portata di un conflitto già innescato il 25 giugno da Hamas, anch'esso sul libro paga dell'Iran, con un attentato terroristico in territorio israeliano costato la vita a due soldati e il rapimento di un terzo.
Così, come d'incanto, la minaccia iraniana sembra essere passata in secondo piano e il grande burattinaio del terrorismo di Hamas e dell'Hezbollah si è defilato nelle retrovie della guerra. Limitandosi a tuonare focose dichiarazioni contro il «nemico sionista» e il «genocidio dei popoli libanese e palestinese». A foraggiare i suoi burattini con razzi e missili, offrendo assistenza logistica sul terreno e aiuti umanitari agli sfollati, vittime di una guerra da esso stesso ispirata.

Va da sé che il regime iraniano ha tutto l'interesse a sostenere massicciamente da dietro le quinte Hamas e l'Hezbollah, al fine di protrarre il più a lungo possibile una spirale di violenza che potrebbe risucchiare altri Paesi arabi, a cominciare dalla Siria. Per poi spaccare il fronte sciita in Iraq, accrescendo le quotazioni della fazione oltranzista di Moqtada al Sadr (che ha già annunciato la disponibilità a inviare oltre un migliaio di combattenti in Libano) alimentando ulteriormente il caos e favorendo la penetrazione iraniana. Si realizzerebbe così il vecchio sogno dell'imam Khomeini, l'esportazione della rivoluzione islamica a partire dal corridoio sciita che dall'Iran arriva in Libano, transitando per l'Iraq e avvalendosi della complicità della minoranza alawita al potere in Siria. Saldandosi con le mire egemoniche del tandem Khamenei- Ahmadinejad che sognano di sottomettere alla loro influenza l'insieme del Medio Oriente facendo leva sul possesso dell'atomica e sulla guida della guerra tesa a distruggere Israele. A chi avesse dei dubbi sulla fondatezza della strategia iraniana, che consideri attentamente l'atteggiamento dei Paesi arabi usualmente definiti moderati, Egitto, Arabia Saudita e Giordania. Che hanno subito condannato l'attacco terroristico dell'Hezbollah del 12 luglio e denunciato le mire iraniane, che hanno accettato di partecipare alla Conferenza di Roma per creare un fronte comune con l'insieme della comunità internazionale.

Ebbene, il regime nazi-islamico iraniano esiste e trama dietro le quinte. Si è defilato contando anche sulla nostra tendenza istintiva, di fronte alle immagini di morte e distruzioni, a condannare genericamente la violenza e a lanciare altrettanto generici appelli alla pace. Ma è lui il grande burattinaio di Hamas e dell'Hezbollah. E' lui il principale incendiario della guerra. Non permettiamo che la faccia franca e che il Medio Oriente cada sotto le grinfie di burattinai e burattini del terrorismo.


Il dilemma
Antonio Padellaro su
l'Unità


La Camera dei deputati ha deciso di aiutare i disperati della carceri, salvando (in parte) corrotti e bancarottieri. Questo è il cuore del dilemma che induce il ministro Di Pietro a esprimere giudizi gravi («L'Unione ha svenduto la propria dignità»), e lo divide dal resto della maggioranza convinta, al contrario, di aver votato la cosa giusta. Questo è l'indulto, approvato con Forza Italia e Udc, che suscita rabbia in numerosi elettori di sinistra (e lettori de l'Unità). Ma che pone perfino magistrati rigorosi, e non certo inclini agli inciuci (Gian Carlo Caselli per tutti) davanti a un ragionevole dubbio. Della situazione delle carceri italiane, insostenibile nella sua inciviltà, è impossibile lavarsene le mani. Però, strumentalizzare la sofferenza di tanti per garantire l'impunità, presente e futura, di alcuni grandi mascalzoni, è una vergogna. Quale il male minore? Quale il male maggiore? Ma non si può neppure ignorare che dopo il forte allarme suscitato, qualche modifica, non piccola, è stata ottenuta. Anche se graziato dall'indulto, infatti, il condannato per reati finanziari dovrà restituire ciò che ha preso illegittimamente, risarcire il danno e subire le pene accessorie (interdizione dai pubblici uffici, impossibilità di essere eletti). Che sia ancora poco rispetto al senso di ingiustizia che questo tipo di leggi ad personam generano tra i comuni cittadini, è un fatto. Che il Senato possa ristabilire il principio che la legge uguale per tutti non possa essere più uguale per qualcuno, è flebile speranza.



La clemenza troppo estesa
Giorgio Bocca su
la Repubblica

Dopo due giorni di una battaglia che ha attraversato i Poli, che ha visto un ministro andare in piazza con il megafono e un altro minacciare le dimissioni, la Camera ha trovato la maggioranza dei due terzi necessaria ad approvare l´indulto. E´ stato così superato un passo critico per il centrosinistra, uno dei tanti "problemi dei problemi" per dirla come i cronisti parlamentari, posti dalla esile maggioranza. Il commento del presidente della Camera Bertinotti è stato: «Oggi è una bella giornata: quando le istituzioni sono capaci di una clemenza che allevia anche una pena supplementare a quelle comminate dal giudice, vedi il sovraffollamento delle carceri, è la dimostrazione che vince lo Stato di diritto».
Nel caso italiano si tratta di una clemenza necessaria alla sopravvivenza dello Stato date le condizioni disastrose del nostro sistema carcerario. I detenuti sono 62.000 in locali che ne possono accogliere in modo civile non più di 42.000.
E´ un popolo di poveracci e di abbandonati, i soliti frequentatori delle prigioni di tutto il mondo, un terzo tossicodipendenti o stranieri, molti malati, buona parte in attesa di un giudizio che tarda ad arrivare, tutti privati della libertà probabilmente non per ravvedersi ma per fare una esperienza criminogena che li restituirà, in molti casi, peggiorati alla società civile. Una tragedia delle società industrializzate di cui non si conoscono rimedi seri ma a cui ogni tanto si applicano dei pannicelli caldi come gli indulti.
A questa clemenza si è pagato un prezzo alto in termini politici e simbolici: e l´aspro dibattito che ha attraversato il centrosinistra ne è la testimonianza. La legge stabilisce che per approvare un indulto occorra una maggioranza dei due terzi: i voti del centrodestra sono perciò determinanti. In questa come in altre occasioni l´area conservatrice ha subito mostrato il suo lato debole, la comprensione per i "furbetti del quartierino", per i corrotti, per quei reati che una certa borghesia non considera proprio tali. E ha imposto il suo diktat: senza l´estensione dell´indulto a quei reati niente accordo. Un ricatto perfettamente comprensibile in un centrodestra che ha fatto della battaglia giudiziaria per difendere il Cavaliere e Previti il leit motiv della passata legislatura.

Sembra che la classe politica non si renda conto della sua debolezza e dei pericoli che corre. Anche nella gestione della giustizia, dovrebbe fare in modo che il problema delle carceri venga risolto prima che arrivi al disastro: solo così può garantire che la macchina democratica funzioni e non si incarti nelle sue contraddizioni.


America ed Europa. L'Occidente rischia l'overdose di carcere
In Usa i reclusi sono oltre 2 milioni: tra qualche anno un cittadino su cento sarà dietro le sbarre
Massimo Gaggi sul
Corriere della Sera

Quando, qualche mese fa a Houston, il processo Enron si concluse con condanne severissime, furono in molti, anche in Italia, ad applaudire. In realtà, quella ricetta non è applicabile al caso italiano perché l'«overdose» di carcere che caratterizza il sistema Usa non solo non verrebbe mai accettata dal nostro sistema politico, ma è anche al di fuori della nostra cultura giuridica: nei penitenziali statali e federali degli Usa sono reclusi 2,3 milioni di cittadini (dati aggiornati alla seconda metà del 2005). In un Paese che ha 300 milioni di abitanti questo significa che, se i trend attuali continueranno ancora per qualche anno, tra non molto potrebbe esserci un cittadino dietro le sbarre ogni cento abitanti. Come se l'Italia avesse non gli attuali 61 mila detenuti (un numero già considerato «esplosivo») ma 600 mila.
Se il sistema americano non può essere preso a modello, non ci si può nemmeno nascondere che la sua durezza in molti casi «paga». E non solo per i reati comuni: condannare i vertici della Enron a decine di anni di carcere (di fatto un ergastolo, considerata l'età dei dirigenti processati) ci appare come una pena eccessiva per reati di tipo finanziario, ma certo è un deterrente; i mercati, in futuro, saranno un po' più protetti. Stesso discorso per corruzione e concussione: esistono anche negli Usa, ma la diffusione del fenomeno è molto più contenuta: per un diverso costume politico che consente al repubblicano McCain di combattere in Congresso la degenerazione lobbistica del suo stesso partito e poi perché, quando un senatore ed eroe di guerra come Randy Cunningham (il «top gun» interpretato da Tom Cruise in un celebre film) viene condannato a otto anni di carcere per mazzette, nessuno si ribella, né a destra né a sinistra.
Se si pensa a come la giustizia funziona Oltreoceano, ma anche in altri Paesi europei, non si può non restare profondamente contrariati dal modo nel quale è stato condotto il dibattito sull'indulto, approvato ieri dalla Camera. Più che la discussione sui «favori» resi ai condannati del centrodestra, a colpire è stata la diffusa tendenza a «parlare d'altro».

In realtà, al di là del merito di un provvedimento che risponde a un'esigenza reale e che forse era difficile costruire in modo molto diverso, vista la necessità di giungere al «quorum» dei 2/3 nelle votazioni, si è parlato assai poco dei due veri nodi: 1) che cosa fare per migliorare le carceri e aumentarne la capienza, visto che i detenuti dal '90 a oggi sono passati da 25 a 61 mila e che tale trend difficilmente si invertirà; 2) come affrontare la questione, sempre più urgente, della legalità. Non è solo un problema etico: lo scarso rispetto delle regole è una palla al piede della nostra economia, l'incapacità di far rispettare le leggi è uno dei fattori che tengono gli investitori stranieri lontani dall'Italia. La corruzione è tornata ai livelli pre-Tangentopoli. Forse ancora peggio se è vero, come sembra emergere dalle inchieste in alcune Regioni, che a volte la tangente non è una percentuale del valore dell'affare ma, addirittura, un suo multiplo. Sono nodi che non si affrontano di certo appiccicando sull'indulto un'etichetta rassicurante.


A quale prezzo per i cittadini
Miriam Mafai su
la Repubblica

Da oggi comincia uno sciopero a oltranza delle farmacie. E dunque se nei prossimi giorni avrò bisogno di un antibiotico o di qualsiasi altra medicina, dovrò cercare una farmacia di turno o comunale. Sarà una fatica in più. Trovo a dir poco sorprendente che i farmacisti, da tempo autorizzati a vendere una serie di prodotti vari (dalle creme solari ai sandali ai giochi ed abiti per bambini) abbiano reagito con tanta imprevedibile determinazione al decreto Bersani sulle liberalizzazioni.
Decreto che prevede la possibilità di comperare i cosiddetti "farmaci da banco" anche nei supermercati, sempre con la presenza e l´assistenza di un farmacista laureato. Una determinazione che la Federfarma ha confermato ieri respingendo l´ammonimento del Comitato per la garanzia del diritto di sciopero che la invitava a sospendere una agitazione che può provocare danno alla salute dei cittadini. Non solo quell´invito è stato respinto, ma la stessa Federfarma ha persino minacciato l´espulsione di quelle associazioni e farmacie che rifiuteranno oggi di chiudere i battenti: ci sono infatti associazioni provinciali e singoli farmacisti più ragionevoli e responsabili di coloro che ne dirigono l´associazione, e non sono pochi.
Ci aspettano giornate pesanti. Il cosiddetto decreto Bersani, approvato martedì al Senato, ha provocato proteste e scioperi di varie categorie. La scorsa settimana è stata la volta dei tassisti, che in segno di protesta contro un possibile aumento delle licenze, hanno sospeso il servizio e bloccato il traffico cittadino a Roma, a Milano, a Torino e in altre città italiane. Da giorni gli avvocati scioperano a oltranza, contro la misura che prevede l´abolizione del minimo tariffario fissato dall´Ordine. Sono in agitazione (non ancora in sciopero) i panificatori contro il possibile aumento delle licenze di panificazione. I notai, cui quel decreto sottrae il potere di certificare il passaggio di proprietà di un auto, per adesso, prudentemente, non hanno annunciato né agitazioni né scioperi. E oggi è la volta dei farmacisti.

Il caso delle farmacie non è il solo, ma è esemplare. Solo in Italia la farmacia è, fin dai tempi del Regno di Sardegna, una concessione pubblica che diventa privata ed ereditaria. E tale è rimasta nonostante i tentativi di tutti i governi che, dall´Unità d´Italia in poi, hanno tentato di mutarne il regime. Forse è per questo che in Italia un´aspirina, tanto per fare un esempio, costa il doppio che in Francia, e quattro volte più che in Germania.

Ma la liberalizzazione è di destra o di sinistra ? Diciamo la verità: per molto tempo (per almeno un paio di generazioni) il termine e ciò che sottintende e rappresenta , è stato vissuto come un proposito, un compito, un simbolo della destra. Alla sinistra spettava, è spettato storicamente, il compito di nazionalizzare o municipalizzare una serie di servizi e attività. Alla destra il compito di liberalizzare. Un compito cui la destra, o meglio la destra italiana, per prudenza o per viltà non ha mai assolto. Tanto meno la destra berlusconiana, nonostante gli impegni assunti e i ripetuti ammonimenti provenienti dall´Europa. E allora, il compito è passato, imprevedibilmente, al centrosinistra. Ed oggi grava tutto intero sulle spalle del governo Prodi e del ministro Bersani che ha legato il suo nome e il suo impegno alla "liberalizzazione" di servizi e professioni. Un compito e un obiettivo necessari per liberare il paese da vecchi impacci e strozzature, e consentirne la crescita. Ma che, per essere assolto a pieno richiede alla sinistra il superamento di vecchi (e nobili) tabù e l´acquisizione di una nuova cultura.


L'Olocausto e la propaganda sovietica
Risponde Sergio Romano sul
Corriere della Sera

In merito agli anni successivi al 1945 nella Germania orientale, Paolo Rumiz ha scritto: «In Germania Est il passaggio veloce dal nazismo al comunismo impedì — a differenza dell'Ovest — una rielaborazione dell'Olocausto, bloccando ogni riflessione sulla colpa collettiva e fornendo a tutti una patente antifascista a costo zero».
Mi chiedo come abbiano vissuto per decenni quei milioni di tedeschi, cresciuti nell'odio del comunismo e poi da questo governati. Basta a spiegarlo l'abitudine dei tedeschi all'obbedienza, a un'autorità suprema cui tutto è delegato? Che cosa ci può dire al riguardo?
Maurizio Boerci

Caro Boerci, la sua lettera solleva due questioni: la percezione del genocidio ebraico nella Repubblica democratica tedesca e l'obbedienza al comunismo nella società della Germania orientale. Sono problemi diversi che cercherò di affrontare separatamente. Vi sono almeno tre ragioni per cui l'Urss evitò accuratamente di dare una particolare importanza, nella sua propaganda, alle persecuzioni di cui gli ebrei erano stati vittime nei territori occupati dal Terzo Reich, soprattutto dopo l'invasione della Russia nel 1941. In primo luogo la dirigenza del partito voleva che la guerra fosse agli occhi del mondo, per quanto possibile, il conflitto della patria del comunismo contro il nazifascismo. Dare rilievo alla politica antiebraica di Hitler e riconoscere al popolo ebraico un posto speciale nella storia della Seconda guerra mondiale sottraeva all'Urss una parte della sua grandezza e incrinava l'edificio della sua propaganda. In secondo luogo gli ebrei furono sempre, agli occhi del comunismo sovietico, «cosmopoliti»: una espressione spregiativa con cui i teorici dell'internazionalismo proletario hanno spesso definito gli individui legati da vincoli trans-nazionali di interesse o di sangue, persone di cui era opportuno diffidare anche quando si professavano comunisti. È questa, incidentalmente, la ragione per cui la percentuale degli ebrei, fra le vittime delle grandi purghe staliniane, fu altissima. La terza ragione fu la nascita dello Stato d'Israele nel 1948. L'Urss lo riconobbe immediatamente perché vide in quell'avvenimento, anzitutto, una sconfitta dell'imperialismo britannico in Medio Oriente. Ma ebbe subito il timore che il nuovo Stato potesse contare sulla lealtà degli ebrei russi e disponesse cosi di una «quinta colonna», collocata nel mezzo della società sovietica. Stalin fu indispettito e preoccupato dalle entusiastiche manifestazioni con cui Golda Meier, primo rappresentante diplomatico di Israele a Mosca, fu accolta dalla comunità ebraica della capitale nel 1948. E cominciò a preparare da allora, probabilmente, la distruzione dell'ebraismo russo.



Quando le Tute Erano Blu
Corrado Stajano su
l'Unità

Sembra che siano passati secoli dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi. I governi centristi fecero alla svelta a cancellare la lotta di liberazione, a non tenere in alcun conto la Costituzione del 1948, a stabilire una continuità tra la nuova Repubblica e lo Stato fascista. I problemi della ricostruzione erano immensi, con le città rase al suolo e milioni di uomini che cercavano pane e lavoro. Stava mutando l'assetto sociale, l'agricoltura cedeva il passo all'industria, non era facile l'avvio di un processo di modernizzazione nel tempo della guerra fredda che divideva in due il grande mondo e anche i piccoli mondi. Fu subito chiaro, qui da noi, che ai governanti stava soprattutto a cuore costruire un modello di sviluppo in cui la classe operaia doveva essere isolata.
La classe operaia, considerata l'espressione militante (e militare) del Pci, la temibile nemica, doveva essere discriminata, umiliata. Contava poco che avesse salvato le fabbriche dalla distruzione nazifascista e avesse dato prova, durante la guerra di liberazione, di spirito nazionale unitario.
Lo scontro sociale fu violentissimo, in fabbrica e nelle città. La polizia di Scelba teneva la piazza, i morti operai punteggiavano la vita quotidiana. I grandi funerali, le manifestazioni di massa provocavano altri scontri, altri morti. Sono impressionanti i rapporti dei prefetti che informano il ministro dell'Interno. Non solo per l'arcaico linguaggio - la fabbrica è l'opificio, gli operai sono le maestranze - ma per l'evidente e spesso vergognosa sudditanza dello Stato nei confronti della classe dominante. La Fiat fu allora l'azienda guida della repressione antioperaia: le schedature - 354.077 di cui 150.655 del periodo che va dal 1967 al 1971 - scoperte il 5 agosto del '71, appunto, dall'allora pretore di Torino Raffaele Guariniello nella sede centrale della Fiat di corso Marconi, raccoglievano illegittimamente informazioni su dipendenti e non dipendenti, con le prove dei pagamenti fatti dall'azienda a carabinieri, poliziotti, agenti di servizi segreti sui libri paga della Fiat.
Fu un lungo travaglio quello della classe operaia. I sindacalisti parlavano nei piazzali deserti. Una volta, davanti a Mirafiori, Gianni Alasia, scoraggiato, chiese al suo compagno Aventino Pace: «Cosa faccio, Tino?». «Parla, Gianni. Parla lo stesso, perché lì dentro sentano che fuori c'è la Fiom».
Poi cominciò la risalita operaia, la riconquista di un'identità e della dignità calpestate impietosamente. Fu lungo il cammino, pagato a caro prezzo. Un giovane studioso, Andrea Sangiovanni, ricercatore di Storia contemporanea all'Università di Teramo, ha ricostruito con impeccabile attenzione e con un approfondito uso delle fonti le vicende di quei decenni tra repressione e grande immigrazione. Ne è uscito un libro importante, Tute blu. La parabola operaia nell'Italia repubblicana (Donzelli), con un'introduzione di Guido Crainz, che è insieme storia di una classe, storia del sindacato, storia dell'informazione, piccola storia di un intero paese dal dopoguerra alla rinascita degli anni Sessanta-Settanta, al terrorismo, alla nuova sconfitta segnata nell'autunno 1980 dalla marcia dei quarantamila alla Fiat.

La rinascita operaia, dopo il cupo dopoguerra, cominciò agli inizi degli anni Sessanta con un riuscito sciopero nazionale unitario e con la «rottura del silenzio operaio» alla Fiat dove nel 1962 sessantamila operai entrano in sciopero per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici superando paura e minacce.
In quegli anni l'informazione è assente o nemica. Con la naturale eccezione della stampa di sinistra e con la novità intelligente del «Giorno» di Italo Pietra che fa conoscere ai suoi lettori quel che bolle in pentola nel mondo operaio e ha una funzione importante nell'incrinare il panorama codino di bugie e di omissioni dei giornali «indipendenti». Certo, la cultura non è allineata. Scrittori come Volponi, Ottieri, Sereni, Davì, Bianciardi rompono con i loro libri la crosta del conformismo televisivo e dell'ubbidienza padronale, ma ci vuol altro, anche negli anni del miracolo economico, quando il clima del paese è mutato e il neocapitalismo non è più così rozzo come i vecchi padroni, per far sentire le voci subalterne, per dargli un'anima.

Poi la primavera del '68. La ribellione degli operai tessili di Valdagno e l'abbattimento della statua del conte Marzotto nella piazza del paese rappresenta un segno di grande rilievo: è lo specchio del «rigetto del capitalismo paternalistico e delle sue forme arcaiche di organizzazione sociale» e insieme rappresenta il rifiuto di uno sviluppo industriale fondato sui licenziamenti e sull'intensificazione dei ritmi di lavoro.
L'autunno caldo è un'altra grande chiave per capire il mutamento. Secondo i prefetti quel che accade allora in fabbrica è provocato dall'influenza del movimento studentesco. Le masse operaie sono considerate passive. Non è così. Gli studenti, sopravvalutati, mitizzano il compagno operaio. Gli operai sono spesso diffidenti e non hanno tutti i torti visto dove andranno politicamente a finire tanti leader e leaderini del movimento. Nelle fabbriche, tra scioperi selvaggi e cortei interni, salta il sistema autoritario. I tamburi di latta invadono le città dietro quei nuovi striscioni, «Agnelli e Pirelli ladri gemelli».

Tute blu è ricco di informazioni, di osservazioni, di giudizi, raccoglie preziose testimonianze con grande cura: forse sarebbero stati utili maggiori e costanti riferimenti al quadro politico nazionale.
Sangiovanni racconta correttamente quel che accade dopo le elezioni politiche del 1976: dal fervore operaio si arriva, attraverso bruschi traumi, all'apatia operaia, dalla volontà di dirigere tutto al chiudersi in fabbrica fuggendo la politica, dalla partecipazione all'assenteismo, dalla centralità operaia alla marginalità e alla perdita di un ruolo.
Il terrorismo fa regredire la società italiana di un tempo lungo. Tra gli operai, le posizioni e i giudizi sono diversificati. Vanno dal rifiuto all'equidistanza tra terrorismo di Stato e Br, dall'ambiguità alla partecipazione diretta. Sessanta operai Fiat scelgono la lotta armata, ma nelle grandi fabbriche il bacino del consenso non è così ristretto.
La sconfitta operaia del 1980 ha radici lontane e profonde. Non è l'organizzazione del lavoro, come negli anni Cinquanta, la causa primaria. Sono la crisi economica, piuttosto a portare il peso della responsabilità, la perdita di autorità sindacale, il disordine in fabbrica, la vendetta postuma del padronato che si ritorcerà sull'intera società, l'insopportabile stagione della strategia della tensione, i costumi delle nuove generazioni profondamente mutati, le speranze troppo a lungo coltivate e fallite.
Negli anni Ottanta, dopo aver toccato il limite sommo della sua espansione e della sua forza, quella operaia si trasforma così, da invincibile classe di marmo a «classe che non c'è più», come viene detto.


  28 luglio 2006