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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 27 luglio 2006


Senza tregua
apertura de
il Manifesto

Nessun cessate il fuoco. Il vertice di Roma si conclude con una semplice dichiarazione d'intenti: corridoio umanitario e ipotesi di una forza d'interposizione. Per gli Usa è prioritario disarmare Hezbollah: la Rice boccia la proposta di tregua. Insoddisfatta la Francia, Prodi si accontenta. Libano ancora in fiamme, Israele continua la sua guerra, ma cresce la conta dei soldati morti. Brucia anche Gaza


Intesa a metà
Barbara Spinelli su
La Stampa

La preoccupazione era particolarmente intensa, alla vigilia della conferenza sul Libano che il governo italiano ha organizzato ieri a Roma, ma quel che ha prodotto non è l'appello a una tregua immediata come alcuni - in particolare Beirut - speravano. Erano assenti a Roma i veri padroni della guerra, che sono Israele, Siria e Iran. C'erano alcuni Stati arabi, della cui amicizia il segretario di Stato Condoleezza Rice s'è ripetutamente vantata, ma del mondo arabo-musulmano mancava la componente ormai cruciale, non aggirabile: la componente sciita, che si riconosce nell'Iran di Ahmadinejad o nella maggioranza politica in Iraq. Su questa componente, i sunniti filo-occidentali che sono Egitto, Giordania, Arabia Saudita hanno poca influenza, se ce l'hanno.

Vista la natura devastante della risposta israeliana all'offensiva di Hezbollah è importante che i partecipanti alla conferenza abbiano deciso di aprire immediatamente corridoi per i soccorsi umanitari, e di predisporre una forza multinazionale sotto mandato Onu che aiuti l'esercito libanese a recuperare autorità lungo il confine con Israele, al posto delle milizie Hezbollah.

Il ministro degli Esteri D'Alema, nella conferenza stampa, è stato forse il meno dissimulato: «Pensare di ottenere subito il cessate il fuoco non era realistico», ha detto, aggiungendo tuttavia che nella dichiarazione congiunta si auspica con «massima urgenza» (utmost urgency) una tregua armata, e che gli sforzi per ottenerla devono - questi sì - essere «immediati».

L'accenno a pressioni dirette o indirette fa pensare che saranno contattati Iran e soprattutto Siria, puntando sulla sua diffidenza verso l'espansione sciita. E che saranno avvicinati gli stessi Hezbollah, tramite il presidente della Camera libanese Nabih Berri, che le milizie hanno scelto come portavoce e che appartiene al partito sciita moderato Amal. È interessante che proprio ieri Berri abbia dichiarato che una tregua è ottenibile, se l'Italia in qualità di mediatore faciliterà scambi di prigionieri. È l'ennesimo segno che gli europei pesano politicamente più di Washington, nel Medio Oriente in mutazione.

Molte cose rimangono nel vago ma non stupisce che sia così. In realtà, le tortuose manovre in corso indicano che una grande partita è cominciata a Roma, che ha come centro la guerra in Libano e che si svolge tra Europa, Stati Uniti, regimi arabi. Nessuno lo dice a chiare lettere, ma quello di cui si discute è il futuro del Medio Oriente, ed è un riesame critico delle strategie fin qui adottate, e oggi periclitanti, per stabilizzarlo. Nessuno lo dice, ma in discussione è il metodo non nuovo di risposta al terrorismo, che Israele e Stati Uniti hanno in mente anche quando parlano di Nuovo Medio Oriente.

Si tratta di capire se abbia senso continuare a risolvere i problemi soltanto con le armi e non anche - da parte israeliana - con la politica, i negoziati diretti, il ritiro dalle terre occupate. Ritiro sempre dilazionato, nel Golan reclamato dalla Siria oltre che in Cisgiordania, e applicato a Gaza e in Libano senza trattative con la controparte, unilateralmente, lasciando aperte ferite e dando l'impressione che i territori non siano mai integralmente riconsegnati. Territori che sono vera spina nel corpo d'Israele, come ha scritto ieri su Repubblica lo scrittore David Grossman.

Si tratta poi di fare un bilancio della politica americana, che può rivolgersi solo ad alcuni stati sunniti e che per il resto vede un monolitico asse del male (terrorismo dell'Iran e corrività della Siria, Hezbollah e Hamas, Libano che non controlla le proprie frontiere e Gaza-Cisgiordania dove non riesce a nascere uno Stato palestinese). È la strategia unilaterale ed è quest'idea monolitica delle minacce che oggi si frantumano, in America come in Israele, e che hanno costretto Israele a una guerra ormai davvero esistenziale, non più legata solo ai territori. È l'abitudine unilaterale che ha occultato agli occhi di Israele le ferite non medicate in Libano: le fattorie di Shebaah che Israele tuttora occupa, le mappe indicanti la collocazione delle mine anti-uomo che Beirut chiede invano da sei anni, le migliaia di prigionieri libanesi in Israele, detenuti spesso senza ragione. Il premier libanese Siniora ha affermato a Roma che una delle scuse addotte da Hezbollah è la liberazione non ultimata del Libano. Anche a Gaza è così, ed è importante che d'Alema abbia prospettato un dispiegamento di forze multinazionali anche lungo quel confine, oggi gestito da Israele.

Condoleezza Rice ha convinto tutti, alla conferenza, che il cessate il fuoco non può tornare alla situazione di ieri. Che devono esser create le condizioni perché la tregua sia «durevole, sostenibile, permanente»; che sia insomma un inizio di pace. Il che vuol dire: Israele non deve essere minacciato nel suo territorio, e il governo libanese deve esercitare quella sovranità minima che consiste nel controllare l'intero proprio territorio. È un progresso che tutti a Roma abbiano condiviso questa premessa, anche gli arabi. Ma molto resta da fare, per restaurare quel minimo di sovranità. Siniora ha lasciato intendere che Hezbollah non è solo una milizia: è parte politica, ha parlamentari e ministri, ha alleati fra cristiani e in patria è visto come il liberatore del Libano.



Il momento della chiarezza
Guido Rampoldi su
la Repubblica

Non era lecito attendersi miracoli da una conferenza internazionale cominciata mentre in Libano infuriava la battaglia più cruenta dall´inizio della guerra e Kofi Annan puntava su Israele il sospetto atroce d´aver ammazzato intenzionalmente quattro osservatori Onu. E considerati gli antefatti è anzi confortante che per la prima volta americani, arabi, europei, russi, convergano sommariamente sull´idea di schierare una forza multinazionale in Libano: ovvero d´internazionalizzare concretamente il conflitto arabo-israeliano. Che diventi possibile soccorrere la popolazione libanese con "corridoi umanitari". E che ci si applichi a inventare una procedura politico-militare per tentare di sedare la mischia in Libano. Ma ogni speranza di pace resta appesa ad eventi bellici in larga parte autonomi dalla politica, dunque condizionata all´andamento d´uno scontro militare molto più incerto di quanto calcolasse Israele all´inizio delle ostilità.
Per fermare questa deriva occorreva quel «cessate il fuoco immediato» proposto con tenacia da Kofi Annan e dal governo italiano, dagli europei, dai russi, dagli arabi con i toni più allarmati, insomma da tutti tranne che dagli Stati Uniti.
Condoleezza Rice non s´è lasciata convincere. L´amministrazione Bush vuole un cessate il fuoco «duraturo e sostenibile»: perciò non immediato. In altre parole le truppe israeliane avranno il tempo di concludere la loro offensiva con una vittoria comunque limitata, non avendo la possibilità reale di smantellare l´arsenale missilistico di Hezbollah. Secondo la scuola ottimista, in capo ad alcune settimane vi sarebbero le condizioni per una tregua definitiva. Nel frattempo si cercherà di convincere la Siria ad ammorbidire la milizia sciita. Nella migliore delle ipotesi Israele avrebbe indietro i suoi due soldati rapiti, ufficialmente senza contropartita; e il Libano alcuni chilometri quadrati di territorio sul confine conteso, le fattorie di Shebaa, tuttora occupati da Tsahal. Ma ogni settimana di combattimenti renderà più problematico un armistizio, e più complicata la soluzione della questione-chiave: come togliere ad Hezbollah i suoi missili, e con quelli il sogno della vendetta, della guerra finale, della marcia su Gerusalemme che quei guerrieri agognano da una vita.
«E´ arrivato il momento della chiarezza», aveva detto due giorni fa il presidente Bush. E´ stato un buon profeta: anche la Conferenza di Roma ha offerto un contributo alla verità. L´opposizione della Rice ad un cessate il fuoco immediato ha lasciato la Segretaria di Stato nella condizione solitaria in cui vagola l´amministrazione americana dopo cinque anni di "guerra al terrore". Alle spalle Washington non ha più neppure i "volenterosi" che la seguirono in Iraq (a parte il governo Blair, però di nuovo diviso); e gli arabi moderati non se ne fidano.

Pragmatici fino al cinismo, gli europei non hanno di questi impacci. E per quanto marcino come al solito alla spicciolata, ciascuno con la sua ansia di visibilità, cominciano a capire che le sorti del Medio Oriente, e il destino dell´Occidente, non possono essere lasciati nelle mani d´un governo di così limitata credibilità come l´amministrazione Bush.
Dichiarandosi disponibili a partecipare ad una forza multinazionale con Paesi quali la Turchia o l´Egitto, almeno in teoria accettano i rischi politici e militari d´una presenza in Medio Oriente non subalterna agli Stati Uniti. Inevitabilmente è un´accettazione con riserva, non essendo affatto chiaro quale possa essere il mandato e l´autonomia di questa forza multinazionale, se cioè la si vorrebbe impegnare in un ruolo ancillare (o in una missione suicida, disarmare Hezbollah con la forza). Però quest´Europa comincia a capire che non può fuggire dalle responsabilità cui la chiama la crisi mediorientale. Non ultima la sicurezza d´Israele.
Anche per Israele è un momento di chiarezza, come direbbe Bush. Il vantaggio strategico che lo Stato ebraico ha sui suoi nemici, in definitiva la principale ragione per la quale è ancora sulle mappe, non è più incolmabile. Vediamo in questi giorni una milizia ben armata (dall´Iran) inchiodare l´esercito di Tsahal sul confine con il Libano.

Inoltre l´Iran ha fornito ai suoi alleati anche missili tecnologicamente avanzati, e molti altri ancora ne potrebbe inviare. La facilità d´accesso alla tecnologia missilistica cambia radicalmente le cose. Neppure le sue cento atomiche sono oggi per Israele una salda assicurazione sulla vita. Tanto più se domani anche l´Iran di Ahmadinejad divenisse una potenza nucleare.
Anche per questo la provocazione di Hezbollah richiedeva dal vertice israeliano una reazione improntata a ben altra consapevolezza e duttilità politico-militare. Invece Israele s´è infilata in una guerra di cui è difficile intendere il senso. Ed è questo, l´insensatezza, che ne rende colpevole la brutalità.
Almeno all´inizio Israele ha bombardato il Libano affinché il governo di Beirut, pur di sottrarre la popolazione ai colpi, mandasse l´esercito a disarmare Hezbollah.

Eppure potremmo considerare perfino "normale" la reazione d´Israele se almeno il disarmo di Hezbollah fosse nelle possibilità reali di Beirut. Ma così non è. Hezbollah ha una forza militare sufficiente a tenere testa al piccolo esercito libanese, nei cui ranghi peraltro gli sciiti sono parte rilevante.

Forse potrà essere negoziato con i buoni uffici della Siria, da cui arrivano i rifornimenti alla milizia sciita. Ma anche il coinvolgimento siriano andrebbe negoziato. E´ comprensibile che Israele non si fidi di questi bazar mediorientali in cui la parola data vale quella d´un mercante di tappeti. Ma ancor meno dovrebbe fidarsi di quei suoi falsi amici che da comode poltrone l´incitano a guerreggiare, non essendo loro a giocarsi la pelle e il futuro.


Il primo passo di un percorso
Medio Oriente, il bilancio di un summit
Franco Venturini sul
Corriere della Sera

Non erano attesi miracoli, ma qualche concreto progresso sì. Si sperava che la conferenza romana sulla crisi israelo-libanese mettesse in cantiere (non proclamandola, dal momento che erano assenti le parti belligeranti) una tregua d'armi umanitaria, come aveva invocato Prodi. Appariva possibile una migliore definizione di quella forza internazionale che ormai tutte le parti accettano, come aveva chiesto Kofi Annan. Si puntava a un chiarimento della posizione Usa, magari con l'impegno di Condoleezza Rice a premere su Israele mentre altri premevano su Siria e Iran.

A conti fatti, invece, il bilancio del vertice risulta sfumato nel tempo: l'impegno a «lavorare immediatamente» per una tregua che non viene immediatamente chiesta, quello a moltiplicare le iniziative umanitarie, l'incarico all'Onu di discutere lo spiegamento di una forza multinazionale, la determinazione comune a far applicare la risoluzione 1559 che prevede il disarmo di Hezbollah, sono altrettanti tasselli di una strategia progressiva, di un «formato» di collaborazione che D'Alema ha definito più realistico di altisonanti quanto inefficaci appelli.

Ora che sull'incontro della Farnesina è calato il sipario, dunque, occorrerà attendere per verificare i suoi veri risultati. Partendo dal successo di prestigio che l'Italia ha comunque ottenuto ospitandolo a Roma, ma partendo anche da qualche altra indicazione meno positiva.

Non si respira ancora, insomma, un clima di comunanza strategica. E può essere utile, anche per meglio comprendere quanto sia stato arduo e meritorio lo sforzo diplomatico compiuto a Roma, ricordare che sullo sfondo del conflitto Israele- Hezbollah prende sempre più corpo un confronto globale in Medio Oriente strettamente imparentato all'irrisolta tragedia irachena. Da un lato l'Iran, sciita come Hezbollah e impegnato nei suoi programmi nucleari, tenta di affermarsi come potenza regionale. Dall'altro Washington vuole non soltanto fermare Ahmadinejad e i suoi alleati (salvando, però, gli sciiti dell'Iraq), ma punta anche, con stile più multilaterale e minore fede nell'«esportazione della democrazia», a un nuovo Medio Oriente che garantisca sicurezza a Israele ed energia all'Occidente. Un asse sciita contro un asse israeliano-americano che spera nell'appoggio dei sunniti.

La conferenza di Roma ha mostrato quanto l'equazione sia fragile e complicata. Ma un primo passo è stato compiuto, e proprio l'eccezionalità dei problemi da affrontare ne sottolinea la valenza. Almeno potenziale.


Ecco l'archivio segreto del Sismi
Il materiale sequestrato negli uffici di Pio Pompa. E lo 007 al telefono parla dei politici amici e nemici di Pollari
Sommari de
Corriere della Sera

Carte su capo della polizia, Telecom, magistrati e giornalisti
Dossier contro il capo della Polizia, schedature personali di molti magistrati milanesi, decine di fascicoli «riservatissimi» su Abu Omar e sul Nigergate, centinaia di «veline» per i giornalisti amici, false contro- informazioni per screditare i cronisti considerati «nemici». È il contenuto dell'archivio segreto scoperto nella casa- ufficio di Pio Pompa, in via Nazionale a Roma, accumulato dal funzionario del Sismi (sotto inchiesta per favoreggiamento), braccio destro del direttore Nicolò Pollari, a sua volta indagato come mandante italiano del sequestro di Abu Omar. Nei dossier la conferma che erano spiate anche aziende, in particolare il gruppo Pirelli-Telecom.
Al telefono, intercettato per un mese tra maggio e giugno, Pompa parla anche dei politici favorevoli o contrari a Pollari.


L'indulto passa alla Camera con 460 voti. Di Pietro protesta
Sommari de
l'Unità

L'indulto passa alla Camera con una maggioranza bulgara: 460 sì, 94 no. D'altronde sono necessari i 2/3 dei voti perché un provvedimento di clemenza diventi legge. E così i compromessi sono necessari, anche se Di Pietro continua a gridare allo scandalo


Indulto
Gian Carlo Caselli su
l'Unità

Miracolo o inciucio. Se Brutti e Pecorella, Pisapia e Cicchitto son d'accordo su un rilevante tema di giustizia, non vedo alternativa: o miracolo o inciucio, appunto. Il dilemma si pone per il recente disegno di legge sull'indulto. Per provare a scioglierlo, conviene partire da un dato di fatto: l'assoluto stato di necessità in cui versano le carceri italiane.
Il sistema giustizia fa acqua da tutte le parti, i processi sono sempre più lenti e barocchi, ma le carceri sono sempre più piene. Negli ultimi 15 anni siamo passati dai 25.804 detenuti del 31 dicembre 1990 ai circa 61.000 detenuti di oggi. Di questi, il 33% circa sono stranieri ed il 27% circa tossicodipendenti. A fronte di questa situazione, l'obiettivo da porsi è qualcosa di meglio della repressione e del diritto penale. Nel senso che il consumo degli stupefacenti si può affrontare più utilmente nell'ambito della tutela della salute che in sede di repressione. E nel senso che il diritto penale è strutturalmente inidoneo a governare - come invece si vorrebbe che facesse - fenomeni sociali epocali come le migrazioni. C'è dunque uno stato di necessità, per così dire, strutturale, legato al fatto che il carcere è sempre più “discarica sociale” piuttosto che luogo di possibile rieducazione. Con negative conseguenze anche sulla sicurezza dei cittadini, perché un carcere che non prova neanche a rieducare è un carcere che non fa nulla per ridurre la spirale perversa della recidiva che produce sempre nuova insicurezza. Questo stato di necessità strutturale si intreccia inestricabilmente con uno stato di necessità contingente, di tipo logistico (a ben vedere un problema di civiltà), derivante dal sovraffollamento delle carceri. Se mancano circa 20.000 “posti branda”, mancano persino gli spazi fisici (aule, laboratori...) per qualunque tentativo di recupero. E alla privazione della libertà si aggiunge una sanzione (che non sta scritta in nessun codice) consistente nell'inciviltà dell'esecuzione della pena detentiva.
Impossibile lavarsene le mani, di questo doppio stato di necessità. Intervenire per decongestionare l'insostenibile situazione carceraria (creando nel contempo i presupporti per una riforma organica del sistema penale) è perciò cosa buona e giusta, responsabile e seria. Ma se qualcuno profitta dello stato di necessità per infilarci la soluzione di casi particolari, ecco che i problemi si complicano. Nella pretesa di estendere l'indulto ai reati finanziari e di corruzione (altrimenti di indulto manco a parlarne!) si può vedere il tentativo di strumentalizzare la sofferenza di migliaia di detenuti per ottenere benefici anche per altri soggetti, quei “colletti bianchi” che già beneficiano del fatto che il nostro sistema penale si caratterizza ormai per la compresenza di due distinti codici: uno per i cittadini “comuni” e l'altro per i “galantuomini” (cioè le persone giudicate, in base al censo, comunque per bene...); “galantuomini” che a volte pretendono addirittura di essere liberati da ogni regola mediante condoni o leggi “ad personam”. Ora, appoggiarsi ad un problema di carattere generale (la situazione delle carceri) per farne la sponda utile a risolvere un problema di pochi (si calcola che siano un'ottantina i “colletti bianchi” in espiazione di pena, oltretutto quasi sempre “extra moenia”, cioè fuori del carcere), non è come legiferare brutalmente “ad personam”, ma è espressione di una logica che appare contigua, apparentata a quella che nella passata legislatura ha prodotto proprio un susseguirsi tale di leggi “ad personam” da mettere a rischio lo stesso equilibrio istituzionale.
Ed ecco il dilemma: il riaffiorare, sia pure per vie indirette, di logiche siffatte è un prezzo accettabile, perché senza subirlo sarebbe impossibile risolvere il grave stato di necessità di cui si è detto? Oppure si tratta di uno strappo troppo profondo per consentire un bilanciamento, alla fin fine tollerabile, di esigenze tutt'affatto diverse? Chi pensa nel primo modo, potrebbe parlare di (mezzo) miracolo. Chi preferisce il secondo parlerà di (mezzo) inciucio. Spetta alla coscienza di ciascuno scegliere. Come nel caso dell'articolo 416-ter del Codice Penale (scambio elettorale politico-mafioso) emerso da ultimo nel dibattito parlamentare.


Cattivi Pensieri
Adriano Sofri su
l'Unità

Forse a Furio Colombo dispiacerà di aver suscitato in me, con il suo articolo di ieri («Lettera a Israele»), un pensiero scandaloso sulla sinistra italiana di oggi. Colombo tratta lealmente della propria vicinanza a Israele (da me essenzialmente condivisa) e dell'«altro giornale», rappresentato soprattutto dalle lettere dei lettori, univocamente e accanitamente ostili a Israele. Il problema è rivelatore e delicato: è ben amaro che si sia arrivati, in Italia, al capovolgimento per cui nella sinistra alligna, non solo la legittima e spesso motivata critica alla politica del governo israeliano, ma uno spirito aggressivamente e pregiudizialmente antisraeliano.
Mentre la destra discendente dal peggior antisemitismo tiene a mostrarsi come la più fervida amica e solidale di Israele.
Il paradosso ha radici antiche, che ora non occorre ripercorrere. Voglio piuttosto indicare - è l'associazione di idee che forse vi parrà scandalosa - un parallelo con ciò che succede attorno a questioni come la pace, la guerra e la polizia internazionale, e come l'indulto e la giustizia. Mi è meno difficile argomentarlo grazie alla (malaugurata) coincidenza di questi problemi in un unico e arrischiato passaggio parlamentare. Le lettere antisraeliane citate da Colombo trovano un corrispondente esatto nelle lettere sull'indulto, e in quelle sulla missione in Afghanistan. Sulla Repubblica, giornale cui mi lega una forte simpatia, la consultazione fra decine di migliaia di lettori sul tema dell'indulto ha visto una maggioranza plebiscitaria (superiore addirittura al 96 per cento) contro l'indulto. Nel qual caso la sinistra in cui io credo è in una minoranza del 3 per cento. Ora, non credo affatto che la mia posizione sull'indulto sia legata, se non in minima parte, alla mia più o meno disgraziata esperienza personale: esattamente come la mia solidarietà per Israele, esattamente come la mia avversione radicale alla guerra e il mio favore appassionato per la polizia internazionale. La mia sinistra trova una connessione stretta fra questi temi - e su altri. Del resto, che il nesso non sia casuale, lo mostra il disagio in cui viene ogni volta di nuovo a trovarsi la classe dirigente (uso il concetto così all'ingrosso) della sinistra: ostaggio apparente di una contestazione “popolare” delle proprie scelte - e di singoli e gruppi capaci e felici di esercitare un irresponsabile diritto di veto.

Resto brevemente all'indulto, avvertendo che scrivo mentre ascolto alla radio la discussione alla Camera, senza sapere come si concluderà, e paventando il peggio: essendo per me il peggio la frustrazione della speranza di decine di migliaia di miei simili boccheggianti nelle celle della Repubblica. I contestatori metodici dell'indulto, capaci di mobilitare il “popolo dei fax” e delle mail e delle lettere (assai meno, come si è visto, e meno male, le persone in piazza), hanno evocato argomenti falsi, e, peggio ancora, ne hanno taciuti altri. Hanno proclamato che mai i reati finanziari e quelli contro la pubblica amministrazione erano stati inclusi nelle misure di clemenza: era falso. È comprensibile che possano esserne ignari profani come me, o come Eugenio Scalfari: non lo è per magistrati in servizio o in carriera politica, nè per trascrittori e portavoce abituali di documenti giudiziari. In particolare, quei reati non furono esclusi nel 1989-90, quando l'ultimo ampio provvedimento di clemenza, per farsi perdonare, scelse di bruciarsi i vascelli alle spalle, deliberando che d'allora in poi occorresse, per ogni misura di clemenza, la maggioranza introvabile dei due terzi. Osservo che quei vascelli alle spalle degli autoassolti erano delle galere, e ai remi erano incatenati i famosi poveri cristi che da allora, per più di quindici anni, sperarono invano in un alleviamento delle loro condizioni sempre più disumane, fino alla condizione attuale, coi detenuti più che raddoppiati. Un'altra piccola notizia i contestatori sdegnati si erano dimenticati di fornire: che Cesare Previti non è in carcere, che Cesare Previti non ci andrà mai più, che è agli arresti domiciliari in una casa (senz'altro confortevole: un attico di 250 metri quadrati, ho letto, per l'esattezza) in una delle più belle piazze romane, che può uscire due volte al giorno per quattro ore, e che dunque, quand'anche - come non è detto - l'applicazione dell'indulto gli offrisse l'affidamento in prova ai servizi sociali, la sua situazione non cambierebbe molto, e che infine nessun indulto lo libererebbe dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Che dunque l'indignazione sul ricatto di Forza Italia in pro di Previti è fuori tempo, e largamente pretestuosa e demagogica.



I Masaniello delle corporazioni
Alberto Statera su
la Repubblica

Baffi e pizzetto nelle immagini d´epoca napoletane del 1647, baffi e pizzetto oggi a Roma sotto il sole che cuoce e gli elicotteri che frullano in cielo per Condoleezza Rice e Kofi Annan, ma anche per le corporazioni in rivolta. Guarda, guarda è proprio lui, è Masaniello che, luciferino, saltabecca scalmanato alla testa della protesta "plebea" dei panificatori a Montecitorio e di quella "borghese" dei farmacisti sotto il ministero dello Sviluppo Economico. Ignazio La Russa, dignitario di Alleanza Nazionale, avvocato di vecchia stirpe meridionale trapiantata a Milano e assai ben incistata nel mondo degli affari siculo-lombardi, è anche fisicamente una specie di clone di Tommaso Aniello, detto Masaniello, quando, lasciati i panificatori, che contano poco in ragionieria lobbistica e che sembrano più ragionevoli dei dottori, corre tra un migliaio di camici bianchi in sciopero.
E alla loro testa marcia ad assediare il ministero di Pierluigi Bersani, ex presidente della regione più rossa d´Italia, oggi deregolatore e liberalizzatore della più bell´acqua, un mix imprevedibile di Einaudi e Tocqueville.
Sono tanti, sono arrabbiati i farmacisti, ma, nonostante gli sforzi, non ricordano la classe operaia in marcia di Pellizza da Volpedo, né i tassisti che una settimana fa protestavano a piazza Venezia, a Linate e alla Stazione Centrale di Milano. Meno muscoli oggi, più abbronzature da spiaggia, più "Rolex submarine" e "push up La Perla" sotto i camici delle dottoresse.
Lui, La Russa-Masaniello, è lì in mezzo, saltellante come l´antico capopopolo napoletano, questa volta a tentare di rubare la scena al suo camerata Gianni Alemanno, ala sociale di Alleanza Nazionale, più propenso alle corporazioni "basse", come quella dei tassisti, che a quelle "alte", più "operaio" e meno "borghese". Qualcuno tra gli scioperanti - 35 gradi all´ombra - quatto quatto, piega il camice, rifà il nodo della cravatta e svicola verso "Tullio", celebre trattoria di qualità, o verso il guardiaporte gallonato dell´"Aleph", un "Boscolo Luxury Hotel", proprio lì a dieci metri, aria condizionata a manetta, colazione leggera, carta dei vini bianchi di prim´ordine.
La rivolta "borghese" di piazza ha un che di inverosimile, se vogliamo di grottesco. Basta leggere i cartelli. Ma chi fa lobby per questi? Possibile che gli strateghi della Federfarma, che costerà milioni di euro all´anno, siano così ingenuamente insulsi. Allora viva i tassisti, che danno la linea, che nelle settimane di protesta, quando non hanno menato le mani, hanno prodotto anche slogan pregevoli.

Da dottori a commessi di supermercato, Bersani ce lo potevi dire prima di farci laureare».
Ecco uno dei punti centrali della vertenza, la "sindrome del dottore", che si aggiunge a quella - quasi sempre prevalente - del timore per il portafoglio, che sul cuore dei farmacisti spesso riposa. Ce la spiega con efficacia Vittorio Sgarbi, eclettico critico d´arte o non sapremmo come altro definirlo, ma figlio di farmacisti di provincia: «Ho parlato con mio padre Giuseppe che, con quattro parole, mi ha riassunto la questione: il farmacista è come un sacerdote che dice messa, se lo mettiamo nei supermercati diventa un commesso e perde tutta la sua sacralità». Capito? Migliaia di laureati che non hanno la fortuna di avere un babbo speziale e una farmacia di famiglia possono rimanere disoccupati perché se no i membri della corporazione devono condividere il sacerdozio e perdono la loro sacralità.

Poi c´è la questione delle multinazionali, che tutti i "liberalizzati", dai tassisti ai banchieri, dagli assicuratori ai panificatori, indicano come la peste prossima ventura, che - secondo loro - devasterà le membra di quest´Italia, in realtà un´Italia da "Medioevo istituzionale", come l´ha definita Sabino Cassese, nella quale "il cittadino ha un posto secondario", salvo che non appartenga a una delle trenta professioni amministrate dallo Stato attraverso gli Ordini. Pochi grandi gruppi che con economie di scala conquistano il mercato e fanno fuori le corporazioni protette dagli Ordini. Ma, ammesso che sia così - e fortemente ne dubitiamo - al cittadino senza Ordine cosa importa se è servito meglio e risparmia ?
Trenta professioni, secondo il censimento del professor Cassese, ma quella dei farmacisti negli ultimi mesi ha goduto della massima attenzione - non proprio benevola - del dottor Antonio Catricalà, presidente dell´Autorità Antitrust, autore di un´"Agenda liberalizzazioni" nutrita quanto quella del professor Francesco Giavazzi. Tra i tanti pareri sul mercato dei farmaceutici firmati da Catricalà, sentite questo, che spiega semplicemente uno dei noccioli del problema: «L´Autorità ritiene improcrastinabile la liberalizzazione della vendita dei farmaci di automedicazione, consentendone la commercializzazione anche presso i punti di vendita della distribuzione organizzata. Infatti, una volta che nel punto vendita vengano garantiti un adeguato spazio a questi prodotti e l´eventuale assistenza informativa alla clientela, l´ampliamento del numero dei punti vendita di questi farmaci determinerebbe un aumento della concorrenza e quindi un forte incentivo per le farmacie a praticare sconti sul prezzo di questi farmaci».



  27 luglio 2006