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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 24 luglio 2006


L'Unione
Antonio Padellaro su
l'Unità

Il ferimento in Libano del capitano Roberto Punzo, in missione per conto dell'Onu spiega di per sé le difficoltà, sul campo, di un intervento multinazionale accettato anche da Israele ma rifiutato da Hezbollah. Le parole sono una cosa, le bombe un'altra. L'Italia assume dunque un ruolo centrale nella ricerca della tregua (pace è parola troppo impegnativa). Prodi, però, ha anche altro a cui pensare (il pendolo dell'Unione). C'è incertezza se mettere o no la fiducia sul rifinanziamento della missione in Afghanistan. I nove dissenzienti vincolano ad essa il loro sì, ma il presidente del Senato Marini esprime parere contrario. Il suo ruolo istituzionale gli fa auspicare l'apertura di un dialogo tra maggioranza e opposizione sulla politica estera. Un voto aperto, quindi, e non la fiducia al governo che la Cdl non potrebbe certo sottoscrivere. Prodi, tuttavia, continua a temere (a causa dei nove) di finire sotto e, probabilmente, fiducia sarà. C'è poi l'indulto. Il ministro Di Pietro annuncia che così non lo vota, e se non gli vengono incontro la corda si spezza. Le carceri scoppiano, ammette, ma perché inserire tra i reati anche quelli fiscali, finanziari, societari e contro la pubblica amministrazione? Attualmente in galera per cose del genere ci sono 78 persone. E allora qual è lo scopo: svuotare le carceri o non farci andare i furbetti del quartierino (e liberare Previti)? Difficile non essere d'accordo se non fosse che per approvare l'indulto occorre la maggioranza dei due terzi del Parlamento. Servono quindi anche i voti di Forza Italia che, fedele al suo dna, senza il colpo di spugna non ci sta. Come se non bastasse, il ministro della Solidarietà Ferrero (Rifondazione) prevede per il governo di cui fa parte rischi concreti di crisi se la Finanziaria dovesse toccare la spesa sociale. Piccola domanda che formuliamo all'Unione, certi che andrà tutto per il meglio: su cosa siete d'accordo?


Alla Camera si cerca l'accordo su l'indulto. Il prezzo è Previti
sommari de
l'Unità

È iniziata in aula alla Camera la discussione sulla proposta di legge per l'indulto. Malumori sia nella Casa delle Libertà (no da Lega e An) che nell'Unione, con Di Pietro che minaccia di uscire dal governo. La ragione è semplice: per garantire il quorum dei due terzi Forza Italia chiede l'inclusione dei reati finanziari. Ovvero di Cesare Previti.


Un ricatto in nome di Cesare Previti
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

Debbo confessare che il Di Pietro capo di partito non incontra le mie simpatie. Non mi piace la sua squadra. Non mi piace affatto quel suo subdolo personaggio che è andato a fare il presidente della commissione Difesa della Camera con i voti del centrodestra. Diciamo insomma che non sono un fan dell'ex procuratore di Mani pulite.

Ma dichiaro che condivido invece al cento per cento la posizione di Di Pietro sul provvedimento di indulto preparato dal ministro della Giustizia, sul quale la Camera discute oggi e probabilmente voterà domani. Sono molto stupito che quel provvedimento abbia il sostegno di tutti i gruppi del centrosinistra, compresa quella sinistra radicale che spacca il capello in quattro sulla necessità che il governo sia "discontinuo" rispetto alla politica e alla legislazione ereditate da Berlusconi.

Il problema di questo indulto è chiarissimo: il centrosinistra è favorevole all'amnistia ma non riesce ad ottenere la maggioranza qualificata che la legge richiede.

Allora ripiega su un indulto diminuendo di tre anni le pene comminate a tutti i responsabili di reato salvo alcune categorie ritenute di particolare gravità. I reati esclusi dall'indulto sono nel disegno di legge Mastella quelli di natura mafiosa, quelli riguardanti la pedofilia e i reati di terrorismo interno e internazionale. In tutti gli indulti che sono stati approvati in precedenti occasioni (come pure in tutte le precedenti amnistie) sono stati sempre esclusi dai provvedimenti di clemenza i reati di corruzione e di concussione commessi contro la pubblica amministrazione. Invece nel provvedimento Mastella - e per la prima volta nella nostra legislazione - questi reati beneficeranno della clemenza approvata dal Parlamento. Di qui il rifiuto di Di Pietro di votare in favore e di qui anche la nostra concordanza con la sua posizione.

La verità che sta dietro all'estensione dell'indulto ai reati di corruzione e concussione contro lo Stato è presto detta: senza quell'estensione i voti di Forza Italia verrebbero a mancare e quindi non si raggiungerebbe il "quorum" necessario. Mastella e la maggioranza di centrosinistra si sono trovati di fronte a questa "impasse"; per superarla hanno trangugiato il rospo.

Il rospo, tra l'altro, ha un nome abbastanza ostico: si chiama Cesare Previti. Previti deve scontare cinque anni per una sentenza passata in giudicato. Con l'indulto la pena si riduce a due anni per i quali sono previsti provvedimenti alternativi come l'affidamento ai servizi sociali.

Il problema Previti ha rappresentato una spina costante per Forza Italia, che ha cercato di liberarsene in tutti i modi. Soprattutto con un'aggressione continua e durata un decennio intero contro la magistratura italiana nel suo complesso e quella milanese in specie e con leggi "ad personam" che hanno rappresentato una delle più umilianti stagioni politiche del Parlamento italiano.

Nonostante questi innumerevoli tentativi di manipolare e impedire l'azione della giurisdizione, l'obiettivo è stato raggiunto solo in parte; una condanna c'è stata, un reo è stato assicurato alla giustizia. E come lui parecchi altri in analoghe condizioni.

Ora l'indulto che il centrosinistra propone oggi alla Camera, con l'accordo di Forza Italia, realizzerà ciò che non era riuscito al governo Berlusconi. Di più: le persone responsabili di reati contro la pubblica amministrazione sono in tutto sessantasette; un numero esiguo che non contribuirà in nessun modo a quello sfoltimento della popolazione carceraria che è l'intento principale del provvedimento di clemenza.



Per i reati economici nessuno sconto
Vittorio Grevi sul
Corriere della Sera

Partiamo pure dalla premessa che un provvedimento di indulto non sia più procrastinabile. Troppi sono stati i preannunci, sebbene non sempre in linea con il programma della maggioranza di governo; troppe le fughe in avanti.
Troppe le attese suscitate nell'universo carcerario, perché la prospettiva dell'indulto possa ancora una volta vanificarsi. D'altro canto, l'enorme sovraffollamento delle carceri (oltre 61 mila detenuti, cioè più di 15 mila eccedenti la capienza ordinaria) costituisce una circostanza di risalto oggettivo, l'unica di per sé idonea a giustificare l'indulto come una sorta di «male minore» necessario.
Detto questo, tuttavia, c'è modo e modo di impostare un provvedimento di indulto. E quello risultante dal progetto approvato dalla commissione Giustizia della Camera — su cui si comincerà a discutere domani nell'aula di Montecitorio — appare ispirato a certi criteri di larghezza non sempre apprezzabili.
Soprattutto se lo si confronti con il corrispondente testo unificato predisposto nello scorso gennaio, e rimasto senza esito, pur avendo raccolto il consenso di una larga area trasversale.
Come sempre il problema più importante riguarda l'individuazione dei reati esclusi dal beneficio, tanto più in relazione a un indulto esteso alle pene detentive fino a tre anni (due anni era, invece, il tetto massimo previsto dall'ultimo indulto, quello del dicembre 1990). Nel progetto varato dalla Commissione Giustizia si escludono, infatti, i delitti più gravi, a partire ovviamente da quelli di criminalità organizzata e terroristica; ma tra questi non sono compresi delitti di forte allarme sociale, come le rapine e le estorsioni aggravate, o come l'usura. Il che fa molto pensare, tenuto conto degli effetti che potrebbe produrre l'improvvisa scarcerazione di qualche centinaio di condannati per tali reati, molti dei quali purtroppo torneranno presto a delinquere, come l'esperienza insegna.
Tra i reati non compresi nella lista delle esclusioni dall'indulto vi sono, inoltre, tutti i delitti contro la Pubblica amministrazione (peculato, concussione, corruzione, ecc.) nonché i delitti di natura economica, finanziaria e societaria, diversi dei quali emersi (anche) nelle recenti vicende di disastri economici e di fallimenti di grandi imprese, che tanti danni hanno recato al mercato e ai risparmiatori. Che questi delitti non siano stati esclusi dall'indulto non è un buon segno, per chi ancora creda nei valori della «questione morale»: tanto più essendo piuttosto pochi i condannati detenuti per simili reati, al punto da non incidere sulla finalità deflattiva dell'indulto.

Un ultimo rilievo concerne la prevista operatività dell'indulto anche nei riguardi delle pene accessorie temporanee, conseguenti alle condanne per reati, cui sia stato applicato il beneficio. Se la finalità dell'indulto è quella di deflazionare le cifre esorbitanti della popolazione detenuta, infatti, davvero non si capisce perché esso debba estendersi anche alle pene accessorie. E a maggior ragione quando si pensi che queste ultime (come l'interdizione dai pubblici uffici o dall'esercizio di una professione, ecc.), sono in molti casi le più utili ed efficaci, in vista della prevenzione di nuovi reati.
Le carceri affollate giustificano il «male minore» necessario Non si capisce perché l'iniziativa debba includere le pene accessorie


Genova, 5 anni dopo
Il G8 dei segreti inesistenti e il G8 del senso comune. Pietà per Carlo Giuliani. Ma che cosa c'è ormai da scoprire nella sequenza di fatti di Piazza Alimonda?
Pierluigi Battista sul
Corriere della Sera

M a davvero c'è qualcosa di essenziale ancora da scoprire? Grava ancora l'ombra fitta del mistero, del silenzio, dell'omertà criminosa su quella scena tragica di Piazza Alimonda, luglio 2001, quando morì Carlo Giuliani durante l'inferno di Genova, ospiti i grandi della Terra per il vertice del G8? C'è urgente bisogno di una Commissione d'inchiesta parlamentare, come viene imperiosamente chiesto da Rifondazione comunista malgrado i dinieghi di Luciano Violante? Bisogna «fare piena luce» sulla morte di Giuliani, come invoca il Diario? «Il caso è aperto», come sostiene il manifesto, anche se la pratica giudiziaria è stata archiviata nel 2003? «La democrazia di questo Paese», come sottolinea con enfasi Liberazione, ha vitale necessità di rimuovere colpevoli non ancora individuati, responsabili ancora coperti, mandanti ancora non identificati? E se invece non ci fosse proprio niente da illuminare, perché mai un episodio tragico come questo si è dipanato sotto la luce di tanti riflettori, immortalato da innumerevoli flash, fissato e memorizzato da una quantità impressionante di videocamere e cineprese?
Resta, di ciò che accadde a Genova cinque anni fa, la vita stroncata di un giovane, il dolore immedicabile dei genitori, l'infelicità del carabiniere che ha premuto il grilletto e che nel ricordo schiacciante di quelle ore è uscito di senno, le brutalità notturne della polizia nella scuola Diaz, le sevizie ingiustificabili nella caserma di Bolzaneto. Ma resta anche, impressa nella memoria del finimondo di una città intera che venne devastata e saccheggiata, una sequenza causale e fattuale confermata dalle migliaia di foto e di immagini riprese da ogni angolatura possibile, da ogni punto di vista, da ogni postazione, da ogni prospettiva, da ogni strumento di rilevazione, audio o video che fosse. La sequenza, sempre la stessa, di un poderoso gruppo di manifestanti con caschi, tute, scudi, passamontagna, bastoni, spranghe, bottiglie che si avventa su una camionetta isolata; di un giovane con la canottiera bianca, il viso coperto da un passamontagna che si china per raccogliere un estintore e poi tenta di scagliarlo contro un autoblindo intrappolato; la sagoma di una pistola all'interno della camionetta e i colpi esplosi da un giovane in divisa preda del terrore più cieco, in balìa del panico, del fumo tossico, delle urla di chi lo sta circondando. Che cosa c'è da scoprire? Quale perizia balistica, quale sofisticato strumento d'indagine potranno mai smentire (o alterare nella sostanza) questa sequenza così macroscopicamente evidente? Quale mistero ha potuto avvalersi, con foto e video di ogni tipo, di testimonianze tanto numerose, convergenti, dettagliate?



Il giallo del suicidio, i veleni
e un'inchiesta troppo lenta
Adamo Bove era convinto che volessero incastrarlo. Indiscrezioni lo accusavano di aver trafugato tabulati.
Giuseppe D'Avanzo su
la Repubblica

INDIFFERENTE è il governo, distratta la magistratura, spensierata l'informazione, mentre si combatte - intorno alla Telecom e al Sismi - un'inesorabile contesa con la minaccia, il ricatto, la menzogna che afferra e discredita. Il conflitto ha già fatto un morto: Adamo Bove, manager della Telecom, saltato giù da un viadotto della Tangenziale di Napoli (s'indaga per istigazione al suicidio). Se la logica ha un senso, Adamo Bove potrebbe non essere l'ultimo. La resa dei conti, sotto gli occhi di tutti, è cruenta. Chi è intimidito da due inchieste giudiziarie che si intersecano e sovrappongono (le intercettazioni abusive alla Telecom; il sequestro di Abu Omar che coinvolge il Sismi) invoca l'impunità coinvolgendo (o minacciando di coinvolgere) chi ancora ne è fuori, a torto o a ragione. Chi ne è fuori, magari nel passato complice, manovra per tenere le attenzioni investigative, e tutti i guai, soltanto intorno agli spaventati. Ne nasce un gomitolo dove si aggrovigliano molti filacci, più storie, il controverso destino di tre uomini, oggi con l'acqua alla gola ma con un nodoso bastone stretto ancora tra le mani: ciò che sanno, quel che possono raccontare.

Gli uomini sono tre. Giuliano Tavaroli, nel tempo capo della Security di Pirelli e Telecom dove ha avuto ai suoi ordini 500 uomini; Marco Mancini, fino all'altro ieri direttore delle Operazioni e del Controspionaggio del servizio segreto militare (Sismi); Emanuele Cipriani, patron di tre attivissime agenzie private di investigazione: la Polis d'Istinto di Firenze, la Plus Venture Management delle Isole Vergini, la Security Research Advisor di Londra, negli anni il loro fatturato si è formato per il 50 per cento (Polis) e fino all'80 per cento (PVM e SRA) con le commesse di Pirelli e Telecom.

Nel gomitolo, tra molte muffe, sono stretti tre nodi. Le intercettazioni realizzate abusivamente senza alcuna autorizzazione giudiziaria. La natura e la correttezza dei rapporti tra la Telecom e il Sismi. Decine di migliaia di file di un archivio elettronico che custodisce informazioni illegalmente raccolte sul conto di società e persone fisiche, politici, banchieri, uomini di finanza, giornalisti, magistrati e finanche giocatori, arbitri e manager di calcio. I tre nodi del gomitolo rimandano ad alcune domande. I vertici della Telecom e del Sismi erano consapevoli del lavoro illegale di Tavaroli, Mancini e Cipriani? Quel lavoro è stato loro commissionato (e, in questo caso, da chi?) o se lo sono attribuiti in autonomia abusando della fiducia riposta in loro? O è stato loro commissionato e quei tre, fraudolentemente, vi hanno fatto fronte con un piede oltre la soglia del codice penale?

Le risposte verranno dalle istruttorie della procura di Milano, ma per intanto quel che si vede dà apprensione.

Le incertezze del governo si sposano pericolosamente con l'inerzia" (non si sa come definirla) della procura di Milano che indaga contro Tavaroli, Mancini e Cipriani con l'ipotesi di "associazione per delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali per l'acquisizione d'informazioni coperte da privacy".

Di quest'inchiesta, dopo un anno e mezzo, si sa poco o nulla. Non si conosce il numero e il nome degli indagati. Si ignorano gli orizzonti dell'istruttoria e la qualità e quantità delle fonti di prova. Non si sa neppure se ha fatto qualche passo in avanti o è ferma al palo. Si sa soltanto che, di recente, i pubblici ministeri hanno inviato al giudice delle indagini preliminari una richiesta di misure di custodia cautelare. Insomma, chiedono un certo numero di arresti.

Quel che appare grave è che alla fase di apparente stallo giudiziario corrispondono le frenetiche manovre di chi solleva polvere e sparge nebbia in un clima di disinformazione, inquinamento, intimidazione che meriterebbe un intervento energico di quella procura incerta. Ne ha pagato il prezzo, per il momento, Adamo Bove, manager della Telecom, già rispettato investigatore di polizia e capo della sicurezza di Tim.

"La vita di Adamo - ha raccontato al Messaggero il fratello Guglielmo, avvocato, anch'egli in Telecom - è cambiata nei primi giorni di giugno quando alcuni articoli di stampa hanno associato il suo nome a quello delle inchieste sulla spy story". A Repubblica, uno strettissimo parente riferisce che "Adamo s'era convinto che c'era chi voleva incastrarlo". A cominciare da giugno, Adamo Bove ha la certezza di essere entrato in un gorgo di rappresaglia e avvertimenti.

Al contrario, i pubblici ministeri si avvalgono della collaborazione di Adamo Bove. Il suo lavoro è "preziosissimo", dicono i pubblici ministeri, per scovare i telefoni cellulari degli agenti del Sismi, implicati nel sequestro di Abu Omar; per nascondere in Telecom quelle intercettazioni agli occhi indiscreti e alle curiosità infedeli. La fiducia che i magistrati ripongono in Bove è incondizionata e dunque dovrebbe renderli vigili dinanzi alle manovre calunniose che assediano il loro generoso collaboratore. Il lusinghiero giudizio dovrebbe imporre domande su chi e perché obliquamente lo intimidisce o ricatta.

A luglio contro Adamo Bove giunge un nuovo, nero segnale. La procura si chiede come mai nelle mani di un giornalista di Libero (indagato) sia finita una lista di telefoni mobili spiati, tra cui le linee di alcuni giocatori dell'Inter (Vieri, Ronaldo) e del banchiere Cesare Geronzi. Primi giorni di luglio. Viene interrogato un funzionario della Telecom che, secondo indiscrezioni di buona fonte, chiama in causa Adamo Bove. E' una testimonianza che al manager provoca molte difficoltà in Telecom, ma che non muta di una virgola l'ammirazione di cui gode tra i pubblici ministeri. Che infatti ancora oggi, smentendo ogni suo coinvolgimento nell'inchiesta, ne difendono l'integrità morale e professionale.



Riaperte le quote, regolarizzati 350mila extracomunitari
Nicoletta Cottone su
Il Sole 24 Ore

Semaforo verde a una nuova quota di ingressi in Italia per 350mila lavoratori extracomunitari: il Consiglio dei ministri ha autorizzato un secondo decreto flussi per il 2006 per regolarizzare la posizione dei lavoratori che avevano presentato in primavera la domanda.
È stata, così, sanata la differenza fra le 520mila domande che erano state firmate dai datori di lavoro e presentate dagli stessi extracomunitari palesemente già in Italia e i 170mila permessi autorizzati dal Governo Berlusconi. «Il provvedimento - spiega il ministro per la Solidarietà sociale Paolo Ferrero - è nell'interesse della collettività italiana sia per civiltà, sia per le maggiori entrate». Il ministro ha calcolato che il nuovo decreto flussi porterà nelle casse dello Stato tra un miliardo e un miliardo e mezzo di euro sotto forma di pagamento di contributi da parte dei datori di lavoro. Con la riapertura delle quote 2006 è stata anche liberalizzato il mercato del lavoro per i cittadini dei Paesi neocomunitari, con grandi opportunità di sviluppo per l'agricoltura dove un lavoratore su dieci è immigrato, proveniente, in genere, dalla Polonia. Secondo Ferrero il decreto prende atto delle realtà delle 520mila domande fatte dai datori di lavoro evitando a circa 350mila persone di lavorare in nero.
«Il decreto flussi - sottolinea il ministro dell'Interno Giuliano Amato - interviene in applicazione rigorosa della legge Bossi-Fini, che prevede un iniziale decreto flussi e prevede l'opportunità di adottarne altri».
Comunque, secondo Amato, la legge esistente, la Bossi-Fini, va cambiata. «Io lo capii - dice il ministro Amato - vedendo le file davanti alle poste, mi sarei aspettato di vedere imprenditori e famiglie italiane in attesa di filippine da far arrivare da Manila. È un modo irrealistico e ipocrita di fingere di fare entrare persone dall'estero mentre è una legge di regolarizzazione per immigrati già presenti in Italia».



La rivolta dei neri di Harlem «Clinton vattene, ci rovini»
Quando lasciò la Casa Bianca nel 2001, l'ex presidente decise di stabilire i suoi uffici nel quartiere afro-americano di Manhattan a New York. Il quartiere ora attira bianchi benestanti e i prezzi volano.
Ennio Caretto sul
Corriere della Sera

WASHINGTON — L'ambasciatore americano a Roma negli anni Cinquanta Claire Booth Luce soleva dire amaramente che «nessuna buona azione resta impunita». E' il caso dell'ex presidente Bill Clinton.
Quando lasciò la Casa Bianca nel 2001, Clinton decise di stabilire il suo quartier generale ad Harlem, il ghetto nero di Manhattan a New York. Lo fece per solidarietà con gli afro- americani, nell'intento, disse, di promuovere la rinascita del rione, decaduto dopo i ruggenti anni Venti, la sua età d'oro. Un gesto applauditissimo, che gli meritò il titolo di «primo presidente nero degli Stati Uniti».
Ma che la scorsa settimana gli si è ritorto contro. Il rilancio di Harlem da parte di Clinton, infatti, ha avuto così successo che gli affitti e i prezzi delle case sono saliti alle stelle, la vita è diventata troppo cara ed è incominciato l'esodo dei meno abbienti.
Di qui la dimostrazione di protesta di una quarantina di anziani afro-americani davanti alla sua Fondazione tra grida di «Bill go home», Bill torna a casa, e «Hell no we won't go», al diavolo non ce ne andremo.
La dimostrazione al numero 55 della 125esima strada, organizzata dal Consiglio degli inquilini di Harlem, ha suscitato la curiosità dell'America. Per alcune ore, gli anziani hanno inalberato cartelli con su scritto «Harlem non è in vendita», e «Non vogliamo diventare dei senzatetto», e chiesto ai passanti di firmare una petizione a loro difesa.

In realtà, la «gentrification», la metamorfosi di Harlem in una enclave di benestanti, non è tanto colpa dell'ex presidente quanto del boom immobiliare di Manhattan. I grandi costruttori acquistano e ammodernano interi isolati e cacciano gli inquilini. Un caso tipico è quello del Delano Village, un complesso di 1.800 alloggi presso gli uffici di Clinton.
Maggie Flowers, una nera di 65 anni che vi abitò per un trentennio, ha perduto la sua monocamera: «Era il rifugio del ceto medio nero di New York», ha lamentato, «ma è destinato a giovani liberi professionisti, agenti di Borsa, imprenditori. In vista del loro arrivo, i negozi hanno già aumentato i prezzi. Per non restare senza un soldo, io devo fare la spesa nel quartiere del Bronx, sopra il nostro, dove tutto costa meno».

Chiamato in causa dagli afro-americani, il sindaco Mike Bloomberg non si è ancora pronunciato. Bloomberg è un repubblicano liberista, un fautore del libero mercato. Per lui, la rinascita di Harlem, un tempo cosparso di splendidi palazzi, è una rivincita sulla storia.
Si augura che il rione, progressivamente disastrato, riviva presto i fasti degli anni Venti, quando vi suonavano musicisti celebri come Duke Ellington e Louis Armstrong, e i suoi locali pubblici, tra cui il famoso Cotton Club, attiravano il fior fiore dell'America.
Il declino di Harlem incominciò negli anni Cinquanta, con l'afflusso dei neri dal Profondo Sud. I bianchi se ne distaccarono dopo i torbidi razziali degli anni Sessanta, e Harlem acquistò la fama, spesso infondata, di un covo di criminalità e droga.


  24 luglio 2006