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sulla stampa
a cura di P.C. - 21 luglio 2006


Truppe israeliane in Libano
Andrea Scuto su
la Repubblica

GERUSALEMME - Arrivano con gli elicotteri da trasporto Chinook, con i camion militari che in colonna percorrono le strade della Galilea. Sono tutti diretti verso il fronte della Guerra del Nord. Israele sta ammassando truppe al confine libanese in vista di una possibile offensiva terrestre su larga scala, da lanciare nelle prossime ore. Gli scontri con gli Hezbollah appena oltre la linea della frontiera sono da tre giorni vere e proprie battaglie, e la reazione militare dei guerriglieri sciiti segnala che il loro dispositivo militare non sembra essere stato intaccato dagli intensi bombardamenti aerei sulla fascia appena oltre il confine.
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Nonostante le incursioni israeliane, i lanci di razzi Katyusha verso la Galilea sono proseguiti anche ieri. Fra le città colpite, ma senza far vittime, Tiberiade, Carmiel, Rosh Pinna; a Haifa sono tornate a suonare le sirene di allarme, ma la città non è stata colpita.
Per Israele, le incursioni di terra sembrano essere diventate una impellente necessità, visto che i bombardamenti si sono rivelati insufficienti ad arrestare i lanci di razzi contro Haifa e la Galilea. La resistenza di Hezbollah ai commandos israeliani ha sorpreso Gerusalemme, l´armamento e la preparazione dei guerriglieri sciiti hanno superato le previsioni. Lo stato maggiore israeliano ha dovuto constatare che le valutazioni secondo le quali la prima linea dello spiegamento militare degli sciiti era stata distrutta erano errate: era semplicemente scesa sottoterra per riaffiorare al momento opportuno. I soldati israeliani, in una foresta sulle pendici delle colline, si sono trovati davanti un complesso difensivo moderno, con bunker pieni di armi, rifugi sotterranei, aree per il lancio di razzi, campi minati, e centinaia di Hezbollah da fronteggiare. Ma i combattimenti ravvicinati per individuare e distruggere questi bunker, come dimostrano gli scontri di queste ore, comportano il rischio di perdite elevate fra le truppe, con l´inevitabile contraccolpo al livello politico per il governo Olmert. Il ministro della Difesa Amir Peretz dice che "Israele non intende occupare il Libano", ma in caso di bisogno "è pronto a compiere operazioni in profondità".
La Guerra del Nord potrebbe così andare avanti ancora, certamente più delle due settimane che i vertici militari avevano chiesto per "risolvere il problema Hezbollah". Ieri il capo di Stato Maggiore dell´esercito Dan Halutz ha inviato un messaggio alle truppe, in cui afferma che la guerra contro le milizie di Nasrallah, come quella contro i gruppi armati palestinesi, potrebbe protrarsi ancora a lungo.
Mentre per ottenere la liberazione dei due soldati rapiti due settimane fa Israele ha chiesto aiuto alla Bnd, il servizio segreto tedesco che già in passato era riuscito a mediare uno scambio di prigionieri tra Israele e Hezbollah.


La religione della guerra
Andrea Riccardi su
La Stampa

La guerra si è riaccesa in Medio Oriente. Chi seguiva le vicende libanesi degli Anni Ottanta, come chi scrive, ricorda un modo diverso di vederle. L'11 settembre e la sfida terroristica hanno lasciato tracce profonde. L'opinione pubblica ha un altro rapporto con la guerra. C'è una reazione differente di fronte all'uccisione dell'altro. Si sente più facilmente la guerra come necessità. Ci consideriamo - specie in Occidente - più vulnerabili, bisognosi di difenderci, di prevenire attacchi. Le minacce sono più globali e distruttive. Qualche mese fa sono stato colpito dalla forte presenza di titoli sulla guerra nelle librerie americane. Ci sono altre risorse per la pace e la sicurezza oltre la guerra?
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Anche il grido di dolore ha valore. I cristiani non rinunciano alla pace, che è anche una realtà spirituale, da cui non sempre scaturiscono proposte immediate su come appianare i conflitti. Si prega per la pace, pur dentro l'infuriare della guerra. Non si sacralizza la guerra. Un grande spirituale russo, Serafino di Sarov, diceva: "Acquista la pace in te stesso e migliaia attorno a te la troveranno". La Chiesa non diventa un'agenzia politica. Lo sosteneva il card. Ratzinger anni fa: "La Chiesa non fa di più per la pace, ma di meno, quando abbandona il piano della fede, dell'educazione, della testimonianza, del consiglio, dell'amore di servizio per trasformarsi in una diretta unità politica d'azione...". La pace è interiormente radicata nella vita dei cristiani. A partire da questo legame genuino, le risorse cristiane e umane per la pace si debbono misurare arditamente con la nuova stagione internazionale. Dio - diceva Benedetto XVI - "ci ha anche indicato la via della pace: il dialogo, il perdono, la solidarietà". Non è retorica, né desiderio di star fuori dalla battaglia per sopravvivere. Nel Novecento il martirio per la pace di non pochi cristiani ha mostrato il loro coraggio. Oggi, di fronte a impressionanti sacralizzazioni della violenza, a situazioni che sembrano senza sbocchi, si deve rinnovare la via del dialogo come strumento forte per la pace. I cristiani hanno qualcosa da dire e molto da tentare.


“No a maggioranze allargate”
Gianni Riotta sul
Corriere della Sera

ROMA — L'antipasto del presidente è semplice, una fetta di pane fresco con poche gocce di aceto balsamico di Scandiano. Guarda la Colonna Traiana che riempie la finestra, "Quelle erano guerre senza proporzione. Roma si metteva in marcia e poteva distruggere un popolo intero. Il mondo è cambiato, ma dolore, morale, restano questioni centrali". Il presidente del Consiglio Romano Prodi fa colazione con il suo staff ed esamina le questioni del giorno, la storia che è ancora cronaca, non fissata nella pietra come nella Colonna dell'imperatore Traiano e su cui ogni leader politico spera di intervenire.
"La fiducia sull'Afghanistan? Non so se sarà necessario chiederla. Leggo sui giornali di scricchiolii ma sa cosa?, io consideravo il passaggio sulle cellule staminali al Senato più complesso del voto sulla missione a Kabul. C'era da regolare le decisioni italiane in sede europea e ce l'abbiamo fatta. Rotture? Ne leggo, ma invece voglio ringraziare i nostri parlamentari. Tutti. Perché l'opposizione sta facendo ostruzionismo, un filibustering che noi non abbiamo mai praticato. Hanno il pieno diritto di seguire questa linea di condotta, beninteso, "this is democracy" la democrazia è così, diceva scherzando George Bush quando ci siamo visti a San Pietroburgo. Eppure noi continuiamo tranquillamente. Ci sono stati quattro casi di coscienza sull'Afghanistan, è vero. Ma siamo ancora qui mi pare. Avessimo vinto le elezioni con più agio sarebbe stato più facile, ma così è più thrilling, c'è più avventura. Vuole la verità? È più sexy!". Prodi ha una camicia a righe e una cravatta celeste, i suoi collaboratori ne seguono la conversazione, come sempre pacata, scandita, con la tradizionale ansia di chi lavora con i leader: dirà troppo? dirà troppo poco? Il presidente li coinvolge nella conversazione, ne ascolta i suggerimenti, e poi continua, secondo il suo filo. "Faticheremo certo, ma se qualcuno si illude che interromperemo le riforme presto prenderà atto di sbagliarsi. Ho letto oggi l'articolo di fondo sul Corriere del professor Mario Monti e...".
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Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha debuttato con energia, dall'appello sulla sicurezza nei cantieri a quello sulle missioni di pace. "Non ne dubitavo. Percepisce gli avvenimenti con pazienza e speranza. Si definisce un pignolo, ma al parlamento europeo, lui, un veterano, seguiva i lavori con la costanza di un debuttante. E quando non era d'accordo con la Commissione scriveva, criticava, si faceva sentire. Certo che i suoi ideali di riformismo sono quelli che auspico per il partito democratico". Guardando il nostro paese non si vede troppa passione, presidente. Poca crescita, poco sviluppo, niente innovazione, pochi figli. "È il nostro male centrale. Lo scetticismo che si fa cinismo. La delusione di chi è sempre abituato a perdere. Per questo Fabio Grosso, il difensore della Nazionale, è diventato un simbolo. Ma attenti: rimproveriamo alla politica questo torpore, che è radicato anche nell'economia, tra le imprese, nelle banche che troppo spesso rinviano scelte indispensabili per paura di confrontarsi con i cambiamenti del mondo. Quel che mi piace della Spagna è come il governo e le aziende decidano con rapidità. Da noi, sulle fusioni bancarie, si medita da anni. Un mio amico mi ha raccontato un proverbio marinaio "Quando sei al largo, se non decidi tu, il mare decide per te". Vale per i nostri imprenditori e il mercato globale".
Almeno attorno al Mondiale un po' di passione s'è vista, in campo e fuori. Poi ci siamo risvegliati con il calcio degli scandali. "Spero che alla fine non sia solo il mio Bologna a pagare. Sono contento che non ci sia stata amnistia, che la Coppa del Mondo non abbia cancellato uno scandalo che ha umiliato milioni di sportivi. Pulizia e gioia, una buona ricetta. La giustizia deve decidere sul bene e sul male, nello sport e fuori. Rossi e Borrelli hanno per vice due donne, il ministro dello sport è una donna: saranno loro a rinnovare il calcio. Ma, qualunque sia la sentenza finale, non tollereremo scene come quella degli ultras alla stazione di Firenze, che hanno tagliato in due il paese, per ore. Sia chiaro. Ognuno dovrà agire con responsabilità". S'è fatto tardi, il caffé è freddo nelle tazzine, l'agenda del premier incalza. Niente vacanze, quest'anno? "Niente vacanze?" sgrana gli occhi Prodi, "l'anno passato ho speso le ferie sul programma, sono due anni che lavoro. Ho una bicicletta nuova, telaio in titanio, forcella in carbonio. Può scommetterci che la userò. Spero di andare un po' al cinema, anche se con la scorta è imbarazzante. Adoro Almodovar, sa parlare di politica con le sue commedie, in Tutto su mia madre si vedono gli ospedali spagnoli, gente che sgobba duro ma con allegria. E soprattutto mostra con orgoglio il proprio ambiente di lavoro. Un'identità nazionale formidabile. Libri da leggere non ne ho ancora messi in valigia, ma da qualche tempo riguardo Pascal. Abbiamo bisogno di un po' del suo spirito di geometria, e del suo spirito di finezza, no?".


Inciucio d'estate
Luca Ricolfi su
La Stampa

Fa caldo. Molti italiani sono già al mare, e altri lo saranno nelle prossime settimane. Chi è rimasto in città controlla con voluttà lo stato di maschere e pinne, pregustando meravigliosi bagni e immersioni.Nel frattempo, come ladruncoli estivi che aspettano agosto per svaligiare le nostre case, i nostri cari politici ci stanno preparando il colpo gobbo: nel calendario dei lavori parlamentari le settimane a cavallo fra luglio e agosto sono destinate a far passare l'indulto, ossia un cospicuo sconto di pena per chi ha subito condanne penali.
Di per sé l'indulto non è un colpo gobbo. Si può ricordare che fu papa Wojtyla, nella sua storica visita di quattro anni fa al Parlamento, a invocare un gesto di clemenza per i detenuti. Si può osservare che le nostre carceri straboccano, con oltre 60 mila detenuti a fronte di 45 mila posti. E si può anche aggiungere, per chi ha votato a sinistra, che dopotutto un atto di clemenza verso i detenuti era nel programma dell'Unione.
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Qui non stiamo parlando di poveracci che rubano una mela, di ragazzi di strada che vivono di espedienti, di tossicodipendenti che hanno commesso reati per procurarsi la dose quotidiana. E nemmeno di immigrati clandestini più o meno colpevolmente coinvolti in attività illegali. No, qui stiamo parlando di molte decine di parlamentari, come Barbacetto, Gomez e Travaglio hanno ripetutamente documentato. Stiamo parlando di un numero imprecisato, ma sicuramente molto alto, di politici locali, di amministratori, di finanzieri - spesso recidivi - che in questi anni hanno dato una mano a sfasciare l'Italia. Perché l'indulto, dunque?
In attesa che gli onorevoli parlamentari ci diano una risposta, mi permetto di avanzare un paio di ipotesi. La prima è che il ceto politico sappia perfettamente quanto il proprio tasso di criminalità sia elevato, e che pensi - con l'indulto esteso - di togliere innanzitutto a sé stesso un bel po' di castagne dal fuoco. L'impatto dell'inclusione dei reati della classe dirigente, infatti, è minimo sull'affollamento delle carceri, ma è notevole sul grado di impunità della classe dirigente stessa.
La seconda ipotesi non riguarda il ceto politico nel suo insieme, ma i politici di sinistra. Per far passare l'indulto occorre una maggioranza dei due terzi; Lega e Italia dei valori sono contrarie, An è incerta; dunque i voti di Forza Italia sono essenziali. Può darsi che il centro-sinistra, che tiene moltissimo a far passare l'indulto, abbia subito un aut aut di Forza Italia: o includete i reati che a noi più interessano, oppure non vi diamo i nostri voti.
Se è così vorrei dire all'Unione che, come cittadini, è su altre cose che ci aspettiamo che destra e sinistra trovino un ragionevole accordo. Sulle pensioni, sulla sanità, sul mercato del lavoro, sull'evasione fiscale, sulle liberalizzazioni non è impossibile individuare le cose che andrebbero fatte comunque, non perché sono di destra o di sinistra, ma semplicemente perché servono al Paese. Ma il resto no. Il resto si chiama "inciucio". Una parola bruttissima, ma che in questo caso evoca esattamente il senso di quel che ci attende.


La sovranità limitata
Pietro Ichino sul
Corriere della Sera

La vicenda dello scontro fra governo e tassisti ha una valenza emblematica che va ben al di là dei contenuti del decreto Bersani. In questi giorni abbiamo visto rappresentato — come in una pièce teatrale costruita secondo i canoni classici dell'"unità di tempo, di luogo e di azione" — il dramma dell'Italia di oggi, fiaccata dal proprio grave difetto di quel senso del bene comune e di quella cultura delle regole, che sono requisiti essenziali per l'esistenza e la prosperità di una nazione.
I segni di questa degenerazione del nostro tessuto civile si sono fatti sempre più frequenti negli ultimi anni: il Corriere
non ha mancato di sottolinearne, di volta in volta, la gravità. Sembra essersi diffusa l'idea secondo cui, quando una vertenza collettiva non si sblocca con le buone, è "inevitabile" fare ricorso alle maniere forti: dalla violazione della legge sugli scioperi nei servizi pubblici ai blocchi stradali e ferroviari, fino alla violenza fisica sulle persone e sulle cose. Così saltano tutti i meccanismi civili di bilanciamento degli interessi contrapposti, ivi compreso quello essenzialissimo fondato sulla sovranità del Parlamento; vengono meno il filtro della ragionevolezza delle rispettive posizioni e la spinta a individuare nuovi meccanismi più sofisticati per la conciliazione degli interessi contrapposti; prevale brutalmente l'interesse di chi è più spregiudicato nel far valere la propria capacità di interdizione.
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Il nocciolo della questione, tra governo e tassisti, è se sia giusto permettere che il servizio delle auto pubbliche sia offerto anche da imprese medie o grandi, operanti con una pluralità di vetture e di conducenti da esse dipendenti: ne deriverebbe una riduzione dei costi del servizio, con beneficio generale; ne deriverebbe anche una riduzione del mercato per gli attuali tassisti-artigiani, i quali potrebbero però essere integralmente indennizzati per la perdita della vecchia posizione di monopolio. Gli sviluppi della vertenza paiono indicare che alla Repubblica Italiana oggi è inibito di scegliere sovranamente la soluzione più ragionevole di questo conflitto di interessi, per ragioni di ordine pubblico. Se l'esito della vicenda sarà davvero questo, non potranno trarsene davvero buoni auspici per il futuro del nostro Paese.


Ecco il nastro che accusa Pollari
Carlo Bonini su
la Repubblica

Il direttore del Sismi Nicolò Pollari ordinò agli uomini della prima divisione del controspionaggio il sequestro dell´imam Abu Omar. Concordò personalmente l´operazione con l´allora capo della Cia in Italia, Jeff Castelli, nel suo ufficio di Palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa. Gli uomini della prima divisione lavorarono alla preparazione del piano e quindi lo informarono della loro contrarietà. L´operazione venne portata a termine il 17 febbraio 2003. Eccolo, dunque il segreto. Nessuno avrebbe dovuto o potuto violarlo.
Nemmeno la Procura di Milano. Perché il segreto doveva morire con l´unico uomo del Servizio, oltre il direttore, che lo custodiva: il generale Gustavo Pignero, che oggi lotta con una malattia terminale. Ma alle 9 del mattino del 2 giugno, un microfono nascosto incide su nastro oltre 60 minuti di una conversazione che riscrive alcuni passaggi chiave di questa storia. Marco Mancini, numero due del Servizio, è a colloquio con il generale Pignero e al generale strappa con l´inganno la confessione che vale uno scacco matto.
Per trenta giorni quel nastro è rimasto nella cassaforte di uno studio legale nel cuore di Roma. Un´arma difensiva "a futura memoria". "Un´assicurazione sulla vita", come è prassi nel mondo fangoso delle spie. Il 7 luglio, il nastro viene ascoltato nella sala interrogatori del carcere di san Vittore, dove Marco Mancini risponde alle domande dei pubblici ministeri e del gip che lo hanno arrestato con l´accusa di concorso aggravato in sequestro di persona. L´11 e il 13 luglio, il generale Pignero, dal letto della sua abitazione, dove è costretto agli arresti domiciliari, riconosce la propria voce nel nastro. Trasforma una confessione rubata in una resa volontaria. Il segreto cede di schianto. La storia può essere riscritta. A partire dal primo pomeriggio del 1° giugno, a Milano, quarto piano del palazzo di giustizia.
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Alle 9 del mattino di sabato, non c´è grande animazione in via Tomacelli. Le vetrine del concessionario "Ferrari" sono sul lato sinistro della strada che unisce il Tevere a via del Corso. Lungo lo stesso marciapiede su cui affacciano le redazioni dei quotidiani il manifesto e Corriere della Sera. Pignero e Mancini si salutano. Non sanno di essere pedinati e fotografati dalla Digos, ma questo poco importa. I poliziotti sono lontani e non possono sentire quel che i due hanno da dirsi. Camminano lentamente. Mancini comincia a sollecitare Pignero e Pignero parla. La cimice cattura le due voci e incide su nastro. Mancini chiede: "Ti ricordi Gustavo? Ti ricordi che l´ordine del sequestro arrivò dal direttore". E Pignero: "Sì me lo ricordo". Ancora Mancini: "E ti ricordi che dissi ai miei che dovevamo prenderlo? E ti ricordi che, dopo due giorni, ti dissi che non si poteva fare perché non siamo in Sudamerica?". "Sì, me lo ricordo". "Ti ricordi che non fui io a decidere il trasferimento a Roma di D´Ambrosio (il capo centro Sismi di Milano). Che io lo volevo mandare a Trieste?". "Sì". Mancini fa ammettere dunque a Pignero che l´ordine del sequestro arrivò direttamente da Pollari e che lui espresse il suo dissenso attraverso le vie gerarchiche. Di più: fa dire a Pignero che se fosse stato vero che il trasferimento improvviso di D´Ambrosio da Milano avesse avuto a che fare con il sequestro non avrebbe avuto senso raccomandarne l´assegnazione a Trieste, il centro Sismi con competenza sulla base di Aviano (luogo in cui Abu Omar sarà prelevato da un aereo della Cia diretto a Ramstein e da qui in Egitto).
Ma per Mancini il lavoro è ancora a metà. Non può dirsi completo senza far dire al generale cosa è accaduto a Roma, a Palazzo Baracchini. Pignero ammette che sulla vicenda Abu Omar ebbe con Pollari due incontri. Il primo, nell´inverno del 2002. "Sì, è vero, entrai nell´ufficio di Pollari mentre ne usciva Jeff Castelli (allora capo della Cia in Italia) e notai che aveva lasciato una busta sulla scrivania". Pignero fa riferimento alla lista dei 12 sospetti che la Cia intende rimuovere all´inizio del 2003. A Milano, Torino, Vercelli, Napoli. Ma, soprattutto, Pignero spiega che, sollecitato dalla Cia, Pollari ha immediatamente mobilitato lui e gli uomini della prima divisione che in quel momento comanda. E non è tutto. Stimolato, Pignero ricorda anche il secondo incontro con Pollari, quando torna a riferirgli del dissenso manifestato da Mancini all´operazione di sequestro: "Gli riferì che per noi l´operazione non si poteva fare e lui prese atto".
Siamo all´epilogo. Mancini chiede a Pignero perché si ostini a non raccontare tutta la storia alla procura di Milano. Il generale risponde: "Sono molto malato e non ho nulla da perdere. In questa storia, preferisco saltare io, piuttosto che far saltare il direttore. Perché se salta il direttore, salta il governo e saltano pure i rapporti con gli americani". Ora, Mancini ha davvero tutto ciò che gli serve. Nella prima settimana di giugno, consegna il nastro ai suoi avvocati. La bobina resta in una cassaforte fino alle sei del mattino del 5 luglio. Quel giorno, mentre una macchina della Digos, vola da una casa di Lugo di Romagna (l´abitazione di Mancini) verso il carcere di san Vittore, gli avvocati Luigi Panella e Luca Lauri si affannano a trascrivere la confessione rubata di via Tomacelli.
Certo, devono dimostrare che quel nastro non è un trucco. Ma Mancini, questa volta, ha fortuna. Quella mattina del 2 giugno, mentre parla con Pignero, il suo cellulare squilla. Lo cerca Gian Vigio Curti, l´ufficiale che ha preso il suo posto al vertice della prima divisione. E´ una conversazione brevissima. La cattura la cimice che Mancini nasconde nella giacca. Ma la registrano anche i nastri con cui la Digos tiene sotto controllo il telefono di Mancini. Sovrapposte, le due registrazioni combaciano. È la prova che convince i pm di Milano che la bobina di Mancini non è un arma posticcia. Mancini lascia san Vittore. Pignero confessa e ritrova la libertà. E quel che il generale Pollari ha scritto neppure due settimane prima per "la Rivista di Intelligence", nel numero di giugno dedicato ai "Sequestri di Stato", sembra ora davvero un beffardo epitaffio: "Nel deserto di ombre e di specchi dell´intelligence solo la pienezza dell´umanità, coerente con i fondamentali principi etici e morali, può riuscire a illuminare la realtà".


L'estremista mobbizzato
Lucia Annunziata su
La Stampa

Non condivido neppure una parola delle posizioni prese sull'Afghanistan da una pattuglia di deputati e senatori di Rifondazione, ma credo che la loro battaglia - e quella di tutti coloro che dai vari scranni stanno sostenendo posizioni "estremiste" - sia un vero elemento di rinnovamento della vita del Parlamento.
Questo drappello di irriducibili sta infatti ponendo all'attenzione generale un tema non molto popolare dentro le istituzioni di questo Paese: il tema della coerenza con le proprie opinioni e, ancor di più, con il proprio mandato. Le dimissioni di Cacciari, fatte con eleganza (simbolismo efficace lasciare il cartellino bianco su quell'usato, liso, e tanto ambito legno parlamentare) e confermate (senza enfasi - anche questo elegante) in nome della continuità del proprio lavoro a Venezia, sono in questo senso una rilevante novità.
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Insomma, d'accordo o no che si sia con loro, non si può scaricare sugli estremisti la responsabilità di idee che si sono accettate in campagna elettorale. Casomai la colpa va a chi con troppa leggerezza - o per eccesso di calcolo elettorale - ha accettato una coalizione troppo variegata. Le critiche che si sono fatte al famoso programmone, quel grande elenco telefonico che si usò per inglobare tutto, si prendono oggi la loro rivincita.
Non è una distinzione da poco, sapere chi è responsabile, e di cosa. Trattare gli estremisti come irresponsabili, vanitosi o ignoranti, rischia di essere un altro modo per nascondere che la frattura dentro la coalizione c'è ed è seria. Ai governanti tocca decidere quanto è grave, se è possibile sanarla, se richiede altre formule per governare (allargamento, grande coalizione) o se addirittura si debba andare a una nuova verifica elettorale.
L'unica cosa che non serve, e che a noi elettori (anche noi moderatissimi) risulta sgradevole, è continuare in questa specie di mobbing in cui rischia di cadere il confronto.


Moratti rifiuti quello scudetto
Francesco Merlo su
la Repubblica

Che se ne fanno gli interisti di scudetti inter-tristi? È vero che uno scudetto, comunque assegnato, vale una barca di soldi, ma è triste che un presidente onesto come Massimo Moratti pretenda che la propria onestà vada premiata: "Lo scudetto ci spetta perché bisogna fare un distinguo fra chi bara e chi è onesto".
Al contrario, onestà vuole che il processo e la condanna dei disonesti non si risolvano in ricompense calcistiche per gli onesti. Ammesso dunque che, per rispettare i calendari delle coppe internazionali, Guido Rossi commetta il grave errore di aggiudicare all´Inter lo scudetto che giustamente è stato tolto alla Juve, dovrebbe essere proprio Moratti a rifiutarlo con poche parole, misurate e veloci, che cancellino le richieste lamentose di questi giorni: non si assegna lo scudetto al più onesto. Moratti ha l´autorevolezza di spiegare a tutti i tifosi d´Italia che la bravura pedatoria non è limpidezza morale. Si può essere bravi e ladri come si può essere brocchi e onesti.
È vero che l´Inter di Moratti non ha dirigenti corruttori, ma è anche vero che, in tanti campionati, non ha prodotto il miglior gioco d´Italia. L´onesto Moratti, con l´imbarazzato pudore che gli si conosce, potrebbe dunque replicare all´eventuale offerta di uno scudetto da parte di Rossi e della sua stramba commissione di saggi che l´onestà è un´ovvietà, e che c´è la pena per il mafioso ma non c´è il premio per la persona normale. Non si offrono ricompense alla gente che va in banca e, sbrigate le operazioni, esce senza avere fatto la rapina. Non si assegnano medaglie per i reati non commessi. Io non merito un bonus per un pieno benzina se, alla fine del mio viaggio in macchina, non ho messo sotto nessuno.
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Tutti capiscono che non è l´onestà l´anima del giuoco, come non lo è della politica né dei conflitti sociali. L´arbitro non dice: "Ragazzi, siate onesti". Fischiando il fallo, non rimprovera il giocatore: "Lei è disonesto". Né il calciatore che commette il fallo pensa di essere disonesto. L´onestà è infatti una premessa, è un valore primario che appena esce fuori dal suo terreno d´elezione, subito avvizzisce. Perciò è triste che Moratti reclami il premio all´onestà, come il lecca lecca che si dà ai bambini capricciosi quando non fanno i capricci.
Ma il punto più delicato è che anche il premio della giustizia, proprio come la pena, viene assegnato ai mafiosi (pentiti) e mai alla gente per bene. Si premiano i delinquenti che si redimono e che patteggiano anche l´onestà, che ritengono che l´onestà sia merce di scambio e non elemento scontato della convivenza civile. Anche per questo Moratti non può chiedere lo scudetto alla propria onestà: implicitamente ammetterebbe di essere solidale da antagonista con la disonestà. La giustizia premiale è infatti un ripiego, un autoesilio, un prezzo che la giustizia stessa si infligge quando tratta con i delinquenti, quando deve convivere con i mafiosi, quando compra il pentimento.
I nostri amici interisti si autodefiniscono con simpatica ironia inter-tristi proprio perché sul campo sono dei perdenti che sanno che la colpa delle sconfitte è della squadra e non è dei complotti, né della mala sorte, né delle truffe di Moggi. In realtà gli interisti sono forse i più compassati, i più esigenti, i più critici dei tifosi. Signorili e snob, somigliano al loro presidente. Si sa per esempio che le scorrettezze del pur generoso Materazzi non piacciono troppo ai tifosi, perché sono squinternate e spesso al limite dell´intimidazione fisica. E ci sono stati campioni straordinari che l´Inter non ha capito, come quel Cannavaro che è stato forse il migliore calciatore dei mondiali e come Pirlo, e Seedorf, e Alberto Carlos… Insomma gli interisti non perdonano nulla ai propri beniamini, ai tecnici e ai dirigenti della squadra. E sanno che lo scudetto, tolto alla Juve come giusta punizione, ma indipendentemente dai suoi meriti in campo, non è stato comunque vinto dall´Inter. La squadra di Moratti si è classificata al terzo posto e non al primo, e questo è un dato che non può essere cambiato né dalla filosofia del diritto, né dal diritto dell´economia, né dalla filosofia morale.
E invece Guido Rossi ha messo in piedi una commissione di tre saggi tipicamente italiana che rischia di trasformarsi nella solita corte levantina dietro la quale si nascondono trafficanti di cavilli, come se la saggezza potesse spostare il confine tra un gol e un arzigogolo bizantino, tra un dribbling e un sofisma. Perciò ci parrebbe coerente con la limpida immagine di Moratti il rifiuto preventivo di uno scudetto che Virgilio, guida spirituale anche nell´Inferno calcistico, chiamerebbe "defedato", insozzato dagli escrementi delle arpie, cibo immangiabile tanto per Enea e i suoi compagni quanto per l´Inter e i suoi tifosi. Moratti faccia un gol e rinunci alla pretesa dello scudetto giudiziario che non è degna della sua storia personale né della storia dell´Inter.


   21 luglio 2006