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sulla stampa
a cura di P.C. - 17 luglio 2006


Cari pacifisti basta sciocchezze
Adriano Sofri su
la Repubblica

Si può perdere la testa, con le migliori intenzioni. Gino Strada dice che in Afghanistan oggi si sta peggio che sotto i taliban. Si stava meglio quando si stava peggio. Dice che, se il governo cadesse sul problema della guerra, lui brinderebbe. La guerra di cui parla è l´intervento della Nato, autorizzato e ora implorato dall´Onu, in Afghanistan. Il governo di cui parla è il chiaroscuro governo di centrosinistra. Gino Strada è molto ammirato, e se lo è meritato. Anch´io lo ammiro, sul serio. Però so che dice delle sciocchezze colossali. L´ammirazione che si è guadagnato gli gioca un brutto scherzo: gli fa spendere il suo credito sostenendo presso un pubblico generoso quelle sciocchezze, diametralmente opposte agli ideali che vuole perseguire.
Strada cura le persone che hanno bisogno di cure. Spiega che non tocca a lui occuparsi di che governo sia in sella. Un ferito è un ferito, un malato è un malato, che si tratti di un bambino o di un uomo adulto, di un talebano o di un marine, di un signore della guerra o di una madre di famiglia. Così dev´essere. Strada protesta che il suo amore per la pace non è "di sinistra radicale" né di altro colore. L´amore per la pace non ha colore – o li ha tutti, come l´arcobaleno. Così dev´essere. Naturalmente, nella realtà le cose non vanno così nitidamente. Nella realtà si viene a patti con la situazione. Far funzionare un ospedale sotto i taliban può costringere a compromessi che sembreranno accettabili o no: non fosse che il compromesso inevitabile di rinunciare a denunciare l´infamia del regime dei taliban. Accettabile, perché non spetta al chirurgo la denuncia di un regime politico: e nessuna persona sensata glielo rimprovererà. Al contrario, ammirerà il modo in cui il medico sacrifica il proprio orgoglio a una causa più nobile e altruista. L´altroieri, intervenendo all´assemblea romana "contro la guerra", Strada ha parlato del governo Karzai come di "un regime di criminali e fondamentalisti". Vorrei chiedergli, senza nessuna malevolenza, se abbia mai pronunciato un giudizio del genere durante il regime del mullah Omar: che era per antonomasia "un regime di criminali e fondamentalisti", escluso dalle stesse Nazioni Unite, che pure hanno così gran braccia. Oggi Strada incita a una campagna politica in nome del fatto che il regime attuale in Afghanistan è peggiore di quello dei taliban. C´è qui un´incoerenza, anche quando si ammettesse che l´assunto sia vero: ed è l´ultima delle cose che una persona appena ragionevole possa ammettere. Ci sono oggi manifestazioni contro la presenza di truppe internazionali in Afghanistan. Non ci furono ieri manifestazioni contro il regime dei taliban in Afghanistan. Strada, o altri, possono replicare che oggi c´è una guerra, e il regime dei taliban assicurava comunque una pace. Non è vero. Una guerra intestina, anche dopo la cacciata degli invasori sovietici, non era mai cessata in Afghanistan. Il regime taliban, tirannide oscena quanto poche altre, forniva anche un territorio e una parodia di Stato al terrorismo di Al Qaeda. Strada non si stanca di ripetere che gli americani foraggiarono a suo tempo Bin Laden e i taliban. È vero: ma che cos´ha a che fare con l´eventualità di un ritorno incontrastato dei taliban a Kabul?
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I miei argomenti, come si vede, non hanno fin qui toccato la questione del governo: benché io legga con raccapriccio che Strada "brinderebbe alla caduta del governo" su quello che chiama il tema della guerra; benché ascolti con amarezza i senatori che parlano di sè come Resistenti, e i loro tifosi che irridono alla "sindrome del governo amico". Non l´ho toccata perché sono persuaso della loro sincerità spinta fino alla superstizione. Sono persuaso che voteranno, in più o meno degli otto saliti alle cronache, ignorando le conseguenze per il governo, e che nessun argomento sappia intaccare il loro partito preso. Del resto, la venerazione del "senza se e senza ma" esclude un confronto che possa portare a reciproci riconoscimenti. Se fosse vero il loro assunto – da una parte l´inabissamento italiano in una guerra d´aggressione globale asservita agli Stati Uniti, dall´altra la tenuta di una maggioranza – nessun argomento terrebbe. Tanto meno gli argomenti pratici, come il regalo fatto al centrodestra: essi deridono la "riduzione del danno", in cui vedono solo un miserabile espediente (strano, per chi ha dovuto occuparsi di tossicodipendenza), perché l´etica non viene a patti con la pratica. Con la logica però anche i principii più solenni dovrebbero fare i conti. E dunque, a che cosa servono, nell´Europa di oggi, le elezioni politiche, che cosa si va a fare in Parlamento? Non voglio spingere il sospetto nei confronti della "sinistra radicale" fino al folklore di immaginarla ancora persuasa che si vada in Parlamento per impedirgli di funzionare, spingere alla crisi della "democrazia borghese", e prepararle una soluzione sovietica non appena le masse saranno di nuovo mature. (Qualcuno tuttavia parla ancora questa lingua morta). Resta, dichiarata da loro, la "questione di coscienza". Ebbene, se si riconosca, laicamente, semplicemente, che alle elezioni si partecipa, e in Parlamento si sta, per far governare una maggioranza contro l´altra, il desiderio di fare la rivoluzione o l´obiezione di coscienza devono trovarsi altri campi da gioco. Nelle elezioni politiche si gioca soltanto una maggioranza contro l´altra. Non è in ballo il proprio ideale e nient´altro, la rivoluzione o la purezza della coscienza, l´assolutezza che non ammette termini di confronto, bensì il confronto fra quello che consente la propria maggioranza, e quello che assicurerebbe l´altra. Con l´altra Calderoli direbbe che i francesi sono negri musulmani e comunisti, ma da ministro. Con l´altra si avrebbe un filoamericanismo di principio (e un filoputinismo di fatto). Poco europeismo, poca autonomia, poca distinzione.
Se davvero la coscienza personale osta insuperabilmente a un voto sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, si può lasciare il proprio seggio al prossimo della lista, e tornare nei luoghi in cui l´assolutezza morale è di casa. Così si rispetterebbe il debito con la propria coscienza, e non si metterebbe a repentaglio quel governo per il quale la metà più uno, almeno, degli italiani ha votato, e con una così grande aspettativa. Non lo faranno, i senatori tanto applauditi nell´assemblea romana da diventare ostaggi di quegli applausi. E del resto hanno giustificazioni da accampare, in una maggioranza che a ogni piè sospinto vede spuntare una cresta pronta a cantare il proprio ricatto: O mi date il tal ministro o sottosegretario... O correggete la tale legge come piace a me... Canzone di tutti i giorni. In un paese normale, e in una democrazia dell´alternanza, tutti i partecipanti di uno schieramento dovrebbero attenersi alla premessa di non evocare mai la minaccia di far mancare la maggioranza. I loro rispettivi argomenti diventerebbero così argomenti, liberi, disinteressati, convinti: altrimenti, sono piccoli ricatti. O grandi, dipende dalle conseguenze.


La diplomazia della carota
Stefano Cingolani su
La Stampa

La crisi nel Vicino Oriente è la prima prova concreta per la politica estera del governo. Una prova del fuoco. Romano Prodi ha mostrato un attivismo lodevole, come honest broker tra Israele e Libano, traducendo così, alla Clinton, la teoria dell'equivicinanza enunciata da Massimo D'Alema. Da San Pietroburgo, ha voluto indicare alle grandi potenze del G8 il suo approccio che mette la diplomazia al primo posto, dunque diametralmente opposto a quello di Silvio Berlusconi. Finora, era apparsa chiara solo la pars destruens: discontinuità "forte" con la linea atlantista del Cavaliere, pur nel rispetto delle alleanze e degli "obblighi internazionali". Su questa base il Professore ha cercato il minimo comune denominatore nella maggioranza per confermare le truppe italiane in Afghanistan; ed è sempre su questa stessa base che Prodi ha giudicato "sproporzionata" la reazione israeliana all'attacco di Hezbollah in Galilea.
La pars construens, invece, è apparsa incerta, tanto che la politica estera è sembrata soprattutto schiava di vincoli e obblighi esterni. In simmetria, non casuale, con la politica economica. Dobbiamo risanare la finanza pubblica perché ce lo impongono il trattato di Maastricht e i mercati o perché siamo convinti che non è la spesa pubblica in deficit a spingere l'economia nella nuova era post-keynesiana? Dobbiamo restare a Kabul perché siamo legati dalla Nato e dall'Onu, o perché crediamo che è dovere e interesse dell'Italia impedire che i talebani rialzino la testa?
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Israele rischia di commettere un altro errore politico oltre che militare. Il Libano è sempre stato la sua dannazione. Un grave sbaglio sta per farlo George W. Bush, l'ultimo di una serie che comincia con la scelta di abbandonare la linea interventista di Clinton per delegare a Israele il ruolo di stabilizzatore del Medio Oriente. Il G8 non è un organismo in grado di affrontare nessuna seria crisi internazionale. E ha riportato alla luce una divergenza tra Usa e Russia sul Medio Oriente eredità irrisolta della guerra fredda. In questo gioco a somma negativa, potrebbe suonare la campana per l'Unione europea? Sì, se la Ue non fosse divisa e non avesse essa stessa responsabilità serie. Nei confronti di Bashar Assad, avrebbe dovuto e potuto esercitare una pressione ben più attiva, ma Jacques Chirac continua a baloccarsi con l'antico patronage sul Libano e sulla Siria. E si è messo in urto con la Germania.
Ciò crea un problema in più per la pars construens della politica estera italiana. Invochiamo una risposta europea, ma quale? C'è quella di Parigi e quella di Berlino. Roma, con la sua "vocazione alla pace", come la chiama Bertinotti, e la sua centralità (per ora solo geografica) nel Mediterraneo, aspira a diventare un punto di riferimento. Progetto ambizioso, che potrebbe farci prendere la fiaccola dalle mani dei Paesi scandinavi. A noi, dunque, la diplomazia della carota, di cui è magna pars l'aiuto economico e civile. Ma a chi lasciamo il bastone?


La diplomazia del professore
Federico Rampini su
la Repubblica

L´Iran sarebbe disposto a partecipare alla soluzione della crisi tra Israele e le milizie Hezbollah che sconvolge il Libano. Sia pure con molti punti interrogativi, è uno spiraglio di speranza, una potenziale svolta che emerge al G8 dalla telefonata tra Romano Prodi e il negoziatore iraniano sul dossier nucleare, Ali Larijani. È la novità più importante della giornata di ieri, nata dall´iniziativa del presidente del Consiglio italiano perché Teheran faccia la sua parte per bloccare l´escalation del conflitto in Libano. È il risultato di 24 ore in cui l´Italia ha assunto il ruolo di mediatore fra i Grandi riuniti a San Pietroburgo e i protagonisti del dramma mediorientale. Da una triangolazione di telefonate fra Prodi, il premier libanese Fouad Siniora e il premier israeliano Ehud Olmert, erano emerse anche le quattro condizioni contenute nel comunicato del G8 sul Medio Oriente.
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Nelle settimane precedenti l´appuntamento di San Pietroburgo si era parlato molto dell´evoluzione americana. George Bush e Condoleezza Rice hanno attenuato l´approccio unilateralista per adottare toni più "soft", la ricerca del consenso, una nuova attenzione al ruolo della diplomazia per risolvere le crisi internazionali. La novità è reale, ma in molte capitali del mondo è stata interpretata come un segno di debolezza: la conseguenza del caos iracheno dove l´America è impantanata con costi militari ed economici elevati; la paura di una sconfitta repubblicana nelle elezioni legislative di mid-term nel novembre prossimo. E allora ecco che la ragionevolezza americana ha sortito gli effetti meno desiderabili. Siria e Iran, convinti che gli Stati Uniti non possono permettersi altre avventure militari in Medio oriente, hanno avallato l´offensiva degli Hezbollah. La Corea del Nord ha effettuato i suoi test missilistici ignorando le diffide dell´Onu, e la Cina non si è distinta negli sforzi per disciplinare il suo pericoloso vassallo. Lo stesso Putin con la repressione scatenata contro i no-global e gli attivisti democratici al G8 ha dimostrato di non prestare più alcuna attenzione alle prediche occidentali sui diritti umani: con il petrolio che viaggia verso gli 80 dollari a barile, la Russia torna ad esibire la grinta della potenza imperiale e non prende lezioni da nessuno.
L´unica nazione che finora sembra aver fatto un uso positivo della nuova linea soft invalsa alla Casa Bianca, è l´Italia. In mezzo allo stallo del G8, Prodi con i suoi contatti a Beirut, Tel Aviv e Teheran, ha messo insieme i pezzi di un mosaico che si ritrovano nel comunicato del G8 di ieri. È singolare che un governo italiano di centro-sinistra risulti più utile agli stessi interessi di Washington, di quanto non fosse stato il suo predecessore più "filoamericano". Se davvero la mossa di Prodi riuscirà ad attirare l´Iran in un ruolo negoziale positivo, i benefici potrebbero essere grandi. È ormai evidente che la teocrazia di Teheran è diventata un peso massimo in quella parte del mondo, e una soluzione duratura non si potrà raggiungere senza il suo consenso. La prudenza è d´obbligo, però: come si è visto nel dossier dell´armamento nucleare, sulla lealtà e affidabilità dell´Iran le prove devono ancora arrivare.


Ds tra Iraq e Israele
Lucia Annunziata su
La Stampa

Il consiglio nazionale dei Ds, cioè il parlamentino del partito, con i suoi 400 componenti, si riunisce oggi in piena emergenza militare internazionale, e alla vigilia di un voto sull'Afghanistan che, come continua a sottolineare il presidente Napolitano, ha a che fare con la identità stessa del governo. Tre guerre sono in corso in Medio Oriente, circostanza unica anche per la storia di quella regione. Un accumulo di instabilità militare senza precedenti sulle sponde del nostro mare.
E se, a fronte di questa eccezionale congiuntura, Piero Fassino stamattina avesse l'intuizione, il coraggio e la spregiudicatezza di mettere da parte tutto il percorso che ci aspettiamo per questo parlamentino (come ci si fonde, quando, con quale forza, con chi, e con quali nomi in segreteria etc) e ripartisse da qui, e solo da qui, cioè dalla visione del mondo del partito che guida?
Il centrosinistra al governo è entrato sulla scena internazionale con un ottimo credito: il suo no alla guerra in Iraq. Come si è visto già in questi giorni al G8, questa posizione, a fronte del disastroso corso di quel conflitto, gli dà il vantaggio di poter effettuare una partita senza eredità scomode. Tuttavia, le decisioni da prendere oggi riguardano ormai molto poco la natura, giusta o meno, delle guerre iniziate pochi anni fa, e molto più le condizioni costruite da quelle stesse guerre.
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E se c'è un politico che nel centrosinistra può sollevare questa discussione con buone possibilità di successo è proprio il segretario dei Ds, Fassino, che si è distinto nelle file del partito per la sua apertura allo Stato ebraico, e per non aver mai avuto tentazioni antiamericane. La sua posizione infatti - che si può essere mediatori solo se ci si accolla la responsabilità anche della sicurezza di Israele - è in parte diversa da quella del governo. Ma potrebbe risolversi in un aiuto, invece che in uno scontro, per il governo stesso, se il segretario riuscisse a portare i Ds fuori dalle secche delle opinioni di sempre.
Che è poi questa, oggi, la funzione vera di un nuovo partito.
Sperimentare, aprire nuovi sentieri, avere l'audacia di esplorare tramite il proprio rapporto diretto con la società, facendo così da serbatoio di idee a un governo ristretto dai suoi confini istituzionali.
Tre giorni fa, uno dei padri nobili dei Ds, Alfredo Reichlin diceva: "Il nuovo partito democratico si fa definendo qual è il nostro posto nel mondo". Appunto.


Olmert nella morsa tra Gaza e Teheran
Sandro Viola su
la Repubblica

"Non devi meravigliarti", dice Mehahem Brinker, docente di filosofia, teorico della letteratura, e figura di spicco nel movimento pacifista: "Non ti deve meravigliare che anche la sinistra israeliana sostenga oggi la rappresaglia in Libano: i bombardamenti sul sud, sulla periferia sciita di Beirut, sulla valle della Bekaa. Perché questa non è un´altra Intifada, non è un altro capitolo del conflitto tra ebrei e arabi palestinesi. E´ un´altra cosa. Una crisi che ha parecchie somiglianze con quella del 1967, con la guerra dei Sei giorni...".
"Allora", continua Brinker, "era Gamal Nasser che chiamava il mondo arabo alla lotta contro Israele: e adesso è Mahmud Ahmadinejad, il presidente iraniano, a lanciare da Teheran lo stesso appello, rivolgendolo però all´intero mondo islamico. Dopo quarant´anni è salito sulla scena, cioè, un altro leader che intende mobilitare le masse arabe e islamiche, per trascinarle, se non oggi domani, allo scontro con Israele. E questo ti spiega perchè la sinistra israeliana non abbia obbiezioni da muovere, stavolta, alla risposta militare decisa dal governo. Perché la sensazione è che da Teheran si sia cercato, con l´infiltrazione il 13 luglio in territorio israeliano, l´uccisione di sette soldati e il sequestro d´altri due, il "casus belli".
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La cosa certa è che gli israeliani stanno vivendo ore drammatiche.
Nessuno di loro s´aspettava di vedere la stazione degli autobus ad Haifa assaltata da una folla di persone in fuga, dopo che ieri i razzi lanciati dagli Hezbollah avevano fatto otto morti. Nessuno s´era immaginato, in questi sei anni dal ritiro del loro esercito dall´ultimo lembo di Libano, di dover rivedere i profughi dalle cittadine e villaggi della Galilea spostarsi in lunghi cortei d´automobili verso il centro d´Israele, al riparo dalla grandine di missili che gli Hezbollah stanno sparando, senza interruzione, da quattro giorni. E´ vero, c´era stata negli anni scorsi l´angoscia del kamikaze. Ma quello era terrorismo, e questa somiglia invece ad una vera guerra.
Perciò mi è difficile esprimere un giudizio sugli avvenimenti di questi giorni. Certo, i raids aerei sul Libano mi provocano la stessa nausea che provo da trent´anni dinanzi alle rappresaglie d´Israele. Osservando la violenza distruttrice, la mancanza di qualsiasi cautela rispetto alla possibilità d´ammazzare decine e magari centinaia di civili inermi, con cui si stanno muovendo anche stavolta i comandi militari israeliani, il primo impulso è quello della condanna. Di un´altra condanna dei metodi con cui Israele risponde ai suoi avversari. Ma il quadro politico e strategico in cui si sta svolgendo la rappresaglia in Libano, è meno lineare, più complesso e allarmante di tante altre volte.
"Non le dice niente", mi chiede Alexandr Jacobson, professore di storia antica all´università di Gerusalemme, "il fatto che nella loro riunione al Cairo vari ministri arabi degli Esteri si siano pronunciati, sia pure senza nominarli direttamente, contro la scesa in battaglia degli Hezbollah? Attenzione: sarebbe infatti un errore pensare che siamo soltanto noi, gli israeliani, a vedere con profonda preoccupazione il ruolo che l´Iran sta assumendo sul fondale strategico della regione. A preoccuparsi sono anche i regimi arabi cosiddetti moderati. Perché chi guardi oggi in direzione di Teheran, non può non vedere i segni d´uno scomposto protagonismo, d´un minaccioso avventurismo, dell´Iran di Ahmadinejad".
Sì, l´allarme d´Israele è giustificato. Una dura risposta all´attacco degli Hezbollah, andava data. Ma la memoria del passato insegna che le rappresaglie israeliane, trent´anni e più di rappresaglie, sono servite a poco o niente. Semmai, hanno peggiorato la situazione. Gli Hezbollah non esistevano, prima che nell´´82 l´esercito d´Israele invadesse il Libano. Non c´erano Hezbollah, nel sud libanese, e non c´erano gli integralisti di Hamas in Palestina. Così come non c´erano, prima delle azioni di guerra condotte contro la seconda rivolta palestinese nel 2000, i kamikaze, le bombe che camminano.
Ammesso quindi che Israele dovesse difendersi, impiegando la sua poderosa forza militare, dalle minacce dei suoi avversari, resta che il solo uso della forza - senza una ricerca di nuove aperture politiche, senza vere, concrete concessioni - ha prodotto soltanto un progressivo, inarrestabile deterioramento del quadro regionale. Sul quale deterioramento, come se non bastasse, s´innestano adesso i progetti di destabilizzazione messi a punto in Iran e in Siria.
Perciò nessuno può sapere che cosa verrà dai bombardamenti sul Libano. Mentre è invece già chiaro che dopo venti giorni di spedizioni punitive dell´esercito israeliano a Gaza, seguite al sequestro d´un giovane caporale, e dopo quattro giorni di distruzioni in Libano seguiti al sequestro d´altri due soldati, la situazione non fa che precipitare. I soldati sono infatti ancora nelle mani dei loro sequestratori, i centri della Galilea e sinanche Haifa sono sotto il tiro degli Hezbollah, il numero delle vittime cresce tanto in Libano quanto in Israele. E d´una soluzione, per il momento, non c´è neppure l´ombra.


Sana e robusta Costituzione
Giovanni Sartori sul
Corriere della Sera

Scrivevo qualche giorno fa che una riforma costituzionale diventa difficile quando i riformatori riformano se stessi, ove "se stessi" non sta per un intero solidale che persegue un interesse generale, ma sta invece per una congerie di interessi particolari per i quali mors tua vita mea. Questo, si avverta, è un problema delle costituzioni scritte relativamente facili da modificare. Pertanto non è un problema del costituzionalismo inglese (che non è codificato in un testo scritto), e nemmeno del costituzionalismo americano, che è reso pressoché intoccabile da un'estenuante procedura di ratifica. È però un problema in Sudamerica, affetta da frenesia di "cambismo"; e oggi in Italia.
È abbastanza ovvio che il riformatore che fa da sé per sé avvia un circolo vizioso "interessato" altamente sospetto. È altrettanto ovvio che i nostri 950 legislatori fingono di essere "tuttofare" senza esserlo. Talvolta lo ammettono. La riforma del codice penale viene delegata ai penalisti, la riforma del codice civile ai privatisti. Dopodiché, si intende, il Parlamento le recepisce. Domanda: perché mai la riforma della costituzione non viene affidata, alla stessa stregua, ai costituzionalisti? È una domanda che quasi non viene più in mente. Ma perché? Le grandi costituzioni che fanno da modello sono tutte firmate da grossi giuristi: la costituzione di Weimar da Preuss, la costituzione indiana dall'inglese Jennings, la costituzione della Quinta Repubblica francese da Debré (così come, in precedenza, tutte le costituzioni ottocentesche furono redatte da esperti). Allora, perché non più? Sospetto perché in casa propria i legislatori non vogliono interferenze. Ma questi legislatori sono dei rappresentanti, e pertanto la casa costituzionale non è loro: è semmai dei rappresentati. Il loro "lasciateci fare" è soltanto un'appropriazione indebita, non certo una valida ragione per sottrarre la costituzione alla competenza dei competenti.
La mia idea è allora di cambiare il campo di gioco istituendo una piccola commissione di costituzionalisti che dovrà redigere, su quattro-cinque punti "prioritari" (così il Presidente Giorgio Napolitano), una rosa di proposte, anche alternative, da sottoporre al Parlamento. Si capisce che il Parlamento vorrà emendare, e che i partitini si opporranno a tutto quello che li danneggi; ma la Commissione resterà in carica per controdedurre; e poi si sa che chi redige un testo ha già vinto a metà.
Ho detto una commissione "piccola". Perché più un comitato si ingrandisce, più diventa lento e inefficiente. Penserei, tanto per discuterne, a nove componenti (eventualmente con altrettanti sostituti): quattro costituzionalisti designati dai quattro maggiori partiti, quattro costituzionalisti designati dalla loro associazione e un giurista di indiscussa autorità designato dal Capo dello Stato. La ragion d'essere di questa distribuzione è abbastanza intuitiva. Quattro componenti sono "di parte" e di parti contrapposte. Quattro dovrebbero invece essere specialisti non impegnati in politica. E prevedo dei sostituti per ovviare anche a eventuali assenze. Ma il punto da sottolineare è che l'approvazione in Parlamento delle proposte della commissione dovrà essere di ogni singolo partito su ogni singolo punto (non certo di schieramento su un pacchetto complessivo). A questo modo diventa difficile imbottigliarsi e verrà anche minimizzato il conflitto di interessi di un Parlamento che si autoriforma. Siccome mi accusano di essere un pessimista, questa volta ci tengo a dichiararmi speranzoso.


Al Quirinale è tornato un politico
Marcello Sorgi su
La Stampa

Forse è ancora presto per dirlo, ma le prime mosse di Giorgio Napolitano in due mesi di presidenza segnalano una novità non di poco conto: al Quirinale è tornato un Presidente politico, che non ha imbarazzo, ed anzi considera un suo preciso dovere, influire sull'indirizzo e sulle strategie del Paese. Poco avvezzi a conoscere la personalità di un uomo che ha fatto dell'understatement il suo segno di distinzione, la gran parte dei media nazionali e stranieri si applicano a interpretare, per paragonarlo o distinguerlo dai suoi predecessori, ogni piccolo gesto del nuovo Capo dello Stato, il legame con la sua città e la ristretta cerchia di vecchi amici, la partecipazione alla finale dei mondiali di calcio, quel suo dire che "dentro di sé", ma solo dentro, ha fatto un salto altissimo per la vittoria, mentre fuori è rimasto composto come sempre, davanti agli italiani di tutto il mondo che perdevano il controllo.
Invece lo stile Napolitano sta tutto nei suoi atti politici, nel ricorso, anche frequente, alle note ufficiali della Presidenza della Repubblica, negli incontri, numerosi e non sempre ufficiali, che affollano la sua agenda, nelle sottolineature di alcune iniziative rispetto ad altre. E già nel confronto con Ciampi, la differenza tra l'impronta tecnica del decimo Presidente, e quella politica dell'undicesimo, balza subito agli occhi. Laddove per l'ex governatore il controllo legislativo svolto dagli uffici del Quirinale era il modo più esplicito di manifestare il potere del Presidente, anche a costo, con il rinvio dei testi alle Camere, di scontare forti attriti istituzionali, per Napolitano l'intervento del Capo dello Stato può e spesso deve essere preventivo, rivolto a creare le condizioni politiche e parlamentari che consentano di affrontare per tempo i problemi e arrivare alle soluzioni. Prendiamo la recente visita a Milano, nel corso della quale, come vuole il protocollo, il Presidente ha incontrato tutte le autorità locali, e come facevano anche Pertini e Ciampi tra i suoi predecessori, ha voluto, con la visita al Corriere della Sera, rivolgersi all'opinione pubblica di una forte area del Paese. Ma in questa cornice - una giornata affollata di impegni, dedicata, come tante ne verranno, a una città e a un pezzo di popolazione importanti - l'atto politico più rilevante, ancorché irrituale, lo scopo principale della visita, è stato l'incontro con Bossi. All'indomani del referendum, dopo un risultato che poteva anche essere interpretato come la pietra tombale sul federalismo, Napolitano ha sentito il bisogno di rassicurare il leader nordista sul futuro delle riforme costituzionali.
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E' un messaggio chiaro: senza invadere campi altrui, il Presidente intende far sentire la sua voce su materie che concorrono a garantire l'unità nazionale, come le riforme istituzionali e la politica estera. E quand'è possibile, adoperarsi per far sì che nuovi conflitti non vengano a indebolire la vita pubblica di un Paese stremato da quattordici anni di scontri. Quel che resta da capire, al di là dei consensi e delle critiche venute dai partiti, è in che modo il sistema italiano reagirà alla strategia presidenziale che comincia a prender forma: da questo punto di vista, le prossime due settimane, con il voto sulle missioni internazionali che viaggia tra Camera e Senato, saranno un banco di prova anche per il Quirinale. Il primo, e forse neppure il più difficile. Infatti subito dopo il vero test sarà con i magistrati: quando il Presidente, capo della magistratura, si troverà stretto tra i giudici che vogliono far saltare la riforma che li riguarda e il governo che deve decidere se e come farlo.


Addio ai grandi della terra
Franco Venturini sul
Corriere della Sera

SAN PIETROBURGO — Se l'argomento si prestasse a facili ironie invece di costituire un dramma umano e politico, sarebbe giusto dire che davanti ai lampi di guerra in Medio Oriente la montagna del G8 ha partorito l'annunciato topolino.
La dichiarazione dei Potenti non esprime dubbi su chi ha la responsabilità di destabilizzare la regione: Hamas a Gaza e Hezbollah dal Libano hanno attaccato Israele e ucciso o rapito i suoi soldati. Questi estremisti e "coloro che li appoggiano" (non nominati) rischiano di provocare un'estensione del conflitto e devono fermarsi.
Ma anche Israele, che pure ha il diritto di difendersi, deve tener conto delle conseguenze strategiche e umanitarie delle sue azioni. E dunque deve esercitare la moderazione, evitando in particolare di fare vittime tra i civili e di distruggere infrastrutture (cosa che oltretutto indebolisce l'amico governo libanese).
La ricetta sul da farsi diventa allora perfettamente salomonica. Vengano liberati gli ostaggi israeliani, tanto a Gaza quanto nel Libano. Si smetta di colpire il territorio di Israele. Abbiano termine le operazioni militari israeliane (con la fine dei bombardamenti sul Libano, ma anche con un sollecito ritiro delle forze di terra da Gaza). Gerusalemme liberi i ministri e i parlamentari di Hamas arrestati.
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Ma in realtà era stato Vladimir Putin, in una conferenza stampa di mezzanotte, a lanciare per primo un bel sasso nello stagno. Temo, aveva azzardato, che "gli obiettivi di Israele vadano oltre la liberazione dei suoi soldati presi in ostaggio". Come dire che Ehud Olmert intende cogliere la palla al balzo per indebolire seriamente Hamas ed Hezbollah, senza escludere in prospettiva di mettere nel mirino anche il regime siriano e forse quello iraniano già sotto pressione per i programmi nucleari di Teheran. Dalle delegazioni francese e britannica sono venute ieri, con grande discrezione, perplessità non troppo lontane da quelle del capo del Cremlino. Americani e tedeschi, con la medesima discrezione, hanno invece rifiutato l'assunto di Putin. Ma a conti fatti si è scoperto che tutti concordavano sullo scenario che resta il vero spauracchio della comunità internazionale ora che il G8 si accinge a chiudere i battenti: si sono create le condizioni per un allargamento del conflitto, e se nuovi attacchi come quello di ieri contro Haifa inducessero Gerusalemme a colpire Damasco (cosa che "per ora" Olmert non intende fare) l'intero arco di crisi che va dall'Afghanistan all'Iran, all'Iraq, a Israele, ai Territori, al Libano e alla Siria diventerebbe ingovernabile.
E pensare che il G8, ancora qualche anno fa, era sotto accusa perché alcuni lo consideravano un "governo del mondo".


   17 luglio 2006