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sulla stampa
a cura di P.C. - 6 luglio 2006


Scenario inquietante
Ezio Mauro su
la Repubblica

Un atto ufficiale della Procura della Repubblica di Milano contro due alti funzionari del Sismi ipotizza che il giornalista di Repubblica Giuseppe D´Avanzo sia stato sottoposto a intercettazione illegale da parte dei nostri servizi segreti.
Si tratta, com´è evidente, di uno scenario inquietante. Un giornalista impegnato da anni in un lavoro di analisi e di inchiesta – insieme con Carlo Bonini – su tutte le vicende più delicate ed oscure della Repubblica viene fraudolentemente "ascoltato" nel suo lavoro da parte di due pubblici ufficiali, incaricati di operare a tutela della sicurezza del Paese e dei cittadini. Non solo. Gli stessi soggetti, secondo i magistrati che li hanno invitati a comparire, hanno messo in atto "comportamenti di controllo degli spostamenti fisici" di D´Avanzo e Bonini, cioè li hanno seguiti e pedinati, nei loro movimenti e nei loro contatti di lavoro.
È la prima volta, da molti anni, che la libertà di stampa subisce un attentato così clamoroso e patente nel nostro Paese. Qualcosa di inconcepibile in qualsiasi democrazia, anche più malandata della nostra. Un reporter intercettato fuori da ogni inchiesta giudiziaria, da ogni ipotesi di reato, da ogni autorizzazione della magistratura, fuori in una parola dalla legalità e dalla legge. Semplicemente per un sopruso, un abuso di potere diretto contro l´autonomia della libera stampa.
È così grave quanto è avvenuto che ci dobbiamo domandare dov´è cominciato, e quando è finito. Quali altre intercettazioni sono state fatte a giornalisti, senza emergere nel filtro casuale di un´inchiesta? Con quali limiti invisibili, con quanti custodi occulti, abbiamo lavorato negli anni di Berlusconi? E il governo attuale, di fronte a questo attacco ad un diritto fondamentale di una società democratica, non sa far altro che replicare una gregaria "fiducia" nei servizi? Perché non si domanda e soprattutto non domanda se il direttore del Sismi ha autorizzato questo sfregio illegale? Se sapeva, ed è dunque colpevole direttamente, o se non sapeva, ed è colpevole indirettamente?
Repubblica, naturalmente, si difende da sola, con il lavoro dei suoi reporter che è davanti ai suoi lettori. Ma se il Paese non ha nulla da dire quando un giornalista è intercettato dai servizi perché indaga su di loro, perché scrive su un giornale sgradito, o semplicemente perché è un giornalista, allora significa che in quel Paese tutto può davvero succedere.


Quella distanza tra Italia e Usa
Andrea Romano su
La Stampa

Non c'è sicuramente alcun legame tra il messaggio sul "dieci per cento di disaccordo con l'Italia" lanciato lunedì dall'ambasciatore americano e gli arresti di uomini del Sismi e della Cia disposti poche ore dopo dalla procura milanese. Eppure è inevitabile leggere i due avvenimenti lungo un unico filo interpretativo. Quello che collega le diverse modalità nazionali della lotta al terrorismo con la percezione dei rapporti tra Italia e Stati Uniti all'alba del nuovo governo di centrosinistra. La procura milanese avrà certamente agito secondo scienza e coscienza chiedendo il carcere per i vertici degli apparati di intelligence italiani e statunitensi. Ma resta il fatto che quella richiesta rivela la distanza ormai enorme che separa gli strumenti di diritto di cui dispongono gli Stati nazionali da una partita contro il terrorismo fondamentalista che si gioca tutta sul piano sovrannazionale e che supera frontiere, legislazioni e garanzie pensate in tempi ben lontani.
...
Oggi franchezza e responsabilità sembrano indebolite da un atteggiamento ispirato alla ricerca di un posto a tavola che prescinde dal merito. Come nel caso iraniano, dove lo sforzo per vedere l'Italia coinvolta nelle trattative sul nucleare ci ha visti impegnati a ricercare la costosa benevolenza di Teheran: riconoscendone "il diritto inalienabile ad accedere all'energia atomica", auspicando "il riconoscimento di quel ruolo regionale cui l'Iran giustamente e legittimamente aspira" e ricordando che l'Italia pagherebbe un prezzo molto alto nell'ipotesi di sanzioni contro Ahmadinejad. Il tutto mentre l'Europa - e non solo Washington - è impegnata in una partita con Teheran che non esclude affatto il ricorso alle sanzioni né tantomeno muove dal "diritto inalienabile" di una irresponsabile potenza petrolifera di dotarsi di energia nucleare. O come nel caso afghano, dove il contenimento della spinta al ritiro è stato interamente fondato su ragioni di opportunità tattica: non conviene all'Italia ritirarsi, è stato detto, perché questo ci porrebbe in conflitto con i nostri alleati.
Ma nessuno ha spiegato o capito perché sia giusto che l'Italia rimanga in Afghanistan, quale sia la posta in gioco e contro quali scenari politici si sia deciso di continuare ad impegnare le nostre truppe. Non è un caso che nei commenti di questi giorni abbia tanta diffusione il paragone tra la nuova Farnesina e l'antica tradizione andreottiana, complice l'infelice invenzione di una "equivicinanza" italiana tra Israele e il governo di Hamas. Ciò che unisce il nuovo e l'antico è la spregiudicatezza di chi ritiene di poter fare da soli, passando sopra il merito delle crisi e le convinzioni che muovono le alleanze. Ma rischiando così di inciampare nel sospetto di inaffidabilità, come regolarmente accadeva per l'Italia andreottiana.


I nemici irriducibili della società aperta
Massimo Giannini su
la Repubblica

La "marcia su Roma" dei tassisti è un capitolo interessante e illuminante della biografia della nazione. Lo è dal punto di vista etico e politico. Ormai da tre giorni i tassisti italiani sono diventati come i camioneros cileni. Scioperi spontanei e blocchi stradali. Aggressioni inopinate, slogan violenti e striscioni inqualificabili davanti a Palazzo Chigi. "Saremo il vostro Iraq", minacciano i duri di tassametro selvaggio. Poco senso di responsabilità verso gli italiani che, in città, ci stanno perdendo tempo e denaro. Nessun senso di solidarietà verso i nostri soldati che, in Iraq, ci hanno perso addirittura la vita.
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Se la sinistra post-operaia lo eleva finalmente a "classe", compie una grande rivoluzione identitaria. Anche a costo di qualche strappo sociale. Anche a costo di un cortocircuito nella tradizionale cinghia di trasmissione del consenso, senza il quale non c´è mai un avanzamento della società verso la modernizzazione. In questo sclerotizzato Sistema-Paese, che ci costa 22 miliardi di euro all´anno in termini di mancata deregulation, ci sarà sempre qualcuno (piccola lobby o Potere Forte, ordine professionale o sindacato confederale) pronto a spiegare al governo di turno che qualunque modifica del suo status quo è un maleficio. Ma perché questa rivoluzione sia compiuta, è non solo opportuno, ma assolutamente necessario che lo stesso approccio (questo sì, concretamente riformatore e riformista) sia adottato anche verso gli altri settori "critici" del caso italiano. Quelli che indica lo stesso Bersani: monopoli elettrici, energetici o telefonici, e soprattutto "pubblico impiego e spesa pubblica". Questo chiama in causa Confindustria da una parte, Cgil-Cisl-Uil dall´altra. Interessi ben più corposi di quelli coinvolti dalla liberalizzazione dei taxi, delle farmacie o degli avvocati. Questi ultimi, come ricorda Luca Ricolfi, rappresentano 1 elettore ogni 1.000. i primi, tra imprese e sindacati confederali, ne esprimono all´incirca 350 ogni 1.000. Buona parte della constituency politico-elettorale dell´Unione.
Una riflessione, uguale e contraria, si impone per il centrodestra. La mediazione di Alemanno (comunque accolto dai rivoltosi romani al grido di "duce, duce") ha prodotto il risultato apprezzabile di far recedere dalla protesta cilena almeno alcune sigle sindacali. Ma per il resto (nel silenzio imbarazzato dei liberisti alle vongole di Forza Italia) An brilla per demagogia e disinvoltura. Gianfranco Fini condanna le violenze più estreme, ma poi aggiunge che "bisogna comprendere l´esasperazione di chi lavora". Ma cosa c´è da comprendere, in chi insulta Fassino in fila al check in dell´aeroporto di Torino, o in chi sputa sulla macchina di Mussi, urlando in tutti e due i casi "comunista"? Cosa c´è da comprendere, in chi spacca il tassametro di un collega, o in chi sfascia i vetri dell´auto "Noleggio con conducente", gridando in tutti e due i casi "crumiro bastardo"? L´indulgenza del leader di An, verso la piazza tassista che agita fiamme tricolori e teschi bianchi in campo nero, è inquietante. Quasi parlasse di "camerati che sbagliano". C´è un riflesso pavloviano in questa destra, che nonostante tutti i lavacri di Fiuggi e tutte le "svolte" vere o presunte, non riesce mai ad uscire dal perimetro della sua angusta rappresentanza sociale e della sua inaridita radice culturale. Viene da chiedersi quale sia la natura di questa destra, che ancora una volta (come già fece nel 2000) cavalca la protesta sudamericana. Altro che "destra liberale". Altro che Luigi Einaudi o Karl Popper, acquisizioni recenti del diorama finiano. Qui torniamo a Starace, e arriviamo a Peron. Un partito-corporazione dentro e contro lo Stato, che attinge al passatismo fascista e lo rinverdisce per banale cinismo propagandista.
La destra dovrebbe rileggersi Adam Smith. "Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse", scriveva nella Ricchezza delle Nazioni. Oggi nessuno si aspetta corse gratuite dai tassisti né cause gratis dagli avvocati. Ma quando aggrediscono un ministro o paralizzano una città, ci si chiede quale sia la "mano invisibile" che li guida. Probabilmente quella dell´egoismo sociale e oligopolistico, che li spinge a difendere comunque, senza se e senza ma, l´interesse particolare della corporazione. Non certo quella della società aperta e del libero mercato che, come insegnava lo stesso Smith, consentiva alle categorie produttive di promuovere comunque, anche "senza saperlo e senza volerlo, l´interesse generale della società".


Sartori tifa per il trasformismo
Editoriale su
Il Foglio

Giovanni Sartori definì, all'indomani delle elezioni politiche, la maggioranza di centrosinistra “insufficientissima”, e ne trasse la conclusione che sarebbe stato meglio cercare di formare un governo a larghissima base parlamentare invece di affrontare i rischi di una navigazione difficile data l'esiguità, quasi evanescente al Senato, dei margini di maggioranza. Si trattava di un'opinione controcorrente, con una discreta vis polemica, che aveva il pregio di descrivere con oggettività la situazione e di proporre una soluzione impopolare ma che non contrastava con il mandato richiesto agli elettori. Ogni coalizione, infatti, aveva sollecitato il voto per governare da sola, ma l'esito contraddittorio, una piccolissima prevalenza nel voto per la Camera per gli uni, una prevalenza di voti anche se non di seggi al Senato per gli altri, giustificava il ricorso a una soluzione bipartisan, del tipo di quella adottata, in circostanze simili, in Germania. Ora invece il professore toscano propone un espediente diverso per sormontare le difficoltà parlamentari della maggioranza: le “maggioranze variabili”, cioè, come riconosce con la tradizionale schiettezza, una sorta di ribaltone che consenta a Romano Prodi di governare con l'appoggio, concordato volta per volta con una parte dell'opposizione, in modo da togliere il potere di condizionamento che oggi detengono le formazioni minori dell'Unione e soprattutto quelle di estrema sinistra. Attacca il “puritanesimo anti-ribaltista” di Prodi, che già lo condusse alle dimissioni otto anni fa, spiegandogli che senza qualche “aiutino” dall'opposizione “il suo governo non va da nessuna parte”. L'illustre politologo sa bene che questa prassi si chiama trasformismo, che ha una tradizione nella storia parlamentare italiana non particolarmente felice. Non si tratta qui di moralismo, ma di misurare le conseguenze di una degradazione del bipolarismo, per quanto imperfetto, in una destrutturazione di maggioranza e opposizione che lascerebbe senza punti di riferimento un elettorato che avrebbe ogni diritto di sentirsi preso in giro.


No al diritto di veto
Pietro Ichino sul
Corriere della Sera

I rappresentanti dei tassisti e di alcune altre categorie di lavoratori autonomi, contrariati dalle misure decise dal governo, lamentano che queste siano state adottate senza previa concertazione con loro. Dimenticano che una politica di concertazione, da che mondo è mondo, ha senso e può produrre risultati positivi solo a condizione che il governo e i rappresentanti delle parti sociali abbiano fin dall'inizio almeno una visione comune degli obbiettivi da raggiungere e dei vincoli da rispettare lungo il percorso. Se quella visione comune c'è, la concertazione costituisce una risorsa preziosa, dà al Paese una marcia in più; se invece quella visione comune non c'è, una politica di concertazione può portare alla paralisi. Un altro requisito essenziale per la praticabilità di una concertazione degna di questo nome è che i rappresentanti delle parti sociali contrapposte condividano tra loro una cultura del dialogo, una capacità di negoziazione che nasce in qualche misura dalla fiducia reciproca e dalla capacità degli uni di comprendere i problemi degli altri. Così, per esempio, un sistema di relazioni sindacali ben funzionante, capace di selezionare e conciliare intelligentemente gli interessi di lavoratori e imprenditori, ha pieno titolo per proporsi come interlocutore del governo anche per la concertazione di scelte di politica economica generale.
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Per tornare alla questione di oggi, i rappresentanti dei tassisti, dei farmacisti e dei liberi professionisti (ma il discorso ovviamente non vale soltanto per loro), se vogliono essere credibili nella loro proposta o richiesta di concertazione, dovrebbero dire preliminarmente che cosa condividono degli obbiettivi generali enunciati dal governo, almeno sulla materia della liberalizzazione dei servizi, e delineare il contenuto di un'intesa possibile su questo terreno con le associazioni dei consumatori. Se, invece, di quegli obbiettivi condividono poco o nulla, se con le associazioni dei consumatori sanno soltanto guardarsi in cagnesco e non hanno neppure avviato un inizio di dialogo, allora la "concertazione" che essi rivendicano può servire soltanto a far valere un loro preteso, ma inesistente, diritto di veto.


La città tenuta in ostaggio
Attilio Bolzoni su
la Repubblica

Se la sono presa con la forza, l´hanno tenuta in ostaggio per un giorno intero i "boia chi molla" del Circo Massimo, i ribelli del tassametro, quelli che hanno marciato su Roma e l´hanno stretta in una morsa. Con bandiere e bandane, con urla da curva sud e saluti fascisti, trombe e trombette, sirene, fischietti, tamburi, calci, pugni, spintoni a ministri e legnate a giornalisti.
E´ stata un po´ sommossa e un po´ adunata. I tassisti sono arrivati fino a un passo da Palazzo Chigi per avvertire Prodi e il suo governo, alzavano un cartello minaccioso: "Saremo il vostro Iraq".
Prove generali di taxi selvaggio, una rivolta cattiva che ha paralizzatato la capitale d´Italia, blocchi stradali, traffico impazzito, poliziotti schierati in assetto antiguerriglia, un sole rovente e una feroce giornata di lotta che ha annunciato l´assedio prossimo venturo. E´ cominciato tutto al Circo Massimo e tutto al Circo Massimo è finito. Cronaca di un tumulto a Roma, c´è chi dice che erano più di 10 mila. Se ne sono andati quando è calata la sera, esausti e ancora rabbiosi. Qualcuno gli ha promesso che - con le buone o le cattive - il Presidente del consiglio tratterà. Per il momento hanno sospeso la rivolta, torneranno a scioperare martedì prossimo.
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Hanno sfogato la loro rabbia i "boia chi molla" del Circo Massimo. Con tutti quelli che non stavano con loro. Verso le cinque del pomeriggio la folla avvista a qualche decina di metri un´auto blù. C´è dentro il ministro dell´Università Fabio Mussi. Lo riconoscono. Circondano l´auto, la prendono a calci, il ministro scende per parlare ma lo spintonano, gli arriva qualche gomitata. Il ministro risale sulla sua auto blu e guadagna la strada per Montecitorio. "Siamo noi, siamo noi, i tassisti dell´Italia siamo noi", continuano a gridare in piazza Colonna. Ma da qualche parte arriva l´ordine di ritirata. Si torna da dove si era partiti. Al Circo Massimo.
Sono quasi le 8 di sera quando su un camioncino bianco sale ancora Francesco Storace. "Ero venuto qui a darvi il buongiorno, vengo adesso a darvi la buona sera". E poi parte la sua promessa al popolo dei tassisti: "La nostra partita si può ancora giocare, dico la nostra perché non siete soli in questa battaglia, la sinistra è contro i lavoratori e porta i no global in parlamento e invece voi.. ". Una voce lo interrompe: "No global e froci porta in Parlamento". L´ultimo applauso si spegne con l´ultimo incitamento del capopolo Carlo Bologna. Afferra il microfono e urla: "E chi si ritira dalla lotta?". I diecimila del Circo Massimo non aspettavano altro. "E´ `n gran fijo de `na mignotta". Ancora il capopopolo: "E chi si ritira dalla lotta?". I cinquemila rispondono per altre tre volte al capopopolo quando le auto bianche una dopo l´altra spariscono e Roma ritorna libera.


Una milizia mai vista
Fabrizio Roncone sul
Corriere della Sera

ROMA — Lo spettacolo, a lungo, è stato angoscioso. Le piazze più belle del centro storico erano nelle mani di una milizia mai vista: migliaia di tassisti che avevano davvero, come promesso, marciato su Roma, l'aria implacabile e in qualche modo festosa, orgogliosi di indossare curiosi pantaloni corti sotto le ginocchia che chiamavano "pinocchietti" e calzando sandali infradito con piedoni lerci, le teste spesso rasate e le gambe e le braccia tatuate con il profilo di Benito Mussolini o il fascio littorio, sciamavano e circondavano chiunque, per giudizio sommario, potesse non condividere la loro protesta.
Un ministro della Repubblica, Fabio Mussi, estratto dalla sua automobile blu e poi minacciato e colpito con una manata che solo il dovuto rispetto ci impedisce di chiamare ceffone. Claudio Guaitoli, un fotografo che stava lavorando per il Corriere, colpito da calci e sputi e quindi inseguito. E poi cronisti accerchiati e minacciati, e poi ancora altri tassisti che avevano deciso di non aderire allo sciopero rincorsi e insultati. Plotoni di agenti e carabinieri schierati innanzi ai portoni d'ingresso del Parlamento e di Palazzo Chigi. Fin lì sotto, queste squadre di tassisti in sciopero non autorizzato erano giunte dopo essere partite dal Circo Massimo, dove fanno ritorno al tramonto, seguendo lo stesso percorso dell'andata: via dei Cerchi, via del Teatro Marcello, piazza Venezia, via del Corso. Con le comitive di turisti che scattano foto, che non capiscono. Con il traffico impazzito, deviato, con gli autobus fermi. Con la gente che chiama dagli ospedali. Con i disabili bloccati in casa. Con centinaia di cittadini, in attesa, alle fermate, torturati dal sole a picco.
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C'era lui, stamane, accanto a Gianni Alemanno, l'esponente di An che da quel piccolo palco ha arringato il popolo dei rivoltosi e che adesso, però, non è venuto. Lo cercano al telefonino, e dopo di lui cercano anche Francesco Storace, e poi chiamano Maurizio Gasparri e Teodoro Buontempo, l'adorato "er pecora", pronto ad adoperarsi per far avere qualche bottiglia d'acqua ai manifestanti che assediavano Palazzo Chigi. Ma, niente: i leader di Alleanza nazionale non si fanno trovare al tramonto e c'è il solo ex candidato alla poltrona di sindaco di Roma, Alemanno, appunto, che deve aver cambiato idea e toni se, davvero, sta addirittura conducendo una mediazione riservata tra il ministro Bersani e i manifestanti. Che, così, decidono di arretrare. Certo, i loro capetti fingono di cantare vittoria. Loreno Bittarelli, presidente dell'Uri, l'Unione radiotaxi italiana (quello, per capirci, che ammette orgoglioso: " So' de destra e ho organizzato la seconda marcia su Roma, embè? "), ecco Bittarelli adesso dice: "Blocchi sospesi, ma il decreto deve cambiare". Più o meno la frase che ripetono il vecchio capo dell'Ait, Carlo Bologna, e i leader napoletani e milanesi. Colonne di taxi abbandonano il presidio del Circo Massimo, ma nessuno è in grado di immaginare ciò che potrà accadere nei prossimi giorni. La maggior parte dei manifestanti appare infatti stordita e incerta. Anche se gli resta vivo il celebre senso degli affari: " Ahò! Ma che ora è? Se volemo anda' a prende du' giapponesi a Fiumicino? ".


Una lezione di civiltà
Gian Enrico Rusconi su
La Stampa

So sind die Italiener. "Gli italiani son fatti così!". A denti stretti o ridendo, te lo senti dire in faccia. Amichevolmente, ma con un impercettibile tono di rassegnato rimprovero. Rimprovero di che? Abbiamo forse barato o giocato male? No. Tutto è a posto alla fine - si replica - come sempre con questi Italiener. Abili e fortunati, in politica come in economia, nello sport come in guerra. Seguono però alcuni sottintesi. In effetti sul punto guerra è meglio tacere. Sarebbe politicamente scorretto in questo incredibile campionato mondiale pieno di allegria, di cordialità, di cosmopolitismo, di correttezza civile. Un evento festoso senza precedenti qui in Germania.
Ma gli italiani hanno forse rovinato la festa? No. Anzi, soltanto gli Italianer riescono a battere i tedeschi dando alla loro vittoria il sapore di un gioco nel senso più schietto del termine, quale sempre dovrebbe essere. Il 2-0 infatti non è un giudizio sui tedeschi, sulla loro società o sul loro stile di vita o sulla Grande Coalizione. Questa è la vera lezione dell'eterna partita Italia-Germania. Anche se in fondo è proprio questo ciò che irrita molti tedeschi. Leggendo certi seriosi commenti di questi giorni, il calcio è diventato lo specchio della società. Anzi, la trasposizione in una competizione rituale incruenta del conflitto reale, guerresco. Ci manca solo che nella strategia dell'allenatore tedesco si intravveda il piano Schlieffen per l'attacco alla Francia o in quella di Lippi le cadorniane spallate sull'Isonzo. E' una lettura sbagliata.
E' sciocco vedere nella prestazione sportiva il surrogato o il sostituto della prestazione politica. Almeno così voglio credere, per venire incontro alla intima ambivalenza che i tedeschi hanno verso di noi. La componente amabile degli italiani è quella di mostrare che il gioco è bello e serio in sé e non ha bisogno di mimare nulla. O di compensare qualcosa d'altro. Se e quando riusciamo a dire questo - e a dirlo anche a noi stessi - abbiamo davvero dato un contributo di civiltà. Dopo di che, naturalmente, rimane l'altra faccia della medaglia: il gioco del calcio non ci esonera dall'essere seri e bravi anche nel gioco della politica. Ma questo è un altro discorso, che sin troppo spesso ci sentiamo fare dai nostri amici tedeschi. Dicevamo dell'evento festoso di queste settimane. L'immagine inattesa di una Germania rilassata, allegra, aperta al mondo. In realtà è l'esplosione verso l'esterno di una trasformazione interna che si sentiva sotterranea da qualche anno. Proprio per questo è anacronistica la pressione dei vecchi luoghi comuni e dei pregiudizi reciproci che fanno capolino tra le righe dei giornali e nelle mezze parole pronunciate sotto voce sull'onda della partita Italia-Germania. I pregiudizi hanno le loro ragioni e radici storiche, ma si possono prendere di petto, rivedere e correggere. Naturalmente non con le prediche.


   6 luglio 2006