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a cura di G.C. - 18 gennaio 2006


La terapia che vuole dissolvere la sinistra
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

L´ultima tempesta (in un bicchier d´acqua) tra Prodi e i partiti dell´Ulivo, conclusasi con l´ennesimo accordo sulla presentazione delle liste elettorali, ha riportato alla ribalta la questione del futuro partito democratico, sui tempi e le modalità necessarie per realizzarlo e soprattutto sulla sua natura politica: questioni non peregrine poiché dalla loro soluzione dipenderà la qualità innovativa che la nascita di questo nuovo soggetto introdurrà nella democrazia italiana dopo dieci anni di avventure berlusconiane.
Fondere in uno stesso contenitore due culture politiche e due esperienze storiche profondamente diverse che derivano una dal Pci e l´altra dalla Dc (sia pure dell´area di sinistra di quel partito) non sarà un´operazione semplice e tuttavia è la sola capace di dar vita ad un forte partito riformista, tanto più necessario in un paese che di un riformismo serio ha estremo bisogno; senza dire che tra gli effetti positivi vi sarà anche quello di facilitare la nascita d´un partito conservatore moderno, adeguando finalmente la democrazia italiana ai modelli del bipolarismo e del bipartitismo che da molto tempo caratterizzano le democrazie occidentali al di là e al di qua dell´Atlantico.
Si tratta dunque d´una iniziativa che non è retorico definire storica perché costituisce l´indispensabile premessa alla modernizzazione della società nei campi dell´economia, del mercato del lavoro, della pubblica amministrazione, dei diritti e dei doveri civili, dell´esercizio della giurisdizione, della scuola, della sanità e insomma di tutti quei "beni pubblici" che influiscono direttamente sul benessere dei cittadini e sui loro rapporti con le istituzioni.
Le fusioni tra entità diverse non sono processi facili.

Intorno a loro, nel corso della loro storia, si sono raggruppati interessi, ambizioni, prospettive, speranze. Nel momento della loro scomparsa tutte queste forze dovranno riposizionarsi sicché nella fase che precede la nascita del nuovo soggetto ciascuna di esse cercherà di ottenere le migliori condizioni di partenza. Di qui la complessità dell´operazione che presuppone una volontà molto determinata nel superare le resistenze e nel facilitarne il riposizionamento.
Se guardiamo al passato prossimo non troviamo molti esempi riusciti di fusioni fra partiti diversi. Fu un completo fallimento la fusione tra Psi e Psdi tentata da Nenni e Saragat nel 1967. Eppure si trattava di aggregati derivanti da una comune matrice culturale e politica.
Analoghi insuccessi si sono avuti in Gran Bretagna con le iniziative "lib-lab" (liberali-laburisti) e in Francia tra gollisti e giscardiani.
A ben guardare la sola operazione riuscita è stata quella mitterrandiana ed è infatti proprio quella ad aver dato al suo autore il crisma e il carisma di grande uomo politico al di là dei tanti difetti ed errori che hanno costellato la sua biografia di statista

Aggiungo che il mitterrandismo si cementò in lunghi anni di opposizione e fu proprio in quel periodo che il nuovo aggregato culturale politico prese forma. Nacque la "gauche" e portò il suo leader al potere per tre mandati presidenziali.
Non sono queste le attuali condizioni italiane dove tra l´altro la presenza vaticana nell´arena politica è quanto mai influente e ingombrante. Ci vuole dunque un sovrappiù di creatività politica e di realismo. Creatività e realismo possono dar luogo ad un ossimoro, contengono cioè una contraddizione.
Eppure nel caso specifico sono entrambi elementi indispensabili in mancanza dei quali il partito democratico si rivelerà un flop o non nascerà affatto.
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Tre giorni fa il professor Panebianco ha dedicato a questo tema un´ampia analisi con un suo articolo di fondo nel Corriere della Sera. Lo stesso giorno e nella pagina il Corriere ha pubblicato un articolo del professor Ichino dedicato alla struttura dei sindacati italiani e alle modalità contrattuali entro le quali essi operano. Li cito insieme perché, al di là dei temi diversi, l´ispirazione dei due articoli è comune, direi anzi identica, tanto da configurare una linea editoriale vera e propria alla quale del resto quel giornale è sempre stato fedele. E poiché il Corriere della Sera dà voce da centotrenta anni agli interessi e alla cultura della borghesia imprenditoriale padana, quella linea editoriale ha un peso che trascende i suoi autori e il pur importante giornale che li ospita. Per questo merita parlarne.
Panebianco è ben consapevole delle difficoltà di dar vita al nuovo partito democratico. Per arrivarci sceglie il modello di polverizzare gli aggregati esistenti.
Cancellarli. Dissolverli. Disperderne identità e memoria storica. Scrive testualmente che la "base" è una realtà e un concetto ostativi alla realizzazione del progetto. Per creare il partito democratico bisogna che esistano soltanto persone, singoli individui, sciolti e liberati da ogni precedente appartenenza e disposti, in quanto persone, a dar vita al nuovo soggetto politico.
È fin troppo chiaro che questa terapia d´attacco ha come obiettivo i Ds e non anche la Margherita di Rutelli e di Marini. Lì infatti non esiste né il mito né la realtà di una "base". Ciò che tiene insieme la parte ex democristiana di quel partito è di natura religiosa o meglio politico-religiosa. Quindi non può rientrare nella terapia di Panebianco. Tra i Ds invece l´eventuale religione di alcuni suoi membri non ha motivazioni di appartenenza; quanto all´ideologia comunista, essa è stata già frantumata dai fatti. Ma resta comunque un´appartenenza molto forte motivata da memorie e identità comuni, valori comuni di eguaglianza nella libertà e di libertà nell´eguaglianza.
Infine una visione del bene comune di natura genericamente ma intensamente socialista.
Questo determina la persistenza dell´aggregato e contro quell´aggregato Panebianco propone il radicalismo della sua terapia, la riduzione di quel nucleo alla polverizzazione individuale. In pratica, il dissolvimento del gruppo dirigente se vogliamo dire le cose con il loro nome.
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Ichino lavora invece su un altro terreno. Il sindacato non è un partito, non esistono miti e sentimenti di appartenenza ma interessi allo stato puro. Il collateralismo politico è finito da tempo, sia quello "rosso" sia quello "bianco". Qual è dunque la diagnosi e la terapia di Ichino per modernizzare la struttura sindacale esistente e superare quella stagione di conflitti prolungati, di contratti non firmati, di scioperi frequenti e di scarsa comunicabilità tra lavoratori sindacalizzati e padronato? Si potrebbe pensare che la situazione attuale derivi dalla fine della concertazione che caratterizzò la politica sociale dal 1993 fino al 2001 e che dunque la giusta terapia sia quella di ritornarvi; ma non è questa la tesi di Ichino. Detta in breve essa mira piuttosto alla destrutturazione del sindacato nazionale, alla riduzione a livelli minimi della contrattazione collettiva esaltando al suo posto il contratto aziendale. In questo modo, sostiene Ichino, le imprese più innovative sarebbero in grado di associare alle loro prospettive di maggior profitto le loro maestranze mentre nelle imprese di retroguardia anche il salario dovrebbe adattarsi a livelli compatibili. La terapia così delineata prevede anche una differenziazione territoriale con salari parametrati ai diversi livelli del costo della vita.
Ichino si preoccupa di estendere la sua proposta anche alle associazioni imprenditoriali e alla Confindustria per ragioni di equilibrio lessicale. Dico lessicale perché il fronte delle imprese ha tutto l´interesse al frazionamento dei sindacati che è sempre stato di fatto uno dei suoi obiettivi. Non voglio dire – sarebbe un indebito processo alle intenzioni – che una proposta del genere sbocchi necessariamente in una sorta di sindacalismo "giallo" ma di fatto questo sarebbe l´approdo finale della destrutturazione sindacale e del profitto visto come "variabile indipendente" alla quale tutti gli altri fattori della produzione dovrebbero conformarsi.
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Le due posizioni Panebianco-Ichino sono dunque perfettamente coerenti e convergenti tra loro. L´una sul terreno politico e l´altra su quello sociale.
Massima fluidità sia nell´uno che nell´altro e sui rispettivi mercati.
Marginalizzazione dei deboli e predominio dei forti. Di qui ad immaginare governi profondamente influenzati o addirittura direttamente gestiti dai "poteri forti" rinvigoriti da politiche che abbiano al centro le imprese il passo è molto breve, lasciando allo Stato il compito "supplente" di raccogliere gli sconfitti lasciati ai bordi della strada e di provvedere alla loro sorte con pensioni sociali, salario sociale, assistenza sanitaria sociale, scuola pubblica sociale, dove l´aggettivo "sociale" sta per rete di protezione minima in un sistema ispirato alla massima libertà individuale con l´effetto di accrescere ulteriormente le già intollerabili diseguaglianze prodotte dal sistema.
Non entro in critiche di valore rispetto a questi schemi, ai quali mi limito qui ad obiettare la loro impraticabilità. Seguendo questa ricetta non si integrano aggregati diversi, al contrario se ne esalta la persistenza rendendo impossibile la novità di soggetti nuovi. Questo tipo di riforme in realtà rendono impossibile il riformismo, accentuano il conflitto sociale e politico, si configurano infine come vere e proprie controriforme condotte all´insegna dell´antipolitica e di opzioni di natura tecnocratica.



Primo, non farsi del male
Antonio Padellaro su
l'Unità

Da leggere attentamente l'ultimo sondaggio di Renato Mannheimer sul Corriere della sera, secondo il quale la forbice percentuale tra centrosinistra e centrodestra resta larga (51 a 45) ma si è accorciata rispetto a un mese fa. Rimane grande, e anzi cresce, l'esercito degli indecisi. Un dato preoccupante perché gli incerti (o coloro che non si dichiarano) aumentano nel campo dell'Unione, probabilmente a seguito del caso Unipol, causa di sconcerto nell'opinione pubblica di sinistra. Anche se sei punti di distacco restano comunque parecchi sarebbe sbagliato sottovalutare la flessione. Primo, perché mancano poco meno di tre mesi al voto e in ottanta giorni di campagna elettorale al vetriolo molto può succedere. E secondo perché l'esperienza ci ha insegnato come i sondaggi, anche i più fausti, possono essere capovolti nel rush finale. Vedi, nelle elezioni tedesche, i dieci punti di vantaggio della Merkel sulla Spd diventati, alla fine, uno striminzito pareggio. Vedi il tracollo finale di John Kerry, rimontato e superato da George W.Bush (il cui guru per la comunicazione Karl Rove sarebbe stato, per l'appunto, arruolato da Silvio Berlusconi).
Da riempire immediatamente, perciò, il vuoto di comunicazione che si sta producendo sui problemi del paese, soprattutto quelli economici e del lavoro che rappresentano il vero banco di prova quando l'elettorato è chiamato a decidere sul nuovo Parlamento e sul nuovo governo.
Comprensibile che di questi argomenti non vogliano parlare, con il bilancio fallimentare che si ritrovano, l'attuale premier e i suoi sodali. Inevitabile che costoro tentino di mantenere l'attenzione degli italiani sulla cosiddetta questione morale della sinistra.

Difficile allora capire per quale motivo, nel centrosinistra, invece di riportare il discorso sulla concretezza della cose da fare e del come farle - ossia i contenuti- si preferisca concentrare energie e sforzi (con relativa scia di screzi, incomprensioni, tensioni) sulla natura dei contenitori. L'affondo di Prodi sul Partito Democratico, per esempio, appare del tutto coerente con la necessità di dare forma a un progetto politico che non si vuole esaurire nella lista elettorale Ds-Margherita-Repubblicani europei. Una strategia, quella del grande Ulivo, che in qualche modo interpreta i desideri dei 4 milioni e 311 mila elettori delle primarie ma che, per forza di cose, si presenta ancora nella forma di un dibattito un po' politichese e forse non ancora così coinvolgente per i comuni mortali. Resta una domanda. Se il vertice convocato a tarda sera a Santi Apostoli non doveva (e non poteva) annunciare la nascita del nuovo partito con la conseguente cessione di sovranità da parte di Quercia e Margherita, perché drammatizzarlo tanto?
Se si trattava di introdurre un simbolo unitario al Senato, garantire un'adeguata quota di candidature agli uomini del Professore, concordare le regole della cassa comune, perché trasmettere al popolo dell'Unione l'idea che non d'incontro ma di scontro si trattava, con tanto di ultimatum e rullar di tamburi?
Sempre ieri mattina appariva sul Corriere della Sera il seguente titolo: "Travaglio ai Ds: vi siete arricchiti, ora si sa il giro dei soldi". Si parlava della serata dell'Ambra Jovinelli dove è stato presentato il libro di Marco Travaglio e Peter Gomez “Inciucio-Come la sinistra ha salvato Berlusconi”. Una frase inaccettabile su soldi e arricchimenti riferita a un'intera classe dirigente e a un intero partito di cui fanno parte milioni di persone oneste; e che infatti Travaglio ha smentito di aver detto con una lettera al Corriere. Resta il problema della polemica, spesso durissima, scagliata contro i Ds accusati, dopo il caso Consorte, di scarsa moralità pubblica e privata da altri settori della sinistra. Qui non si tratta di fare gli avvocati difensori della Quercia visto che la Quercia stessa, a cominciare dal suo segretario, l'autocritica è stata capace di farla raccogliendo critiche, ammettendo errori e contraddizioni "con onestà e umiltà", come chiunque può leggere nel documento approvato all'unanimità dalla direzione del partito.
Più importante ci sembra riproporre la domanda che l'altra sera, in quel teatro gremito, Furio Colombo poneva agli autori, agli spettatori e in fondo anche a chi scrivendo su questo giornale ha fatto della legalità una bandiera quotidiana. Io non vorrei, ha detto Furio, che scoperta la bomba e l'intrico dei fili, tagliassimo quello sbagliato facendo saltare per aria la grande possibilità che finalmente abbiamo di liberarci di Berlusconi.
Rispondono gli autori del libro che caduto Berlusconi non è detto che l'Italia riacquisterà per incanto le libertà perdute; che questa è una favola, perché se Berlusconi è arrivato fin qui, è perché a sinistra troppi glielo hanno consentito. Può darsi che la nostra democrazia sia intrisa da una sorta di inciucio permanente e irredimibile. Che certamente va indagato e raccontato fin dentro le sue pieghe più imbarazzanti e vergognose. Ma se in questa rincorsa a farsi del male il vero problema politico italiano sono diventati il caso Unipol e i pranzi dei ds, se in fondo l'inciucio rende tutti uguali, se del conflitto di interessi del premier non si parla più perché il conflitto di interessi è a sinistra, se tutto fa schifo, chi può impedire a tanti di quegli incerti che citavamo all'inizio di non pensare: allora teniamoci Berlusconi?


Berlusconi-Prodi, regole per un duello tv stile Usa
Paolo Conti sul
Corriere della Sera

ROMA- Prima proposta per regolare i futuri faccia a faccia tra i leader delle coalizioni sulla Rai. Paolo Gentiloni, presidente della commissione di Vigilanza, ha presentato ieri il suo testo di regolamento della par condicio. In gran parte è un testo-fotocopia di quello già adottato per le elezioni Europee del 2004. La vera novità è l'articolo 10. Una serie di conferenze-dibattito (Gentiloni afferma che potrebbero essere due o anche tre, tra la presentazione delle liste e l'appuntamento elettorale) regolamentate nel minimo particolare (minuti contati per ogni intervento, arbitro neutro che non rivolge domande, giornalisti rigorosamente sorteggiati). Altra novità, le tribune per gli italiani all'estero su Raiuno e Rai international. Si apre un altro fronte mentre Forza Italia ha ritirato l'emendamento che avrebbe modificato la par condicio. Si confronteranno così Berlusconi e Prodi? Si voterà la settimana prossima. Oggi alle 10 Ciampi riceverà tutta la commissione di Vigilanza.

NIENTE SHOW - Dice Paolo Gentiloni: "Nelle mie intenzioni c'è un appuntamento che faccia emergere tutte le idee e le risposte dei protagonisti. Niente ospiti né scenografie, nessun filmato, divieto di sovrapporsi alla voce di chi sta parlando in quel momento: si è mai visto Kerry coprire la voce di Bush nei duelli televisivi negli Stati Uniti?". Tutto questo in prima serata su Raiuno, dalle 21 alle 22 e 30
LE REAZIONI- Positive dal centrosinistra, negative dalla maggioranza. Dice Giorgio Lainati, Forza Italia: "Il regolamento non risolve l'anomalia di Raitre, la sistematica presenza di esponenti della sinistra su quella rete, in particolare da Fabio Fazio che ormai agisce da ufficio di comunicazione dei Ds e di Prodi". Rincara la dose Alessio Butti, An: "Occorre approfondire l'articolo 10 e la nuova legge elettorale. C'è un proporzionale, non c'è solo "un" leader o "il" leader ma ci sono "i" leader, il centrodestra prevede un attacco a più punte. E poi potrebbero anche esserci più coalizioni. Presenterò alcuni emendamenti per assicurare le presenze di tutti i leader. Resta in piedi l'assurda impunità di trasmissioni come "Primo piano" o "Ballarò" che continuano a fare ciò che vogliono con la scusa della loro dipendenza da una testata giornalistica". Pippo Gianni, Udc: "La proposta Gentiloni è da respingere, la Casa delle Libertà è a tre punte, tutte di diamante, e non ci possono essere confronti a due".

Enzo Carra, Margherita: "Mi pare un regolamento da varare immediatamente, non si capisce perchè la maggioranza dovrebbe sfuggire anche al rispetto di regole applicate nei Paesi più civili del mondo. A mio parere, sarebbe bene offrire indicazioni anche per la regìa e per l'equilibrio delle inquadrature. Da questi appuntamenti può dipendere un risultato elettorale".


Autonomi più ricchi, dipendenti più poveri
Luisa Grion su
la Repubblica

ROMA - In teoria stiamo tutti un po´ meglio. In pratica sta molto meglio chi ha un lavoro autonomo e piuttosto peggio chi lavora come dipendente: la sua capacità d´acquisto - negli ultimi anni - si è ridotta nonostante alla fine della settimana si sia spesso trovato a lavorare qualche ora in più.
Nel 2004 nelle circa 22 milioni di famiglie italiane si viveva con meno di 30 mila euro l´anno, più o meno 2.500 euro al mese. Le cose rispetto ai due anni precedenti, sembravano andare meglio: il reddito reale, confrontato con quello del 2002, è salito del 2 per cento. Ma uscendo dai valori medi e andando a scavare nel "pollo di Trilussa" la realtà del periodo risulta ben diversa: a fronte di un deciso arricchimento delle entrate dei lavoratori autonomi si misura una perdita secca del potere d´acquisto dei dipendenti.
La spietata analisi arriva dall´indagine della Banca d´Italia sui bilanci delle famiglie italiane nell´anno 2004 (un supplemento al bollettino statistico). Rispetto al quadro precedente (fotografato al 2002) il gap fra autonomi e dipendenti è esploso: i primi hanno visto aumentare il loro potere d´acquisto dell´11,7 per cento, i secondi lo hanno visto scendere del 2,1. Se fra la famiglia che lavora in proprio e quella che sta a busta paga, nel 2002, vi era una differenza di reddito annuo di 9.700 euro, nel 2004 il gap è lievitato a 15.482 euro: un divario in crescita del 60 per cento circa.
L´arrivo dell´euro, dunque, ha in qualche modo modificato il concetto delle due Italie: se - in termini di benessere - prima a fare la differenza era soprattutto il fattore geografico (Nord e Sud) ora lo stacco si misura sulla qualità del lavoro. Il legame con il territorio quindi conta meno: nel periodo in questione - anzi - il reddito delle famiglie è aumentato al Centro ( dell´8,5 per cento) e al Sud ( del 2) ma è diminuito al Nord (dell´1,7 per cento). Ora perde chi "non fa da sé": che si tratti di dirigente (categoria che ha visto addirittura diminuire il reddito familiare) o di operaio, il dipendente fa i conti con un peggioramento della qualità della vita. Nonostante, rispetto a prima, lavori di più (fra 2002 e 2004, per i dipendenti si è passati dalle 37,7 alle 38,1 ore settimanali ).
In generale, fa notare la Banca d´Italia, per vivere la famiglia italiana consuma il 75 per cento del suo reddito. Nella lista della conta sempre di più la voce abitazione: tra il 1995 e il 2004 il valore al metro quadrato delle abitazioni di residenza delle famiglie italiane è salito del 76 per cento in termini nominali e del 38 in termini reali. In due anni gli affitti sono aumentati in media del 10 per cento.
Ci si indebita un po´ di più : le famiglie con "rate" da versare sono il 24,6 (in lieve crescita rispetto al 22,1 del 2002) e chi investe non vuole rischi (il 50 per cento delle famiglie si dichiara "molto avversa"). Nel portafoglio calano sia le azioni che i titoli di Stato, ma aumentano i depositi postali. E aumentata invece del 22 per cento (in termini nominali) la ricchezza familiare (preponderanti diventano gli immobili), anche se va detto che qui la concentrazione è superiore rispetto al reddito: il 10 per cento delle famiglie italiane possiede il 43 per cento dell´intera ricchezza nazionale.
Ma come sono composte, alla fine, queste famiglie? Sempre più piccole e più vecchie. Ormai il 25 per cento dei nuclei è formato da single (soprattutto donne anziane). Ma anche dove i figli ci sono la famosa "quota 4" (padre, madre, due bambini) sembra un lusso da spot pubblicitario: a casa del signor Rossi in media si è in 2,58.



Nuove accuse ai magistrati, Castelli contro il Csm
Dino Martirano sul
Corriere della Sera

ROMA - Ora, dopo 5 anni di governo della macchina giudiziaria, il Guardasigilli Roberto Castelli si rammarica che la Cdl non abbia saputo compiere quei due fondamentali passi in più per spazzare via ogni residua "subalternità del potere politico a quello giudiziario". La doppia mossa riguarderebbe la collocazione dei "processi" contro i magistrati: per il ministro, infatti, i profili disciplinari devono essere competenza di "un organo indipendente, formato da esimie personalità" e strappati per sempre alla gestione dell'organo di autogoverno dei magistrati, il Csm, mentre i procedimenti penali veri e propri vanno affidati a "tribunali indipendenti in nome del principo della terzietà". Al Senato, Castelli ha aperto la sua relazione in occasione dell'inaugurazione dell'Anno giudiziario menando fendenti contro i magistrati che, a suo parere, non hanno perso il vizio di mettere il naso anche negli affari della politica. Senza ricordare che nel '93 fu proprio un deputato della Lega, Luca Leoni Orsenigo, a sventolare un cappio dai banchi della Camera, il Guardasigilli ha detto che "il culmine di questo squilibrio è stato raggiunto nella prima metà degli anni Novanta quando vasta parte della classe politica fu delegittimata dall'azione della magistratura".

INTERCETTAZIONI - Dunque la Cdl, che in questi 5 anni ha sfidato "lusinghe, minacce, scioperi" e "spinte oligarchiche", si sarebbe dovuta spingere oltre, ammette Castelli. Ieri Tangentopoli, oggi Bancopoli ma la musica sembra la stessa: "Siamo da poco usciti da un periodo tormentato in cui l'avviso di garanzia, nato al fine di tutelare l'indagato, era divenuto, se usato strumentalmente, il mezzo principe per squalificare presso l'opinione pubblica...". Oggi, invece, i magistrati hanno affinato la tecnica con la "divulgazione delle intercettazioni coperte da segreto da trasmettere a giornalisti complici". Per il ministro, "una delle armi più efficaci dei nemici della democrazia è sicuramente quella relativa all'uso illecito delle intercettazioni".
Castelli chiede più coraggio alla politica: ci vuole "una condanna morale, prima che giudiziaria, contro la mala pratica della diffusione delle intercettazioni. E anche contro la diffusione legale dei verbali, tant'è che il ministro se la prende con "le motivazioni redatte ad libitum dall'estensore che può alternativamente depositare tutto il materiale relativo alle intercettazioni oppure depositare soltanto alcune parti".

CORTE DEI CONTI - Castelli se l'è presa anche con la Corte dei Conti che a lui, come agli ex Guardasigilli Fassino e Diliberto, ha fatto "i conti" sulle spese sostenute in Via Arenula per i consulenti esterni: "Si è trattato di un'azione esasperata che in alcuni momenti ha assunto aspetti che hanno travalicato le usuali funzioni di controllo".


CARCERI - Invece, il ministro non ha saputo fare previsioni sul numero dei detenuti che finiranno in carcere per effetto della ex Cirielli nella parte in cui prevede un giro di vite per i recidivi: "Con noi nelle carceri c'è stata la pace sociale, mentre voi avete dovuto reprimere con la violenza la rivolta di Sassari" ha azzardato Castelli davanti all'opposizione. E a chi, come il senatore Maritati (Ds), lo ha accusato di aver sottovalutato il conflitto di interessi, Castelli ha risposto: "Ma io non ho mai telefonato a uno scalatore di banche". Per Mario Cavallaro (Margherita) quello del ministro "è un mesto canto del cigno". Massimo Brutti (Ds) ha accusato il Guardasigilli di aver detto cose "povere, banali e inutili: e poi ha dimenticato di dire che sulle intercettazioni l'opposizione propone da 2 anni una nuova normativa garantista". Castelli, a quel punto, ha allargato le braccia: "Contro di me c'è una cieca propaganda, abbiamo perso un'occasione per fare un dibattito sulle cose". Stamattina si replica alla Camera.


Con Berlusconi 135mila prescrizioni in più
Sandra Amurri su
l'Unità

La giustizia ai tempi di Berlusconi e Castelli. "Possiamo dire con orgoglio e senza paura di smentita che mai una legislatura ha dispiegato un'azione riformatrice così vasta e profonda in tema di giustizia". Così il ministro della Giustizia Castelli ha concluso la sua relazione al Senato. Un bilancio che solo lui vede positivo, anche a fronte del crescente numero delle prescrizioni, per il Guardasigilli effetto "benefico" della legge Cirielli.
"Prescrizioni che sono passate da 98 mila nel 2001 a circa 200 mila nel 2005, e che, secondo le stime del Ministero arriveranno a toccare punte di circa 35 mila procedimenti prescritti. E pensare che si tratta di una previsione nefasta più volte prospettatagli con lucida analisi dall'Anm e da tutta l'opposizione, a cui rispondeva. "State dando i numeri".
E di numeri si tratta, infatti, numeri allarmanti che attestano di come la giustizia di questo Governo sia al servizio dei potenti e dei ricchi che hanno la possibilità per pagare laute parcelle al fine di allungare i tempi fino alla prescrizione. "È insieme una confessione e una dichiarazione di fallimento", è il lapidario giudizio di Franco Ippolito, Presidente di Magistratura Democratica: "Confessione dell'intento della maggioranza politica di aver voluto, con l'approvazione dell'ordinamento giudiziario, regolare i conti con la magistratura; fallimento della politica del Ministro per aver del tutto trascurato il servizio giustizia in contrasto con il dovere che gli deriva dall'art 110 della Costituzione".
Giudizio che trova riscontro nell'unanimità dei senatori dell'Unione come i diessini Massimo Brutti, Guido Calvi, Elio Fassone e Roberto Manzione, Nando Dalla Chiesa, Alessandro Battisti, Mario Cavallaro della Margherita, il Verde Giampaolo Zancan, che hanno anche accusato il Ministro di non aver tempestivamente presentato alcun documento scritto prima della discussione in aula: "Le leggi della Cdl hanno prodotto privilegi, discriminazioni e disuguaglianze, tutelando gli interessi dei potenti contro i cittadini più deboli.

Poi l'attacco al Csm: la sezione diciplinare dei magistrati dovrebbe essere un organo "indipendente, formato da esimie personalità"; il Csm è troppo "autoreferenziale" per Castelli. Gli ribatte il presidente dell'Anm, Ciro Riviezzo: "C'è la Costituzione a dar torto a Castelli. Non serve altro. Dire che i compiti disciplinari devono esser svolti da un organo indipendente costituito da esimie personalità vuol dire che si ha intenzione di intervenire sulla Costituzione. Diversamente non si può infatti realizzare quel che propugna il Guardasigilli".
Che non ha risparmiato battute insultanti nei confronti degli avvocati che scioperano e che ha criticato la Corte dei Conti per le "resistenze incontrate nell'attività del Governo aggravate da un'azione di controllo esasperato sull'attività del Ministero da parte della giurisdizione contabile"; che addirittura, "in alcuni momenti, ha assunto aspetti che hanno travalicato le usuali funzioni di controllo". Ha aggiunto irritato: "Mi è stato impedito di avvalermi di consulenze". Insofferenza, dunque, al controllo, quella manifestata da Castelli; ancor più singolare visto che la riforma dell'ordinamento giudiziario, di cui ha rivendicato i meriti, porta con sé uno straordinario capolavoro di censura: il Governo ha cancellato l'obbligo per la Dna di informare ogni anno il Parlamento delle sue attività e di quelle delle altre procure antimafia. Come dire che alla politica non deve interessare lo "stato di salute" della criminalità organizzata, di Cosa Nostra, della n'drangheta che, parole del Procuratore Piero Grasso, "sono diventate esse stesse soggetto politico".
Giudizio negativo anche per le scelte del Ministro a proposito del funzionamento della macchina Giustizia inceppatasi sia per la mancanza dei più elementari strumenti di funzionamento come la carta per le fotocopiatrici negli Uffici, che per il blocco dei concorsi per l'ingresso in magistratura", come hanno ribadito ieri i senatori dell'Unione nell'Aula di palazzo Madama.


L'intifada dei coloni
Alberto Stabile su
la Repubblica

Hebron. Nel silenzio della città deserta la voce dell´altoparlante risuona sinistra: "Per ordine del comandante militare della Regione centrale, generale Yair Naveh, tutte le persone non residenti, o non autorizzate devono lasciare questo quartiere entro 15 minuti, o saranno arrestate". Dalle terrazze dell´insediamento Avraham Avinu, il "Padre Abramo", nel cuore di Hebron, dove i coloni nazionalisti hanno scavato la loro ultima trincea per difendersi dalla storia, risponde un coro di scherno: "Avvoltoi!".
"Voi non siete ebrei! Gli ebrei non espellono altri ebrei!", urlano senza farsi vedere. Dopo le pietre e le uova dei giorni scorsi, dopo i saluti nazisti esibiti ai loro fratelli in divisa, dopo le spedizioni punitive contro famiglie di palestinesi senza colpa, è arrivato il momento per i coloni asserragliati nel mercato di Hebron di giocare al gatto col topo con le forze di polizia.
"La tolleranza zero", imposta da Olmert contro gli adolescenti della cosiddetta Intifada ebraica, s´è, infatti, tradotta nella chiusura ermetica del vecchio centro di Hebron. Una catena di posti di blocco tutt´attorno all´insediamento ha impedito, ieri, che forze fresche provenienti da altre comunità arrivassero per dar man forte ai ribelli. Ma almeno duecento estremisti, questa è la stima di uno di loro, Uriel Amar, 19 anni, d´origine francese, sono riusciti ad infiltrarsi nei giorni scorsi e adesso si nascondono nelle case dei 500 coloni residenti ad Avraham Avinu.
A giudicare dal numero di agenti speciali, guardie di frontiera, poliziotti a cavallo schierati a semicerchio davanti al quartiere ebraico, la polizia è decisa a dare la caccia ai clandestini. Ma questi evitano di scendere in strada. Sperano che le forze dell´ordine non osino entrare nelle case. Peccato d´ingenuità. La polizia israeliana sa come fare, quando vuole. La jeep con gli altoparlanti fa un ultimo giro nel quartiere. Gli agenti in tenuta antisommossa, caschi e manganelli, fingono di ritirarsi mentre un altro reparto entra nell´insediamento da un ingresso secondario, vicino alla Tomba dei Patriarchi, la moschea-sinagoga che incombe sulla città come una fortezza medievale. E comincia la ricerca casa per casa.
Uriel si si nasconde con altri amici in un appartamento vicino a una delle due jeshiva di Hebron, i collegi talmudici dove studiano i giovani ebrei che vogliono vivere di religione. Appena i poliziotti bussano alla porta, i più arrabbiati cominciano a dare in escandescenze. Si barricano dentro, lanciano oggetti e latte di pittura contro gli agenti. Quattro vengono fermati con la bava alla bocca, in piena crisi isterica. Uriel, nella confusione riesce a scappare, nascondendosi in un deposito che viene immediatamente circondato.
Sono scene che abbiamo già visto ad agosto nella ville di Neveh Dekalim, nella sinagoga di Shirat Ayam, nella Jeshiva-laboratorio artistico di Sa Nur. Vale a dire: in quasi tutti gli insediamenti del Gush Katif e nei quattro della Cisgiordania evacuati dall´esercito israeliano nell´operazione Ritiro voluta da Sharon.
Un´operazione che ha segnato la rottura del dogma ideologico della Grande Terra d´Israele e la sconfitta politica, storica del movimento dei coloni.
Ora, sarebbe troppo semplicistico, vedere negli incidenti di Hebron il tentativo della destra nazionalista e messianica di vendicarsi della debacle subita ad agosto. Se mai c´è un significato recondito nelle vicende di questi giorni, è quello di un avvertimento lanciato contro Ehud Olmert, l´uomo che ha dovuto raccogliere lo scettro di Re Arik, e che sembra destinato a succedergli, affinché, dopo il ritiro da Gaza, non osi mettere mano ad altri ritiri, ipotizzabili da alcune zone della Cisgiordania.
Qui, tra l´altro, non è in discussione l´esistenza, pur controversa, dell´insediamento di Hebron, ma l´occupazione illegittima di alcune botteghe del mercato coperto da parte di nove famiglie di coloni. Occupazione cominciata nella primavera del 2001 per ritorsione contro l´uccisione, il 26 marzo di quell´anno, di una bimba di nove mesi, Shalhevet Pass, centrata da un cecchino palestinese appostato in una casa di Abu Shnena, il quartiere che fronteggia l´insediamento ebraico.
Tanto è arbitraria l´espropriazione di quelle botteghe, che l´Alta Corte israeliana ha deciso che vengano restituite ai loro legittimi proprietari arabi. Ma tutto questo, nel linguaggio propagandistico dei coloni diventa "espulsione", "discriminazione", "persecuzione".

"Il governo non ha la forza di espellere gli arabi, perciò espelle gli ebrei", ripete il capo riconosciuto dell´insediamento, Noam Arnon. E ricorda che questa zona era appartenuta agli ebrei che abitarono ad Hebron fino al pogrom del 29, quando vennero costretti a fuggire (l´inizio, dice Arnon, del "terrorismo islamico"). Conclusione: "Abbiamo tutti i titoli per vivere in questo quartiere, del quale anche le botteghe fanno parte".
Ma è vita, quella che conducono cinquecento ebrei circondati da una popolazione di 130 mila palestinesi, o è una guerra d´attrito che va avanti da 35 anni?
Nel panorama che ci circonda non c´è nulla di pacifico. Le palazzine di Avraham Avinu si stagliano, con la loro pietra chiara, contro uno scenario di macerie, muri di cemento eretti a protezione dell´insediamento, reti metalliche, case abbandonate i cui proprietari, palestinesi, hanno smesso, per stanchezza, di rivendicarne il possesso.
Dai vicoli del mercato che sfociano nello spiazzo davanti all´insediamento, proviene un odore acre d´incendio. Alcune saracinesche sono rimaste annerite dal fumo dopo le incursioni del fine settimana. Su altre è stata dipinta, come una sorta di documento di rivendicazione, la stella di Davide nera.
E´ mentre parliamo con Noam Arnon che un ufficiale di polizia, il colonnello Uri Oran, fisico asciutto da cinquantenne atletico, berrettino blu con visiera, s´avvicina e, dopo aver, come si dice, identificato il nostro interlocutore, gli da formale lettura dell´ordinanza emessa dal generale Naveh, secondo le disposizioni assunte dal governo israeliano. Chi non risiede nell´insediamento deve andarsene o verrà arrestato.
Qualche secondo, e il capo dei coloni ha addosso le telecamere.
"Noi abbiamo fatto di tutto per mantenere la calma - dice con un filo d´emozione nella voce - Hebron è la città più tranquilla d´Israele, e loro ci rispondono con una provocazione".
I tiratori dell´esercito si sono già appostati sui tetti del quartiere, compreso quello delle botteghe occupate. L´operazione sta per iniziare. Chiadiamo a Miriam, 20 anni, 3 figli, sposata a Yair, perchè ha scelto di venire a vivere proprio qui, al mercato di Hebron. "Perchè è mio", risponde senza tentennare.


  18 gennaio 2006