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sulla stampa
a cura di P.C. - 5 gennaio 2006


Emorragia cerebrale per Sharon
Daniela Mastrogiacomo su
la Repubblica

GERUSALEMME - Ariel Sharon è grave, «potrebbe non farcela», dice un´autorevole fonte politica da Gerusalemme. «E´ in pericolo di vita», ripetono i siti dei giornali Ma´ariv e Yedioth Ahronot. Ieri ha avuto un nuovo ictus. È stato trasportato d´urgenza nell´ospedale Hadassa nella Città Santa e sottoposto a una risonanza magnetica e a un´anestesia totale: i medici sono dovuti intervenire su una emorragia al cervello definita «massiccia». Il premier è sottoposto a respirazione artificiale, la parte inferiore del suo corpo è paralizzata. Tutti i poteri sono stati passati nelle mani del vice Ehud Olmert: il trasferimento delle competenze era già stato deciso in previsione dell´intervento chirurgico al cuore a cui comunque oggi Sharon avrebbe dovuto sottoporsi.
Ha avuto il malore a fine giornata nella sua fattoria nel Negev, dopo aver trascorso il pomeriggio riposando con i figli, i nipoti e la nuora in vista dell´operazione. Verso l´ora di cena ha perso colore in volto, si è irrigidito, «mostrando», dicono le prime fonti mediche, «gli stessi sintomi del mese passato», quando aveva subito un lieve ictus.
Israele è con il fiato sospeso. Le radio e le tv hanno interrotto le normali programmazioni per aggiornare il paese sulle condizioni del premier. Nelle sinagoghe dei rioni religiosi di Gerusalemme nella notte si intonavano salmi. «Preghiamo per la salute di Ariel, figlio di Vera», hanno detto numerosi rabbini davanti ai fedeli. Con l´aggravarsi delle notizie il rabbinato di Israele ha fatto appello a tutti gli israeliani affinché preghino. Orazioni speciali sono state organizzate davanti al Muro del Pianto.

Nelle ultime settimane lo stato di salute del premier era stato al centro del dibattito politico israeliano. Non era chiaro quali fossero state davvero le conseguenze dell´ictus subito il 18 dicembre. I medici, per volontà di Sharon, avevano quindi organizzato una conferenza stampa illustrando la cartella clinica del paziente, per cercare di mettere a tacere le speculazioni politiche. Anche allora però era esplosa la polemica: veniva contestato il peso dichiarato dal premier ai sanitari e da questi riferito ai giornalisti: 125 chili, contro i più credibili 138 attribuiti a Sharon da fonti attendibili. La "bugia" è stata considerata il segno di una più generale omertà sul reale stato di salute del primo ministro, una sorte di cortina di fumo sulla malattia del leader politico in corsa per le prossime elezioni del 28 marzo alla testa del suo nuovo partito centrista Kadima, uscito dal fianco del Likud dopo lo scontro consumatosi dopo il ritiro da Gaza.
La campagna elettorale è già partita. L´altroieri c´era stato il primo affondo, con la diffusione della notizia delle presunte prove in possesso della polizia circa tangenti per tre milioni di dollari percepite da Sharon.
Ieri il premier si era anche consultato con i suoi specialisti. Questi lo avevano sconsigliato di andare nel suo ranch. Ma lui ha deciso di andare ugualmente. Una giornata nella sua fattoria prima della nuova battaglia.


“Oltre i confini dell'opportunità politica”
Romano Prodi su
La Stampa

In questo periodo mi si descrive come rinchiuso in un silenzio che, a seconda delle interpretazioni, è imbarazzato, preoccupato, o «assordante», come a sottintendere una presa di distanza o di condanna da persone e situazioni.
I motivi del mio silenzio sono in realtà da ricercare altrove o, perlomeno, in un altro modo di pensare e di affrontare questioni confuse e delicate quali quelle che le cronache dei giornali ci propongono quotidianamente con dovizia di particolari.
In buona sostanza, cosa ci raccontano queste cronache? Che spaccato ci restituiscono della nostra società? Quali malattie del nostro sistema economico e politico denunciano?
Cosa dobbiamo fare per sanare queste ferite, se siamo convinti, come io sono convinto, che spetti alla politica l'onere di elaborare proposte e progetti per migliorare la società in cui viviamo, non solo in termini di qualità della vita ma anche e prima di tutto in termini di qualità morale? E, infine, come formulare tali proposte, visto che non è solo con la legge che si possono obbligare persone, apparati e sistemi ad un comportamento etico?
Perché è di questo, infatti, che si deve discutere e a fondo. E' sulla necessità di ritrovare tutti un nuovo slancio verso una maggiore trasparenza che devono convergere le nostre volontà e i nostri sforzi.
E, allora, proviamo a formulare le risposte alle domande che ci siamo rivolti.
Le cronache di queste ultime settimane ci dicono che è esistita ed esiste una vicinanza tra politica e centrali economiche che, in taluni casi, ha debordato oltre i confini: non oltre i confini del lecito dal punto di vista giuridico, ma oltre i confini dell'opportunità politica. Si è tornati, con il caso Popolare di Lodi e il caso Unipol, a dare un'immagine della politica troppo promiscua al mondo degli affari e degli interessi, dando così argomenti a quanti hanno vantaggio nel legittimare quella sotterranea deriva qualunquista secondo la quale la politica è una cosa sporca, i politici sono tutti uguali, pensano solo ai loro interessi... e via dicendo. In una società che già ha subito negli anni scorsi una forte e, a mio avviso, pericolosa devianza verso il qualunquismo e l'individualismo, che si è vista proporre come valori il successo e il denaro, valori per il cui conseguimento sembra essere diventato legittimo l'uso di qualsiasi mezzo e l'aggirare se non il calpestare qualsiasi legge, qualsiasi norma comportamentale; in una società già così moralmente fragile, eventi come questi costituiscono, al di là della loro reale portata dal punto di vista giudiziario, una ferita profonda, una lacerazione della coscienza collettiva del Paese.
E questo vale per tutto il Paese, senza distinzioni di parte politica. Perché esiste ancora una maggioranza, una massiccia maggioranza, di Italiani per bene (per bene, non perbenisti), di cittadini onesti (moralmente onesti e non moralisti) che si stanno rivolgendo a noi proprio in ragione del fatto che alla classe dirigente del centrosinistra riconoscono una maggiore tensione morale, un più forte senso dello Stato e del bene comune; che guardano a noi con fiducia nella speranza di non essere più governati in regime di conflitto di interessi, di non vedere più le Camere umiliate nell'approvare a colpi di fiducia leggi ad personam, ma di vedere di nuovo all'opera una classe dirigente animata da spirito di servizio e - termine forse desueto, ma che vale la pena di rispolverare e rivalutare - da amor di Patria. Una classe dirigente che - ne sono e ne siamo tutti consapevoli - dovrà mettere mano a una situazione difficile, dovrà governare con rigore e intervenire anche con durezza per raddrizzare storture, per correggere devianze, per riparare torti. Una classe dirigente che dovrà far leva su una credibilità forte per potere in taluni casi chiamare a raccolta le coscienze, dicendo agli Italiani, parafrasando la celebre frase rivolta da Kennedy al popolo americano: «Non chiedetevi cosa l'Italia può fare per voi, ma cosa voi potete fare per l'Italia».
Come potremo rivolgerci a loro in questo modo se non godendo della loro stima e del loro rispetto? Come potremo aiutare nella sua difficile opera la rinnovata Banca d'Italia, chiamata a rimettere ordine in un sistema bancario scosso, avvelenato e indebolito? Come potremo chiedere agli imprenditori di impegnarsi per lo sviluppo rinunciando agli affari facili per ritrovare la voglia di impresa nelle sfide più difficili? Come potremo salvaguardare quel patrimonio morale, di democrazia economica e di coesione sociale che ci è stato trasmesso dalla cooperazione? E come potremo averne cura e farlo ulteriormente crescere se non con nuove regole di governance messe a punto con il coinvolgimento dell'intero movimento cooperativo? Come potremo alimentare la fiducia e la speranza nei milioni di giovani che guardano con preoccupazione crescente al loro futuro? Con quale immagine ci andremo a presentare ai grandi appuntamenti internazionali per fare valere le nostre opinioni e le nostre ragioni?
E' giunto il momento, per la politica, di fare un passo indietro e qualche passo in avanti. Un passo indietro, per allontanarsi e allontanare da sé i sospetti di vicinanza e di collusione con i grandi centri del potere economico e finanziario.
La politica deve essere «altra» da essi deve governare, orientare, vigilare, se è il caso, punire. Non deve «partecipare» alle vicende dell'economia, deve essere interlocutore forte e indipendente di coloro che sono chiamati ad assumere le decisioni operative.
Non vi è dubbio alcuno che il politico, nell'alto esercizio delle sue funzioni di rappresentante eletto dei cittadini, abbia il diritto e il dovere di essere informato sulle grandi decisioni, suscettibili di generare cambiamenti nel quadro economico e, quindi, nella società. Ma va stabilito un confine - ed ecco i passi in avanti da compiere - raggiunto il quale entrambe le parti devono sapersi fermare: il confine oltre il quale si può intravedere l'interesse delle persone o di gruppi di persone e non più l'interesse della collettività.
Dobbiamo quindi, dove è necessario, proporci nuove regole e nuovi confini, per riportare la politica nel suo alveo, se da esso è uscita e, soprattutto, per garantire ai cittadini che nel suo alveo essa rimane e rimarrà. Sempre. Tuttavia, come ho affermato nelle prime battute di questo scritto, non è certo o soltanto con nuove norme che si regolano i comportamenti di persone, apparati o sistemi. Sarebbe ben più efficace, in un momento come questo, uscire dal bunker del fumus persecutionis, fumus che innegabilmente esiste, per dibattere serenamente e in assoluta trasparenza dei fatti e per separare i fatti dalle opinioni, le opinioni dai pettegolezzi, i pettegolezzi dalle calunnie. Solo reagendo con serenità e chiarezza potremo riguadagnare la fiducia che la catena di sospetti creatasi in queste settimane sta facendo perdere alla politica tutta.


Ritorno alle regole
Gianni Riotta sul
Corriere della Sera

La stagione agra dei raid finanziari, culminata con le dimissioni del governatore Fazio e, ieri, con l'ipotesi di associazione a delinquere contro l'ex presidente Unipol Consorte, ha finora suscitato solo reazioni politiche o etiche. Le politiche, chiassose a un centinaio di giorni dalle elezioni, dividono maggioranza e opposizione e aprono un'aspra guerra civile per l'egemonia nell'Unione di sinistra. Il dibattito «etico» si attarda nella nostalgia per una presunta età d'oro della «moralità comunista», dimenticando che comportamenti individuali da persone perbene convivevano con torbidi finanziamenti sovietici.
Sfugge ad entrambi i punti di vista il virus più letale degli scandali: la mancanza di regole precise che regolino l'economia e i flussi finanziari, l'assenza di arbitri e istituzioni indipendenti e autorevoli di controllo, non sono solo macchia morale e politica. Sono il macigno al collo della comunità produttiva, azzoppano il Paese nella crescita e rendono ineluttabile il declino italiano. La destra indugia davanti alle riforme perché gravata dal complesso di colpa del conflitto di interessi del premier Berlusconi. A sinistra è la cultura postcomunista che si ostina a vedere nel moderno mondo dell'economia non l'unica sede capace di produrre ricchezza e sviluppo, per chi ha e, a maggior forza, per chi non ha, ma un violento saloon western dove ci si salva solo grazie a cowboy amici armati di Winchester.
Ben viene dunque il saggio dell'ex presidente europeo Romano Prodi, apparso ieri su La Stampa. Prodi non specula sui guai del partito di Fassino e D'Alema, né si vanta di avere già denunciato l'affaire scalate in estate, seguito dal fido Parisi. Resiste alla tentazione di un vantaggio politico a breve, e non sale sul pulpito degli stentorei sermoni. Ricorda con semplicità che, senza regole, non ci sono virtù, neppure nella Bibbia, e che compito della politica è fissarle, farle rispettare con severa imparzialità, senza cercare aziende amiche, lobby gemelle, banche sorelle. E' la logica, imperfetta, fallace, sempre da correggere, ma indispensabile, che ha generato negli Usa le leggi Sarbanes-Oxley del 2002, dopo lo scandalo monstre della Enron. Le responsabilità, penali o politiche, dei raid caduchi saranno appurate a tempo e luogo debiti, sotto l'occhio di Draghi, governatore che viene da Harvard. Subito è però necessario che la sinistra, che i sondaggi candidano al governo, perfezioni l'evoluzione senza recriminare su complotti e trame alla Dumas.
Regole precise come quelle promesse da Prodi non sono freni, né legacci: sono il motore di sviluppo del mondo postindustriale. Aziende, gruppi finanziari e banche legate alla politica o ad affaristi ricattabili, con manager valvassori cooptati e non selezionati per merito e responsabilità, non sono solo un disastro legale ed etico. Sono inefficienti, incapaci di competere, destinate a fallire, avvilendo lavoratori e contribuenti. La virtù miglior modello di business, ecco la nuova sfida. Nel mondo globale il bene non è dove ci si aspettava di trovarlo nel XIX e nel XX secolo. Il maggior danno che l'evasione fiscale provoca — dicono dati del McKinsey Global Institute — non è il mancato afflusso all'erario, è tenere in vita aziende obsolete, che impediscono a compagnie sane di creare lavoro.
Si cresce incoraggiando i settori produttivi, senza accanimenti terapeutici sui decotti: la nuova ricchezza è nei servizi, nell'innovazione, nelle infrastrutture legate allo sviluppo, come il turismo. Il quotidiano Liberazione accusa chi ragiona del futuro partito democratico di volere «espellere la sinistra». Tutto al contrario, un partito democratico moderno è il solo luogo in cui una nuova sinistra possa operare per invertire il declino del Paese creando, e dividendo, nuova ricchezza. Con servizi liberi, meno burocrazia, risveglio della coscienza dei consumatori, lotta all'evasione fiscale, produttività nel settore pubblico, welfare per l'occupazione, ricerca. La sinistra raziocinante deve liberarsi dall'ubbia della «finanza rossa» e dall'imbarazzante codazzo di affaristi, mezzo vitelloni, mezzo sbruffoni, vigilando contro chi spera che le intenzioni di Prodi si scollino, malinconiche come i poster, dopo il 10 aprile.


Il conflitto del Cavaliere
Ezio Mauro su
la Repubblica

Da luglio, questo giornale chiede al partito dei Ds alcune cose chiare in merito alla vicenda Unipol: accettare le regole del mercato fino in fondo, dunque rinunciare alla tentazione pericolosa di crearsi un capitalismo a propria immagine e somiglianza; rompere le vecchie cinghie di trasmissione non perché debba sparire la solidarietà e la vicinanza tra sinistra e cooperazione, ma perché bisogna impedire che le Coop diventino figlie di un dio maggiore, protette e benedette nei loro affari da un grande partito; evitare che la contiguità con quel mondo diventi un impeachment politico, generando afasia – o peggio, ambiguità – nei giudizi che il partito deve via via dare sugli errori del Governatore della Banca d´Italia, sulla finanza di Zagarolo e sulle fortune oscure dei suoi campioni, sul concerto para-criminale che si era creato all´ombra di Fazio e Fiorani tra le scalate all´Antonveneta, alla Rcs e, come ormai pare chiaro, alla Bnl. Infine, e non ultimo, sulle ruberie personali.
Una risposta chiara e convincente è fino ad oggi mancata. Il gruppo dirigente ds ha parlato tardi e male, come se fosse frenato e trattenuto, non libero: il che in politica è la cosa peggiore.
Soprattutto, non ha denunciato a chiare lettere il legame contro natura tra Unipol e i furbetti del quartierino, la complicità tra Consorte e Fiorani, i metodi disinvolti e illegali usati per arricchimenti personali. Ci vuol tanto a dire: abbiamo sostenuto il diritto di Unipol di fare l´opa su Bnl, ma quello che è emerso dietro quell´opa è sconcertante? Lo è per le alleanze, l´illegalità, la contiguità con un mondo che con la sinistra non c´entra nulla. Per questo, noi prendiamo le distanze da Consorte che ci ha ingannati: la magistratura darà il suo giudizio penale, ma ciò che è emerso è già sufficiente pare dare un giudizio morale, che è di condanna totale.
Questa assunzione di responsabilità è indispensabile, per dimostrare l´autonomia e la libertà del gruppo dirigente diessino.

Ecco il vero «intreccio», Cavaliere, per lei familiare. Se la sinistra si deciderà a voltare pagina sulla vicenda Unipol, allora finalmente comincerà a chiederle conto di queste cose, invece di tacere.


Quercia, il giorno dello choc
Francesco Verderami sul
Corriere della Sera

ROMA — «Ci aspettiamo altri veleni», dice Massimo Brutti. E nelle parole del responsabile giustizia dei Ds si avverte, più che un presentimento, un doloroso senso di rassegnazione. Quel senso di ansia e angoscia che spinge gli uomini del Botteghino a compulsare all'alba i quotidiani per vedere che tempo farà quel giorno sulla Quercia. A scatenare ieri una nuova tempesta non sono stati però i resoconti di altre intercettazioni sul caso Unipol, ma la lettera di Romano Prodi alla Stampa. Quella richiesta alla politica di fare «un passo indietro», l'accenno alle «ferite» inferte dalle scalate bancarie nel rapporto con il Paese, hanno segnato la pagina più drammatica della storia diessina.
Per la prima volta il Professore e il suo maggior alleato sono entrati in rotta di collisione, e per la prima volta la maggioranza della Quercia si è spaccata. La rottura nei Ds è stata fragorosa: di qua un pezzo di partito, che insieme al coordinatore della segreteria Vannino Chiti condivide Prodi «dalla A alla Z», di là il fronte dalemiano che attraverso il capogruppo al Senato annuncia pubblicamente di «non concordare dalla A alla Z» con il leader della coalizione. Già di mattina Angius, in un giro di colloqui riservati, meditava la controffensiva: «Ho letto il testo di Prodi — ironizzava con un compagno di partito — e mi ha confuso le idee. Non fa nomi, solo allusioni». E per placare la rabbia si affidava a una battuta: «Vabbé, mi attesterò sulla linea di Ellekappa», la vignettista che su Repubblica aveva fatto dire ai suoi personaggi: «Ai Ds l'Unione chiede chiarezza». «E più soldi per la campagna elettorale...». Ma è difficile moderarsi quando si è sotto attacco. E infatti Angius si faceva serio: «Ci chiedono tutto. I soldi, i nostri voti». Il pensiero correva alle primarie, quando — come ricorda un alleato dell'Unione — «i Ds si fecero in quattro per organizzare il voto a favore di Prodi». «E passi che non ci sia mai un segno di riconoscenza», sbottava infine Angius: «Ora dovremmo anche subire senza reagire?».

Lo stesso concetto, in forma meno puntuta, ripeterà alle agenzie: «Alla fine di questa vicenda, l'unico che rischia di uscirne più forte è Berlusconi». In tanti nell'Unione la pensano così. Se non fosse che il fantasma di Consorte insegue i Ds dappertutto. La notizia che l'ex capo dell'Unipol sia indagato anche per associazione a delinquere alimenta la tensione nella Quercia. L'area più vicina a Fassino, da Caldarola a Cabras, da Chiti a Barbieri, da De Piccoli alla Sereni, si attesta su una nuova parola d'ordine: «Riflessione. Serve una seria riflessione nel partito». Bandito il concetto di autocritica, che porterebbe alla delegittimazione del gruppo dirigente, e nemmeno una strenua difesa dello status quo, per evitare di venir travolti da nuovi fatti. «Ma sia chiaro — spiega uno degli esponenti dell'area fassiniana — che i prossimi passaggi interni non saranno scontati. Stavolta vorremo vederci chiaro. Non basterà più che si mettano d'accordo Fassino e D'Alema». Già D'Alema. Come ripete spesso Bersani, «a lui attribuiscono di tutto. Dall'operazione Telecom fino a Fiorani. Il partito deve respingere queste insinuazioni, perché lui, noi, abbiamo agito sempre nel rispetto delle regole. E invece viene messo tutto sul suo conto. Oh, se facessimo l'elenco delle cose che mettono in conto a D'Alema». Toccherà a Fassino il compito di salvaguardare il partito e il rapporto con Prodi. Ma non sarà facile. Il Professore non pensa a rompere il patto sul listone, ma si prepara a chiedere per sé tutti i posti da capolista. Vista la situazione, i Ds potranno rifiutare la richiesta?


D'Alema: non lasciamoci assediare
Massimo Giannini su
la Repubblica

«Avanti, avanti così. Un altro po´ di quest´autodafè, e riusciamo anche a fare il capolavoro di perdere le elezioni...». Massimo D´Alema è appena rientrato da una breve vacanza di fine d´anno in Andalusia. Il suo telefono, nell´ufficio della Fondazione Italianieuropei a via dell´Arancio, ribolle da un paio d´ore. Il presidente dei Ds parla con tutti. Prodi, Fassino, Angius, Chiti, Violante. Quella che sembrava una normale riunione di direzione di inizio d´anno, già convocata per l´11 gennaio, rischia di trasformarsi in uno psicodramma collettivo.
La base fibrilla. Il vertice vacilla. Le intercettazioni sui colloqui tra Fassino e Consorte, dentro la Quercia, spingono molti a riparlare di «questione morale», e a rimpiangere Enrico Berlinguer. Fuori dalla Quercia, inducono Prodi a parlare di «una ferita profonda inferta alla coscienza collettiva del Paese» e a chiedere «nuove regole per riportare la politica nel suo alveo».
Parole che, fuori dall´ufficialità, fanno male agli uomini del Botteghino. D´Alema, nei colloqui con i compagni di partito, è un fiume in piena. «Ma vi rendete conto di quello che sta succedendo? Qui c´è un presidente del Consiglio che si permette di venirci a fare la morale. Lui, che è un conflitto di interessi vivente, fa affari con Putin sul gas, regala denaro pubblico per i decoder prodotti da un´azienda del fratello. E invece sulla graticola ci stiamo noi, per una telefonata di Piero o per il mio mutuo in banca...». Fassino, nell´ultima telefonata con Roma prima di tornare in aereo da un breve tour in Messico, va giù ancora più pesante: «Adesso basta con questa panna montata. Da venti giorni ci attaccano da tutte le parti con accuse inesistenti, e fanno finta di non ricordare che in questa inchiesta sulle banche ci sono fatti penalmente rilevanti che coinvolgono cinque membri del governo e della maggioranza. C´è un sottosegretario alla Giustizia che faceva la talpa per conto di uno degli scalatori, e mi pare che nessuno gridi allo scandalo. Ci sono Brancher e Calderoli, chiamati in causa da Fiorani, e mi pare che tutti se lo siano già dimenticato. C´è l´oscuro caso della Credieuronord, ma non leggo inchieste dei giornali su questo... ».

Se Fassino è più morbido, D´Alema come sempre recita la parte più ruvida. L´ha detto senza mezzi termini. Anche a Prodi: «Questa storia mi preoccupa. Se si continua così rischiamo una vera e propria crisi, a due mesi dalle elezioni. Se qualcuno getta benzina sul fuoco invece di aiutarci a spegnerlo - ha sussurrato il presidente diessino ai suoi fedelissimi - qui crolla tutta la baracca. Le alleanze si fanno se sono sostenibili. Io non mi alleo con chi sospetta che il nostro sia un partito di delinquenti. In queste condizioni è meglio lasciar perdere. Tanto c´è il proporzionale, no? Ognuno vada per conto suo. Giochiamo con tre punte anche noi, come il Polo. E poi vediamo chi vince...». L´autodafè può continuare. C´è solo un antidoto, che la può ancora impedire. Si chiama Berlusconi. Qualche altra sparata comica e provocatoria come quella di ieri sera, e come per incanto il centrosinistra si ricompatterà. Ma è un miracolo che, purtroppo, ormai riesce solo al Cavaliere.


Le trappole del rivotismo
Giovanni Sartori sul
Corriere della Sera

A quanto pare voteremo per la nuova legislatura il 9 aprile. Senza elezioni (libere e periodiche) non c'è democrazia. Il che non vuol dire che le elezioni facciano bene al governare democratico, all'economia, o ad altro. Le elezioni sono il momento demagogico della democrazia. Sono necessarie, ma non è detto che siano benefiche. Invece la riforma della Costituzione varata dal governo Berlusconi prospetta elezioni a grandine, e cioè ad ogni crisi di governo. Il governo casca? Si deve rivotare. Il governo non funziona con la maggioranza della quale dispone? Bene, torniamo alle urne. La nuova grande medicina è il rivotismo, il tornare a votare.
Ai rivotisti (per così dirli) non viene nemmeno il sospetto che il nuovo voto possa ripetere quello precedente. Eppure è spesso così. Inghilterra, Stati Uniti, Svezia e parecchie altre democrazie impeccabili hanno avuto lunghi periodi senza alternanza, e cioè senza cambiamento di maggioranza. E in tal caso la medicina del rivotare è, tanto per cominciare, inutile: un grosso e costoso sforzo per nulla. Ma, aggiungo, è peggio che inutile: è nociva. Il troppo votare stanca gli elettori, li stufa, e li allontana dalla politica; e per di più incentiva il malgovernare, il governare demagogico. Il periodo di buon governo dei sistemi democratici è subito dopo elezioni avvenute; il loro momento di peggiore governo è sotto elezioni. Perché sotto elezioni l'ossessione diventa di «comprar voti» e il terrore diventa di perderli.
Tutti chiediamo che i partiti o le loro coalizioni dichiarino i loro programmi. Certo, i programmi ci devono essere. Ci mancherebbe. Ma finché eravamo smaliziati sapevamo che i programmi elettorali sono in primis promesse acchiappavoti da leggere come tali. Però una nuova generazione di bambinoni (bambinoni in politica, beninteso) li legge come se fossero o dovessero essere un contratto stipulato dal notaio.
Il punto è che le promesse elettorali devono scaldare speranze, e alla stessa stregua ignorare i problemi dei quali ci dovremmo davvero occupare e preoccupare. Ne richiamo qui, per brevità, soltanto tre: la mafia, il lassismo della pubblica amministrazione e la disapplicazione della legge. Primo: la mafia. Avete mai sentito parlare, durante il lunghissimo (evviva, evviva) governo Berlusconi, della mafia? Per combatterla e sul come combatterla, mai. Semmai e piuttosto alla mafia si offre, in cambio del voto, la «faraonica» pappatoia del ponte di Messina. Perché il voto mafioso può essere determinante da Napoli in giù. Anche per le sinistre, che difatti sorvolano.
Secondo: il lassismo amministrativo. Quanto si lavora nei nostri grandi ministeri? Lì il «fuori stanza» è normale. C'è chi esce a fare la spesa, chi per conversare al bar, e chi proprio non c'è. Eppure nessuno vede, nessuno fiata, nessuno rimedia. Una burocrazia incattivita ti vota contro. Perciò non va toccata.
Terzo: il diritto disatteso. In Italia la viabilità e i trasporti vengono continuamente interrotti, lo sciopero dei servizi pubblici è endemico. Ma se la polizia interviene (rarissimamente) è «violenza». A dispetto della legge (violata) bisogna sempre e soltanto «dialogare». E se Cofferati a Bologna applica la legge parecchi dei suoi e il buonismo cattolico insorgono.
Il Paese gradualmente affonda sotto il peso di queste (e altre) palle al piede. Capisco che non vengano evidenziate nei programmi elettorali. Ma il buon governante non le deve dimenticare per questo. A meno che non sia anche lui travolto dalla frenesia del rivotismo.


Se la caveranno?
Editoriale su
Il Foglio

Ora anche la tegola dell'associazione per delinquere, come nuova ipotesi di reato per il banchiere coop Giovanni Consorte, e l'annuncio di un viaggio investigativo a Montecarlo, crocevia (secondo l'Espresso) di molti conti sospetti e di molte curiose suddivisioni dei flussi di denaro in nero. Alla fine potrebbe risultare meno facile del previsto distinguere tra consulenze e provvista finanziaria, e imbastire una soffice autocritica riguardo la definizione delle cooperative amiche come una “riserva di etica protestante” (D'Alema, luglio scorso). Sono state dette cose che fanno ridere, e già il ridicolo uccide, ma i fatti fanno piangere. C'è una forte divisione nel maggior partito della sinistra, dalla base al vertice, e un comprensibile malessere che prende anche i toni variopinti del girotondismo e del giustizialismo di sempre, coltivato in seno con astuzia improvvida da un gruppo dirigente che ha rinunciato da tempo alla battaglia politica e culturale. Il brodino di Prodi sulla Stampa, con la solita richiesta di un passo indietro, e senza solidarietà a Fassino, come ha notato il più robusto dei dalemiani, Angius, non risolve i problemi nei rapporti con gli alleati. Altro che aggressione della destra, la faccenda se la stanno giocando tutta in casa, i leader del centrosinistra, e non in guanti bianchi. Se la caveranno, in questo contesto, i capi dei Ds Fassino e D'Alema, uniti da antiche e forti solidarietà ma anche da sempre nuove intercettazioni?
Chi ricorda l'occhio di riguardo delle procure che liquidarono la prima Repubblica verso post comunisti e sinistra democristiana oggi ha motivo di stupirsi. Nei primi anni Novanta la forza dell'ex Pci nel piegare ed eliminare Craxi e Andreotti-Forlani (cioè il Psi e la Dc) aveva radici nella strategia dei Francesco Saverio Borrelli e dei Gerardo D'Ambrosio, e nel loro blocco di sostegno: istituzionale (Scalfaro) e notabilare (i grandi avvocati del salottone giudiziario) e politico (ex Pci e sinistra democristiana) e movimentistico (le fiaccole e il popolo dei fax) e mediatico (i giornali dell'establishment). Quel controllo politico delle inchieste sembrerebbe scomparso. E lo schema politico è letteralmente rovesciato. Stavolta, come accadde ai leader del pentapartito, i diesse sono in collisione con gli stessi poteri che li sostennero e che essi sostennero contro Craxi e Andreotti tredici anni fa. Per questo possono forse farcela, a prezzo di un ridimensionamento politico umiliante, ma la scommessa è ardua.


   5 gennaio 2006