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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 9 luglio 2006



Prodi e Padoa-Schioppa rilanciano
Mario Sensini sul
Corriere della Sera

ROMA — Sviluppo, risanamento, equità. Tre obiettivi, ciascuno indispensabile agli altri, e tutti ineludibili, "per sbloccare un vero e proprio intreccio perverso in cui si è venuta a trovare l'economia italiana", anche se difficili da realizzare. La gravosità dell'impegno, che parte con una manovra per il 2007 da 35 miliardi di euro, non scoraggia il presidente del Consiglio, Romano Prodi, e il suo ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Sicuri che, per quanto ambizioso, il piano tracciato nel Documento di programmazione produrrà "risultati concreti e positivi già nell'immediato e ancor più nel seguito". E che, soprattutto, i cittadini sapranno comprendere i sacrifici necessari.
Più che ai presidenti delle due Camere, cui è formalmente indirizzata, è una lettera "agli italiani" quella che apre il Dpef approvato ieri dall'esecutivo con l'astensione di Rifondazione comunista, che sebbene non metta in discussione l'alleanza, si dice preoccupata per i riflessi della manovra sulla spesa sociale. Come i Verdi, i Comunisti italiani, e la Cisl di Raffaele Bonanni. "Prima di dire ai pensionati e ai lavoratori che bisogna accontentarsi di salari più bassi e che ci saranno tagli alle pensioni - dice Bonanni - facciamo pagare il dovuto a chi si è arricchito con le speculazioni e le rendite". Critico anche il leader del Pdci Oliviero Diliberto, per il quale sarebbe "suicida" rischiare uno sciopero generale contro la manovra.
Segnali diversi arrivano invece dalla Cgil, che ieri ha ospitato a Serravalle Pistoiese il ministro dell'Economia. Ben disposto a iniziare l'opera di risanamento dall'alto, in buona sintonia con Guglielmo Epifani. Via libera anche dalla Confindustria, benché Luca di Montezemolo sottolinei quelle "scelte coraggiose sulla spesa" che il governo ha annunciato, ma non dettagliato nel Dpef (documento di cui comunque Montezemolo dubita quanto ad utilità), e che preoccupano l'ala più a sinistra della coalizione.
Gli interventi sui quattro grandi capitoli di spesa (sanità, pensioni, pubblico impiego ed enti locali) sono comunque indispensabili. Perché come ricordano Prodi e Padoa-Schioppa, i conti pubblici sono in una "condizione insostenibile", che li rende vulnerabili al rischio di aumento dei tassi di interesse, alle pressioni dei mercati e al giudizio delle agenzie di rating. Non bastasse, c'è un problema impellente di equità, perché "gli indicatori di diseguaglianza e di povertà peggiorano".
E' questo l'intreccio perverso da sciogliere, anche con i sacrifici. Sarebbe illusorio, sottolineano Prodi e Padoa- Schioppa, pensare di risolvere i problemi senza incidere sulla spesa. Anche se sarebbe sbagliato ritenere che questo intervento "significhi impoverire la funzione di solidarietà, di promozione della crescita e di fornitura di beni primari, come la giustizia, la scuola, la sicurezza" della spesa pubblica. Tanto più che gli squilibri dei quattro grandi settori di spesa rendono necessaria una correzione "anche a prescindere" dalla riduzione del deficit, perche alimentano la disuguaglianza. Come ai conti, i possibili risparmi serviranno anche, e "in misura non trascurabile", al finanziamento dello sviluppo. Il sentiero è molto stretto, e la richiesta alla Ue di un anno in più per portare il deficit sotto il 3% (obiettivo confermato, pur con qualche cautela, per il 2007) non pare politicamente praticabile. Il governo, in ogni caso, è ottimista. Il piano c'è, ma le misure specifiche arriveranno solo con la Finanziaria. Dopo "un'interlocuzione con le parti sociali e gli enti territoriali, che occuperanno i prossimi due mesi".



Come sprecare la dissuasione
Barbara Spinelli su
La Stampa

Le guerre contro il terrorismo, da quando si sono amplificate e diffuse all'inizio di questo secolo, nascono quasi tutte da una grande delusione, e dalla convinzione che occorra imboccare una strada alternativa a quella che vien ritenuta l'illusoria, e fallita, strada di ieri. L'illusione oggi vituperata consiste nel credere che l'avversario, pur essendo qualcuno che intimidisce e assale, abbia come minimo un fondo di razionalità. Razionalità non è bontà, bene-volenza: è l'attitudine a fare calcoli sulla base di criteri che la controparte condivide, e che dunque sono prevedibili, probabili. L'uomo razionale sa che due più due non può far cinque, anche quando la sua mente è tutta volta alla distruzione altrui. La scommessa sulla razionalità del nemico ha dato come risultato, nel Novecento, la teoria della dissuasione nucleare, del contenimento, della guerra fredda. Una teoria che venne applicata al comunismo sovietico e che può esser riassunta così: io so che tu vuoi eliminarmi e hai intenzioni malvagie, ma a partire dal momento in cui sei razionale - a partire dal momento in cui sei convinto che due più due fa quattro, in ogni circostanza - posso ragionevolmente supporre che nell'euforia della distruzione non dimenticherai che sarai distrutto anche tu, simultaneamente. Quel che ci unisce non è qualcosa di positivo e caldo (amicizia, amore, unione) ma qualcosa di negativo e freddo (evitare il comune suicidio). È quest'idea che viene messa in questione, all'indomani dell'attentato alle torri dell'11 settembre 2001.
Il presidente Bush ha costruito un'intera strategia su questa disillusione: il contenimento dell'avversario non funzionava più, essendo divenuto qualcosa che garantiva lo status quo delle tirannidi, e andava a suo parere soppiantato da guerre calde, se necessario preventive. Di qui le offensive in Afghanistan e Iraq, in risposta agli attentati. La stessa delusione nei confronti dell'avversario la notiamo negli ultimi giorni a Gaza, dove il governo Olmert sembra intenzionato ad annientare Hamas, più che a liberare il soldato Gilad Shalit, nella convinzione che il comportamento di Hamas non possa essere né contenuto, né razionalizzato. L'operazione "Pioggia d'Estate" è un tipico esempio di lotta post-dissuasiva al terrorismo.
Mettere in discussione la strategia della dissuasione vuol dire non puntare più sulla possibile razionalità di chi aggredisce con l'arma terroristica, e dunque rinunciare a far politiche che questa razionalità pian piano la suscitino, l'alimentino, l'allenino. Il pericolo non è più l'avversario folle (il crazy state) che paventava Herman Kahn negli Anni 60, ma è l'avversario canaglia (il rogue state), la cui criminosità non è addomesticabile e che va di conseguenza eliminato abbattendo il suo regime dall'esterno. Se un governante è folle o irrazionale, si tenteranno politiche che risveglino in lui l'interesse a non esserlo, indipendentemente dall'inimicizia che egli prova nei miei confronti. Se è una canaglia, altro non resterà che rinchiuderlo in prigione o ucciderlo. Nel primo caso ha senso una panoplia di strumenti (militari, diplomatici, politici); nel secondo hanno senso solo poliziotti e soldati. Il governo Hamas che ha vinto le elezioni nel gennaio 2006 è giudicato irrimediabilmente canaglia, non rimediabilmente irragionevole. Il comune presentimento di un comune suicidio svanisce, e al suo posto torna la chimerica legge del taglione, affrontabile solo sul campo di battaglia: o muoio io o muori tu, ma qualcuno alla fine si salverà. Il governo Olmert ha scelto questa strada, invadendo di nuovo Gaza a seguito del rapimento del soldato Shalit e di molti attacchi di missili che hanno colpito ripetutamente terre israeliane situate dentro la frontiera del '67: alla follia di Hamas non si può che rispondere con un'altra follia, all'insana predilezione suicida del terrorismo non si può che replicare con equivalenti politici del suicidio. Non si scommette più su niente, tanto forti sono delusione e sfiducia: guerra fredda e dissuasione sono impraticabili con Hamas, quindi impossibili. Lo scrittore Doron Rosenblum ha parlato di fascino dell'insania e di "follia redentrice", in un articolo su Haaretz del 7 luglio. Anche questo fascino è tipico della delusione apparsa all'inizio del XXI secolo: l'avversario non va lentamente portato a usare la logica, come è avvenuto con Urss e poi Cina. La storia non si fa giorno dopo giorno creando spazi di razionalità condivisa, ma si dirige apocalitticamente verso la propria fine: di redenzione o dannazione. Prima cercavo di accostare l'avversario a me, allenandolo non all'amicizia (quella verrà dopo, se mai) ma almeno a un calcolo di buon senso. Ora sono io che mi accosto a lui, emulando la sua follia. Che Olmert sia tentato dall'emulazione è confermato da quello che egli stesso ha confidato in una riunione ristretta, dopo il rapimento di Shalit: "Hamas deve capire che il padrone di casa è diventato pazzo". Che "l'epoca dell'autocontrollo è finita".
Si potrebbe capire questa strategia, se funzionasse. Ma non funziona, e non a caso mentre guerreggia il governo israeliano già pensa a trattare la restituzione di prigionieri, come chiesto dai rapitori e come indirettamente accettato dal ministro della Sicurezza Avi Dichter. Non funziona perché lo stato d'Israele non può al tempo stesso promettere il ritiro dai territori e continuare a definire se stesso padrone di casa in regioni evacuate dieci mesi fa. E non può perché in passato consentì al rilascio di molti prigionieri, anche incondizionatamente. Ne rilasciò perfino in cambio di tre soldati morti, nel 2004. Perfino Ahmed Yassin, il fondatore di Hamas ucciso da bombe israeliane nel 2004, era stato liberato da Netanyahu nel '97. Due strategie coesistono insomma nella storia israeliana, e non è detto che la più dura prevalga. Resta il giudizio negativo - in America e Israele - su una dissuasione che faccia leva sulla ragionevolezza altrui. Ambedue si propongono "un potere dissuasivo riabilitato", ma coi loro metodi lo debilitano ancor più, reagendo alla pazzia dell'aggressore con una pazzia redentrice che va ben oltre il salvataggio del soldato Shalit.
Questo giudizio negativo su dissuasione e contenimento è d'altronde avventato. Gli occidentali hanno pur sempre vinto la guerra fredda con i metodi oggi vilipendiati, anche se la trasformazione fu lenta e i sacrifici molteplici (rivoluzione annientata in Ungheria, carri armati a Praga, insurrezione polacca sfociata in stato di guerra). Ma son metodi che hanno dato qualche risultato, non solo con l'Urss ma anche con i palestinesi. È quel che ricorda Aluf Benn, commentatore di Haaretz: se si vuol dissuadere Hamas e non accentuare la sua mortifera follia, che si operi per trasformare i suoi dirigenti in politici stile Assad, presidente siriano. "Il quale sarà un terrorista, ma non è pazzo". Il governo israeliano ha già agito così ai tempi di Ehud Barak, quando negoziò con Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah in Libano del Sud, per organizzare con ordine il proprio ritiro.
Scommettere sulla razionalità dell'avversario rafforza quest'ultimo, è vero. Gli dà stabilità, riconosce un suo status quo. Ma la storia di questi anni ha mostrato che sono i governi instabili o inesistenti a favorire il ritorno o il proliferare dei terroristi: in Afghanistan, Iraq, Somalia, Gaza. Le guerre "redentrici" hanno tremendamente diminuito il peso dell'America nel Medio Oriente e nel Golfo. L'amministrazione Usa è diventata afasica, impotente, priva di alleati locali. È una catastrofe l'abbandono del contenimento, e i nemici che abbiamo davanti sono animati da follie imprevedibili - come quella di Ahmadinejad in Iran, di Hamas nei territori - cui le nostre democrazie (compresa l'israeliana) non sanno rimediare. Non aspettandosi nulla da simili avversari, esse non sanno neppure svegliare in loro il raziocinio condiviso che è la premessa di qualsiasi negoziato. Sanno solo eliminarli o subirli: senza idea alcuna, comunque, su chi verrà dopo di loro.
Aluf Benn ricorda come Nasrallah in Libano, al pari di Hamas nei territori occupati, odiasse Israele e sionismo. Ma a differenza di Hamas egli aveva autorità, pieno monopolio sulla violenza, e dunque responsabilità: il suo comportamento era razionale e ragionevolmente prevedibile. Non è la soluzione ideale, nella lotta al terrorismo. La soluzione ideale sarebbe di avere attorno a sé amici, non nemici con cui si negoziano equilibri di deterrenza e raffreddamenti di guerre. Ma il meno peggio è almeno un passo avanti rispetto al peggio, e oggi è vero che "ci sarebbe bisogno di un Nasrallah palestinese" nei territori: non di un Abu Mazen senza forza, non di Hamas senza monopolio della violenza. Di un terrorista magari, ma che lentamente si avvicini alle regole e scopra gli svantaggi tutti di quella speciale follia che mischia omicidio e suicidio.


Gli 007 non sono al disopra della legge
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

Ci sarebbero oggi molti e importanti fatti da commentare, dal Dpef presentato da Padoa Schioppa alle liberalizzazioni di Bersani, dalla chiamata alle armi rivolta da Berlusconi al popolo delle partite Iva contro le supposte prepotenze fiscali di un centrosinistra che secondo Tremonti ricalca le orme del Terrore di Robespierre, alla Corte federale della giustizia sportiva chiusa già da due giorni in camera di consiglio per decidere la sorte delle più prestigiose squadre di calcio italiane, dai mal di pancia della sinistra radicale (e dell´ineffabile Mastella) alla decomposizione del centrodestra.
Ma a me pare che la questione principale da mettere al centro dell´attenzione nazionale sia quella del nostro servizio di sicurezza militare, il Sismi, i suoi agenti infedeli, i suoi sistemi di spionaggio e soprattutto di controspionaggio, la sua politica di sistematica disinformazione e depistaggio, i suoi rapporti viziosi con giornalisti prezzolati o compiacenti o semplicemente succubi per interessi politici, il problema del lavoro sporco dell´Intelligence, della sua autonomia, dei suoi rapporti col potere politico e di quelli con l´esercizio della giurisdizione. Infine i possibili riflessi di quanto sta accadendo nel rapporto tra Sismi e Cia e, di conseguenza, tra Italia e Stati Uniti.
Un grumo di problemi estremamente delicati e interconnessi che hanno costellato la situazione italiana a partire dallo scandalo Sifar del 1964 fino ai giorni nostri, provocando una dozzina di riforme inefficaci, di scandali a getto continuo, di deviazioni inaudite, di poteri fuori controllo, di dietrologie esasperate e di inarrestabile corruzione.
Di questo dunque ci occuperemo ancora una volta. Non nascondo che l´aspetto più grave, inedito e inaudito, riguarda lo spionaggio illegale ai danni di alcuni giornalisti, l´ingaggio di altri, la compiacenza di molti. Questi fatti configurano un comportamento anticostituzionale e un attentato vero e proprio contro la libertà di stampa da parte di un servizio preposto alla sicurezza dello Stato. Chiama pertanto in causa direttamente il governo, il Parlamento e lo stesso presidente della Repubblica in quanto organi chiamati a tutelare i diritti garantiti dalla Costituzione contro ogni manomissione, da qualunque parte provenga. Non c´è lavoro sporco che possa essere invocato come giustificazione. Quando si tratta di reati contro la Costituzione occorre che l´accertamento sia rigoroso e la sanzione inflessibile.
Cito qui quanto ha scritto ieri Giuseppe D´Avanzo su queste pagine: "Da qualche anno ci sembra di avere sotto gli occhi, e ben squadernato, non il lavoro "grigio" di uomini generosi che proteggono il paese dal terrorismo, ma le manovre abusive di un´istituzione dello Stato che usa e abusa della sua libertà per terrorizzare il paese e per proteggere, anche con diffamazione, la sua separatezza da ogni controllo. Di questo parliamo".
Sì, di questo parliamo. Il collega D´Avanzo è uno dei giornalisti spiati abusivamente dal Sismi. Altri giornalisti sono sul libro paga di quel servizio. Altri ancora alimentano il loro lavoro con le informazioni – disinformazioni che il servizio recapita sui loro tavoli. Di questo parliamo.
Parliamo dell´insicurezza diffusa dal servizio di sicurezza. Dei suoi agenti "paralleli". Della sua vocazione alla slealtà costituzionale. Dal generale De Lorenzo alla affiliazione alla P2 dei suoi massimi esponenti ai tempi del sequestro Moro. Della strategia della tensione. Del depistaggio sistematico ai tempi dello stragismo.
Di questo parliamo sperando che sia l´ultima volta perché siamo ormai stanchi di parlarne e perché un paese serio deve poter contare su servizi di sicurezza seri e non su grotteschi pagliacci, buoni per tutte le stagioni e per tutti i padroni salvo che per l´interesse dello Stato.
* * *
Per fermare la mano alle indagini giudiziarie e a quelle amministrative e per bloccare decisioni che allo stato dei fatti dovrebbero esser prese senza indugio, si è perfino invocato il tema della nostra presenza in Afghanistan cumulabile con lo scandalo dell´intelligence e con le operazioni antiterroristiche della Cia su territorio europeo e italiano.
Si è detto che la credibilità italiana a Washington, già incrinata dalla decisione di porre fine alla nostra presenza militare in Iraq, sarebbe ulteriormente vulnerata dall´inchiesta giudiziaria nei confronti di alcuni agenti del Sismi. Se a questo dovesse aggiungersi anche la messa in discussione della nostra presenza in Afghanistan da un lato e la rimozione dell´attuale vertice del Sismi dall´altro, la solidità dell´alleanza con gli Usa sarebbe in grave rischio. Sull´una e sull´altra questione – si dice – il governo Prodi deve dare garanzie. Siamo davanti evidentemente ad un´ennesima operazione diversiva, promossa o fortemente fiancheggiata dal berlusconismo in cerca di appigli che ne prolunghino il declino.
La nostra presenza in Afghanistan sotto le insegne della Nato non è in discussione e il governo (Prodi, D´Alema, Parisi) l´ha riaffermato nelle ultime settimane almeno una dozzina di volte con dichiarazioni ufficiali e con innumerevoli interviste giornalistiche. Ci sono voci di dissenso in alcuni settori marginali dell´Unione. Ci furono anche – e ben più profondi – dissensi tra il governo Berlusconi e la Lega (che ne faceva parte) in materia di politica estera. Pensiamo all´antieuropeismo gridato a piena voce da Bossi e dai dirigenti leghisti, pensiamo alla proposta ufficiale di uscire dall´euro, pensiamo alla visita di amicizia al governo di Milosevic nel momento in cui infuriava lo scontro tra Usa e Nato da una parte e la Serbia nazionalista e razzista dall´altra.
La posizione del governo Prodi sull´Afghanistan è chiarissima: non ci ritireremo dagli impegni internazionali assunti e dalla presenza nella missione Nato. Ma siamo ben consapevoli - come lo è la stessa Nato e l´Onu - del pericoloso deteriorarsi della situazione afgana e del rapido indebolimento del governo karzai. In quanto membri della Nato abbiamo il diritto-dovere di promuovere un chiarimento e una ridimensione della missione, precisandone le finalità, stabilendo se necessario nuove regole d´ingaggio del personale militare nonché i costi e la durata. La sede della discussione è il Consiglio della Nato. Se non siamo un paese a sovranità limitata non c´è nulla di strano né di allarmante in questa posizione.
Il nesso che si vorrebbe stabilire tra questione afgana e scandalo Sismi è totalmente arbitrario. Il Sismi è un´istituzione nazionale di rilevante importanza. Quali siano i suoi poteri, i suoi compiti istituzionali, la sua dirigenza, le sue eventuali deviazioni dai compiti di servizio, è cosa che riguarda esclusivamente il governo e il Parlamento italiano. L´amicizia operativa tra il Sismi e la Cia è fuori discussione come è fuori discussione che la suddetta amicizia operativa non può in nessun caso indurre il Sismi a violare i suoi doveri di istituto.
La situazione si presenterebbe in modo diverso se il governo italiano fosse stato informato della natura delle operazioni proposte al Sismi dalla Cia e avesse dato il suo benestare al loro svolgersi.
All´epoca del rapimento dell´imam Omar il governo era quello presieduto da Berlusconi e la persona delegata a occuparsi dei servizi di sicurezza era Gianni Letta. Perciò la questione che si pone è la seguente: Berlusconi e Letta erano informati dell´operazione Cia-Sismi? Dettero il loro benestare? Se lo dettero la responsabilità di quanto è avvenuto passerebbe da una spalla all´altra, dal Sismi a Berlusconi-Letta.
* * *
Questo dilemma non è ancora stato chiarito. E´ auspicabile che lo sia al più presto. Spetta al governo attuale interpellare il suo predecessore e ottenere una chiara risposta dandone notizia al Parlamento.
Ma il governo attuale, come abbiamo già detto e per come per chiarezza torniamo qui a ripetere, deve risolvere un altro più semplice ma per certi aspetti più grave problema:
il Sismi ha messo sotto spionaggio illegale alcuni giornalisti, altri ne ha assoldati per depistare e intralciare l´esercizio della giurisdizione, ha diffuso disinformazione in modo sistematico su temi delicatissimi (elencati nei giorni scorsi dal nostro giornale con dovizia di particolari, di documenti, di date).
Questo tema è delimitato e di facile e rapida accertabilità. Indipendentemente dall´inchiesta giudiziaria.
Perciò non ripeteremo la formula di rito della nostra piena fiducia nell´operato della magistratura ma diremo che abbiamo piena fiducia (ed è vero) nell´inchiesta che il governo deve necessariamente effettuare su questo particolare aspetto dello scandalo Sismi e ne attendiamo con piena fiducia i risultati.
È in ballo la libertà di stampa, diritto essenziale in ogni democrazia e costituzionalmente garantito. Aspettiamo notizie in proposito.


La solitudine di Pollari
Riccardo Barenghi su
La Stampa

Scusate la domanda: ma durante il rapimento di Abu Omar con tutti i suoi annessi, Cia, servizi segreti italiani, loro capi e vicecapi, chi sapeva e chi non sapeva (o finge che non sapeva), magistrati che indagano, intercettazioni e via dicendo, durante tutto questo esisteva un governo? E se esisteva, sapeva, non sapeva o faceva finta di non sapere?
Al momento pare non ci fosse il governo e non ci fosse nemmeno la politica in generale. Si scopre che il Sismi sapeva, anzi che aveva collaborato alacremente con gli americani, si scopre che sapeva tutto il suo vicecapo Mancini, si deduce e in parte si documenta che fosse a conoscenza di tutta la vicenda anche il capo supremo, generale Pollari. Ma poi ci si ferma qui, il passo avanti non si fa. Nessuno (tranne che per una battuta del ministro D'Alema) chiede oggi come mai il generale Pollari non ne abbia parlato con i suoi diretti superiori politici, il ministro della Difesa Antonio Martino, il sottosegretario Gianni Letta, delegato ai Servizi, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. In fondo sarebbe stato non solo suo dovere ma anche un suo diritto, quello cioè di condividere la responsabilità (per non dire scaricare) di una vicenda scottante su chi quella responsabilità è obbligato a portare sulle spalle: appunto la politica.
Qualsiasi capo di qualsiasi servizio segreto in qualsiasi parte del mondo, di fronte a una situazione del genere informa il suo governo. Non si trattava infatti di una operazione di intelligence come un'altra, ma del rapimento sul suolo italiano di un cittadino straniero (terrorista o no non conta ai fini del discorso), rapimento compiuto da agenti di un altro Paese straniero che hanno usato i nostri come manovalanza o poco più. Il governo del Paese nel quale si è consumato il fatto non poteva non saperlo, tanto che gli stessi americani sostengono che non c'è stata alcuna violazione della sovranità nazionale italiana. Tradotto dal linguaggio diplomatico, significa che l'Italia non è stata violata perché sapeva e collaborava pure.
Non è certo un mistero che il generale Pollari sia stato per cinque anni in strettissimo rapporto di fiducia e collaborazione reciproca con Gianni Letta, con pubblici attestati di stima da una parte e dall'altra. E' allora possibile che Pollari non abbia informato Letta di quel che stava per accadere o almeno di quel che era accaduto? Tutto è possibile ovviamente, così come è possibile che invece sia stato Berlusconi a informare Letta, che a sua volta ha informato Pollari, di quel che sarebbe dovuto accadere e di cosa avrebbero dovuto fare i servizi italiani. Berlusconi a sua volta sarà stato informato da qualcun altro, magari da Washington.


Alzare la posta
Mario Monti sul
Corriere della Sera

A una settimana dai provvedimenti di liberalizzazione e all'indomani delle tensioni nel governo sul Dpef, è aperta una questione di fondo. Quelle liberalizzazioni sono provvedimenti importanti ma isolati o segnano l'inizio di una politica nuova per l'Italia, che metta in primo piano l'interesse dei cittadini- consumatori?
Il contenuto dei primi provvedimenti, e il modo in cui il presidente del Consiglio Romano Prodi e il ministro Pierluigi Bersani li hanno presentati, creano l'aspettativa che proprio di questo si tratti: di una politica economica orientata ai consumatori, nella consapevolezza che l'apertura dei mercati alla concorrenza è anche il modo più efficace per avere un sistema produttivo efficiente e competitivo. E' una visione, prospettata da tempo su queste colonne, simile a quella seguita dalla Commissione europea e da alcuni governi, tra cui quello britannico; ma antitetica alla tradizione di gran parte delle forze politiche italiane, portate a dare più dignità e tutela ai diversi modi in cui i cittadini partecipano al processo produttivo (le piccole o grandi corporazioni) che al loro essere cittadini- consumatori. Questa modificazione genetica nella quale il governo sembra impegnato deve essere accompagnata con speranza e valutata con attenzione, alla luce di quella bussola, l'interesse dei consumatori, che il governo stesso ha fatto propria. A questo stadio, tre passaggi assumono particolare rilievo.
La posta. Le prime liberalizzazioni riguardano alcuni servizi. Altri interventi sono stati preannunciati. E' opportuno che venga presto definito un vero e proprio "piano delle liberalizzazioni " ("un ossimoro", fu l'espressione con la quale l'onorevole Fausto Bertinotti accolse questa idea in un garbato dibattito del 1997). Un piano che alzi la posta in gioco, estendendo quanto necessario l'ambito delle liberalizzazioni. Rischioso? No, è l'unico modo per far capire alle poche categorie "colpite " finora che nessuno "ce l'ha" con loro; e ai cittadini che la posta in palio per il loro tenore di vita e la qualità della loro vita quotidiana è davvero grande e merita perciò che "si tenga duro ", nel caso in cui qualche categoria dovesse creare disservizi.
La simmetria. Il governo ha fatto bene a non seguire una linea massimalista, del tipo "aboliamo gli ordini professionali ". Analogamente, la nuova politica economica non richiede certo di abolire i sindacati o le organizzazioni dei datori di lavoro (a parte il fatto che gli uni e le altre danno prova di una crescente comprensione delle esigenze di una moderna economia sociale di mercato). Richiede però, per simmetria con le organizzazioni che rappresentano i settori sui quali il governo è intervenuto nei giorni scorsi, che ai sindacati e alle organizzazioni dei datori di lavoro non venga riservato, nella sostanza e nella forma, alcun ruolo che possa dare l'impressione di una partecipazione di fatto all'esercizio di competenze che spettano al governo e al Parlamento.
Dalla concertazione alla consultazione. Una politica economica orientata al cittadino-consumatore mal si concilia con processi di decisione che hanno caratterizzato, a volte con risultati apprezzabili, altre stagioni della politica economica italiana, come la "concertazione". Se mette al centro il consumatore, la nuova politica economica deve lasciarsi alle spalle gli elementi residui di corporativismo. I pubblici poteri, quali soli autori delle decisioni pubbliche, dovranno invece fare uso sistematico di adeguati processi di "consultazione", ai quali possano partecipare con le loro posizioni tutte le parti interessate. Queste includeranno certo i "produttori", ma analoga possibilità di intervento avranno i consumatori. Il governo ha dato l'impressione di sfidare i tassisti e qualche altra categoria. In realtà, ha sfidato se stesso. Ha sfidato la cultura che ha caratterizzato per lungo tempo molte componenti della sua maggioranza. Speriamo che vinca.


Siamo tutti tassisti
Ilvo Diamanti su
la Repubblica

Il decreto sulle liberalizzazioni, presentato da Bersani una settimana fa, ha spiazzato un po´ tutti. Rovesciando le parti tradizionali della politica italiana. La sinistra: liberista. In grado di realizzare ciò che la destra non ha saputo o voluto fare, nel corso della sua esperienza di governo. Ieri le privatizzazioni, oggi le liberalizzazioni. La destra, preoccupata di abbandonare agli altri il vessillo del mercato.
Che, per questo, critica il decreto: prova dell´ostilità della sinistra contro i lavoratori autonomi. In mezzo, i tassisti. Insieme agli avvocati, ai notai, ai farmacisti. E alle altre professioni, in attesa di venire, a loro volta, "liberalizzate". Roccaforte dell´Italia protezionista. Da espugnare.
Intorno gli italiani. Che, secondo voci autorevoli della maggioranza (ma anche secondo alcuni sondaggi d´opinione), sarebbero d´accordo nel percorrere questa strada. D´altronde, i tassisti, gli avvocati, i notai, come altri professionisti, non sono molto simpatici alla "gente". Ne emerge l´immagine di un Paese – gli imprenditori in testa – che non vede l´ora di essere "liberato" dai lacci e i lacciuoli che gli impediscono di crescere e di svilupparsi. Una rappresentazione, a nostro avviso, distorta. E, sicuramente, consolatoria. In quanto racchiude "le resistenze" alla liberalizzazione in una porzione d´Italia molto limitata. Poche lobby e corporazioni. Da contrastare attraverso l´affermazione del mercato. Terapia per curare il "mal di declino" di cui soffre il Paese. Ma, soprattutto, un obiettivo ampiamente condiviso dai cittadini.
Meglio non illudersi. Meglio non illuderci. Perché, in fondo, siamo un po´ tutti tassisti.
Per verificarlo, basta ripercorrere i principali dati di una indagine condotta da Demos, in vista del convegno di Vicenza dello scorso 17-18 Marzo, dedicato – significativamente - da Confindustria alla "concorrenza come bene pubblico". Il passaggio – meglio: l´irruzione – a Vicenza di Silvio Berlusconi ha oscurato tutto il resto. I contenuti e l´oggetto del convegno – sicuramente interessanti. Per non parlare della ricerca. Che, tuttavia, rivela alcune verità, magari prevedibili. Ma difficili da confessare. A noi stessi. Li rammentiamo, in estrema sintesi.
1) Gli italiani, in grande maggioranza (65%), valutano la "concorrenza" una "virtù". Capace di promuovere libertà, efficienza e qualità. Ridare slancio all´economia, sostenere l´occupazione e far crescere le retribuzioni. Coerentemente, ritengono il "privato" il mezzo migliore per contenere gli sprechi, aumentare la qualità e l´efficienza dei servizi. Per contro: Stato e pubblico sono il regno dell´inefficienza e dello spreco.
2) Per questo, diffidano dei regolamenti burocratici e professionali, che rendono difficile avviare un´attività. E costoso, ai cittadini, accedere ad un servizio. Quindi, non sono d´accordo che, per aprire un´edicola, una farmacia, oppure per guidare un taxi, occorra una licenza. Di conseguenza, secondo loro, le tariffe dei beni e dei servizi erogati da queste professioni dovrebbero venire stabilite dal mercato, non dagli ordini e dalle categorie.
3) Ancora, gli italiani pensano che nel lavoro e nelle professioni occorra promuovere il merito e le capacità personali. E valutano deprecabile favorire l´accesso e la carriera professionale di un parente, fosse anche un figlio, ricorrendo a raccomandazioni, spinte e spintarelle.
4) Sembrerebbe, quindi, prevalere, in Italia, una mentalità aperta al mercato, poco incline a logiche particolaristiche e corporative. Tuttavia, di fronte a casi concreti, gli italiani reagiscono diversamente. E fanno emergere opinioni, al proposito, molto ambigue.
5) Apprezzano il "privato", assai meno le "privatizzazioni" realizzate. Nella telefonia, nelle autostrade, nell´energia. Il passaggio ai privati, ai loro occhi, non ha prodotto effetti. Se non sui costi. Servizi uguali a prezzi superiori. (Anche contro l´evidenza; come nel caso degli aerei). Per cui, la maggioranza di essi preferirebbe tornare indietro. Ri-pubblicizzare i servizi. Restituirli allo Stato. Quanto alla sanità, alla scuola, alle pensioni, ai trasporti, perfino alla televisione: non se ne parla. Devono restare pubblici e statali.
6) Quanto alla liberalizzazione delle attività professionali, in discussione in questi giorni, gli italiani, in larghissima maggioranza (fra il 70% e l´80%), considerano lecito, perfino naturale, che, per svolgere una professione, anzi, qualsiasi professione – l´avvocato e il commercialista, il farmacista o il maestro di sci – sia necessario essere "iscritti a un albo". A un Ordine.
7) La concorrenza e il merito: virtù salvifiche. Tuttavia, metà degli italiani (intervistati da Demos) considera inevitabile ricorrere ad amicizie personali per trovare lavoro per sé e per altri familiari. Mentre la stragrande maggioranza di essi ritiene iniqua ogni tassa di successione, ogni vincolo che gravi sul passaggio di padre in figlio, non solo delle case, ma anche di un´azienda o di un negozio. D´altronde, proprio alcuni malaccorti accenni in tal senso, durante la campagna elettorale, hanno provocato non pochi danni all´Unione.
Da ciò alcune considerazioni, a nostro avviso, utili per valutare il significato delle resistenze sollevate dal decreto Bersani al di fuori di tentazioni ideologiche.
Le liberalizzazioni. Incontrano opposizione non in settori specifici e delimitati della società. In sacche di protezionismo protetto da svuotare. Ma nella nostra società nel suo insieme. Perché gli italiani (compresi i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori) appaiono, in larga maggioranza, cerchiobottisti e autoindulgenti. Apprezzano il privato, per gli altri. Ma il pubblico, per sé. Ritengono la concorrenza una virtù. Ma, per quel che li riguarda personalmente, preferiscono la "Protezione dello Stato". Che è "madre di tutti gli sprechi e di tutte le inefficienze". Ma nonostante tutto rassicura più del privato. Anche perché, lo sappiamo, gli italiani amano la mamma…
Quanto agli ordini professionali, bersaglio dell´iniziativa del governo, molti li ritengono un problema, ma pochi sembrano disponibili a rinunciarvi.
Le resistenze al decreto Bersani, alla liberalizzazione, quindi, non sorgono da piccole lobby, da cerchie ristrette di lavoratori privilegiati, arroccati nella difesa dei loro privilegi, a ogni costo. Ma affondano le radici nella nostra società, nella nostra organizzazione, nella nostra cultura. Il fatto è che siamo tutti tassisti. Oppure avvocati, farmacisti, notai. Oppure medici, artigiani, psicologi, commercianti, massaggiatori, commercialisti, autotrasportatori, consulenti del lavoro. Giornalisti.
Siamo tutti iscritti a un ordine, una categoria, una cassa, una professione, una corporazione, un club. E se non noi, in prima persona, lo è nostra moglie, nostro marito. Nostro figlio o nostra sorella. Così, tutti noi pensiamo di trasmettere qualcosa ai nostri figli. Di generazione in generazione. La casa, il lavoro, l´azienda, la professione.
Ciò significa rassegnarsi? Accettare la nostra condizione di società semichiusa come un destino ineluttabile? Certamente no. Cambiare bisogna. A condizione, però, di non fingere. Che il problema riguardi qualcun altro. E che investa poche persone. Non è così. Ci riguarda tutti. Riguarda la nostra società, affonda le radici nei caratteri della nostra storia. E se qualcuno si illude di risolverlo "per decreto" – e di giustificarlo ricorrendo alle virtù del mercato – non solo si illude. Ma rischia di produrre l´effetto opposto.


Possiamo farcela
Gianni Mura su
la Repubblica

Non sarà una passeggiata ma nemmeno una scalata di sesto grado. Se nel calcio c´è un minimo di logica l´Italia che ha battuto la Germania non può perdere con la Francia. Stasera vince l´Italia con due gol di scarto almeno e dunque sarà campione del mondo. La previsione è questa. Normalmente uso più cautela, sfumo i concetti, prima di scrivere ripasso mentalmente le regole-base del pronosticatore buono per tutte le stagioni: la palla è rotonda, non esistono avversari facili, l´importanza della posta in palio, la tradizione contraria (o favorevole), i giochi dell´amore e del caso. Ma arrivo a questa conclusione: conta soprattutto lo stato di forma. Oggi l´Italia è più fresca e dunque più forte. Un giorno di riposo in più significa molto.
Nel secondo tempo col Portogallo i francesi, Zidane in particolare, hanno dato chiari segni di cottura. Invece, nei supplementari con la Germania l´Italia è lievitata.
Il momento più difficile di questo Mondiale, quello che poteva portare gli azzurri a fare le valigie in anticipo, è legato alla partita con l´Australia. Avevo forti presentimenti negativi alla vigilia e non li avevo nascosti, ma solo un po´ attenuati. Sotto sotto ero quasi convinto dell´eliminazione. C´è mancato un pelo. Un buon sistema di studio delle due squadre consiste nel fingersi estraneo. Le guardo sempre da critico sì, ma non italiano né francese. Le guardo come fossi messicano, estone o neozelandese. L´Italia ha una squadra migliore, non solo perché la Fifa nel suo top ha incluso sette dei nostri e quattro dei loro. È migliore la difesa, perché l´unico grandissimo francese è Thuram, Gallas può stare alla pari con Materazzi, ma quanto a portiere e terzini c´è un abisso. In questo Mondiale ha fatto strada chi era forte in difesa, valga per tutti l´esempio del Portogallo. Quindi è abbastanza ovvio pronosticare vincente la squadra che ha la difesa migliore.
A centrocampo loro sventolano, giustamente, l´icona di Zidane, l´incantatore calvo. Il merito di Domenech, a volergliene trovare uno, sta nell´aver convinto Zidane e altri eroi del´'98 a ritornare sui loro passi. Barthez, Thuram, Vieira, Zidane, Henry: è ancora l´onda lunga del '98 che arriva fino a Berlino, l´estate di San Martino che dà frutti fuori stagione, la spina dorsale di una squadra che sembrava un vulcano spento (come nella famosa canzone di Brel) e invece rieccola, è tornato il fuoco che domani sarà già spento, inutile dire "ne me quitte pas" ai grandi vecchi. Solo Henry continuerà, molti ricambi non si vedono e Ribery mi pare, al momento, un Gasbarroni più continuo.
Se loro hanno Zidane noi abbiamo Pirlo, se loro hanno Vieira noi abbiamo Gattuso. Se noi abbiamo Totti, loro non ce l´hanno. E´ un bene che Totti si sia avvicinato con molta discrezione a questa finale. Tolto l´episodio del rigore decisivo, fin qui Totti è stato uno degli undici, o dei quattordici, e questo lo vedo come un segnale di maturità. Non era a posto, s´è messo a posto, ha giocato con molta umiltà, quasi da gregario. Questa può essere la sua partita. Dipende da lui. Intanto, sono in costante rialzo le azioni di Pirlo. Corre il rischio di essere eletto miglior giocatore del torneo. Anche Cannavaro, dipende da come va a finire stasera. Essendo un freddo, Pirlo non ha eserciti di tifosi osannanti, ma molti estimatori tra gli addetti ai lavori. Crujiff, Beckenbauer, Guardiola hanno usato parole di zucchero. Ricordo Irureta, prima di una partita in Champions col Milan, che insorgeva contro i colleghi spagnoli: voi continuate a chiedermi di Inzaghi e Shevchenko, ma il vero problema è come fermare Pirlo. Come fermarlo, lo deciderà Domenech oppure la commissione interna, i senatori che decidono la formazione e il ct che l´approva. Un sospetto c´era, da tempo, ma un´intervista di Sagnol, l´altro ieri, ha dato la certezza. La Francia si basa su una forma di autogestione concordata. E allora, già che ci siamo, Lippi è meglio di Domenech. Non solo ha costruito una squadra, ma una squadra che può cambiare molto nella stessa partita.
Vedo un solo pericolo: le avanzate di Vieira, sia palla al piede sia sul calcio aereo, da calcio piazzato. Buffon e Cannavaro lo conoscono, Camoranesi e Zambrotta pure, ma anche lui conosce loro, anche Thuram. C´è questo nodo bianconero, nei giorni più caldi e amari per la Juve, che non si può ignorare. Ma tanto vale dirlo prima, a Mastella e a chi la pensa come lui: non veniteci a parlare di amnistie, di sconti e cose del genere. Chi sbaglia paga e chi vince vince. Se l´Italia vince, non è grazie ai truccatori di partite, ma nonostante loro e contro di loro.
Chiusa la parentesi, ultime cose sulla partita. A differenza che coi tedeschi, l´Italia dovrà cercare di tenere alto il ritmo di gioco, che i francesi cercheranno di tenere basso per risparmiare fiato. Sarebbe un rischio per noi, meglio accelerare la cottura. Niente rigori, niente supplementari. Se vi va bene un 3-1, 3-1 è la mia previsione.


Arruola un pensionato
Giampaolo Pansa su
L'espresso

Sapete quando ho capito che il professor Guido Rossi è un dio in terra? Quando l'ho visto scegliere il dottor Francesco Saverio Borrelli come capo dell'ufficio indagini della Federcalcio, con il compito di sventrare Calciopoli. Perché l'ho compreso in quel momento? Semplice: perché il professor Rossi aveva scelto un pensionato. Proprio così: un signore più che settantenne, ormai uscito dal lavoro per anzianità. C'è un principio-cardine nella società italiana, che spesso dimentichiamo. Hai un problema rognoso da risolvere? Hai tutti contro e sei in mezzo a una battaglia terribile? Hai bisogno di un carro armato? Bene, arruola un pensionato.
Attenzione: come dimostra Borrelli, il pensionato non è lo squalo avido che si mangia a sbafo i soldi dei giovani. Così viene dipinto da una pubblicistica fellona. Al contrario, il pensionato ha qualità che nessun altro possiede. Prima di tutto, è un esperto del lavoro che ha svolto per anni. Vi occorre un idraulico per sistemare la doccia che perde? Non fidatevi dei giovanotti che non distinguono un rubinetto da un clarinetto. Cercate un idraulico anziano: farà il lavoro in un amen e a prezzo ridotto.
Punto secondo: il pensionato è fuori dai giochi della sua vecchia carriera. E se dovrà farvi da consulente, risponderà in assoluta indipendenza soltanto a voi. Punto terzo, il più importante. Il pensionato ha, per l'appunto, la sindrome del pensionamento. Ossia soffre per la propria inutilità, per sentirsi fuori dal mondo di chi lavora. Si annoia. Si rompe a stare in casa. Pensa con terrore a quando non ci saranno più i Mondiali alla tivù. Dategli un incarico che lo riporti all'onor del mondo. Lo assolverà con l'energia di dieci trentenni.
È esattamente quel che sta avvenendo con il dottor Borrelli. Lui, di certo, non si annoiava. Ma quando il professor Rossi gli ha affidato la pratica rovente del Moggigate, è partito a razzo. Ha bastonato le grandi di serie A. Adesso si sta dedicando alla serie B. Poi passerà alle scommesse, agli stipendi gonfiati, ai conti occulti, ai soldi in nero, ai diritti televisivi e a tutto il marciume restante.
Davvero un carro armato, questo giudice in pensione. Ci voleva. Ci mancava. Quando lo vedo in tivù, mi confermo nell'idea che esiste un'Italia civile, quasi sconosciuta ai media. Borrelli è un italiano che mi ha sempre ispirato fiducia. Ma non soltanto perché è stato un grande magistrato. Certo, senza di lui, forse, Mani Pulite non avrebbe fatto un passo. Il pool di Milano non sarebbe mai nato. E Antonio Di Pietro, per esempio, si occuperebbe di mariti che uccidono la moglie con la motosega. Però la mia fiducia in Borrelli riposa soprattutto sulla convinzione che, pur nelle terribili asprezze della battaglia contro la corruzione dei partiti, è stato un uomo giusto.
Me ne sono reso conto quando Mani Pulite era iniziata da pochi mesi. La sera del Ferragosto 1992, mi trovai a cenare con lui, al rifugio Elena in val Ferret, sopra Courmayeur. Borrelli, allora di 62 anni, era l'uomo più potente d'Italia. Eppure lo trovai tormentato. E sapete da cosa? Dal timore di sbagliare e di veder cadere nel fuoco di Tangentopoli qualche innocente.
Mani Pulite stava dilagando. Ogni indagine ne generava altre. Per i politici, il solo sospetto d'essere corrotti imponeva la fine della carriera. Borrelli era angosciato dalla forza terribile della sua inchiesta. E si chiedeva: "Riusciremo a non fare errori?". Ma la sua domanda più preoccupata era soprattutto un'altra. Riguardava il sistema dei partiti. L'inchiesta, mi spiegò, era appena iniziata. E minacciava di andare avanti per anni. Quanto avrebbe retto, la politica italiana, sotto una grandinata ininterrotta di arresti e di accuse? E che cosa sarebbe venuto dopo la fine, già allora prevedibile, della classe dirigente abbarbicata alle macerie della prima Repubblica?
Quella sera al rifugio Elena, Borrelli se lo domandò e lo domandò a me. Ma entrambi scoprimmo di non avere una risposta. Tuttavia, mi sentii rassicurato da quei tormenti. Anche perché mi confermavano il mio giudizio su di lui. Il contrario del giudice giustiziere. L'opposto del fanatico in toga che si ritiene il redentore di una società colpevole. Borrelli, uomo calmo, borghese riservato, consapevole che i doveri di un magistrato non sono spade da sfoggiare, rifiutava con sdegno l'accusa di essere un Torquemada. Così lo dipingevano tutti i partiti, nessuno escluso. Anche la sinistra lo bastonava di continuo, con ferocia. I giornali politici di quegli anni sono uno sterminato catalogo di orrori. Anche per questo, quando andò in pensione, Borrelli non poteva non congedarsi con quel motto che a molti sembrò troppo urlato. Ricordate? "Resistere, resistere, resistere".
Vada avanti, dottor Borrelli. Resista. E ripulisca a fondo il calcio. Accanto a lei, dentro il carro armato, ci sono milioni di tifosi per bene. Compreso il sottoscritto che, ahimè!, è sempre stato uno juventino tenace.


   9 luglio 2006