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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 2 luglio 2006



Chi ben comincia è alla metà dell'opra
Eugenio Scalfari su
la Repubblica


Dopo i giorni dello scontento sono finalmente arrivati per il governo i giorni della lode, non soltanto da parte dei numerosi partiti che lo sostengono in Parlamento (risultato non facile, anzi probabilmente il più difficile) ma anche degli osservatori indipendenti, delle parti sociali (sindacati e Confindustria) e di un settore della Casa delle libertà (l´Udc di Casini).
Le cause che hanno determinato questo improvviso mutamento di clima sono due: la schiacciante vittoria del "no" nel referendum sulla Costituzione e il decisionismo fattuale e ben calibrato del presidente del Consiglio insieme al quintetto ministeriale che ha preparato il pacchetto dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri di venerdì. Le misure riguardano il decreto di rifinanziamento delle nostre missioni militari all´estero (D´Alema, Parisi), le liberalizzazioni di alcuni servizi (Bersani), la manovra-bis sulla finanza del 2006 (Padoa-Schioppa e Visco).
Si tratta di provvedimenti più simbolici che effettuali.
Restare in Afghanistan era ampiamente scontato, come pure il ritiro entro l´autunno dell´intero nostro contingente dall´Iraq; le liberalizzazioni scalfiscono "lobbies" marginali e di limitato impatto sui consumatori e sugli utenti; infine la manovra finanziaria migliora il deficit solo di un minuscolo decimale del Pil e si fonda interamente su risorse derivanti da una stretta di viti che impedirà evasioni ed elusioni fiscali, con la sola eccezione delle "stock option" che saranno d´ora in poi colpite dalla tassazione ordinaria anziché da quella privilegiata fin qui in vigore. A regime il complesso della manovra ammonterà allo 0,5 del Pil contro quella fin d´ora preannunciata per la Finanziaria del 2007 che ammonterà a 2 punti e mezzo per complessivi 35 miliardi di euro (70 mila miliardi di lire) e dovrà comprimere la spesa corrente anche per quanto riguarda la previdenza e la sanità.
Insomma i nodi veri non sono ancora venuti al pettine, il prologo di venerdì è dunque simbolico. Eppure si è già guadagnata una "laudatio". Come si spiega questa apparente contraddizione che ha fatto saltare il sistema nervoso già ampiamente provato di Silvio Berlusconi?
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Il pregio di questo primo intervento del governo, sia in politica estera sia in politica economica, sta tutto nella sua incisiva moderazione. Indica una strada e compie il passo iniziale di un percorso che si svilupperà nell´arco dell´intera legislatura. Rappresenta il capovolgimento totale della strategia rovinosamente adottata dal precedente governo, basata su annunci demagogici quanto irrealizzabili.
Delinea una politica e le alleanze sociali che dovranno sostenerla.
Durante la campagna elettorale, Prodi aveva molto battuto sull´essenza di quella politica: nessun aggravio della pressione fiscale, nessun rigore senza crescita, concertazione a tutti i livelli ma nessun veto paralizzante, spostamento dell´onere tributario dalle spalle socialmente deboli alle spalle socialmente più forti. Il pacchetto d´interventi di venerdì scorso mantiene tutti questi impegni e ne realizza in miniatura le premesse con il tratto dell´irreversibilità. Il governo ha approvato all´unanimità. Un passo dopo l´altro. Dpef per cinque anni.
Rassicurare i mercati. Adempiere agli obblighi contratti con l´Europa.
Riproporsi come potenza europea fondatrice.
Questa era la sfida. Il prologo è intonato a questi obiettivi. Il commento più appropriato si deve al ministro Bersani: nessun furore ideologico, ma atti concreti di moderazione sempre più incisiva in acquisto di velocità. La velocità fa massa e la massa accelera la velocità.
Posso dire che questo è il Prodi che volevamo?
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La politica estera. Giorni fa Lucio Caracciolo ha scritto su questo giornale una diagnosi secondo me perfetta della situazione mediorientale che ci vede coinvolti. La nostra presenza militare in Iraq era impossibile quanto inutile.
La nostra presenza in Afghanistan sotto le bandiere della Nato e dell´Onu non può essere revocata. Ma può, anzi deve essere ridiscussa e riposizionata, non la posizione italiana ma quella della Nato di cui siamo parte integrante e che comunque è distinta nettamente dalla presenza militare americana in quel Paese.
Infine: il perno dell´intero scacchiere mediorientale e mesopotamico sta nel rapporto tra l´Occidente e l´Iran.
L´Iran assente ma presente a Bagdad e a Bassora; assente ma presente nelle province di confine dell´Afghanistan occidentale; assente ma presente alle spalle di Hamas.
L´Italia è il primo importatore dall´Iran, il secondo esportatore dopo la Germania. Il rapporto con Teheran ha per noi una importanza capitale. Eppure sotto il governo Berlusconi si è verificato il capolavoro della nostra esclusione dal comitato europeo incaricato di negoziare la questione nucleare con l´Iran.
Questo è il quadro geo-diplomatico in cui siamo chiamati a operare. Il primo passo è stato fatto nell´esplicita consapevolezza di tutti questi elementi. Tutta la coalizione di governo l´ha approvato e così pure i partiti che la compongono. Ci sono sette casi di coscienza al Senato che potrebbero mettere a rischio la maggioranza. È auspicabile che rientrino. Se alcuni settori del centrodestra decideranno di votare il decreto del governo, sta a quei "coscienziosi" di trasformare un voto aggiuntivo in un voto determinante.
La senatrice Menapace, pacifista per eccellenza, ha definito un comportamento di questo genere come una solenne sciocchezza. Trovo che abbia perfettamente ragione.
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La politica economica. Dovevamo anzitutto rifinanziare i cantieri Anas e le Ferrovie. Le dimensioni di questo lascito tremontiano sono di 2 miliardi e 800 milioni.
Sbandieravano ai quattro venti il ponte sullo Stretto e l´apertura di settanta cantieri e non c´era più un centesimo per l´ordinaria gestione di strade, autostrade e trasporti su rotaia.
Dovevamo anche dare i primi segnali sulla scuola, sulla politica familiare, sul rilancio delle strutture culturali anch´esse ridotte allo zero. E sul raddrizzamento dei conti pubblici, favoriti per fortuna dal buon andamento dell´autotassazione.
Le risorse sono state trovate soprattutto da una rimodulazione dei rimborsi Iva. Visco l´aveva detto: non tasse nuove, non aggravio di tasse vecchie, ma innanzitutto allargamento della platea contribuente attraverso la lotta all´evasione e alla elusione. Con questo primo atto di governo queste voci daranno maggior gettito per 3,5 miliardi nel semestre 2006 che ci resta e 7 miliardi a regime; mezzo punto di Pil. Ma la strategia anti-evasione è appena cominciata. Probabilmente la serietà del primo passo stimolerà gli evasori a regolarizzarsi almeno in parte.
L´annullamento del condono-concordato e la stretta sugli accertamenti sarà il secondo passo. Le previsioni di Visco sono di ottenere dalla bonifica dell´evasione almeno due punti di Pil. Naturalmente ci vuole tempo, è un obiettivo graduale. Ma anche qui la velocità fa massa e la massa accelera la velocità.
L´Europa e i mercati valuteranno l´affidabilità di queste previsioni. Starà a loro giudicare se spalmare il raddrizzamento del disastro tremontiano fino al 2008 oppure tener fermo il rientro entro il 2007. Padoa-Schioppa ha deciso che non sarà lui a chiederlo anche se spera ragionevolmente di guadagnarselo.
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Le liberalizzazioni. Si è detto: è una rivoluzione. Bersani ha gettato acqua sull´enfasi. Ha ragione. Ma resta il fatto che alcune "lobbies" sono state colpite. Incidere su interessi da tempo costituiti non è mai un piacere e non è mai indolore, ma configura una strategia. In questo caso significa mettersi dalla parte dei consumatori e degli utenti.
Si poteva fare di più? Giavazzi l´avrebbe sperato. Capezzone anche. Ma dovrebbero rispondere a questa domanda: un governo con una gracile maggioranza avrebbe retto alla controffensiva in massa di tutti i "vested interests" presi di mira? Io credo di no. Mi viene in mente che i primi governi dell´Italia unita fermarono ad Aspromonte, e qualche anno dopo a Mentana, Garibaldi che voleva adempiere alla promessa di Roma capitale. Lo fermarono, sparsero sangue italiano per fermarlo. Spararono sull´Eroe che aveva donato al re il Mezzogiorno. I governi che consumarono quel "crimine" erano fatti da patrioti e avevano anch´essi nel cuore Roma capitale. Aspettavano che maturassero le condizioni politiche.
Giavazzi e Capezzone sarebbero andati con Garibaldi a Mentana? Capisco, è un confronto assai azzardato, ma rende l´idea.
Intanto Prodi ha rafforzato i poteri dell´antitrust.
Comunque la strada che ha preso è irreversibile e non potrà aspettare troppo. Le vere corporazioni sono dure a morire.
L´imperio va accoppiato all´apertura di sbocchi nuovi e più promettenti per gli interessati e per il Paese. Buttare sulla strada centomila statali non serve. I prepensionamenti sono un´autostrada verso il lavoro nero e ne abbiamo fin troppo. Invece liberalizzare il mercato delle pubbliche utilità si deve. Liberalizzare il commercio e ridurre i passaggi distributivi si deve.
Accrescere la mobilità nel pubblico impiego si deve.
Questi sono appuntamenti ineludibili. Bersani ha cominciato. Chi ben comincia è alla metà dell´opra.
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Questo delle liberalizzazioni è anche il terreno politico per sfidare il centrodestra. Si chiamano Casa delle libertà. Vorrebbero addirittura ribattezzare Forza Italia con il nome di Partito della libertà. Chiamateli alla prova.
L´Udc ha cominciato a dare segnali di movimento. Storace invece è infuriato perché non vuole che l´aspirina si possa vendere nei supermercati. Alemanno è imbarazzato. Cicchitto invece sta fermo come roccia che non crolla. È uno spettacolo. Personalmente vorrei godermelo fino in fondo.
Temiamo che il baricentro della maggioranza si sposti verso il centro? Solenne sciocchezza, per usare le parole della Menapace.
I baricentri non si determinano con il colore dei voti ma con i contenuti d´una politica. Se la politica è attenta agli interessi di chi lavora e produce, li sostiene, accresce la platea contribuente, aiuta seriamente l´innovazione, recupera all´Italia il posto che le spetta in Europa contribuendo a dare all´Europa il posto che le spetta nel mondo, la missione culturale, sociale, politica, economica cui può ragionevolmente aspirare tenendo ferma l´alleanza con l´America senza diventarne succube; se questi sono i contenuti d´una politica i voti in aggiunta non spostano un bel niente.
Sono benvenuti e basta.
Magari servono a guarire certe frange di sinistra da quella malattia infantile dell´estremismo che ha ricordato Pirani.
Sarebbe un vantaggio, soprattutto per la sinistra.



La battaglia è solo all'inizio
Tito Boeri su
La Stampa

Se sono queste le sorprese che ci aveva preannunciato il presidente del Consiglio, è bene che ne arrivino altre. Le misure di liberalizzazione varate dal governo venerdì aprono una breccia importante nella costellazione di rendite che blocca la crescita della nostra economia. Lo fanno col metodo giusto anche se dovranno essere rese ancora più incisive per arrecare benefici maggiori non solo ai consumatori, ma anche alle professioni coinvolte nelle liberalizzazioni. Potranno infatti, se ben congegnate, premiare i bravi professionisti, quelli che competono tanto sul prezzo, che sulla qualità delle prestazioni. Il metodo è quello giusto perché non bisogna prendersela con i simboli, con le tante icone di cui si contornano le corporazioni per proteggersi.
Occorre affrontare la sostanza dei problemi e curare i dettagli. Abolire gli ordini professionali serve solo a scatenare l'ira di tutti coloro che svolgono o aspirano a svolgere una professione. Meglio invece limitarsi a ridurre il potere di mercato degli ordini, impedire che possano bloccare la concorrenza e farli competere tra di loro (ad esempio impedendo che ci si possa iscrivere solo all'ordine della zona di residenza) affinché non si mettano al servizio di chi svolge male la propria attività, ma cerchino di attrarre i migliori professionisti. Bene anche permettere la nascita di agenti privati come i broker assicurativi che faranno competere tra di loro le compagnie di assicurazione.
E' giusto il metodo seguito dal governo anche perché non è sempre necessario concertare in anticipo le misure da attuare con le parti coinvolte, soprattutto quando è in gioco l'interesse generale del Paese. Sorprendere è l'unico modo per liberalizzare senza creare conflitto sociale sterile. L'annuncio prima che la manovra venga varata serve soltanto a rendere il conflitto inutile, perché il fuoco preventivo delle lobby spesso finisce per bloccare tutto. Perché le misure siano davvero efficaci bisognerà ora curare molti dettagli. Ad esempio, è importante creare gli incentivi giusti perché i Comuni attivino i concorsi per le nuove licenze dei taxi e procedano davvero alle gare di appalto per i servizi pubblici locali, frenando la corsa agli affidamenti "in house".
Non basta neanche abolire le tariffe minime e il divieto di pubblicità per i liberi professionisti, se non si rendono più trasparenti i costi delle prestazioni professionali. Nel caso degli avvocati, ad esempio, è bene imporre che le tariffe siano di tipo forfettario, anziché continuare ad essere legate alla lunghezza dei procedimenti, cosa che ha spesso favorito l'allungamento della durata dei processi. Ma la cosa più importante è liberalizzare i percorsi di ingresso nelle professioni. Basta con gli albi chiusi, che oggi impongono che in città come Torino ci siano solo 498 (dicasi 498) notai o che impediscano a molti giovani farmacisti di esercitare la loro professione. Se si liberalizzano davvero i percorsi di ingresso, i benefici per i consumatori di queste misure, in termini di prezzi e di qualità dei servizi, saranno ancora più alti e vi saranno ricadute importanti per l'economia.
Pensiamo, ad esempio, a quanto costano alle nostre imprese di esportazione i servizi di commercialisti che operano protetti, loro sì, dalla concorrenza. Ma liberalizzare gli ingressi serve soprattutto a favorire la professione e migliorarne l'immagine presso l'opinione pubblica. I professionisti più bravi hanno tutto da guadagnarci dalla liberalizzazione e dalla maggiore trasparenza con cui tutti i loro colleghi verranno costretti ad operare, perché potranno finalmente mostrare a tutti la loro bravura. La battaglia è tutt'altro che vinta. Le posizioni di rendita colpite dalle liberalizzazioni sono ampiamente rappresentate nel Parlamento. Nella passata legislatura, più della metà dei parlamentari della maggioranza era costituito da commercianti, avvocati, notai e altri liberi professionisti.
Forse l'unico vantaggio di quella brutta legge elettorale che ci ha impedito alle ultime elezioni di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento è che ha ridotto questa nutrita schiera, anche se magari a vantaggio dei politici di professione. Il centro-sinistra oggi, comunque, rappresenta un blocco sociale basato sul lavoro dipendente. Era legittimo, dunque , aspettarsi da questo governo ben maggiore incisività del precedente nell'aggredire queste posizioni di rendita. Occorrerà ora affrontare la fase più difficile, quella del risanamento dei conti pubblici, che non può che passare attraverso tagli della spesa pubblica che dovranno inevitabilmente danneggiare alcune componenti del lavoro dipendente, soprattutto nel pubblico impiego.
Non ci si poteva certo aspettare misure strutturali di taglio della spesa da una manovra estiva varata da un governo appena nato. Le misure efficaci di riduzione della spesa non possono che essere selettive: tagliare gli sprechi e colpire posizioni di privilegio, abolire enti e amministrazioni inutili senza sparare indiscriminatamente nel mucchio. Per questo ci vuole più tempo per abbattere in modo permanente le spese che per aumentare le entrate. Ma deve essere chiaro fin d'ora all'interno della coalizione di governo che per tornare a crescere e risanare i conti occorrono ora interventi non temporanei di contenimento della spesa pubblica. Dovranno essere attuati il più presto possibile anche perché possano dare frutti più avanti nella legislatura. Potranno infatti liberare risorse per finanziare quelle riforme che sono fondamentali per il Paese e che non possono essere fatte a costo zero, come una riforma vera degli ammortizzatori sociali, basata sull'estensione a tutti di tutele di base e di misure di contrasto della povertà. La filosofia dopotutto è sempre la stessa: livellare il piano di gara garantendo tutele di base per chi, suo malgrado, non dovesse farcela.


L'occasione sprecata
Angelo Panebianco sul
Corriere della Sera

Il pacchetto di liberalizzazioni messo a punto dal ministro Pier Luigi Bersani è il primo vero buon colpo del governo Prodi. Sul piano simbolico, per lo meno. Sul piano pratico, invece, bisognerà vedere se il governo sarà capace di resistere al contrattacco delle lobbies danneggiate. L'iniziativa ricorda il tentativo dello stesso Bersani, poi fallito, di riformare gli ordini professionali nella precedente esperienza di governo del centrosinistra. È, all'apparenza, un Paese bizzarro quello in cui si deve attendere un governo di sinistra, nel quale abbondano gli statalisti incalliti per i quali concorrenza, mercato, liberalizzazioni sono bruttissime parole, per ottenere un forte segnale a favore della concorrenza.
Naturalmente, non è tutto oro quel che luccica. Come ha giustamente osservato Francesco Giavazzi sul Corriere di ieri, queste misure di liberalizzazione sono state costruite in modo da toccare il meno possibile interessi rappresentati dalla attuale maggioranza. Le liberalizzazioni insomma non riguardano ambiti (come i servizi pubblici) dove scatterebbe il potere di veto dei sindacati e la maggioranza si dividerebbe. Ma questo non è necessariamente un motivo di biasimo per il centrosinistra. È piuttosto un punto a sfavore del passato governo di centrodestra. Proviamo a spiegare perché. Era inevitabile che in un Paese a struttura corporativa come il nostro la necessità di liberalizzare i mercati finisse per determinare una sorta di "divisione del lavoro politico" tale per cui i governi di sinistra, se possono, liberalizzano soprattutto a spese degli elettori di destra (delle corporazioni che votano a destra) e i governi di destra, se possono, liberalizzano a spese delle corporazioni legate alla sinistra. In teoria, poco male: se infatti, anche in queste condizioni, tutti fanno il loro dovere, è l'alternanza stessa al potere che finisce per innalzare i livelli complessivi di libertà economica e di concorrenza nella società. Il problema però è che il passato governo Berlusconi fece, sotto questo profilo, troppo poco. Si sapeva benissimo che, a dispetto della conclamata ideologia liberista, quel governo non avrebbe mai liberalizzato settori (come quelli ove operano certe professioni) i cui interessi erano fortemente rappresentati nell'allora maggioranza di destra. Il guaio è che il governo Berlusconi non riuscì a introdurre concorrenza nemmeno nei settori ove era prevalente la sinistra.
Con l'eccezione, certo rilevantissima, della legge Biagi, il centrodestra non riuscì, ad esempio, a liberalizzare fino in fondo il mercato del lavoro. Fece un tentativo puntando all'abrogazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ma fallì. Né ebbe la capacità o la volontà di liberalizzare il vasto settore dei pubblici servizi. Scelse, piuttosto, in quell'ambito, di non scontrarsi con le lobbies
sindacali. Deludendo così la parte di elettorato che aveva creduto nelle sue promesse di liberalizzazione. E facendo un cattivo affare elettorale: lungi dall'essere grata al centrodestra per non averne smantellato i privilegi, la maggioranza degli addetti del settore pubblico ha votato a sinistra nelle ultime elezioni.
Il centrosinistra, con il pacchetto Bersani, ha fatto bene il mestiere suo. Il centrodestra dovrebbe cominciare a riflettere sul perché, quando governava, non riuscì a fare altrettanto.


Il teorema del “tassinaro”
Alberto Statera su
la Repubblica

Non saranno i camionisti cileni che nel 1973 rovesciarono Salvador Allende, ma i tassisti delle grandi città d´Italia, che sono stati per anni la spina nel fianco di Albertini, Rutelli, Veltroni, Chiamparino e tanti altri sindaci, da ieri lo sono di Romano Prodi e di Pierluigi Bersani, il ministro "liberalizzatore". Manifestano, strepitano, minacciano di bloccare le città tra pochi giorni e già hanno cominciato a dare i primi saggi di ciò che possono e sanno fare a Torino, a Milano, a Roma.
"A dottò, `sti comunisti c´hanno magnato er core", ringhia "Lupo 69", tra i più imbufaliti a Piazza della Repubblica a Roma. Il profilo di Lupo non sarà da camionista cileno, ma non è neanche quello rassicurante e bonario del conducente di "Zara 87" nel "Tassinaro", il film del 1983 nel quale Alberto Sordi scorrazzava per Roma Giulio Andreotti senza autoblù che impersonava se stesso.
A Roma non si scherza, a Torino e a Milano di meno: "Ma sono buoni - giura il senatore a vita - io sono affezionato alla categoria e loro a me, ho una certa popolarità tra loro, perché anni fa feci anticipare il piccolo rimborso sulla benzina che prima ottenevano soltanto dopo più di un anno".
Appunto. L´Italia bonaria delle bonarie corporazioni, in parte lascito fascista, che non vanno scontentate, ma anche il tripudio di quella che qualche economista chiama la "rendita distorsiva" di una categoria forte, una lobby considerata elettoralmente potente, capace di sponsorizzare o affossare un sindaco, non foss´altro che per i milioni di parole pronunciate ogni giorno nelle "chiacchiere da taxi" con i clienti.
Non economisti qualunque si sono esercitati sui taxi, ma, per dire, il premio Nobel Milton Friedman, autore di "Capitalism and Freedom", che già quarantaquattro anni fa, nel 1962, ne fece un fondamentale "caso di scuola" per i suoi studenti di economia.
Dopo di lui, su questo mercato che sembra semplicissimo - domanda e offerta - ma che è infarcito di regolamenti, lobby, mafie che puntano al controllo oligopolistico e quindi alla limitazione delle licenze, si sono misurati molti altri economisti, ritenendolo un insulto a tutte le teorie del libero mercato, anzi il peccato maggiore nel libro del libero mercato, come ha scritto l´Economist.
Dopo gli interventi liberalizzatori tentati e riusciti in mezzo mondo, l´insulto maggiore, il peccato più reiterato, fino al blitz Prodi-Bersani, era considerato quello italiano. A Milano 1,6 taxi ogni mille abitanti e 2,1 a Roma, contro 9,9 a Barcellona, 8,3 a Londra, 3,9 a Praga, 2,9 a Monaco e 2,4 a Parigi.
Teoricamente, un caso da manuale di concorrenza perfetta: tanti produttori, tanti acquirenti, basse barriere all´entrata. Ma, in realtà, la legge che ha fin qui regolato il settore ne ha fatto il grande peccato dell´anticoncorrenza.
Per condurre un taxi ci vuole una licenza, la licenza è limitata a un´area territoriale circoscritta, i turni di lavoro sono rigidi, ciò che non consente di far fronte ai picchi di domanda. Le tariffe sono fissate e nessuno può far sconti, semmai, al contrario truffare con tariffe stellari qualche turista inesperto, come per lungo tempo è capitato all´aeroporto di Fiumicino, secondo la documentazione registrata e filmata da "Striscia la Notizia". Per di più, in Italia la licenza è stata finora un "asset" dei tassisti singoli e dei "padroncini" - valore a Milano fino a 200 mila euro - una rendita che con la liberalizzazione rischia di diventare carta straccia. "Ci rubano la nostra assicurazione per la vecchiaia", piagnucola "Lupo". Ma forse non sa che dove hanno avuto coraggio come in Olanda, in Svezia, in Irlanda, in Australia, liberalizzando le licenze, o a Londra, dove sono stati creati servizi alternativi solo su prenotazione telefonica, le tariffe sono scese e la domanda di taxi è aumentata.
Andrea Boitani e Angela Bergantino, due degli economisti che hanno recentemente studiato la questione sulle orme di Friedman, partendo dalla riforma introdotta in Nuova Zelanda, notano che spesso, dove si sono liberalizzate le licenze, si sono resi più stringenti i requisiti qualitativi e di sicurezza per i tassisti ed è stato persino introdotto l´obbligo di frequentare corsi di aggiornamento. Quasi dovunque le tariffe sono scese del 10 per cento e la domanda è aumentata considerevolmente.
Allora tutti contenti? Sarà dura per Bersani spiegarla a orde di tassisti incarogniti che la vivono diversamente: più taxi, meno affari, meno reddito. O rendita?
Nel paese delle rendite senza capitale - si vedano i "furbetti del quartierino" e le mille altre rendite che allegramente da noi allignano - non si può maramaldeggiare sui tassisti. Ben altro si potrà disboscare. Ma il segnale di Prodi e Bersani, se non proprio "rivoluzionario", come ha detto il premier, è di certo significante. "Prodi fa la deregulation come Reagan - ironizza un po´ Andreotti, passeggero del tassinaro Alberto Sordi in "Zara 87" e in gioventù reale lavoratore avventizio delle Finanze al settore "Imposte sui celibi"-, in compenso faccia la riduzione degli armamenti. Comunque, vedo con sommo piacere che fa anche cose non previste in quello 280 pagine e passa di programma". Secondo lui, con un po´ di buonsenso scapoleremo anche "tassista cileno".


Afghanistan, il fascino del dogma
Barbara Spinelli su
La Stampa

Visto che sono passati quasi cinque anni da quando è cominciata l'offensiva in Afghanistan, e visto che il centro sinistra ne sta discutendo in Italia con particolare intensità - dividendosi tra chi invoca continuità e chi discontinuità - conviene forse guardare ai fatti e non solo ai principi, a quel che sta effettivamente accadendo in questa guerra e non solo all'idea che sinistra o destra, politici o giornalisti, si fanno della sua opportunità. C'è un motto della Bbc che aiuta a pensare più di tanti manuali o dibattiti: put the news first, metti al primo posto le notizie.
Anche politici e giornalisti dovrebbero fare così: metti al primo posto i fatti, e solo dopo vedi se essi s'adattano al dover essere dell'idea. È questo che manca, nelle controversie italiane ed euro-americane. L'ideologia sommerge tutto e tutti, a destra e sinistra. I fatti sbiadiscono sino a svanire. Ognuno s'aggrappa al suo dogma e ne ha cura come fosse l'unica pianticella che conti. La pianticella che conta dovrebbe essere invece la realtà, con le domande che essa suscita man mano che l'azione la plasma, la trasforma.
Perché combattiamo, e cosa abbiamo ottenuto in cinque anni? Con quali fini fu scatenata l'offensiva e con quali fini e mezzi la si prosegue, a partire dal momento in cui i talebani sconfitti fanno in massa ritorno, riconquistando i cuori e le menti della povera gente non solo con la violenza? Abbiamo sbagliato nei fini, nei mezzi, in ambedue? Gli italiani sono in Afghanistan per contare in Iran, dicono alcuni, ma l'astuta mossa è davvero astuta? Non rispondere a queste domande è dogmatismo, dunque ortodossia che non ammette i dubbi, non apprende dagli errori, non incorpora i fatti, le notizie scomode, il terreno su cui la storia presente si fa.
Aggirati, i dubbi vengono chiamati a loro volta dogmi, permettendo al dogmatico di dire: l'ideologia è dell'altro! Come sempre accade, l'alternativa diventa a questo punto binaria: o sei incondizionatamente per la guerra o sei incondizionatamente pacifista. O appartieni a una sinistra riformista che accetta l'Occidente e l'America, o sei prigioniero di atavici massimalismi. L'ortodossia dogmatica è per la verità assai ben distribuita, essendo presente in ambedue i campi: in chi vuole a tutti i costi la continuità dell'operazione e in chi vuole la discontinuità. Vediamo il dogmatismo dei primi: essi difendono una guerra che certamente non fu illegale, avendo ricevuto l'approvazione Onu prima che scoppiasse anziché dopo; che fu intrapresa contro un pericolo tangibile (i talebani legati a Bin Laden), e non fittizio come le armi di distruzione di massa in Iraq.
L'operazione in Afghanistan vien tuttavia tradotta in sostanza spirituale, in ipostasi: anche se attraversa difficoltà, criticarla e domandarsi se valga la pena equivale a un tradimento, a una fuga infame dalle responsabilità. Anche questo è tipico del dogma, mai fallibile: nel dogma la storia non scorre ma fissa una volta per sempre le ragioni come i torti, e l'etica della convinzione inghiotte l'etica della responsabilità. Quel che distingue l'etica responsabile è il riesame delle convinzioni astratte e proprio tale distinzione non c'è più, impedendo di vedere come una guerra che nel 2001 voleva stabilizzare e democratizzare sia degenerata nel 2006 in guerra che solo dogmaticamente si giustifica, e che ha generato un potere centrale, a Kabul, sempre più impotente e instabile.
L'ortodossia dogmatica che affligge parte della sinistra è apparentemente più attenta ai fatti ma esibisce una certezza non meno ideologica: il ripudio d'ogni guerra, condotta nell'Onu, nella Nato o con gli Stati Uniti. Il dogma è specialmente evidente nel modo in cui questa sinistra interpreta l'articolo 11 della Costituzione: un articolo profetico, che Luigi Einaudi impose dopo i disastri dei nazionalismi europei, e che non obbliga solo al ripudio della guerra, "come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Obbliga ad agire se necessario entro istituzioni multilaterali o sovranazionali (Onu, Nato, futura Europa unita): consentendo "a limitazioni di sovranità" e partecipando a iniziative che queste istituzioni riterranno "necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni".
Eventualmente anche iniziative militari, aventi come obiettivo sia la pace sia la giustizia. Consentire alle necessarie limitazioni di sovranità significa rifiutare a se stessi il ritiro unilaterale, quando si ripudia una guerra condivisa con istituzioni multilaterali o sovranazionali. E significa che la loro strategia, i governi devono attuarla dentro queste istituzioni, magari operando perché nasca e si rafforzi un'Unione politica in Europa. È quello che la sinistra radicale non fa, leggendo solo la prima metà dell'articolo 11, e con ciò non fa nemmeno politica. Non si tratta di esser dogmaticamente fedeli agli obblighi presi tra Europei e dentro la Nato, però è in quelle sedi che si negozia, perdendo o vincendo le proprie battaglie. Ma questo non significa che i dilemmi denunciati da chi s'oppone alla guerra non esistano. Se non si vuol esser dogmatici, dobbiamo guardarli in faccia, mettere alla prova certezze, convinzioni. La guerra iniziata a Kabul nel 2001 non è la stessa che si combatte oggi, l'avallo Onu non è dato per sempre.
L'intera strategia va riesaminata alla luce di quel che sta accadendo sul terreno, dei successi o insuccessi conseguiti. Ogni dubbio va accolto, se serve a migliorare l'agire. Se Giordano o Diliberto dicono che la guerra ha prodotto caos in Afghanistan, il mio problema sostanziale non è Giordano o Diliberto ma il caos. Il caos in effetti c'è, e questo significa che la guerra è in bilico. Lo dicono ormai troppe testimonianze, resoconti. Innanzitutto i talebani non sono stati sconfitti, ma stanno riaccumulando forze, ritrovando alleati in Pakistan, riconquistando intere regioni non solo con la forza delle armi e la violenza sui costumi, ma capitalizzando lo sconforto delle popolazioni e il loro senso d'abbandono. Gran parte del Sud è governato da essi, ed è in guerra con truppe straniere e governative. È un ritorno dovuto a errori occidentali vistosi, da cui ci si ostina a non imparare.
L'errore più spettacolare è stato quello di considerare facile questa guerra, in una nazione dove mai gli interventi stranieri furono facili nei due scorsi secoli. È stata ritenuta così facile che prestissimo, prima ancora d'ottenere qualche risultato serio, l'amministrazione Usa ha aperto un secondo fronte bellico, in Iraq, che ha divorato forze, soldi, soldati, cura, fiducia. Ancor prima che l'Iraq divenisse la priorità, il generale Tommy Franks, del comando centrale americano, dichiarava, nell'aprile 2002, che gli Stati Uniti "non erano più impegnati in una guerra in Afghanistan". Era una menzogna allora, e le menzogne si susseguono oggi. La guerra non solo non finì nel 2002, ma oggi rischia la catastrofe. Rischia tanto più in quanto non c'è vero chiarimento tra Europei e Americani, sui rispettivi compiti e le trappole del conflitto. Le operazioni Nato in cui sono ingaggiati gli europei (Isaf) non sono tutte militari, molti Stati partecipano solo con la ricostruzione, e numerosissime sono le clausole che impediscono ai soldati Nato di agguerrirsi.
Senza impedimenti è invece l'operazione Usa Enduring Freedom, che guerreggia contro insorti e talebani nel Sud o alle frontiere col Pakistan. Ma il confine fra operazione Usa e operazione Nato tende a svanire, la Nato è invitata da Bush a svolgere una parte del compito statunitense, e non si può escludere che essa venga usata da Washington per coprire un eventuale, prossimo disimpegno americano. Qui è il rischio: che l'eventuale passaggio di consegne avvenga senza che gli errori passati siano dibattuti tra Europa e Usa. Senza che siano analizzate e corrette le azioni che hanno disintegrato l'Afghanistan, a cominciare dall'eradicazione della produzione di oppio iniziata a marzo. L'eradicazione è stata applicata con ottusa brutalità e false promesse d'aiuto, dalle truppe anglo-americane, senza tener conto che in vaste zone, soprattutto a Sud, l'oppio permette ai contadini di sopravvivere.
È un punto su cui insiste il Senlis Council, un'associazione che si occupa di narcoterrorismo mondiale: nel rapporto del 6 giugno, è scritto che l'eradicazione, non offrendo alternative ai coltivatori di oppio e colpendo in prima linea i contadini poveri, ha dato forza inaudita a talebani e Al Qaeda, saldando terrorismo insurrezione e droga. Non meno oscuro è il capitolo ricostruzione: la stabilizzazione manca, e mancano sicurezza, elettricità, acqua (solo il 6 per cento degli afghani ha accesso all'elettricità). Il nation building è avvelenato da corruzione e disprezzo delle popolazioni. Un rapporto pubblicato il 2 maggio dalla studiosa afghano-americana Fariba Nawa per il Corpwatch, un'organizzazione che indaga sulle violazioni dei diritti dell'uomo e le frodi degli appalti, narra come enormi somme siano state versate a industrie spesso vicine all'amministrazione Bush (Ashbritt, Halliburton, DynCorp, Louis Berger, Blackwater) per costruire strade, ospedali, scuole, destinati a durare lo spazio di pochi giorni.
Presto le strade s'affossavano, i tetti cadevano, le fogne straripavano. Tutte queste cose hanno creato frustrazione e rabbia nelle popolazioni, e la guerra che si sta acutizzando - i morti afghani nel 2006 sono 800, gli uccisi stranieri sono 34, le vittime civili di bombardamenti Usa aumentano - lo conferma. La manifestazione del 29 maggio a Kabul, contro americani e occidentali, è il risultato di un conflitto che va ripensato. Una guerra così non conviene farla, contro il terrorismo, se si fa degradare il paese com'è avvenuto in Somalia: con i signori della guerra appoggiati da Washington e scacciati da islamisti moralizzatori. La scelta non è tra il cedimento di chi assecondò Hitler nel trattato di Monaco e la scelta di combatterlo a oltranza: è sui modi in cui può esser evitata una condotta che accentua il male, pretendendo di saperlo debellare.
Il lamento afghano che ricorre nei resoconti è sempre lo stesso: tante son state le parole non rispettate, che gli occidentali hanno proferito senza sentirsi in dovere di rispettarle. Troppe le promesse altisonanti, che non son state mantenute. Un giorno o l'altro converrà che su simili dilemmi si discuta, tra governi europei e poi tra europei e Casa Bianca. E se la discussione dovesse arenarsi, toccherà dire a voce alta quel che nel vecchio continente si sussurra: che "non si può combattere una guerra antiterrorista e creare al contempo uno stato debole" (dichiarazione anonima di un dirigente europeo a Pamela Constable, Washington Post, 26 giugno). È una via che la sinistra radicale in Italia potrebbe imboccare ma che potrebbe esser tentata anche da chi vuol proseguire le scelte strategiche passate non riposandosi nel dogma, ma svegliandosi alla ragione e all'apprendimento dagli errori.


Ora Mussi sfida Fassino
Livia Michilli sul
Corriere della Sera

ROMA — Punto primo: non si fa nessun partito democratico senza discuterne in un Congresso straordinario. Punto secondo: se l'approdo verrà confermato, "quello non potrà essere il nostro partito". Fabio Mussi riunisce il Correntone per ribadire la contrarietà alla nascita del nuovo soggetto politico e rimarcare l'esigenza di "una sinistra forte e autonoma", ben ancorata al Pse. E a Fassino, che ha aperto alla sinistra le porte della segreteria, dice "no grazie".
Il teatro Quirino ribolle di proteste: il partito democratico è il frutto "di due debolezze che si appoggiano l'un l'altra", una scatola priva di contenuti e dall'irrisolta collocazione internazionale, dice Mussi. Che in questi giorni di frenate e accelerazioni, stigmatizza l'incerta tempistica del progetto: "La strada impercorribile è quella di una nuova fase di confusa transizione, di provvisori patti federativi e cabine di regia". Perciò il ministro dell'Università esorta Fassino ad "uscire dal guado" e fare chiarezza: o si cambia rotta come auspica il Correntone ("sono tre anni che ci si prova, la Federazione riformista è fallita"), oppure si fa il partito democratico ma "in tempi certi". E passando per il Congresso, contro la via "oligarchico- plebiscitaria" adottata finora. E' la richiesta avanzata anche dall'area di Cesare Salvi (all'assemblea partecipano Mele e Grandi), dalla mozione ecologista di Fulvia Bandoli pure riunita ieri per proporre una federazione dell'Ulivo, ma anche da alcuni esponenti della maggioranza come Gavino Angius (a proposito della maggioranza: in sala, "ospite invitato", siede Gianni Cuperlo insieme ad Alfredo Reichlin). Mussi avverte: "Il Congresso è un'avventura in cui tutti si mettono a rischio, non si fa stabilendo prima come va a finire e cosa faremo noi". Già, cosa farà il Correntone? Detto no al partito democratico, non ci sta a passare per "l'ufficio di conservazione dei Ds": "Il partito che c'è non va affatto bene, ma se c'è una bandiera si può discutere dove piantarla, se non c'è più non c'è nulla da discutere", ribadisce Mussi. Quindi per ora si continuerà a dar battaglia nella Quercia, con una fondazione e un manifesto "per un progetto di sinistra italiana" da presentare al prossimo Consiglio nazionale. L'idea di una ricomposizione delle sinistre? Il ministro è prudente: "Attenti alle costituenti, non basta sommarsi per essere più forti".
Fioccano gli applausi, l'assemblea si scioglie. "Anche il punto di vista critico delle minoranze può dare un contributo importante", commenta dalla segreteria Maurizio Migliavacca, garantendo un'ampia discussione tra iscritti ed elettori. Ma niente Congresso in autunno, conferma Antonello Cabras: "Immaginare che ora tutto debba concentrarsi sul referendum "si o no" sul partito democratico è il modo meno adatto per sostenere l'azione del governo".


Fra Milano e Gambugliano
Ilvo Diamanti su
la Repubblica

Il richiamo al Lombardo-Veneto, come nuova entità territoriale, nuova macroregione della nuova Italia, risuona frequente, da qualche tempo. E non possiamo liquidarlo con un sorriso di sufficienza. Perché i risultati elettorali degli ultimi anni, delle ultime settimane. E le "misure" dell´economia e del mercato. Accomunano, in molti punti, Lombardia e Veneto.
Le uniche regioni in cui la Destra abbia sempre prevalso, in tutte le consultazioni, politiche e referendarie, dopo il 1994. Le uniche dove la Cdl, alle regionali di un anno fa, abbia eletto i suoi governatori. Lombardia e Veneto. Insieme alla Sicilia, le regioni dove ha conseguito le performances più elevate, alle politiche dello scorso aprile. Ma, a differenza della Sicilia, le sole, in Italia, dove il referendum sulle riforme costituzionali, svoltosi domenica scorsa, sia stato approvato.
Peraltro, con larga maggioranza e con ampia partecipazione degli elettori. Lombardia e Veneto. Le regioni (insieme alla Sicilia) dove FI ha una base elettore più ampia e stabile. Le sole dove sia visibile, estesa, radicata la presenza della Lega Nord. Perché proprio in queste due regioni è sorta, ha conosciuto i suoi primi successi. E si è sviluppata. Dagli anni Ottanta ad oggi.
Più precisamente:
a) Alle recenti elezioni politiche la Destra ottiene il 57% nel Lombardo-Veneto. Forza Italia e Lega, insieme, il 38%.
b) Dieci anni fa, nel 1996, questa caratterizzazione appariva ancor più marcata. I partiti della Destra avevano ottenuto il 63% dei voti. Forza Italia e Lega, insieme, quasi il 50%. Solo che, allora, non stavano insieme. E la Lega ottenne più voti di FI. Il 27%. Ma quasi il 30% in Veneto.
c) Infine, al referendum di domenica scorsa, nelle due regioni votano il 60% degli elettori e il 55% di loro approvano la riforma costituzionale voluta dalla Cdl. Ricondotta, da gran parte della popolazione, alla devolution.
Alla luce di questi dati, quindi, è difficile liquidare la suggestione del Lombardo-Veneto con qualche battuta.
Poi, c´è la dimensione socioeconomica, a dare coerenza e spinta ulteriore a questa immagine. Il Lombardo-Veneto. Rappresenta circa il 30% del valore aggiunto prodotto in Italia, per una media di 26.500 euro pro capite. Cinquemila in più della media nazionale. Rispetto all´Italia, ha una maggiore densità di imprese, soprattutto nel settore industriale. Inoltre, presenta un tessuto di piccole imprese più fitto. E un´apertura alle esportazioni molto più ampia. Quanto al mercato del lavoro, ha un tasso di attività molto più elevato. E un tasso di disoccupazione di circa la metà.
Il Lombardo-Veneto. Appare un gigante economico, che, politicamente, guarda a Destra. Ed è animato da un forte sentimento autonomista e antistatalista.
Da ciò la tentazione – e qualcosa di più - espressa da alcune componenti forzaleghiste (il neologismo è di Edmondo Berselli) di puntare allo "Statuto speciale". Il Lombardo-Veneto come la Catalogna. Oppure la Baviera. Una nuova versione della Padania. Peraltro più fondata, dal punto di vista geopolitico-economico. Ma anche storico.
Tuttavia, ci sono altre buone ragioni per dubitare del fondamento di questo progetto e della sua praticabilità.
Perché il Lombardo-Veneto, visto da vicino, non appare un´entità omogenea, ma la combinazione di situazioni differenti. Dal punto di vista socioeconomico, in particolare, riassume due diversi tipi di capitalismo, come ha sottolineato Arnaldo Bagnasco. C´è un modello di piccola impresa, diffuso nelle province "periferiche", e soprattutto nel Nordest e nelle province più a Nord della Lombardia. Dove prevale il lavoro autonomo. Nell´industria e nel commercio. E c´è un modello fondato sulla "produzione dei beni immateriali". Servizi alle persone, finanza, assicurazioni, comunicazioni. Due modelli, entrambi diversi dal capitalismo che ha "costruito" l´Italia del dopoguerra. Imperniato sulla grande impresa industriale. Identificato nella Fiat. Insediato a Torino e nel Nord Ovest. I "nuovi Nord" hanno altre capitali e altri interpreti politici. Rispettivamente: il mondo della piccola impresa popola il Nordest e le valli pedemontane della Lombardia. Gli dà voce la Lega Nord. L´economia dei beni immateriali: ha come capitale Milano. Le dà rappresentanza Berlusconi, insieme al suo partito personale, Forza Italia. Lega e FI. Bossi e Berlusconi. La loro convivenza è stata, a lungo, difficile. Perché interpretano interessi diversi. Società e culture diverse. I valligiani della campagna urbanizzata: non piacciono ai milanesi. Tanto meno i veneti. Terroni del Nord. Contadini arricchiti. E viceversa. Ai valligiani e ai pedemonatani, che lavorano, producono, e sudano (come rammenta l´icona di Bossi in canottiera), non piace il Cavaliere. Le figure professionali che girano intorno a lui. I venditori di sogni e di immagini. Quelli che fanno i soldi con i soldi (altrui). A unirli sono i comuni nemici. Torino e Roma. Il capitalismo di famiglia, che frequenta i salotti buoni. I centri della politica tradizionale. Che prendono i soldi dal Nord(est), per consumarli a favore degli interessi del Nordovest, del Mezzogiorno, dei "poteri forti". Berlusconi e Bossi. Non si amano, dapprima. Ma il tempo e la necessità li rendono amici. Perché da soli sono destinati alla marginalità: la Lega. Oppure alla sconfitta: Forza Italia. Come insegna la lezione del 1996, quando Lega e FI si annullano a vicenda. Facendo vincere la Sinistra. Da ciò il patto. Fra Milano e il Nordest. In nome della lotta contro Roma e contro Torino. E dall´intesa fra Bossi e Berlusconi. Il Lombardo-Veneto. Può restare unito, su queste basi? Ne dubitiamo.
Già domenica scorsa, in occasione del referendum, si è spezzato. 55% a favore. Il 45% contro la riforma. Poi, profonda la frattura fra il mondo urbano e i paesi. Le città, le capitali di regione e i capoluoghi di provincia: Milano, Padova, Mantova, Brescia, Vicenza, Treviso. Contro la devolution. Dall´altra parte, il Sì ha trionfato in provincia. E tanto più nei comuni piccoli e periferici. Dove ha superato l´80, talora il 90% dei voti. A Gambugliano, Livigno, Foppolo, San Nazzaro Val Cavo, Porlasco, San Mauro di Saline, Erbezzo… Il regno del localismo. Ispirato, perlopiù, dalla Lega. Partito di comunità.
Il Lombardo-Veneto. Quando si superano l´antagonismo, la protesta, contro i comuni nemici: come vi possono coesistere mondi così diversi? Come possono convivere, sotto lo stesso tetto, tutti gli inquilini con pari dignità? La metropoli e il villaggio. I signori dei media, della finanza. Gli immobiliaristi. E gli artigiani, i piccoli imprenditori. Tra Milano e Gambugliano: chi conta di più? Già oggi, d´altra parte, emergono gerarchie piuttosto evidenti. Fra le "regioni" della "macroregione". Lombardia e Veneto: chi avrebbe più potere? Basta guardare la situazione attuale. Forza Italia e Lega. Coincidono con Berlusconi e Bossi (nonostante la malattia). Leader lombardi. Così i gruppi dirigenti di Forza Italia e della Lega. In Veneto, l´unica figura che conti è il governatore, Giancarlo Galan. Che viene da Publitalia. Concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset. Per stile e linguaggio più leghista dei leghisti. Un forzaleghista. Per il resto, in Veneto, non c´è un leghista di rilievo nazionale (pardon: padano…). Anche se la "madre di tutte le leghe" è la Liga Veneta. Come sosteneva Franco Rocchetta. Uno dei fondatori. Scomparso (politicamente) non appena tentò di "opporsi" all´egemonia lombarda. Come avvenne ad altri. Prima e dopo di lui.
Il Lombardo-Veneto: in realtà diverrebbe Lombardoveneto. Il Veneto ridotto a periferia.
Lo stesso Lombardo-Veneto, d´altronde, è un progetto "periferico". Residuo di altri, che l´hanno preceduto. La Padania e il Nordest. Visto che la Lega, la Destra, la stessa idea federalista sono divenute minoranza nel Nordovest: Liguria, Piemonte, Valle d´Aosta. Ma anche in molte zone del Nordest. Dove il Friuli Venezia Giulia e le province autonome di Trento e Bolzano sono governate dalla sinistra. Hanno votato contro la devolution. Per cui il Lombardo-Veneto rischia di apparire una cittadella assediata. Quel che resta della Padania e del Nordest. D´altronde, storicamente, questa macroregione evoca un territorio "dominato". Dipendente. Visto che Lombardia e Veneto, come ha osservato opportunamente Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, erano, due secoli fa, "province dell´Impero, come la Croazia e la Boemia".
Da ciò il dubbio: a chi conviene battersi per costruire una provincia ricca e laboriosa, a Nord dell´Italia e a Sud dell´Europa?


Hanno taroccato pure il Monopoli
Michele Serra su
L'espresso

Dopo Calciopoli e Savoiopoli, quali altri scandali incombono sull'Italia del Terzo Millennio? Lo abbiamo chiesto ai principali istituti di monitoraggio sociale, i quali ci hanno volentieri risposto, ma solo in cambio di un pingue fuoribusta e dell'invio di un torpedone di bagasce.

Scandalopoli Alcuni degli scandali lanciati recentemente sul mercato sarebbero contraffatti. Confezionati da una banda di falsari che ha tentato di piazzarli, con successo, presso giornali e telegiornali. Tra questi, Branzinopoli (sul traffico di cefali truccati da branzini), Carlopoli (si era diffusa l'idea che tutti gli italiani di nome Carlo avessero comperato abusivamente il nome corrompendo l'ufficiale anagrafico) e Schumacheropoli (il pilota tedesco starebbe sulle balle a tutti, ma forti pressioni vengono esercitate dalla Fiat sui giornali per non scriverlo). Il pretore Guariniello sta indagando sullo scandalo degli scandali taroccati, ma è ormai convinto che anche Scandalopoli non sarebbe altro che un falso scandalo per coprire gli scandali veri.

Sessuopoli Il pretore Guariniello sta portando alla luce un vastissimo scandalo: prestazioni sessuali in cambio di prestazioni sessuali. I contorni del gigantesco traffico non sono ancora del tutto chiari, ma pare che oramai in questo paese sia molto frequente, per poter avere un rapporto sessuale consenziente, avere un precedente rapporto sessuale estorto con il ricatto. Sconvolgenti le intercettazioni telefoniche: "Lei - facciamo l'amore? Lui - Eh, cara mia. Solo se prima me la dai.".

Atleticopoli Anche l'atletica leggera è nell'occhio del ciclone. Una cupola di giudici corrotti manipolava il risultato delle gare con i mezzi più vari: spostando avanti o indietro la fettuccia del traguardo, sostituendola con un cavo di acciaio per ferire gli atleti sgraditi, invertendo improvvisamente la direzione della corsa per fare sì che gli ultimi risultassero in testa. La gigantesca truffa è stata denunciata da un maratoneta onesto, insospettito dal fatto che durante la maratona di Milano un giudice colluso lo aveva indirizzato lungo l'autostrada per Bologna. Giunto al casello di Reggio Emilia, il maratoneta onesto ha telefonato al procuratore Guariniello per denunciare lo scandalo. Secondo i primi accertamenti, essendo l'atletica uno sport povero, tra i coinvolti non vi sarebbe alcuno scopo di lucro, ma solo il piacere di imbrogliare.

Elettrautopoli Un colossale traffico di calendari per elettrauto contraffatti (i capezzoli delle donnine nude sarebbero in realtà ritoccati col pennarello) ha portato a scoperchiare uno scandalo ancora più grave: i calendari per elettrauto, anche quelli non contraffatti, sarebbero in realtà calendari per camionisti usati e poi riciclati come calendari da elettrauto nuovi di zecca. Se ne è accorto il procuratore Guariniello notando, dal suo elettrauto, che la miss di novembre aveva i capelli cotonati. Guardando meglio, si notava che il calendario era del 1962.

Dadopoli Per la prima volta al mondo, ricercatori italiani di una Facoltà di ingegneria deviata sono riusciti a costruire dadi a sette facce invece della tradizionali sei. Con questi dadi è possibile fare 7. Ma su alcuni esemplari, pesantemente contraffatti, sulla settima faccia è stato addirittura disegnato il numero 8. È stato quest'ultimo fatto a insospettire alcuni clienti delle bische clandestine, abituati a barare onestamente. "Finché usciva il 7 - ha dichiarato una vittima della truffa - si poteva pensare a un giocatore di particolare talento". Le indagini sono condotte dal procuratore Guariniello.

Monopolopoli Incredibile! Anche il popolare gioco del Monopoli è stato truccato da una cupola di ragazzini. Circolano migliaia di scatole del Monopoli con alcune caselle cosparse di un mastice invisibile. Quando la pedina di un giocatore vi incappa, ci resta incollata e il giocatore è costretto a sborsare cifre esorbitanti al proprietario della strada, fino alla rovina completa. Su Monopolopoli sta indagando il figlio del procuratore Guariniello.


   2 luglio 2006