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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 15 gennaio 2006



Lo show-boomerang del Cavaliere
Eugenio Scalfari su
la Repubblica 15 gennaio

Giornali a lui vicini come "Libero" e "Il Foglio" hanno appioppato due nomignoli appropriati alla sua deposizione di «persona informata dei fatti»: "Detective Silvio" e "Ispettore Rock". Il "Corriere della Sera" di ieri ha richiamato l´ombra del Sifar e dei suoi illegali fascicoli di spionaggio. Ma la più pertinente delle definizioni (chiedendone scusa all´autore) mi sembra piuttosto "Dagospia", un sito Internet specializzato in gossip.
Il nostro "Dagospia" si è recato l´altro ieri pomeriggio in Procura accompagnato dall´avvocato Ghedini che aveva organizzato l´incontro con il Procuratore capo e con i due sostituti incaricati dell´inchiesta Unipol e per venticinque minuti li ha intrattenuti sui gossip dei quali era stato informato da un tunisino suo socio in affari: chi dei dirigenti diessini ha cenato con il presidente delle Generali e qual è stato il contenuto di quell´incontro.
Forse anche il menù della cena e i vini serviti a tavola.
Reati? Certo che no, ha detto Berlusconi ai suoi amici di Forza Italia ed ha ripetuto nell´ennesima trasmissione televisiva cui ha partecipato subito dopo (da Anna La Rosa).
Ieri pomeriggio ha ripetuto il concetto in una conferenza stampa appositamente convocata. Risulta evidente che il nostro Dagospia sente incombere il reato di calunnia e mette le mani avanti. Ma sente anche montare intorno a sé il disagio dei suoi alleati e la disapprovazione generale dell´opinione pubblica, non soltanto di quella di centrosinistra.
Un passo falso di estrema gravità, improvvidamente preparato dal suo avvocato di fiducia che in fatto di relazioni esterne non dev´essere proprio una cima.
La deposizione di Berlusconi ha avuto come effetto l´uscita di scena del caso Unipol, sostituito dal caso d´un presidente del Consiglio che, in piena campagna elettorale, consegna ai magistrati inquirenti un dossier di gossip politici compilato da un suo socio in affari, con il chiaro intento di attivare un ventilatore giudiziario per meglio schizzare fango sui suoi avversari, ma si accorge nel bel mezzo di questa fraudolenta operazione che il ventilatore funziona controvento rigettando il fango (o peggio) su di lui.
Qui nasce una questione della massima serietà, sollevata ieri nell´editoriale di Ezio Mauro; una questione politica e istituzionale che mette in discussione la natura stessa di questo governo.
Le iniziative calunniose e spionistiche del suo presidente turbano lo svolgimento ordinato delle elezioni politiche, cioè il momento culminante di ogni democrazia, tentando di manipolare il voto degli elettori e suscitando reazioni e tensioni. Si tratta dunque di iniziative di stampo eversivo, mentre non a caso il presidente della Repubblica, ben consapevole dei rischi indotti che possono derivarne, batte da tre giorni sul tasto del pericolo di inquinamento elettorale.
Mentre tutto ciò accade sotto gli occhi allibiti dei nostri partners europei, un Parlamento arrivato al termine del suo mandato approva a colpi di maggioranza una legge palesemente illegale (insisto sull´avverbio "palesemente") che abolisce la possibilità del Pubblico ministero di appellarsi contro le sentenze di assoluzione e con ciò discrimina la pubblica accusa e le parti civili rispetto alla difesa dell´imputato, violando gli articoli 110 e 112 della Costituzione che stabiliscono la parità delle parti in processo, con l´evidente intento di bloccare il processo Sme che vede imputato lo stesso presidente del Consiglio per corruzione in atti giudiziari.
Contemporaneamente lo stesso presidente del Consiglio, attraverso il capo del gruppo parlamentare del suo partito, fa bloccare a tempo indefinito la riforma della legge sulla contrattazione dei diritti televisivi delle partite di calcio e regala un bel pacco di denaro al Milan, alla Juventus e all´Inter a spese di tutte le altre squadre del campionato.
* * *
Questi sono i fatti accaduti nell´ultima settimana e ne mancano ancora una dozzina prima della giornata elettorale. Aggiungerei l´occupazione totale degli spazi televisivi dai quali campeggia ininterrottamente la faccia inceronata del presidente del Consiglio, concionante senza limiti di tempo di fronte a conduttori compiacenti o ammutoliti.
I dirigenti del centrosinistra hanno preannunciato un passo formale presso il capo dello Stato affinché questa invereconda deriva antidemocratica abbia termine e si recuperino condizioni di normalità democratica. Se questo obiettivo non si realizzasse e dovesse continuare l´attuale scompiglio, la situazione potrebbe arrivare a decisioni estreme.
Gli alleati di Forza Italia vanno per una volta aldilà del mugugno. Per Casini l´iniziativa del premier in Procura equivale a una seduta di «avanspettacolo», mentre per Maroni si è trattato di «una nota stonata, da evitare». Tuttavia è evidente che una radicalizzazione dello scontro elettorale ha anche loro come bersaglio. Fini e il presidente della Camera si stanno facendo schiacciare dal radicalismo berlusconiano. Saranno loro ed i loro propositi alternativisti le prime vittime di quanto accade.

***
Come se questi guasti inflitti alla democrazia dal massimo rappresentante del potere esecutivo non bastassero a suscitare stupore e preoccupazione, un´altra grave interferenza è stata compiuta tre giorni fa dalla più alta autorità religiosa. Dal palazzo Vaticano il Papa Benedetto XVI, ricevendo gli auguri del sindaco di Roma, del presidente della Regione Lazio e del presidente della Provincia, si è rivolto direttamente ad essi affinché si oppongano all´attuazione dei Pacs e alla somministrazione della pillola abortiva negli ospedali pubblici. E affinché si dichiarassero contrari alle manifestazioni popolari indette ieri a Roma e a Milano per rivendicare i diritti delle donne e degli omosessuali.
Il Papa e i vescovi – l´abbiamo ripetuto più volte da queste pagine – sono liberissimi di testimoniare la fede e l´etica che ne deriva. Ormai sono andati molto più in là e intervengono dando giudizi e indicazioni anche su temi strettamente politici sebbene i Patti Lateranensi delimitino con assoluta chiarezza che la materia politica non riguarda le autorità religiose.
Ma tre giorni fa Papa Ratzinger ha varcato un´altra frontiera che finora era stata rispettata. Non si è rivolto soltanto ai cattolici e a tutti i cittadini nella sua lotta contro l´aborto e contro gli omosessuali. Ha fatto di più.
Si è rivolto perentoriamente alle autorità civili in sua presenza e ne ha prescritto pubblicamente i comportamenti che il Papa si attende da loro.
Un fatto del genere non sarebbe certamente concepibile nei riguardi del sindaco di Parigi o di Londra o di Berlino o di Madrid. Wojtyla non si è mai spinto così oltre, neppure nella sua amata Polonia dove, proprio durante il suo pontificato, furono varate le prime leggi laiche di quel paese.
Benedetto XVI si è dichiarato addirittura ferito e offeso da due libere manifestazioni popolari che non avevano certo lui né la religione cattolica come bersaglio.
La nostra campagna elettorale non riguarda certo il Papa, ma anche lui e i suoi consiglieri, come pure il giornale che si pubblica in Vaticano con il "placet" della Segreteria di Stato, dovrebbero sentire l´elementare responsabilità di evitare interventi plateali indirizzati ad autorità civili che soltanto per un senso, esso si responsabile, di rispetto non hanno replicato come forse avrebbero voluto (e dovuto) richiamando "l´incipit" del Concordato che stabilisce l´esclusiva sovranità della Chiesa in materia religiosa e l´altrettanto esclusiva sovranità delle autorità civili in materia temporale.
Auspichiamo che il Papa dopo questo spiacevole episodio, abbia modo di riflettere con attenzione sul peso e sugli effetti delle sue esternazioni nonché sulle reazioni di chi lo ascolta con rispetto ma con libertà di spirito e autonoma dignità di coscienza.


Una nuova Bolognina
Angelo Panebianco sul
Corriere della Sera 15 gennaio

Al momento, è più una metafora che un progetto politico. Il gran parlare, a sinistra, sul futuro, auspicabile, «partito democratico» ruota interamente intorno a una domanda inespressa: vorranno i Ds uscire dal limbo, chiudere finalmente la lunga fase del «post-comunismo» cominciata con la svolta della Bolognina alla fine degli anni Ottanta? La svolta della Bolognina, quella che, sotto il precipitare degli eventi (il crollo del comunismo sovietico) portò l'allora segretario del Pci, Achille Occhetto, a decidere di cambiare il nome del partito, comportò anche un'altra rilevantissima decisione: quella di non trasformare il Pci, semplicemente, in un partito socialista o socialdemocratico. Pesò certo l'ostilità per i socialisti italiani (Craxi era detestato quanto lo è oggi Berlusconi) ma anche un'altra cosa, ancora più importante. Se i comunisti avessero scelto allora di diventare socialisti avrebbero per ciò stesso ammesso l'errore storico della scissione di Livorno del 1921 (da cui nacque il Pci), avrebbero delegittimato alla radice settant'anni di storia comunista. Non vollero o non poterono farlo.
Entrarono così nel limbo post-comunista. L'espressione post-comunista indica l'esistenza di un problema irrisolto, di una frattura che non si riesce mai a sanare compiutamente (e che spiega ad esempio perché, tuttora, il maggior partito della coalizione di sinistra non se la senta di esprimere direttamente il candidato premier alle elezioni). Comporta un miscuglio di continuità rispetto al passato comunista e di discontinuità, in cui però la continuità, talvolta, fa premio sulla discontinuità. Poiché tutti sono (siamo) prigionieri della storia passata, è normale, ad esempio, sentire militanti dei Ds (ma a volte fanno gaffe
su questo punto anche i dirigenti) che erano già iscritti al Pci, parlare della storia del loro «partito» come se svolte e discontinuità non ci fossero mai state. D'altra parte, basta osservare ciò che accade nelle regioni un tempo dette «rosse». Vere discontinuità se ne sono viste poche: permane un sistema di governo della società che ruota intorno a quello che potremmo definire come una sorta di «Pci affievolito». Un sistema di governo, certo più lasco rispetto a quello del tempo che fu, essendo venuto meno il cemento dell'ideologia forte, ma non poi così dissimile. E' fin troppo ovvio che quel pasticciaccio brutto della vicenda Unipol ha la sua radice nella continuità. Relazioni consolidate che non destabilizzavano, e anzi favorivano il partito fin quando erano «localizzate», diventano destabilizzanti quando si proiettano sulla scala nazionale.
E' questo il problema sotteso alla discussione sul «partito democratico». Come uscire dal post-comunismo senza una visione più laica del partito, senza sbarazzarsi di quel mito che fu tipico del Pci (facendone la forza) e che sopravvive nei Ds (facendone la debolezza): il mito della «base»? E' quel mito a essere soprattutto colpevole di tanto zigzagare e di tanti stop and go a cui abbiamo assistito per anni: ad esempio, prese di posizione coraggiose e veritiere (su Craxi, sull'America e su tante altre cose) seguite da imbarazzati silenzi e minimizzazioni. Capirà o non capirà «la base»?
In una visione laica la «base» non esiste. Esistono solo tante persone amanti della politica e orientate al futuro, che possono essere condotte da leader dotati di una visione a costruire la sinistra del XXI secolo.
Ed esistono altre persone che invece non possono, perché hanno il cuore e il cervello ancora volti alle vicende del secolo passato. Separare le prime dalle seconde è la mossa, ancorché dolorosa, necessaria per chiudere la transizione post-comunista.
Se si ammette che ciò che serve per rimescolare le carte è qualcosa di simile a una Bolognina bis, una nuova svolta, è evidente che il «partito democratico» (o comunque si chiamerà) non potrà nascere semplicemente dalla confluenza fra ex comunisti ed ex sinistra democristiana, cioè tra gli eredi di coloro che già nella Prima repubblica avevano fra loro grandi affinità, dall'antiamericanismo all'ideologia anti-mercato, e che solo per via della guerra fredda non governarono insieme. No, perché discontinuità ci sia davvero, perché il limbo sia abbandonato, occorre che dell' eventuale partito democratico facciano parte a pieno diritto anche gli «anticomunisti democratici», quei democratici che ai tempi della guerra fredda si opposero frontalmente al Partito comunista italiano (per fortuna nostra e anche del Pci) in nome e per conto della democrazia liberale.
Solo un partito che veda con pari dignità e presenze ex comunisti e anticomunisti democratici porrebbe per sempre fine all'era del post-comunismo, chiuderebbe definitivamente le ferite e le fratture che vengono dal passato. E, probabilmente, farebbe anche lievitare, fra iscritti e simpatizzanti, una cultura politica più consona a una sinistra che si vuole liberal-riformatrice.
Si può naturalmente scegliere di rimanere nel limbo. Ma sapendo che una identità che ha nel prefisso «post» la sua connotazione principale rischia alla lunga di diventare, con conseguenze politiche negative, qualcosa di simile a una «non identità».


Troppe voci per una lista sola
Ilvo Diamanti su
la Repubblica 15 gennaio

C´è un aspetto poco indagato, circa gli effetti politici delle polemiche intorno al ruolo giocato dai leader Ds sulla vicenda Unipol-Bnl. Riguarda il rafforzamento delle logiche di partito, che possono indebolire la costruzione della "lista unitaria". Gli attori e i commentatori politici, fin qui, si sono, piuttosto, preoccupati di stimarne le conseguenze sui consensi elettorali dei Ds. E, quindi, della coalizione di centrosinistra. Hanno, cioè, considerato l´impatto di una nuova "questione morale" ai danni dei soggetti politici di sinistra che, in passato, l´avevano brandita, come un´arma.
A prescindere dalla denuncia di Berlusconi contro le presunte "manovre" dei Ds a favore dell´Unipol (con esiti a dir poco imbarazzanti per il premier), l´impressione – a leggere i sondaggi più attendibili di questi giorni – è che, nel sentimento sociale e nelle tendenze del voto, sia cambiato davvero poco.
Perché i cittadini, ormai, sono vaccinati da altre, precedenti stagioni di sdegno, segnate da scandali di portata ben diversa. E hanno esaurito tutte le scorte di sfiducia e di disincanto. Per trovare, oggi, motivo di indignarsi troppo. Così, i rapporti di forza tra le coalizioni sembrano essersi modificati in misura molto limitata. E il vantaggio del centrosinistra, seppure eroso, resta ampio. Ben al di là di quell´uno e mezzo per cento dichiarato dal premier. (Il quale, peraltro, prima di Natale, aveva sostenuto che le due coalizioni erano ormai alla pari. Dovremmo dedurre che oggi il centrodestra è in calo?).
Tuttavia, questo velenoso avvio della campagna elettorale ha prodotto un altro effetto. Non sappiamo se e in che misura previsto da Berlusconi. Ma sicuramente pericoloso, per il centrosinistra. Riguarda l´accentuarsi della logica "proporzionale". Già imposta per legge, ma oggi rafforzata per via politica. E´ indubbio, infatti, che le polemiche delle ultime settimane abbiano favorito il ritorno, prepotente, dell´identità Ds. Che non solo hanno serrato le fila, contro ogni sospetto "morale". Ma hanno contestato le conclusioni di quanti, come Casini e Follini, hanno tratto motivo dalla vicenda dell´Unipol per affermare l´infondatezza di ogni pretesa "superiorità" etica della sinistra. In questo modo, però, oltre a tutelare la propria storia e la propria immagine, i Ds hanno ribadito la propria "diversità". La propria identità. Una tendenza rischiosa per la "lista unitaria". A cui proprio i Ds hanno garantito il maggiore sostegno, nell´ultimo anno. Mentre, nella Margherita, suscitava una crescente diffidenza. La "lista per l´Ulivo". E´ stata imposta, resa inevitabile, dall´eccezionale partecipazione degli elettori di centrosinistra alle primarie del 16 ottobre. Che hanno espresso una estesa domanda di unità. Legittimando, al tempo stesso, Romano Prodi.
Tuttavia, la nuova legge elettorale (proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione vincente) ha restituito potere ai partiti. Rafforzato le spinte oligarchiche. Anche a questo fine, d´altronde, era stata progettata e approvata la nuova legge. Per rendere inattuale la strategia elettorale del centrosinistra.
Impostata sulla legittimazione personale e diretta del leader, secondo la logica maggioritaria.
La "lista unitaria", in tempi di proporzionale, può essere competitiva (e "vantaggiosa", dal punto di vista elettorale) a una sola condizione. Che rifletta – e trasmetta – un progetto comune e condiviso. Dotato di una identità politica, specifica e chiara. Il Partito Democratico oppure l´Ulivo, non importa. La questione non è nominale. Ma sostanziale. Riguarda il significato che assume. E comunica. Se diventa – o, semplicemente, appare – un´intesa tattica, fra partiti distinti, destinati, dopo il voto, a procedere ciascuno per conto proprio. Allora, la "lista unitaria" risulta una scelta molto rischiosa. Perché, nel proporzionale, la diversità dei soggetti politici è una risorsa, se dispongono di identità e organizzazione. Come i Ds. E, in misura più limitata, la stessa Margherita. Le aggregazioni, quando si tratta di cartelli elettorali, sommatorie di sigle, risultano, invece, svantaggiose.
Sempre. Tanto più in alcune zone del Paese, dove è maggiore la capacità di attrazione locale e personale delle liste.
Nel Mezzogiorno, in particolare. Per cui, le aggregazioni sono utili solo se non appaiono frutto di operazioni tattiche. Provvisorie. Un rischio da cui la "lista unitaria" fra i DS e la Margherita non sembra immune, in questa fase.
Anzitutto perché, ancora una volta, i soci fondatori hanno intrapreso una via tortuosa. Differenziando le strategie elettorali. Uniti alla Camera, divisi al Senato. Per ragioni "tecniche", suggerite dalla legge elettorale (che, per il Senato, valorizza maggiormente la dimensione territoriale, in quanto attribuisce i premi di maggioranza su base regionale). Tuttavia, è difficile non disorientare gli elettori, in questo modo.
Convincerli che il voto del 9 aprile costituisca il primo passo del Partito Democratico prossimo futuro. Né cambierebbe qualcosa l´ipotesi di presentare, anche al Senato, la lista Unitaria, limitatamente alle regioni del Nord. Oltre a generare ulteriore confusione, rafforzerebbe, semmai, la convinzione che l´unità costituisca una scelta strumentale. Da adottare di volta in volta.
Caso per caso. Zona per zona. Meglio, allora, adottare un unico criterio, per la Camera e il Senato. Correre insieme: uniti oppure divisi. Dovunque.
Naturalmente, queste considerazioni possono apparire una esercitazione inutile. Fuori tempo massimo. Visto che tutto è già stato deciso. E in più: dannosa. Perché rimettere in discussione la soluzione unitaria "almeno" alla Camera potrebbe frustrare la volontà del "popolo delle primarie". Mettere, di nuovo, in difficoltà Prodi. Leader senza partito di una coalizione di partiti.
Tuttavia, il "popolo delle primarie" non può accontentarsi di intese a metà. Tanto meno di campagne elettorali condotte da partiti che agiscono e si mobilitano ciascuno per proprio conto. Sventolando le proprie bandiere.
Quanto a Prodi, oggi, sicuramente, non è più un "amministratore di condominio". Ma il candidato, riconosciuto, del centrosinistra. Garante del progetto unitario. Un´alleanza tattica non aggiungerebbe nulla al suo ruolo. Semmai lo incrinerebbe.
Questo appare, oggi, il problema della "lista dell´Ulivo". Andare oltre le ambiguità degli ultimi anni. Oltre l´esperienza delle elezioni europee, dove si è realizzata un´intesa senza convinzione. Oltre l´esperienza delle regionali. Che hanno accentuato le spinte partitiche. Ma è difficile non provare disagio quando, come negli ultimi mesi, i programmi vengono elaborati e discussi in singole assemblee di partito. E i problemi del rapporto fra politica e affari diventano "fatti personali". Partitici. Che oppongono D´Alema, Fassino e i Ds a Berlusconi e Forza Italia.
La "lista unitaria". Può essere competitiva, alle prossime elezioni. Se è davvero unitaria. Se i soci fondatori si presentano uniti. Se l´orgoglio di partito non prevarica quello dell´Ulivo. Se la "questione etica" coinvolge tutti. Se la voce di Prodi risuona alta e chiara. Più delle altre. (E più di adesso).
Altrimenti, meglio che ciascuno corra per conto proprio.
Sventolando la propria bandiera accanto a quella dell´Unione.


L'ultimo Berlusconi
Furio Colombo su
l'Unità 15 gennaio

La storia del giorno è Berlusconi che va spontaneamente in Procura. Vuole denunciare «i rossi» come modo di aprire la campagna elettorale.
La commedia del giorno è la conferenza stampa convocata all'improvviso, di sabato, da un uomo abbandonato dai suoi alleati e spaventato da se stesso, che tenta concitatamente di cancellare un clamoroso errore minacciando e mentendo.
Il dramma del giorno è che l'Italia stremata e ormai priva di rispetto nel mondo è condannata a subire un triste varietà senza fine, una cartella clinica ingigantita e moltiplicata, in forma di notizia politica, su tutti gli schermi tv del Paese.
Occorre riconoscere che, a suo tempo, la P2 ha fatto un buon lavoro. Ha scelto con cura le persone che avrebbero continuato a danneggiare la vita pubblica italiana per un lungo periodo. Guai a citarli, perché si offendono a morte, e minacciano querele che, per prudenza, non presenteranno.
Il fatto che i telegiornali (salvo l'eroica resistenza del Tg3) continuino ad essere montati in modo da ripetere per sei-sette volte al giorno «le rivelazioni di Consorte» relegando in coda rade notizie delle confessioni di Fiorani e dei conti all'estero di comuni amici della maggioranza, serve per esporre - nella veste tragicomica di accusatori - persone che il Presidente Pertini si era impegnato a non ricevere mai più al Quirinale. Tocca ad essi una missione affidata loro sin dall'inizio dalla consorteria i cui piani stanno ancora svelandosi: diffondere, come una predicazione incessante, l'idea che siamo tutti corrotti, e che nessuno può vantare alcuna integrità morale.
È chiaro che chi non è corrotto non può stare al gioco, non può accettare di subirlo, neppure in nome delle buone maniere.
Non può, prima di tutto perché i corrotti, che altrove non potrebbero governare a causa del gigantesco conflitto di interessi che cresce di legge in legge, non possono chiamare in causa altri, prima di avere affrontato il loro passato o le loro imputazioni di fronte ai regolari tribunali della Repubblica.
C'è chi chiama questa legittima richiesta “giustizialismo”. Prima del governo Berlusconi e dello scempio perpetrato dalla sua succube maggioranza, si chiamava Costituzione Italiana.
Poi c'è la pensosa finzione della pretesa di superiorità, quando invece la parola detestata dal regime berlusconiano è “normalità” intesa come comportamento legale e conforme alle leggi.
Il fenomeno italiano, di cui il mondo è attonito testimone, non è che qualcuno si senta o si dichiari superiore, ma che un padrone-primo ministro che doveva rispondere di questioni personali e pre-politiche con la giustizia, sia diventato il capo di un attacco alla giustizia, giungendo alla accusa di anomalia mentale a carico di tutti i magistrati. E ha costretto la sua maggioranza (e dunque anche persone per bene) a scendere insieme a lui il gradino della illegalità. Non è protervia segnalare in tutti i modi la vasta illegalità in un Paese che vive sotto censura mediatica. È dovere morale e politico di cui ciascuno di noi dovrà rispondere a chi viene dopo. Che cosa avete fatto per impedire lo scempio di leggi “ad personam”, la devastazione di norme fondamentali della convivenza democratica sancite dalla Costituzione, la gestione affiancata di proprietà personali e di responsabilità di governo, il controllo delle notizie e dei giornalisti da parte del più vasto proprietario europeo di centri di distribuzione di notizie?
Avremo fatto poco, dovremo riconoscere alla fine, perché il potere mediatico del primo ministro-padrone non solo è forte, ma viene gestito senza scrupoli e circondato da ossequio. Come prova di ciò che stiamo dicendo è bene leggere Il libro nero dell'Italia di Berlusconi, di Felice Froio, straordinario e documentato atto d'accusa. Almeno potremo dire con orgoglio di avere denunciato la stagione illegale con la poca voce che resta a disposizione di chi è tagliato fuori sistematicamente da ogni canale di comunicazione di massa.
Non c'è superiorità morale di nessuno, certo. Ma c'è - e nessun Paese civile l'ha mai negato - l'inferiorità di chi stravolge la legge e ne abusa, profittando del potere, per fini e interessi personali. E di coloro che, anche in ossequio a vecchi legami e affiliazioni, si fanno avanti per denunciare chi denuncia, in modo da diffondere quanta più intimidazione è possibile.
Dopo la Direzione Ds di mercoledì 11 gennaio, che si è svolta con chiarezza, si è conclusa con fermezza e ha rivelato una esemplare compattezza morale e politica, molti penseranno che il petardo velenoso lanciato fra i cittadini all'inizio della campagna elettorale più drammatica, per l'Italia, dal 1945, abbia perso la forza del suo contagio.
Non ci conterei, perché i telegiornali continueranno, ora dopo ora, a tornare da capo, come se fosse accaduto solo ciò che il governo d'affari mediatico desidera isolare e ripetere ogni volta in modo che continui a diffondersi la predicazione: «Siamo tutti uguali, siamo tutti corrotti».
E tuttavia il ferreo controllo mediatico (il regime che impone di «prendere a calci in culo» persone libere e non assoldabili come Enzo Biagi, Michele Santoro, Daniele Luttazzi o Sabina Guzzanti) fa sì che notizie enormi della loro corruzione abituale passino solo per pochi istanti o in poche righe o non passino affatto nelle televisioni e sui giornali. Un primo ministro che firma il proprio condono di privato imprenditore evitando con 1800 euro di versare al fisco milioni di tasse, in base a una legge che egli stesso ha fatto votare, non sopravviverebbe neppure in Tagikistan.
Un primo ministro che, con aria lievemente disorientata, afferma di non sapere che il proprio fratello produce i decoder richiesti per accedere alla nuova televisione digitale imposta dalla sua legge, avrebbe forse giorni difficili persino in Russia, certo nella più filo-occidentale Ucraina.
Un primo ministro che si scopre socio d'affari (non simpatizzante, non tifoso, non collaterale, ma socio d'affari) con qualcuno dei principali scalatori di banche di cui si parla, occuperebbe le notizie d'apertura di qualunque Tg democratico e libero. Non Berlusconi. Lui è impegnato a passare, come un gerarca d'altri tempi, da uno studio televisivo all'altro, al piano di sotto e a quello di sopra, nella televisione che controlla direttamente e in quella in cui il controllo è esercitato per suo conto dal conduttore, luci e ambiente speciale, come nel Paradiso del caffè Lavazza, purché l'inquadratura e le domande siano a suo favore, secondo schemi concordati che sarebbero risibili in un Paese libero, ma che sono trattati come un normale fatto della vita, e anzi apprezzati come comunicazione elegante e un po' sofisticata, in questa Italia spinta sotto la normalità non solo morale ma anche di soglia critica.
Per esempio, nello studio di Otto e Mezzo, Berlusconi conta sulla punta delle dita le “perdite” che ha dovuto subire a causa della politica. Tipicamente, nel linguaggio di un imprenditore, “perdite” sono minori guadagni, entrate mancate nelle proprie aziende, o il peso di debiti divenuti più grandi. Persino Berlusconi sa di non poter dire di avere perduto nel senso normale della parola, visto che la sua ricchezza personale è aumentata di molte volte durante la sua vita politica, e i suoi debiti si sono miracolosamente prosciugati. No, le “perdite” di Berlusconi sono - come dice lui stesso - parti di dominio non conquistate. Lui ha elencato il non poter controllare La Repubblica, L'Espresso, i giornali locali (Gruppo Espresso), la stessa televisione (La7) da cui stava parlando.
Berlusconi si duole di queste “perdite” come se si trattasse di feudi che gli spettavano. Dunque aveva un progetto. Se quel progetto si fosse avverato, Berlusconi avrebbe avuto un controllo mediatico quasi totale. Gli sarebbe mancato il Corriere della Sera anche perché, per ora, i suoi soci più o meno occulti, non sono riusciti nella scalata - pur tentata - a quel gruppo editoriale. Ma se Berlusconi si propone come il candidato ideale per liberare l'Italia (da lui governata) dai “rossi che hanno in mano tutto” (elenca le vittorie elettorali del centrosinistra nella immensa maggioranza dei Comuni e delle Regioni italiane come se fossero colpi di stato) è chiaro che continuerà a puntare sul controllo totale dei media.
Come spiega Andrea Manzella: «Il berlusconismo è un blocco politico che, senza rinunciare all'originale impasto affaristico, cerca di imporre un altro Stato, con un mutato racconto delle origini, con diversi rapporti internazionali e comunitari, addirittura della pace e della guerra, persino un'altra idea della libertà di religione degli italiani. In queste condizioni il tentativo di “sdoganarlo” per conseguita omogeneità non può riuscire neppure se si sollevasse contro l'opposizione una “questione morale” cento volte più grande». (La Repubblica, 11 gennaio)
Non dite che tutto si ripete nelle frenetiche esibizioni berlusconiane da studio tv, da programma a programma, tra inchini e ossequi “spontanei” di gruppi ansiosi di dipendenti televisivi.
Come sempre, Berlusconi è rabbioso, rancoroso, calunniatore. Come sempre è bugiardo nel rinvangare il passato, e nel continuo tentativo di ricavarne il suo elogio. È lamentoso nel ripetere l'elenco dei suoi presunti meriti. È patetico nel reclamare un riconoscimento internazionale, che non gli è mai venuto neppure da personaggi vicinissimi in affari, come Putin. È comico nell'inventare su due piedi cifre e dati per qualunque problema a cui non ha lavorato e che, comunque (bastano rapide verifiche, che ovviamente gran parte del giornalismo italiano omette) non conosce. E senza la mano pesante su giornali e televisioni non gli sarebbe possibile presentare prontamente, per qualunque fallimento (ovvero per tutti i suoi fallimenti) l'alibi di ciò che avevano fatto cinque, dieci, quindici trenta anni fa, coloro che hanno governato prima di lui.
Ma forse è bene fare attenzione a due aspetti del Berlusconi apparentemente vecchissimo di questa campagna elettorale. Del primo aspetto ci avverte Franco Cordero: «Nella guerra da corsa è un Satanasso. Il berlusconismo è egomania, rifiuto fobico delle norme, soperchieria, frode, ignoranza» (La Repubblica, 13 gennaio).
Nella scorreria si intravede uno spunto nuovo: il buttarsi all'aggressione diretta, senza alcuna preoccupazione o riguardo per la sua presunta immagine di statista, fino al punto da recarsi in Procura a denunciare l'avversario politico che sta ancora discutendo su modi civili, equilibrati, pacati di condurre la campagna elettorale, e proprio mentre il presidente della Repubblica raccomanda rispetto reciproco. Sa che quella raccomandazione vincolerà la parte antropologicamente e istituzionalmente normale delle forze politiche, cioè di coloro che lo stanno sfidando proprio perché Berlusconi ha lavorato alacremente a disfare la Repubblica e a immergerla nel disordine.
Ma da sempre (giorno per giorno, anno per anno, in questa legislatura) Berlusconi si reputa libero di osservare solo le sue regole. Questa volta le regole sono di ammassare tutta l'illegalità che gli consente di governare i media, e di usarla contro chiunque si metta sulla sua strada. Sa benissimo che la calunnia, o la falsa denuncia, o la smaccata denigrazione durano poco. Gli basta che durino fino alla fine della campagna elettorale. È la tecnica suggerita da Karl Rove (attualmente sotto inchiesta per falso, in America) a George Bush contro Kerry: andare al di là della calunnia penalmente perseguibile, contando sul senso della decenza e dignità dell'avversario calunniato, che - invece - resterà nel limite del civile confronto e perderà le elezioni. Poi tutti si volteranno a riconoscere le buone ragioni dello sconfitto. Ma resterà uno sconfitto.
C'è una risposta. È di restituire in pieno a Berlusconi la losca immagine della sua attività, del suo arricchimento, dei suoi legami, dei suoi processi, dei suoi complici di vario tipo e in rami diversi della illegalità. E di farlo sempre, giorno per giorno, come ha fatto fin dal primo momento questo giornale, non appena si è reso conto (e adesso siamo in tanti a saperlo) del pericolo reale e imminente che la democrazia corre in caso di una ulteriore vittoria della cosiddetta “destra” berlusconiana che, come è noto, è isolata e respinta da ogni altra destra democratica del mondo.
Il secondo aspetto, che ormai si vede bene da ogni nuova apparizione di Berlusconi, è il non più nascosto disdegno per il governare. Governare è un mestiere che a lui resta estraneo perché richiede empatia, responsabilità, prudenza, pazienza, studio, conoscenza dei problemi, disinteresse, fatica. Sono le qualità di Prodi, che Berlusconi disprezza. Ormai si vede bene che Berlusconi crede non nel faticoso governare democratico, come nel potere celebrato da sottomissione e intimidazione. Crede nel conflitto di interessi come in un fatto buono in sé: ti colloca, nello stesso tempo, al centro dei tuoi affari, ma anche al di fuori in una posizione autorevole in cui puoi dare una mano a te stesso. Ecco che cosa ci ha svelato una settimana di campagna elettorale incivile, prepotente, illegale. È bene saperlo per fare barriera in questa difesa cruciale della dignità democratica.


La nuova sfida di madri e figlie
Michele Serra su
la Repubblica 15 gennaio

Quando un corteo è quasi silenzioso, scandito solo a tratti da pochi slogan, e produce il rumore insolito di una conversazione lunga cinque o sei chilometri, vuol dire che è un corteo di persone. In testa, a guidarlo verso la piazza, signore e ragazze dal volto ignoto ai fotoreporter. La testa di Dario Fo che spunta duecento metri più indietro è la sola icona riconoscibile a colpo d´occhio.
Pochissimi striscioni, pochi cartelli, appena qualche traccia dei vecchi segni del femminismo storico. Parecchi uomini, diciamo circa un terzo dei presenti, e il resto è il più normale, il meno distinguibile dei repertori femminili: impiegate, casalinghe, studentesse, madri di famiglia, madri e figlie, qualche sciura milanese appena più in tiro. Prevalenza di donne adulte, minoranza, però ben percepibile, di ragazze e ragazzine. E ai margini del corteo, a confermarne la natura varia e comune, una zona d´ombra nella quale è complicato distinguere chi sta facendo lo shopping del sabato e chi manifestando.
Gente, insomma. Che si auto-rassicura contandosi, squadrandosi, scoprendo accanto alla prevedibile presenza dell´amica ex militante anche la vicina di casa o la collega d´ufficio. Clima di autodifesa civile, di con-cittadinanza che ha sentito l´urgenza di riconvocarsi (tutto è partito, due mesi fa, da una singola mail messa in rete da una singola italiana preoccupata dall´aria che tira). E su tutto, nelle chiacchiere, nei saluti, l´incredula amarezza di dover ridiscutere ciò che pareva già discusso e già stabilito, e con quanta fatica, e a che prezzo. «Mi sembra di sfilare contro le risoluzioni del Congresso di Vienna», sento dire tra l´ilare e il desolato. Sottolineando con un paradosso lo spaesamento storico che provocano, sempre, i periodi di restaurazione (e questo lo è, eccome se lo è).
Per gli appassionati del costume socio-politico, poche soddisfazioni: nel senso che un prevalente anonimato, una evidente normalità, impediscono avventurose classificazioni di ciò che è vetero, ciò che è vintage, ciò che è inedito. "Io sono mia", per esempio, non è più una citazione nostalgica: la cronaca politica recente ha ampiamente provveduto a ridare un senso perfino post-politico a quella che fu una rivendicazione rivoluzionaria, e oggi è la difesa di un diritto della persona, niente più e niente meno.
Pochissime rievocazioni di streghe e di sabba, di spauracchi sessisti, perché sono passati molti, troppi anni, e la scapigliatura di allora oggi è famiglie, figli, vita vissuta: e questo rende molto più bassi i toni, ma molto più densi e consapevoli l´allarme e l´ira delle donne adulte, reduci da un bel niente se non dalla fatica di scegliere, di partorire, sposarsi, separarsi, amare, non amare, decidere.
E´ questo, se possibile, il nerbo psicologico della grande manifestazione che riempie il centro di Milano: doversi risentire, da adulte, da vissute, da madri, da non madri, di nuovo sotto schiaffo, amministrate e giudicate da altro che non sia la propria infinita fatica di scegliere. Vedere, sentire che il terreno attorno alla 194, la storica legge che finalmente alleggerì il dolore dell´aborto almeno dal peso del reato, è lentamente eroso, mese dopo mese, vescovo dopo vescovo, e nuovamente c´è chi taccia di assassinio, e addirittura di genocidio, le donne che tutti ci generano e ci allevano con fatica e sacrificio. E che non fanno le guerre, per altro, che ammazzano i bambini (a milioni) senza che nessuno stratega si sia mai domandato se i bambini hanno un´anima, e sono dunque perlomeno equiparabili agli embrioni...
Alcune tra le migliori signore del teatro italiano (Maddalena Crippa, Ottavia Piccolo, Anna Bonaiuto, Lella Costa in collegamento da Roma) hanno letto, in piazza, cose tutte riconducibili a un rivendicato, potente legame con la vita, molto poco retoriche se dette di fronte a una marea di altre donne: si stava parlando non solo a loro, ma proprio di loro. La parola vita è echeggiata spesso dagli altoparlanti, e volutamente, contro l´abnorme accusa di cinica, egocentrica sterilità che è sottesa in molte delle polemiche degli antiabortisti. Una ragazza brasiliana immigrata, con felice scelta polemica, ha definito "abortiva" una società che restringe i diritti, non promuove il lavoro e i servizi sociali, leva speranza e prospettive alle persone giovani.
Parrebbe un´ovvietà, ma evidentemente non lo è più, dire che qualunque politica di natalità dovrebbe generare più welfare, più diritti, più rispetto per le donne, non certo la minacciata e intimidatoria presenza, nei consultori pubblici, di predicatori antiabortisti.
Credere di avere liberato il proprio corpo (cioè: se stesse) da una cappa di controllo sociale, di ricatto etico, di paura maschile, e accorgersi che molta di quella precettistica è invece ancora viva e aggressiva, che la partita dell´autodeterminazione è ancora aperta. E dirlo prima che sia troppo tardi, accorgersene finché si è ancora in tempo: per questo sono tornate in piazza in tantissime, e raramente una manifestazione ha avuto una lettura così semplice, così chiara, così diretta.


E Calderoli tuonò da macho
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera 15 gennaio

«Assurde pretese di privilegi dei culattoni». E' fedele alla fama di britannica sobrietà, il ministro Roberto Calderoli. Ministro Calderoli che ha bollato così le richieste d'una legge per le coppie di fatto, omosessuali comprese, partite dalla manifestazione di Roma.
Che il tema in Italia sia spinoso è vero. Tanto da aver acceso polemiche aspre non solo nella destra contro la sinistra, a parte le scelte personali di Alessandro Cecchi Paone o Marco Taradash, ma dentro la stessa sinistra, dove l'attenzione (anche elettorale) al mondo cattolico è forte fin dai tempi in cui Enrico Berlinguer additava alle giovani pioniere comuniste l'esempio di Maria Goretti. E dove l'attacco dell'Osservatore
Romano alle «scorciatoie delle provocazioni e delle manifestazioni di piazza» indette a sostegno della coppia omosessuale che «non ha rilievo sociale» e «non crea famiglia» fa sanguinare il cuore di una larga parte di cristiani che, per quanto schierati contro la destra, proprio non riescono a digerire certe battaglie di laicità che vivono come forzature laiciste.
Per non dire di certe immagini, come le foto del giovanotto seminudo col velo da sposina. Sfoghi di allegria sguaiata che il mondo gay più «politico » vive scuotendo la testa come la scuotono i pacifisti veri quando si ritrovano in corteo tre fanatici che urlano slogan dementi. Ma destinati fatalmente a essere sbattute in prima pagina. Insomma: i patti civili tra omosessuali sono una cosa troppo seria per lasciarla in mano a certi omosessuali.
Anche la scelta di opporsi al «relativismo etico», però, è una cosa troppo seria perché se ne occupino certi politici. C'è modo e modo anche di essere di destra, conservatori e perfino guardiani della pubblica morale. Ed è sbalorditivo che un ministro dica ciò che ha detto ieri il responsabile delle Riforme: «Pacs e porcherie varie hanno come base l'arido sesso e queste assurde pretese di privilegi da parte dei culattoni, per dirla alla Tremaglia, sono fuori luogo e nauseanti».
La citazione del ministro per gli Italiani all'Estero, che un anno e mezzo fa firmò una strabiliante dichiarazione («Povera Europa: i culattoni sono in maggioranza») in difesa di Rocco Buttiglione, è in realtà solo un giochino retorico. Il responsabile delle Riforme, infatti, quelle parole le aveva già usate. Dicendo, ad esempio, che «la civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni...». Oppure: «Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni». Quanto basta perché Franco Grillini possa riderne: «Ce l'ha sempre in bocca. Si vede che sono parole che gli piacciono proprio. A questo punto direi: gatta ci cova. Basta aver letto due libri di psicologia per sapere che l'ossessione in materia sessuale sta a significare problemi non risolti».
Pilota di rally a riposo, l'odontostatista bergamasco mostra in effetti di essere piuttosto spericolato. Sugli stessi temi, infatti, si era già avventurato mesi fa con tale foga da finire tra i protagonisti di una intervista sul nostro Magazine di Claudio Sabelli Fioretti nella quale il presidente onorario di Arcigay gigioneggiava sui cripto-gay in Parlamento. Chiacchierata seguita da un'intervista alla moglie oggi separata, Sabina Negri. La quale non solo non si scandalizzò alla domanda ma si sbilanciò fin sull'abisso: «No, Roberto non è gay. Ma freudianamente, nell'inconscio ci sta dentro tutto». Dopo di che aveva aggiunto: «Io penso che lui scherzi con queste cose qui, che esageri un po', che dipinga le cose con colori più forti del dovuto». Eppure, spiegò, non era omofobo: «Alle nostre cene del sabato sera quando non era ancora ministro c'erano gli amici gay, ci si divertiva...».
Per carità, non è l'unico, a destra, ad abbinare omosessuali e «rossi» come faceva Malaparte contro la «pederastia marxista». Francesco Storace attaccò alla Camera il verde Mauro Paissan dicendo: «Quella checca mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso, io non l'ho toccato: sfido chiunque a trovare le sue impronte sul mio culo». Forza Nuova, oggi corteggiata dal Polo, ha sfilato con striscioni che dicevano «Finocchi? Sì, grazie: col pinzimonio». Maurizio Gasparri attaccò Elio Di Rupo, il leader dei socialisti belgi gay dichiarato ma da sempre contro la pedofilia, dicendo: «Non piacere ai pedofili non ci dispiace più di tanto». E il deputato siciliano Luigi Caruso liquidò il suo avversario elettorale così: «E' arruso. Insomma: gay». «Dichiarato?». «Noo. Però lo sanno tutti». «E lei lo dice così?» «Noooo. Alludo». E il bello è che il comunista Maksim Gor'kij lanciava la stessa accusa a rovescio: «Nei Paesi fascisti, l'omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce inpunemente; nel Paese dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l'omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà». Non sarebbe il caso, nel 2006, di smetterla?


Due piazze
Stefania Giorgi su
il Manifesto 14 gennaio

Si rischia di pensare che nulla sia mutato da trent'anni a questa parte nel nostro paese. Ratzinger, e prima di lui Ruini e prima ancora Wojtyla, continuano a fare il loro mestiere di mastini della dottrina cattolica in materia di famiglia, sessualità, procreazione, rapporti tra uomini e donne. Il ceto politico continua a rispondere autoridimensionandosi di fronte ai grandi valori difesi dal cattolicesimo romano. La famiglia eterosessuale, fedele nei secoli, votata alla procreazione per via naturale e non tecnologica. La vita nascente, l'embrione, contrapposti ai deliri di onnipotenza e alla sregolatezza del desiderio femminile. La chiesa di Roma è ben consapevole che il vero grande avversario con cui fare i conti è la libertà femminile che ha segnato, segna il mondo producendo cambiamenti che non permettono ritorni al passato. Persino dentro il fortino monosessuato della chiesa di Roma a corto di vocazioni maschili. Segno femminile che cambia il mondo al quale il ceto politico italiano continua a restare sordo. Con ciò perdendo presa sulla realtà, non vedendo quel che è già avvenuto.
Una perdita di potenza e di capacità di grandi narrazioni, di vocazione e tensione alla trasformazione e non alla pura e semplice gestione dell'esistente, che torna con frequenza sempre più ravvicinata a volgere il desiderio di potenza esattamente verso il corpo delle donne. Da normare, controllare, irregimentare. Rimettendola nell'altarino di una famiglia che non esiste più, neppure tra i cattolici italiani più ferventi.
La sinistra, di fronte all'incalzare della campagna vaticana che si riverbera sulle leggi dello stato, tentenna, balbetta se non addirittura si genuflette. Che dire di Romano Prodi, leader dell'Unione, prontamente amareggiato per la festa dei Pacs a Roma e «imboscato» durante il lungo dibattito referendario sulla legge 40 e che sulla posta in gioco di quella legge come della 194 - vale a dire il primato femminile nella procreazione, l'etica della sua scelta e della sua responsabilità -, non si è mai sentito in obbligo di dire una parola? Non una dichiarazione sulle roventi questioni che quella legge che sancisce il diritto giuridico dell'embrione inevitabilmente avrebbe (ha) portato con sé. L'indagine sul funzionamento della legge 194, i no alla Ru486 (se proprio devi abortire devi farlo con dolore), i consultori trasformati in sagrestie dai volontari del Movimento per la vita ne sono una filiazione diretta. E i distinguo tra unioni e matrimoni gay (inconcepibili) ne sono la conferma.
Siamo di fronte a una cattiva politica che rubrica le questioni etiche, che si nasconde farisaicamente dietro la libertà individuale dei nostri rappresentanti in parlamento, che invoca più legge, che si appella al diritto sovraccaricandolo di senso, chiamandolo a dirimere questioni che attengono ai rapporti tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne, tra sessualità etero ed omo, tra procreazione scelta e non forzosa. Una abidicazione e una delega da cui discende una sciagurata classifica di amori e affetti, di serie A e di serie B, di desiderio di figlio consentito e non consentito, di unioni benedette e stigmatizzate.
Lo scenario del doppio appuntamento di oggi, a Milano con «Usciamo dal silenzio» e a Roma con «Tutti in Pacs» è questo. Ed è esattamente questo che le due manifestazioni dovranno scuotere, incrinare, rompere. Per questo ci auguriamo che siano grandi, allegre, dirompenti, creative, colorate, assordanti. Che facciano uscire dal silenzio le donne venute dopo il 18 maggio `78, dopo il 3 giugno `95 - quelle che sulla legge 40 non hanno saputo comunicare paure, timori, domande su quella sessualità sempre più silente a cui la procreazione tecnologica allude, su quel desiderio tentennante tra uomini e donne che si riflette sempre più in una capacità procreativa declinante. Che ripensi le parole, le elaborazioni e le pratiche femministe che non hanno cessato di parlare in questi trenta anni. Che sia l'occasione aurorale per riparlare di corpi, di desideri, di scelte di vita e di sesso. Di donne e di uomini.


Diritti a sinistra
Chiara Saraceno su
La Stampa 15 gennaio

Le due piazze che ieri - a Milano e Roma - si sono riempite del tutto spontaneamente di donne e uomini che rivendicano il proprio diritto di parola e la propria capacità di esprimere e rappresentare valori condivisi sono un importante segnale per i politici, soprattutto nel centro-sinistra. Non perché esista una democrazia della piazza contrapposta alla democrazia dei partiti.
Ma perché indicano come ci siano decine di migliaia di persone di tutte le età disposte a mobilitarsi per far sentire la propria voce su questioni cruciali, che hanno a che fare con la libertà e la dignità delle persone. Che esigono di essere trattate e ascoltate non come pericolosi facinorosi o devianti libertini, ma come persone dotate di altrettanta consapevolezza della complessità dei fenomeni, coscienza etica, senso di responsabilità, di coloro che la pensano diversamente. Che rivendicano di essere altrettanto, se non più, preoccupati di chi li attacca della dignità degli esseri umani, del valore della maternità, dell'importanza della capacità di assumersi responsabilità verso altri così come avviene, o dovrebbe avvenire, nelle famiglie.
E che non sono disposte a farsi tacitare, o peggio ancora demonizzare, perché ciò che pensano e rivendicano non coincide con la - del tutto legittima ovviamente - posizione della Chiesa cattolica. Si tratta di una domanda di partecipazione al dibattito sulle grandi questioni etiche del nostro tempo, che non riguardano solo le scalate bancarie, il conflitto di interessi o i fondi neri dei partiti e delle imprese, ma la famiglia, le forme in cui si danno relazioni di amore, reciprocità, solidarietà, la sessualità, la vita, la morte, il rapporto della donna con se stessa, il nascituro e il proprio corpo in quel processo lungo e complesso che è il mettere/il venire al mondo.
Nessuno su questi temi ha la verità: né la scienza, né la religione (non per i non credenti, almeno), né il diritto. La storia dell'umanità, ma anche solo del nostro Paese, ci mostra che essi sono stati e sono oggetto di negoziazioni complesse, con confini che si spostano, nuove dimensioni che emergono evidenti ed altre che perdono di senso. Fa parte di questa storia anche la presa di parola di soggetti un tempo tacitati. Si deve al maturare di una coscienza più sensibile ai diritti delle donne e dei bambini se nel nostro Paese finalmente nel 1975 il diritto di famiglia definito sotto il regime fascista è stato cambiato. Ciò, tra l'altro, ha consentito di eliminare l'enorme ingiustizia che impediva ad una donna sposata di riconoscere il figlio avuto da una persona diversa dal marito e al figlio di avere, legalmente, una madre.
Così come ha consentito di legalizzare non solo, a certe condizioni, l'aborto per prevenire gravi danni alla salute e talvolta alla vita delle donne che vi si sottopongono, ma prima ancora la contraccezione. Ma questa, tardiva, maturazione non sarebbe avvenuta se non fosse stato anche per il movimento delle donne. Ed anche allora, come oggi, molte voci si levarono - in primis entro la Chiesa cattolica e la Democrazia cristiana - denunciando che si metteva in pericolo la famiglia. Garantire lo spazio pubblico per questa riflessione e allargare il numero di coloro che vi hanno diritto di parola dovrebbe essere tra i compiti alti della politica. Un compito particolarmente cruciale in un Paese come l'Italia di oggi, in cui viceversa è in atto un sistematico processo di intimidazione e delegittimazione di coloro che vuoi difendono alcune garanzie faticosamente raggiunte, vuoi chiedono il riconoscimento della rilevanza sociale di rapporti di amore, solidarietà, reciprocità che non hanno la forma giuridica del matrimonio.
E' in gioco il riconoscimento della competenza dei cittadini di esprimere valori e bisogni - su questi, come su altri temi. Una sfida non da poco per una politica seria. Non affrontarla a favore dei tatticismi pre-elettorali (come è purtroppo già avvenuto sulla questione dell'amnistia e come neppure tanto indirettamente ha suggerito Prodi nella sua lettera agli organizzatori della manifestazione sui Pacs) rischia non solo di legittimare, di fatto, esclusivamente chi quella competenza nega in nome di una verità data a priori. Rischia anche di far perder le ragioni per cui molti continuano ad individuare nel centro-sinistra lo schieramento maggiormente attento ai diritti di libertà e ai temi etici che questi implicano.


«Scimmiottare fa solo danni»
Aldo Cazzullo sul
Corriere della Sera 15 gennaio

Signora Cavani, lei è un'artista molto apprezzata a sinistra. C'è chi la attendeva alla manifestazione di Roma. Invece sarà madrina della presentazione della prima enciclica di Ratzinger. Perché?

«Perché me l'hanno chiesto. L'enciclica tratta dell'amore e della carità. Forse perché ho fatto due film su San Francesco, dal Vaticano mi hanno proposto di dire qualcosa sull'argomento. Ho accettato molto volentieri e attendo con grande interesse di leggere il testo del Pontefice».
E non scende nella piazza dei Pacs.
«No. Condivido la posizione di Romano Prodi. È giusto difendere le esigenze pratiche dello stare insieme, in particolare la protezione reciproca. È sbagliato scimmiottare il matrimonio. La gente ha diritto di manifestare, ovviamente. Ma inscenare parodie di cerimonie in una piazza di Roma potrebbe danneggiare la causa anziché avvantaggiarla».
I matrimoni omosessuali sono legge in Spagna e in Gran Bretagna.
«Il matrimonio nasce in un contesto preciso. Il rito sancisce una funzione che è diversa da quella dei Pacs: nell'etimo c'è l'idea di "mater", di madre, di procreazione. Non si vede perché copiarlo. Meglio piuttosto inventarsi qualcosa di diverso. La prima coppia non sposata che ho conosciuto erano i miei nonni materni, che negli Anni Venti scelsero di non unirsi in chiesa e di promettersi comunque protezione reciproca».
E, come ha raccontato a Barbara Palombelli sul Corriere, battezzarono i figli Libero e Libera.
«I miei zii; mia madre si chiamava Margherita. Voglio dire che i diritti delle coppie di fatto sono un tema importante e serio. Il mio timore è che manifestazioni come quella di Roma possano infastidire, urtare sensibilità diffuse, e quindi portarci indietro anziché avanti. Vorrebbero essere provocazioni, possono essere scambiate — a torto — per pagliacciate».
Alla Chiesa si rimprovera di influenzare troppo la politica.
«A me pare che ci siano troppi politici ansiosi di farsi influenzare. È tutto un andirivieni di qua e di là del Tevere, un darsi da fare per stringere o millantare contatti privilegiati. È la politica, non la Chiesa a dedicarsi alle relazioni promozionali. Mi pare che Prodi rappresenti in questo un'eccezione. Ma neppure De Gasperi cercava protettori. Succede da quando non c'è più la Dc, che garantiva una mediazione».
Succede anche in Rai?
«Fu proprio in Rai, dove tra il '96 e il '98 ero consigliere d'amministrazione, che mi accorsi del fenomeno. Chi voleva segnalare un personaggio o un progetto non mancava mai di specificare che era "gradito in Vaticano". Non so se poi in Vaticano lo sapessero».
A Milano si manifesta in difesa dell'aborto; sotto attacco da parte della destra, è la motivazione.
«Penso proprio invece che sull'aborto non si tornerà indietro. Ognuno ne risponde alla propria coscienza. Chi sostiene il contrario in fondo non ci crede neppure lui».
Anche a sinistra però è in corso un ripensamento critico, dalle riflessioni di Anna Bravo alla proposta di legge di Livia Turco e Rosy Bindi per gli aiuti a chi sceglie di non abortire.
«Sono assolutamente d'accordo. L'idea delle donne che abortiscono libere e spensierate è un'assurdità. Spesso le donne abortiscono sole e disperate, lontane da una famiglia che non sa o comunque condanna. Resto convinta che qualsiasi donna, potendo scegliere, non rinuncerebbe a suo figlio. Aiutare anche economicamente una madre sola mi pare un completamento della legge 194, sulla cui difesa sono intransigente».
Nel dibattito politico-culturale, in particolare nei giorni del referendum sulla procreazione assistita, si è affacciata una categoria chiamata talora con autoironia talora polemicamente degli «atei devoti». La Chiesa come fonte non tanto di verità di fede quanto di valori.
«Capisco la deformazione parodistica, ma la parola ateo mi procura sempre un brivido di turbamento. L'uomo senza Dio mi fa impressione. Vengo da una famiglia laicissima ma ho sempre avuto una grande passione per le religioni, anche per le antiche, che sono poi la fonte di quella che chiamiamo etica. Si può essere al contempo cristiani e induisti, così come ci si confronta con Mosé e con Milarepa. Al referendum sono andata a votare. Ma sono affascinata dalle persone di grande fede. Alcune di loro mi sono state di sostegno in una fase difficile della mia vita».
Qual è la sua impressione dell'inizio del pontificato di Benedetto XVI?
«È troppo presto per parlarne. Mi ha colpito molto che un Papa da cui ci si attendeva magari una dura presa di posizione in tema di morale o di liturgia esordisca con un'enciclica sulla carità e sull'amore».
Lei stessa ha ricordato come nel 1968 la Rai di Bernabei bloccò il suo «Galileo» perché troppo anticlericale.
«Già nel '66 il San Francesco commissionatomi da Angelo Guglielmi rischiò la censura e fu salvato da monsignor Angelicchio, un prelato dell'Opus Dei. Sulla Rai il Galileo non andò mai in onda, e fu ritirato anche dalle sale per fare un piacere ad Andreotti; e non ho mai capito se quel piacere fu chiesto o fu offerto. Il film però fu distribuito dalla San Paolo in tutte le scuole, e nessun cattolico se ne lamentò mai. Per fortuna le cose cambiano, la Chiesa si muove, altrimenti saremmo ancora al tempo di re Pipino».
Quindi la Chiesa non si contamina con la politica?
«Ognuno fa la sua parte. La Chiesa dice quel che pensa, e ha il diritto di farlo. La gente ha il diritto di pensarla diversamente. Ma non c'è alcun bisogno di combattere. Semmai, di confrontarsi».


Miliardi di indiani
Giuliano Boccali su
Golem l'Indispensabile

Poco più di cinquant'anni or sono, quando nel 1947 l'India divenne indipendente, gli abitanti della neonata repubblica ammontavano a circa 350 milioni. Oggi sono più o meno triplicati, superando il miliardo: 1 miliardo e 37 milioni per l'esattezza, secondo il censimento decennale del 2001. L'incremento in sé non è sorprendente e rientra tra i fenomeni ben noti agli esperti di demografia: anche i paesi occidentali, nei periodi passati, socialmente ed economicamente corrispondenti a quello indiano attuale, hanno avuto un incremento demografico simile. Ma se le percentuali del fenomeno sono "normali", i numeri assoluti sono impressionanti. Tanto più se si considera che degli abitanti attuali dell'India quasi un terzo vive in condizioni di povertà rispetto agli standard di valutazione, già modestissimi, stabiliti nello stesso Paese: per l'esattezza il 26,1%, se si colloca la soglia di povertà a 80 $ all'anno, ma il 44% (rispetto al 19 % della Cina) collocandola a 1 $ al giorno! Risale a circa un anno fa la notizia del suicidio per debiti di un contadino del Tamil Nadu, divulgata anche in Europa; secondo stime ufficiali indiane, però, nel solo 2004, da maggio a ottobre, i casi analoghi sarebbero stati più di mille, mentre l'Istituto di Studi per lo Sviluppo di Chennai parla di "epidemia". Ancora più impressionanti sono le previsioni: aumentando come ora di circa 17 milioni all'anno (25/26 milioni di nuovi nati a fronte di 8 milioni di deceduti o poco più), anche se è prevedibile con probabilità molto alta una discesa intorno ai 15 milioni, nel 2025 gli indiani saranno 1 miliardo e 400 milioni. Non solo: del miliardo di abitanti attuali, meno di un terzo circa vive nelle aree urbane. Le città molto popolate sono infatti, per ora, relativamente poco numerose: meno di 40 superano il milione di abitanti, incluse naturalmente le quattro megalopoli di Mumbai (Bombay), Kolkata (Calcutta), Dilli (Delhi) e Chennai (Madras) o altre città comunque con diversi milioni di abitanti: Ahmedabad 4 e mezzo, Bangalore più di 5 come Hyderabad, Pune quasi 4 ecc. Eppure l'ambiente urbano e la qualità della vita nelle grandi città sono già in condizioni gravissime di degrado. Con l'incremento previsto per il prossimo quarto di secolo, la popolazione urbana dovrebbe raggiungere il 50% del totale, cioè quasi 700 milioni. I problemi sono enormi, come si vede, anche se le risorse del Paese offrirebbero buone prospettive di superare la fase critica.
   Le iniziative per contrastare l'incremento demografico sono promosse e finanziate dal governo centrale e realizzate dai singoli stati. Naturalmente, la loro efficacia è correlata a diversi fattori, primo fra i quali il grado di alfabetizzazione e di istruzione. In alcuni stati come Goa, il Tamil Nadu o il Kerala l'istruzione e la qualità della vita sono migliori e conseguentemente il tasso di crescita della popolazione è assestato su valori non troppo lontani da quelli europei, cioè poco sopra l'1%; nelle stesse zone il tasso di fertilità, cioè il numero di figli per ogni donna, è inferiore a quel 2,1% che rappresenta il cosiddetto livello di sostituzione, quando su base numerica l'incremento della popolazione dovrebbe arrestarsi; prosegue invece, ma in misura non preoccupante, per la progressiva diminuzione della mortalità. Vi sono invece stati dove i valori del tasso di crescita giungono al 3,5%, e qui si giocherà in realtà la partita decisiva, per tutta l'India, del calo demografico: il Rajasthan, l'Uttar Pradesh, il Madhya Pradesh e il Bihar. A frenare la politica di controllo delle nascite sono spesso motivi di tradizione religiosa, eventualmente connessi a considerazioni politiche: dove una casta o una comunità religiosa si sente svantaggiata, gli appartenenti vedono istintivamente come un rischio, o addirittura come un tentativo di aggressione, ogni ipotesi di diminuzione numerica.
   Meno problematica, a differenza di quanto si potrebbe forse pensare, è la necessità di garantire alla crescente popolazione la sicurezza alimentare. L'India ha da tempo raggiunto l'autonomia, anzi, è attualmente fra i Paesi che esportano cereali e si calcola che, adeguatamente sfruttati, i soli territori delle piane indo-gangetiche potrebbero coprire il fabbisogno di 1 miliardo e 800 milioni di abitanti. A destare l'allarme sono quindi piuttosto le ripercussioni sull'ambiente: i suoli avvelenati da fertilizzanti chimici e pesticidi, le infiltrazioni d'acqua o viceversa le desertificazioni, il diboscamento in montagna e quindi le inondazioni sono fra le conseguenze più gravi, già oggi, del crescente fabbisogno di produzioni agricole.
   Infine la qualità della vita: la produzione alimentare è sufficiente - si è detto - anzi perfino esuberante, ma insufficienti sono le cure sanitarie; soprattutto i molti, troppi indiani con un reddito bassissimo sono inevitabilmente malnutriti: si calcola il 23%, a fronte, per esempio, del 9% della Cina. La situazione dipende, fra l'altro, dal problema dell'istruzione: istruzione, lavoro, reddito sono tre fattori strettamente connessi. In India come altrove, questo è il terreno dove soprattutto ci si misurerà con i problemi dell'aumento della popolazione: molto si è fatto, una percentuale significativa delle risorse del Paese è destinato ai servizi per l'istruzione, e tuttavia quasi metà della popolazione oltre i 15 anni è ancora analfabeta e la percentuale raggiunge purtroppo il 60% se si tratta delle femmine (rispetto alla media cinese del 16%).
   Si sono qui messi in luce i problemi gravissimi imposti dall'incremento demografico; non bisogna però dimenticare che essi vanno commisurati anche all'enorme potenziale di crescita del Paese: l'economia indiana cresce infatti almeno del 6% all'anno circa, quando in Europa una crescita del 2,5 rappresenterebbe già, almeno attualmente, un successo notevole, come ben sappiamo dall'andamento economico di questi ultimi anni... In India, i problemi di sovrappopolamento dovranno essere affrontati con energia - come già in parte sono - e costituiranno un freno allo sviluppo del Paese, ma non lo fermeranno. La previsione è che intorno al 2015 l'incremento demografico sia sceso a tassi analoghi a quelli occidentali e che si inneschi allora il circolo "virtuoso" destinato a fare dell'India nel 2020 la quarta potenza economica del mondo. Si potrà allora affrontare con ragionevole ottimismo il periodo successivo, che prevede una crescita ulteriore della popolazione fino alla stabilizzazione intorno a 1 miliardo e 800 milioni di abitanti!


   15 gennaio 2006